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Stimati Associati, nel ringraziarVi per l’attività di volontariato svolta nella nostra Associazione nell’anno appena trascorso, Vi comunichiamo che è possibile provvedere al rinnovo della quota annua associativa, di almeno 50 euro, entro il 30 aprile 2017, come previsto dallo Statuto (Art. 6). Gli Associati, che intendono rinnovare la propria iscrizione, dovranno usare il menù «Rinnovo» presente in alto sul nostro sito e compilare il breve form. Contestualmente potranno pagare la quota usando Paypal, Postepay o le principali Carte di credito. Chi non dispone di computer e di moneta elettronica può rinnovare l’iscrizione inviando una lettera raccomandata a: Sursum Corda, C.da Piancardillo snc, 85010 Pignola (PZ), allegando distinta di bonifico - IBAN IT28R0760105138221448921451 intestato al Presidente Carlo Di Pietro - specificando attentamente nella causale: «Rinnovo iscrizione Sursum Corda 2017»(*). Il rinnovo della quota comprende sempre la ricezione del nostro Periodico cartaceo per tutto l’anno 2017. Chi si è iscritto all’Associazione dopo luglio 2016, ed intende rinnovare l’iscrizione, dovrà comunque seguire la medesima procedura, tuttavia riceverà in omaggio una copia del libro «La rivoluzione» secondo Mons. de Ségur. Chi si è iscritto per la prima volta nel 2017 non dovrà rinnovare l’iscrizione. Anche i Sostenitori, che intendono rinnovare il sostegno all’Associazione, dovranno seguire la medesima procedura, versando almeno 25 euro (Art. 11). La qualità di Sostenitore dà diritto anche a scaricare tutti i numeri del Periodico digitale presenti in archivio 2016 ed in quello 2017. La qualità di Socio si perde per morosità nel pagamento della quota associativa annuale (Art. 10). Ci scusiamo per questo comunicato prettamente burocratico ed economico, ma è necessario e previsto per legge. San Giovanni di Dio ci protegga!
(*) Il Conto corrente è ancora provvisorio. Trascorsi i 12 mesi di attività associativa (8.3.2016 - 9.3.2017) ci è stato finalmente possibile presentare domanda di iscrizione al Registro regionale delle Associazioni di volontariato (Legge 266/91). A Dio piacendo, non appena otterremo l'iscrizione, finalmente saremo in possesso di tutta la documentazione per aprire il nostro primo Conto postale con le agevolazioni previste per le ONLUS. Verrà data comunicazione agli Associati tramite il sito ed il settimanale.
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Stimati Associati e gentili Lettori, chiediamoci col Ballerini (cf. Breve apologia contro gli increduli dei nostri giorni, Parte seconda, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, Imprimatur 1914, cap. XXVIII, dalla pagina 154) se sia necessario passare in rassegna tutte le religioni per conoscere quale sia la vera. Sta dunque, anche di fronte alle pretese del liberalismo, l’obbligo di indagare quale sia la vera religione, e l’obbligo di abbracciarla dopo che si è conosciuta.
• Stato della questione. Le varie religioni esistenti sulla faccia della terra si possono ridurre a due classi: a quelle che si dicono naturali ed a quelle che si dicono rivelate. Dicesi religione naturale la conoscenza delle verità religiose riguardanti Dio, l’anima, la vita futura - e i conseguenti doveri che ne derivano - ottenuta per mezzo della nostra ragione. Dicesi religione rivelata la conoscenza delle verità religiose e dei conseguenti doveri che ne derivano, ottenuta per mezzo della rivelazione divina. Sarà dunque necessario passare in rassegna tutte le varie e molteplici religioni - sia quelle che si dicono naturali, sia quelle che si dicono rivelate - per conoscere quale sia la vera? Se così fosse, la maggior parte degli uomini si troverebbe nell’impossibilità di conoscere la vera religione. Le cose vanno dunque altrimenti. E, difatti, quanto alle religioni naturali o non rivelate, bastano due osservazioni: 1) la morale impotenza dell’uomo a risolvere da sé medesimo il problema religioso, deve farci capire che tutte le religioni naturali sono perciò stesso insufficienti; 2) se esiste una religione rivelata, questa sola è l’unica vera ed è obbligatoria per tutti. Sviluppiamo questi due punti.
• Morale impossibilità di risolvere il problema religioso senza la rivelazione. È un fatto storicamente certo che gli uomini, lasciati a sé, hanno conosciuto ben poche verità religiose - ed anche queste avviluppate da molti errori ed incertezze - cosicché gli stessi più grandi maestri dell’antichità erano fra loro discordi nelle questioni più essenziali. Ad accezione del popolo ebreo, presso il quale Dio stesso manteneva sempre viva la Sua parola, vediamo tutti gli alti popoli dell’antichità, mano mano che si allontanano dalla primitiva rivelazione, precipitare nei più mostruosi errori in fatto di religione. Ed anche attualmente, dove non si è ancora diffuso il Cristianesimo, o dove esso fu messo al bando, troviamo lo stesso fenomeno. Altrettanto dicasi dei sapienti che vissero senza la rivelazione. Quali aberrazioni nelle stesse scuole filosofiche intorno ai problemi più importanti della religione e della morale! Quasi tutti propugnarono l’eternità del mondo, o almeno della materia: alcuni fecero Iddio corporeo; altri spirituale, ma soggetto al fato; non pochi lo fecero anima dell’universo; ed altri infine negarono addirittura l’esistenza di Dio e della vita avvenire. La storia della filosofia si può ben dire, sotto questo aspetto, la storia degli errori dell’umanità nel risolvere i problemi dei nostri destini. Quale caos poi, quale confusione nell’ordine morale! Disconosciuta la dignità dell’uomo con la schiavitù, degradata quella della donna nel maritale connubio, falsate le relazioni di famiglia coll’arbitrario potere del padre sui figli, disistimati i più umani affetti coll’abbandono dell’infanzia, dei vecchi, degli infermi, dei poveri, e posta in cima all’edificio sociale, cinta di sgherri e vestita di ferro, l’odiosa tirannia che guardava con disdegno e disprezzo i popoli che le giacevano ai piedi. Non diremo già, come hanno sostenuto i teologi della riforma, i Giansenisti ed i Tradizionalisti, che senza la grazia e la rivelazione divina, l’uomo sia incapace di conoscere qualsiasi vero morale e religioso, e di praticare qualsiasi bene. La grazia e la rivelazione sarebbero allora assolutamente necessarie per lo stesso ordine naturale, e cadrebbe allora ogni reale distinzione fra i due ordini, il naturale ed il soprannaturale. Ciò, del resto, è smentito dal fatto storico: basta considerare quello che hanno conosciuto ed operato gli stessi pagani. Bensì diciamo che «nella presente condizione del genere umano» la rivelazione divina è moralmente necessaria per le stesse verità morali e religiose di ordine naturale «affinché siano conosciute da tutti, speditamente, con ferma certezza e senza mescolanza di errori » (Concilio Vaticano, cap. II, De Revelatione). Queste parole, che il Concilio Vaticano (1869-1870) prese da san Tomaso (Summa Theologiae, p. 1, q. 1, a. 1), furono già dall’Angelico Dottore analizzate in modo da convincere ogni più ostinato e riottoso intelletto (Contra Gentes, lib. 1, cap. IV). Si tratta qui di un’impotenza morale, è vero, ma proveniente da condizioni inerenti alla nostra stessa natura quale sarà in ogni tempo. Per conseguenza è ridicolo appellarsi al progresso continuo ed indefinito, per concludere che i popoli avrebbero egualmente potuto arrivare al punto in cui ora si trovano, anche senza bisogno di nessuna rivelazione.
• La scienza moderna di fronte al problema morale e religioso. Basta considerare, del resto, quali sono, dopo tanti secoli, i frutti di questo continuo progresso in fatto di morale e di religione. Mai si ebbe tanta confusione di idee intorno ai problemi dell’al di là come ai nostri giorni; tanto che la scienza moderna finì col mettere in disparte ogni indagine sulle cause ultime, erigendo a sistema l’agnosticismo, cioè la pretesa impossibilità di scorgere oltre il fatto o fenomeno. E di qui la conseguente baraonda dei sistemi cosiddetti morali.
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Stimati Associati e gentili Lettori, parliamo di «Rivoluzione». Il passo che segue è tratto dal libro di Mons. Louis Gaston Adrien de Ségur, edito da noi di recente (Codice ISBN 9788890074707).
Non può esserci conciliazione fra la Chiesa e la Rivoluzione. Non più che tra il bene ed il male, tra la vita e la morte, tra la luce e le tenebre, tra il cielo e l’inferno. Anzi leggete cosa diceva una Loggia italiana di Carbonari in un Documento segreto: «La Rivoluzione non è possibile che ad una condizione: il Rovesciamento del Papato. Fino a quando Roma sarà tale, le rivoluzioni di fuori, le rivoluzioni di Francia, non riusciranno mai, se non a risultati secondari. Sebbene deboli come potenza temporale, i Papi hanno tuttavia una forza morale immensa. Dunque è contro Roma che devono tendere tutti quei conati degli Amici dell’Umanità. Per distruggere Roma tutti i mezzi sono buoni. Appena rovesciato il Papa, tutti i troni si sfasceranno da sé». Dice a sua volta Edgardo Quinet: «è necessario che il Cattolicesimo cada. Nessuna tregua all’ingiusto! Si tratta non tanto di soverchiare il Papismo, ma di estirparlo; non tanto di estirparlo, ma di disonorarlo; non tanto di disonorarlo, ma di soffocarlo nella fanghiglia». Scrive l’Alta Vendita: «Resta fermo nei nostri propositi, dato che noi non vogliamo più sentir nominare i cristiani». Voltaire aveva detto per primo: «Schiacciamo l’Infame!». E Lutero: «Laviamoci le mani del sangue loro».
La Chiesa proclama i Diritti di Dio come principio tutelare della moralità umana e della salute delle società. La Rivoluzione non parla che di Diritti dell’uomo, e stabilisce una società senza Dio. La Chiesa come base prende la fede, il dovere cristiano: la Rivoluzione mette alla berlina, nel dimenticatoio, il Cattolicesimo, abbandona o combatte la Chiesa, e si fabbrica da sé non solo quali doveri di Filantropia, senza altra sanzione che l’orgoglio dell’uomo onesto, e la paura dei gendarmi. La Chiesa insegna, a mani piene, nella società tutti i princìpi di ordine, di autorità, di giustizia; la Rivoluzione li combatte a tutto spiano, e col disordine, e con l’arbitrario, costituisce a suo modo ciò che non si vergogna di chiamare Nuovo Diritto delle genti, ossia il moderno incivilimento.
L’antagonismo è perfetto: l’ubbidienza e la rivolta, la fede e l’incredulità. Nessuna conciliazione è possibile; nessun accordo, nessuna lega. Ricordatevi bene di questo: la Rivoluzione odia tutto ciò che non ha operato; distrugge tutto quello che odia. Datele oggi il potere assoluto, e malgrado le sue millanterie, ella sarà domani identica a ieri, e così sarà per tutti i tempi. Muoverà la guerra a morte contro la religione, contro la società, contro la famiglia. Nessuno dica che stiamo calunniando la Rivoluzione, dato che gli scritti e gli insegnamenti stessi dei rivoluzionari ci danno ragione. Torniamo con la mente a ciò che fece nel 1791 e nel 1793, quando essa fu “regina”.
In questa lotta, prima o poi, una delle due parti cadrà vinta, e sarà Rivoluzione. Per avventura potrà trionfare in qualche tempo, potrà riportare delle vittorie parziali, vuoi perché da quattro secoli nell’Europa intera la società ha commesso degli attentati così grandi, che meritano una Punizione; vuoi perché l’uomo è sempre libero, e perché la Libertà, quando egli ne usa male, costituisce una grande potenza; ma dopo il Venerdì Santo viene sempre la Domenica di Pasqua, e sta la promessa uscita dalle labbra infallibili di Dio al Capo visibile della Sua Chiesa: «Tu sei Pietro e sopra questa pietra fonderò la mia Chiesa, e contro di lei non prevarranno le potenze d’inferno» (Evangelium secundum Matthaeum, XVI, 18).
Il libro di Mons. de Ségur è disponibile sul nostro sito. Contiene anche un comodo indice dei nomi e delle parole per consentire una più agevole ricerca al lettore.
Sommario: Ai benevoli lettori; Ai giovani; Ciò che la Rivoluzione non è; Ciò che la Rivoluzione è; La Rivoluzione è figlia dell’incredulità; Chi è il vero padre della Rivoluzione; Chi è l’antirivoluzionario per eccellenza; Chiesa e Rivoluzione: può esserci conciliazione?; Le armi ordinarie della Rivoluzione; La Rivoluzione è una cospirazione anticristiana?; La corruzione per trafiggere la Chiesa nel cuore; Corruzione di gioventù e Clero. Creare un Papa; La menzogna e la calunnia; La Frammassoneria; Tentativi di affiliare i Prìncipi; Il Protestantesimo; La Rivoluzione si cela sotto i nomi più sacri; La Stampa e la Rivoluzione; I princìpi del 1789; Disamina dal lato religioso dei princìpi dell’89; Separazione della Chiesa dallo Stato; Per carità cristiana si insiste contro il laicismo; La Sovranità del popolo o la Democrazia; La Repubblica; Legge e legalità; La Libertà; L’Uguaglianza; Alcune applicazioni pratiche dei princìpi dell’89; Le diverse specie di Rivoluzionari; Come si diventa Rivoluzionario; Come si cessa d’esser Rivoluzionario; La Reazione Cattolica; È necessario lottare contro l’impossibile? La spaventosa soluzione della questione rivoluzionaria; Indice dei nomi e delle parole.
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Stimati Associati e gentili Lettori, oggi studieremo la figura di san Giuseppe a partire dal «Dizionario biblico» di mons. Spadafora (Studium, Roma, Imprimatur 1955, pp. 237 e 238). Poi brevemente citeremo numerosi documenti di Magistero dove si celebra lo Sposo di Maria Vergine e padre putativo (Lc. 3, 21) di Gesù, dal Papa Pio IX (8 dicembre 1870) proclamato «Patrono della Chiesa universale».
Il nome (ebraico Iôsef, apocope di Iehôsef) significa «Iahweh accresca». Le fonti per la vita di san Giuseppe sono quasi esclusivamente i brani evangelici (Mt. e Lc.) dell’infanzia di Gesù; gli apocrifi sono soltanto leggendari. Giuseppe era della casa di David: l’Angelo lo chiama infatti «Giuseppe, figlio di David» (Mt., 1, 20; cf. Lc., 2, 4; 3, 23). Il padre si chiamava Giacomo (Iacob) secondo san Matteo (1, 16), Heli secondo san Luca (3, 23): Heli però era o padre legale, o padre adottivo (si studi la Genealogia). Egesippo (Hist. eccl. di Eusebio, 3, 11) ricorda anche un suo fratello di nome Clopa o Cleofa. Forse era oriundo di Nazareth (Lc., 1, 26 s.): esercitava la professione di artigiano (Mt., 13, 55; cf. Mc., 6, 3). La Volgata traduce faber, che più ordinariamente significa fabbro ferraio: il termine greco invece allude piuttosto al falegname o carpentiere, come intendono anche le versioni siriaca, copta, etiopica ed una antichissima tradizione rappresentata da san Giustino (...). L’ultima opinione sembra più probabile, senza negare però che, all’occorrenza, egli facesse anche lavori in ferro ecc.
Il fatto saliente della vita di san Giuseppe è il suo matrimonio con la Vergine Maria, avvenuto certamente in età giovanile o nella prima età virile, contrariamente a quanto hanno sognato gli apocrifi ed anche qualche scrittore ecclesiastico. Il Vangelo chiama a più riprese Giuseppe sposo di Maria e Maria sposa di Giuseppe (Mt., 1, 19.20.24; Lc., 1, 27; 2, 5): vero matrimonio dunque quello di Giuseppe, anche se verginale come risulta dal voto di castità della Madonna (Lc., 1, 34) e dal dogma della sua perpetua verginità. Non molto dopo il matrimonio si accorse dei segni di maternità della sposa (Mt., 1, 18 s.) e pensò di «rimandarla segretamente»: infatti «essendo giusto» (ibid.) e non avendo il minimo sospetto sull’integrità della sposa, davanti all’incomprensibile voleva celare il mistero ed eclissassi personalmente. Un Angelo gli annunzia il concepimento verginale di Maria (ibid., 1, 20) ed egli «prese presso di sé la sua sposa» (ibid., 1, 24). Non è certo se, quando tutto questo accadde, Maria e Giuseppe erano solo fidanzati (come sembrano pensare con i Padri Greci i più degli esegeti moderni) o già sposati e perciò coabitassero insieme (come pensano invece i Latini e non pochi esegeti odierni). In ogni modo si ricordi che il fidanzamento presso gli Ebrei creava già il vero vincolo matrimoniale.
Nell’imminenza della nascita di Gesù, Giuseppe si reca Betlem per iscriversi nelle liste del censimento ordinato da Ottaviano Augusto (Lc., 2, 1-7). Fu presente alla divina natività nella grotta (ibid., 2, 7) ed all’adorazione dei pastori (ibid., 2, 16). All’ottavo giorno impose al neonato il nome rivelato dall’Angelo (Lc., 2, 21.25). Nella Presentazione di Gesù al tempio, Giuseppe, in quanto capo della Sacra Famiglia, portò l’offerta rituale dei poveri per il riscatto del primogenito (Lc., 2, 22 ss.). Fu presente all’incontro del santo vecchio Simeone col Fanciullo e ne ricevette anche la benedizione (ibid., 2, 33 ss.). Dopo la Presentazione ritornò a Betlem, dove, alcuni mesi più tardi, i Magi troveranno la Sacra Famiglia (Mt., 2, 1-12). Nella notte stessa della partenza dei Magi un Angelo gli appare ancora e gli dice di fuggire in Egitto per salvare la vita del Fanciullo dalle insidie di Erode (ibid., 2, 13 ss.): alla morte poi del tiranno l’Angelo gli riappare e lo esorta a ritornare in patria (ibid., 2, 19-21). Pensava di stabilirsi a Betlem, ma, saputo che Archelao regnava nella Giudea al posto del padre, ebbe timore di andarvi: un Angelo gli appare di nuovo e lo ammonisce di fissare la sua dimora a Nazareth (ibid., 2, 22 s.). Ivi egli visse nel silenzio con Maria e con Gesù (Lc., 2, 40), provvedendo a tutte le necessità domestiche.
Ritroviamo ancora san Giuseppe nell’occasione del pellegrinaggio pasquale di Gesù a 12 anni (Lc., 2, 41 ss.); e con Maria soffrì per lo smarrimento di Gesù: «...Ecco che tuo padre ed io dolenti ti cercavamo» (ibid., 2, 48). Dopo di che la Sacra Famiglia ritornò a Nazareth e di Gesù si dice che obbediva a Maria ed a Giuseppe (ibid., 2, 51) e cresceva sotto i loro occhi «in sapienza, in statura ed in grazia» (ibid., 2, 52). A questo punto san Giuseppe scompare dal Vangelo. La sua morte deve essere avvenuta prima dell’inizio della vita pubblica di Gesù. Infatti mentre la gente ricorda sua Madre ed i suoi cugini (Mt., 13, 55; Mc., 6, 3), non ricorda mai Giuseppe, e, parlando di Gesù, lo chiama semplicemente «il figlio di Maria» (Mc., 6, 3). Di san Giuseppe, il Vangelo dice soltanto che era «giusto» (Mt., 2, 19), perfetto cioè nei suoi rapporti con Dio e col prossimo. La missione affidatagli da Dio è indice della sua mirabile santità.
• Sotto Papa Pio IX, con il decreto «Inclytus Patriarcha Joseph» (1847) si estende alla Chiesa universale la Festa del Patrocinio di san Giuseppe. Nella «Maxima quidem» (1862) si chiede prima il «suffragio del santo Sposo della stessa Vergine, Giuseppe», poi «dei Santissimi Apostoli Pietro e Paolo, nonché di tutti i Celesti». Con il decreto «Quemadmodum Deus» (1870) si proclama san Giuseppe Patrono della Chiesa universale. San Giuseppe è secondo solo alla Vergine Maria nel potere di intercessione. Nel decreto «Inclytum Patriarcham» (1871) si riconosce a san Giuseppe il diritto ad un culto superiore a quello degli altri Santi.
• Papa Leone XIII affida il suo Pontificato alla «potentissima protezione di san Giuseppe, celeste Patrono della Chiesa» (1878). Nella «Aeterni Patris» (1879) conclude pregando il «purissimum Virginis sponsum B. Josephum». Nella «Sancta Dei civitas» (1880) si raccomanda al «purissimum eius [della Vergine Maria, ndR] Sponsum, quem plures missiones iam sibi praestitem custodemque adsciverant et nuper Apostolica Sedes universae Ecclesiae Patronum dedit». Nella lettera «Militans Iesu Christi Ecclesia» (1881) affida a san Giuseppe il Giubileo straordinario. Ed ancora invoca la potete intercessione di san Giuseppe nella «Diuturnum illud» (1881), nella «Etsi nos» (1882). Nell’enciclica contro la massoneria «Humanum genus» (1884) afferma: «item Iosephum Virginis sanctissimae Sponsum, Ecclesiae catholicae patronum caelestem salutarem». Nella «Quamquam pluries» (1889) illustra la dottrina teologica su san Giuseppe. Nella «Quod paucis abhinc» (1890) concede agli spagnoli il precetto per la Festa di san Giuseppe: «hunc sane honorem beatissimo Viro deberi nemo est qui non videat». Nella «Quod erat» (1891) asserisce che, per conservare inalterata la fede e per vivere cristianamente, «nulla è più efficace che meritarsi il patrocinio di san Giuseppe e così ottenere ai devoti del suo castissimo sposo il favore di Maria, Madre di Dio». Nella «Neminem fugit» (1892) spiega la partecipazione intima di san Giuseppe nella dignità della Sacra Famiglia: «I padri di famiglia, infatti, hanno in Giuseppe una chiarissima norma della vigilanza e della provvidenza paterna (...). Hanno, infatti, in comune con la Sacra Famiglia le fatiche, in comune le preoccupazioni della vita quotidiana; anche Giuseppe dovette provvedere col suo salario alle necessità della vita; che anzi le stesse mani divine attesero al lavoro del carpentiere (...). Giuseppe Sposo santissimo, che svolgeva il compito di padre verso Gesù. Nessun dubbio che fra tutte quelle lodi, che nella società e vita familiare provengono dalle mutue attenzioni della carità, dalla santità dei costumi, dall’esercizio della pietà, la più eccellente d’ogni altra sia rifulsa in quella Sacra Famiglia, che doveva essere di esempio in tutto questo alle altre».
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Stimati Associati e gentili Lettori, la scorsa settimana, commentando i santi Padri del deserto, dicevamo che «non c’è prodigio che compensi la mancanza di carità, non c’è vero prodigio che avvenga dove non c’è la verità» (cf. I Cor. XIII, 1 seg.). Oggi impariamo che il padre Agatone predicava: «Se potessi incontrare un lebbroso, dargli il mio corpo e prendere il suo, lo farei volentieri: questo è l’amore perfetto». Per capire cosa sia concretamente la carità usiamo la «Divini Redemptoris» di Papa Pio XI, Lettera enciclica del 19 marzo 1937 «sul Comunismo ateo». Questo documento, fino ad ora mai citato nei nostri studi, è davvero rilevante per la suprema docenza teorica e pratica, utilissimo ai fini della buona formazione spirituale e teologico-politica.
Il Papa insiste su «due insegnamenti del Signore, che hanno speciale connessione con le attuali condizioni del genere umano: il distacco dai beni terreni ed il precetto della carità. “Beati i poveri di spirito” furono le prime parole che uscirono dalle labbra del Divino Maestro, nel suo sermone della montagna (Matth., V, 3). E questa lezione è più che mai necessaria in questi tempi di materialismo assetato dei beni e piaceri di questa terra. Tutti i cristiani, ricchi o poveri, devono sempre tener fisso lo sguardo al cielo, ricordandosi che “non abbiamo qui una città permanente, ma cerchiamo quella avvenire” (Hebr., XIII, 14)».
• I ricchi, egli dice, «non devono porre nelle cose della terra la loro felicità né indirizzare al conseguimento di quelle i loro sforzi migliori; ma, considerandosene solo come amministratori che sanno di doverne rendere conto al supremo Padrone, se ne valgano come di mezzi preziosi che Dio loro porge per fare del bene; e non lascino di distribuire ai poveri quello che loro avanza, secondo il precetto evangelico (Luc., XI, 41). Altrimenti si verificherà di loro e delle loro ricchezze la severa sentenza di San Giacomo Apostolo: “Su via adesso, o ricchi, piangete, urlate a motivo delle miserie che verranno sopra di voi. Le vostre ricchezze si sono imputridite e le vostre vesti sono state ròse dalle tignole. L’oro e l’argento vostro sono arrugginiti; e la loro ruggine sarà una testimonianza contro di voi, e come fuoco divorerà le vostre carni. Avete accumulato tesori d’ira, per gli ultimi giorni…” (Iac., V, 1-3)»;
• Ma anche i poveri, a loro volta, «pur adoperandosi secondo le leggi della carità e della giustizia a provvedersi del necessario ed anche a migliorare la loro condizione, devono sempre rimanere essi pure “poveri di spirito” (Matth., V, 3), stimando più i beni spirituali che i beni e i godimenti terreni. Si ricordino poi che non si riuscirà mai a fare scomparire dal mondo le miserie, i dolori, le tribolazioni, alle quali sono soggetti anche coloro che all’apparenza sembrano più fortunati. Quindi, per tutti è necessaria la pazienza, quella pazienza cristiana che solleva il cuore alle divine promesse di una felicità eterna. “Siate dunque pazienti, o fratelli, - vi diremo ancora con San Giacomo - sino alla venuta del Signore. Ecco, l’agricoltore aspetta il prezioso frutto della terra, e l’aspetta con pazienza finché riceva le primizie e i frutti successivi. Siate anche voi pazienti, e rinfrancate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina” (Iac., V, 7-8). Solo così si adempirà la consolante promessa del Signore: “Beati i poveri!”. E non è questa una consolazione ed una promessa vana come sono le promesse dei comunisti; ma sono parole di vita che contengono una somma realtà e che si verificano pienamente qui in terra e poi nell’eternità. Quanti poveri, infatti, in queste parole e nell’aspettativa del regno dei cieli, che è già proclamato loro proprietà: “perché il regno di Dio è vostro” (Luc., VI, 20), trovano una felicità, che tanti ricchi non trovano nelle loro ricchezze, sempre inquieti e sempre assetati come sono di averne di più». In questa esortazione il Pontefice fornisce indicazioni pratiche per l’anima dei ricchi, come dei poveri, contro le seduzioni della falsa politica e delle perniciose filosofie che la animano.
• Adesso veniamo alla definizione di carità. Papa Pio XI spiega che «la carità non sarà mai vera carità se non terrà sempre conto della giustizia. L’Apostolo insegna che “chi ama il prossimo, ha adempiuto la legge”; e ne dà la ragione: “poiché il Non fornicare, Non uccidere, Non rubare, … e qualsiasi altro precetto, si riassume in questa formula: Amerai il tuo prossimo come te stesso” (Rom., XIII, 8, 9). Se dunque, secondo l’Apostolo, tutti i doveri si riducono al solo precetto della vera carità, anche quelli che sono di stretta giustizia, come il non uccidere e il non rubare». Ancora: «Carità e giustizia impongono dei doveri, spesso circa la stessa cosa, ma sotto diverso aspetto». Sul piano della giustizia sociale, egli dice: «Ed è appunto proprio della giustizia sociale l’esigere dai singoli tutto ciò che è necessario al bene comune. Ma come nell’organismo vivente non viene provvisto al tutto, se non si dà alle singole parti e alle singole membra tutto ciò di cui esse abbisognano per esercitare le loro funzioni; così non si può provvedere all’organismo sociale e al bene di tutta la società se non si dà alle singole parti e ai singoli membri, cioè uomini dotati della dignità di persone, tutto quello che devono avere per le loro funzioni sociali. Se si soddisferà anche alla giustizia sociale, un’intensa attività di tutta la vita economica svolta nella tranquillità e nell’ordine ne sarà il frutto e dimostrerà la sanità del corpo sociale, come la sanità del corpo umano si riconosce da una imperturbata e insieme piena e fruttuosa attività di tutto l’organismo».
• Abbiamo scelto questa Enciclica fra le tante in cui si espone la carità, perché il Papa, in questo contesto, rivolge un chiaro appello all’adempimento della giustizia, dunque si tratta di una misericordiosa Enciclica di dottrina sociale, materia a noi particolarmente utile per lo studio della «mutua collaborazione della giustizia e della carità». Il Pontefice ci esorta a combattere, così, «quella incoerenza e discontinuità nella vita cristiana per cui taluni, mentre sono apparentemente fedeli all’adempimento dei loro doveri religiosi, nel campo poi (della vita sociale, ndR), per un deplorevole sdoppiamento di coscienza, conducono una vita troppo difforme dalle norme così chiare della giustizia e della carità cristiana, procurando in tal modo grave scandalo ai deboli e offrendo ai cattivi facile pretesto di screditare la Chiesa stessa».
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Abbiamo ridato alle stampe, curandolo con particolari attenzioni, lo scritto del 1860 «La Rivoluzione» secondo mons. Gaston de Ségur. Il libro, volendolo Iddio, sarà disponibile per gli Associati dopo il 25 marzo 2017.
Conta 168 pagine, con un utilissimo indice dei nomi e dei contenuti, in cui l’Autore affronta varie tematiche, fra cui: Chi è il vero padre della Rivoluzione; Chi è l’antirivoluzionario per eccellenza; Le armi ordinarie della Rivoluzione; La corruzione per trafiggere la Chiesa nel cuore; La Frammassoneria; Il Protestantesimo; I princìpi del 1789; La Stampa e la Rivoluzione; La Sovranità del popolo o la Democrazia; La separazione della Chiesa dallo Stato; La Repubblica; La Libertà; L’Uguaglianza; Come si diventa e come si cessa di essere Rivoluzionari; La Reazione Cattolica; L’Alta Vendita; L’Anticristo; La spaventosa soluzione della questione rivoluzionaria.
Louis Gaston Adrien de Ségur è stato uno scrittore apologetico ed ascetico, nato dai Conti di Ségur a Parigi il 15 aprile 1820, ivi morto in fama di santità il 9 giugno 1881. Figlio di Sophie Rostopchine, Comtesse de Ségur, fu soprattutto educato dalla madre di costei, convertita anch’essa dallo scisma russo, che lo orientò al sacerdozio. Lasciò il posto da diplomatico d’ambasciata a Roma per entrare in seminario. Sacerdote nel 1847, uditore di Rota a Roma nel 1852, ivi godette l’affettuosa confidenza di Papa Pio IX. Divenuto cieco nel 1853, si dimise, così fu nominato protonotario apostolico e canonico-vescovo del Capitolo di St-Denis. Fu poi cappellano del Collegio Stanislas, ma lavorò moltissimo anche come predicatore e come confessore. Collaborò nella fondazione della Società dei Padri di San Francesco di Sales. Lasciò una sessantina di opere, tutte pubblicate a Parigi, ma tradotte in molte lingue.
Difensore dell’infallibilità del Papa e della Chiesa, in questo libro affronta la Rivoluzione, nel tentativo di svelare ed abbattere gli errori e le fallacie, gl’inganni e le calunnie, con cui le settarie congiure tentano d’alienare i popoli. Un validissimo ed indispensabile compendio di dottrina cattolica antirivoluzionaria e di teologia politica.
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Stimati Associati e gentili Lettori, oggi la nostra Associazione compie un anno. Il giorno 8 marzo 2016, data di fondazione di Sursum Corda, affidavamo questa piccola opera a san Giovanni di Dio. Il Martirologio romano, qui consultabile in PDF, lo ricorda così: «A Granata, nella Spagna, san Giovanni di Dio, Confessore, Fondatore dell’Ordine dei Fratelli Ospedalieri degli infermi, rimasto celebre per la misericordia verso i poveri e per il disprezzo di se stesso: dal Papa Leone decimoterzo fu proclamato Patrono celeste di tutti gli ospedali ed infermi». Preghiamo spesso il nostro speciale Protettore affinché ci sia maestro nel disprezzo di noi stessi ed esempio nella vittoria contro il rispetto umano. Sant'Alfonso attesta, con i savi Padri, i Pontefici, i Dottori ed i Santi, che «chi prega si salva, mentre chi non prega si danna» (clicca qui).
Cogliamo la lieta occasione per fornire, a noi stessi innanzitutto, poi agli altri, Dio volendolo con il mite e devoto esempio di vita, alcune preziose indicazioni di Cornelio Alapide. Concentrarsi solo su Dio, quindi sul prossimo per amore di Dio, proprio come faceva il nostro san Giovanni, è anche un portentoso antidoto contro la superbia e le lusinghe del mondo. Tuttavia ci è difficile fare bene, anzi è impossibile, senza la preghiera. Allo scriba che lo interrogava: «Quod est primum omnium mandatum? - Qual è il primo di tutti i comandamenti?»; Gesù rispose: «Primum est: “Audi, Israel: Dominus Deus noster Dominus unus est, et diliges Dominum Deum tuum ex toto corde tuo et ex tota anima tua et ex tota mente tua et ex tota virtute tua” - Il primo è: “Ascolta, Israele. Il Signore Dio nostro è l'unico Signore; amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”» (san Marco, XII, 28-30). Se non amiamo Dio, non saremo neanche in grado di amare il nostro prossimo come Dio vuole. E cosa significa amare Dio? Ci risponde l'Apostolo dell'amore: «In hoc cognoscimus quoniam diligimus natos Dei, cum Deum diligamus et mandata eius faciamus. Haec est enim caritas Dei, ut mandata eius servemus; et mandata eius gravia non sunt - Da questo conosciamo di amare i figli di Dio: se amiamo Dio e ne osserviamo i comandamenti, perché in questo consiste l'amore di Dio, nell'osservare i Suoi comandamenti; e i Suoi comandamenti non sono gravosi» (I san Giovanni, V, 2-3). In questo si traduce, sinteticamente, la nostra esistenza terrena!
Il rispetto umano è una schiavitù. Quale atto più servile che quello di ridurre e di costringere se medesimo alla necessità di conformare la propria religione al capriccio altrui? Di praticarla, non più secondo le norme del Vangelo, ma secondo le esigenze degli altri? Di non adempiere i propri doveri, se non nella misura voluta dal mondo? Di non essere cristiano, se non a compiacimento di chi ci vede? Sant'Agostino condanna i savi del paganesimo, i quali, mentre con la ragione vedevano un Dio unico, per rispetto umano si piegavano ad adorarne molti. Ed in forza di un altro rispetto umano, il cristiano vigliacco non serve al Dio che conosce e nel quale crede: quelli erano superstiziosi e idolatri; questo diviene oggidì, per rispetto umano, infedele ed empio. Quelli, per non esporsi all'odio dei popoli, praticavano all'esterno quello che internamente ripudiavano, adoravano quello che disprezzavano, professavano quello che detestavano (De Civit. Dei). E noi, per evitare le censure degli uomini, per una vile dipendenza dalle vane usanze e dalle massime corrotte del secolo, noi disonoriamo quello che professiamo, profaniamo quello che riveriamo, bestemmiamo, se non con la bocca, con le opere, non già, come diceva l'Apostolo, quello che ignoriamo, ma quello che sappiamo e riconosciamo. I pagani contraffacevano i devoti, e noi cristiani ci facciamo scimmie degli atei. La finzione di quelli non riguardava che false divinità, e quindi non era più che una finzione; presso di noi, al contrario, la finzione riferendosi al culto del vero Dio, diventa un'abominevole impostura (Sermon sur le respecthum). Ora, il fare così non è un rendersi schiavi, e proprio in quello in cui siamo meno scusabili, perché si tratta dell'anima e dell'eternità? [...] Nati liberi, tali dobbiamo inviolabilmente mantenerci per Dui, cui si deve culto, fede, rispetto, adorazione, riconoscenza, amore [...].
Il rispetto umano è una vigliacca debolezza. La notte della Passione del Salvatore, la portinaia della casa di Caifa, disse a Pietro: «Non sei anche tu uno dei discepoli di quest'uomo? ed egli rispose: No» (san Giovanni, XVIII, 17). Ecco la debolezza vigliacca del rispetto umano. Qui si è avverato, come si avvera sempre in simili casi, quel detto dei Proverbi: «Chi teme l'uomo, non tarda a cadere» (Prov. XXIX, 25); e quell'altro del Salmista: «Non invocarono il Signore; quindi tremarono di spavento dove non c'era punto nulla da temere» (Psalm. LII, 6). La persona che si lascia vincere dal rispetto umano, teme quello che non è da temere, e non teme quello che bisogna temere [...]. Che viltà, per esempio, non osare dimostrarsi cristiano per un semplice segno di croce! Il segno del cristiano non è forse la croce? Non è forse la croce, dice Sant'Agostino, che benedice e l'acqua che ci rigenera, e il sacrificio che ci nutre, e la santa unzione che ci fortifica? (Tract. CXVIII, in Ioann.). Avete voi dimenticato che della croce furono segnate le vostre fronti, quando foste confermati dallo Spirito Santo? Perché segnarvela in fronte? Non forse perché su la fronte è la sede del pudore? Sì certo; Gesù Cristo volle armare con la croce la nostra fronte contro quella falsa e misera vergogna del rispetto umano, che ci fa arrossire di cose che gli uomini chiamano piccole, ma che sono grandi innanzi a Dio. Cosa indegna e vile è il rispetto umano, e non ve n'è altra che tanto degradi, abbassi e disonori l'uomo [...]. Colui che ne è schiavo, non merita più il nome di uomo, ma il suo luogo è tra le banderuole che segnano la direzione dei venti; poiché non sa fare altro che questo [...]. Una tale persona è sommamente spregevole [...]. Che cosa è che la trattiene? Un motto, un sarcasmo, una beffa, un segno [...]. Oh! che piccolezza di spirito, che viltà di cuore! Ne arrossiamo noi medesimi in segreto, e non ci sentiamo l'animo di superare simili bagattelle! [...]. Cerchiamo pure di nascondere e di orpellare con altri nomi questa fiacchezza, questa viltà, ma invano [...]. Noi temiamo le censure del mondo, degli increduli, degli empi, degli ignoranti, degli accidiosi, dei dissoluti [...]. Noi temiamo di acquistarci nome di spiriti deboli e pregiudicati, se pratichiamo la religione; e non vediamo che somma debolezza è non praticarla. Qual cosa più vergognosa e più degradante, che la vergogna di comparire quello che si deve essere? Siamo canzonati; ma cosa vi è di più frivolo che le beffe? Chi è che si burla di noi? Quale ne è il merito, il credito, la scienza, la virtù? E noi osiamo vantarci coraggiosi, di animo grande, di carattere generoso? Codardia odiosa è il rispetto umano. Noi apparteniamo a Dio per tutti i titoli, per la creazione, la redenzione, la santificazione, la conservazione, e arrossiamo di servire Dio! [...]. Il soldato si vergogna di servire il suo re! di difendere la patria! [...] Noi ci adontiamo (offendiamo, ndR) della religione, della virtù! Cioè, ci vergogniamo di essere creati ad immagine di Dio, di essere stati redenti col Suo sangue; noi arrossiamo di ciò che forma la gloria degli Apostoli, dei martiri, dei dottori, dei pontefici, dei confessori, delle vergini. Noi abbiamo vergogna di chiamare Dio nostro padre, di essere Suoi figli, di lavorare alla nostra salute, di andare al cielo! Quale stupidaggine e follia! O codarda debolezza, che non merita né indulgenza, né perdono!
Il rispetto umano è uno scandalo. Il rispetto umano è uno scandalo ingiurioso a Dio, perché ne abbatte il culto [...]. Scandalo che facilmente si trasmette, essendo gli uomini molto proclivi a dire ciò che odono [...]; a fare quello che vedono farsi dagli altri [...]. Ma è soprattutto uno scandalo affliggente, dannosissimo nei ricchi, nei potenti, nei dotti.
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Stimati Associati e gentili Lettori, nel nostro Comunicato numero 47 spiegavamo, col Padre Franco, perché la Religione cattolica non si può modernizzare e non si può raffazzonare. Di tanti errori, che da circa cinque secoli si sono sparsi contro la Chiesa, nessuno, forse, è più pericoloso del modernismo. Le aperte eresie dei pretesi riformatori del secolo XVI non possono ingannare gli uomini che cercano sinceramente la verità, poiché sono espresse in chiare formule e sono apertamente contro la dottrina della Chiesa, e da questa solennemente condannate. Allo stesso modo, le bestemmie sfrenate dei cosiddetti illuministi e del fantomatico Risorgimento sono così audaci e così svergognate, che, passato quel momento di delirio, ne ebbero orrore molti che ne furono sedotti. Tuttavia la dottrina che si diffonde da quasi due secoli, ora di raffazzonare, di ammodernare il cristianesimo, di adattarlo al tempo ed al popolo, dato che è espressa subdolamente e da parolai moderati, non mostra immediatamente tutta la malignità che contiene intrinsecamente. Essa si fa largo anche presso certi cristiani non malvagi, ma leggeri e superficiali, accecati dall’ignoranza e sedotti da lievi passioni, i quali credono benissimo che la religione si possa spogliare, quasi d’una scoria che la ricopre, di certe asperità, durezze e forme esterne che, al contrario, le sono essenziali. Contro questo errore, come già detto, noi dimostriamo che la religione abbraccia due sorte di verità: naturali le une, soprannaturali le altre. Il cristianesimo abbraccia anche tutti quei precetti naturali, ma esso consiste principalmente nella perfezione che a quei primi precetti volle aggiungere il Figliuolo di Dio, e per questo è legge più perfetta, più pura, più santa che non fu la legge data ai Patriarchi, od a Mosè, che non è quella che possa scoprirsi col solo lume della natura. Possiamo notarlo nel confronto con la legge antica, sebbene data dallo stesso Dio come preparazione della nuova.
• La legge antica ordinava certamente di amare il prossimo, ma permetteva ancora, in certi casi, la legge del taglione. Gesù Cristo aggiunse invece l’amare perfino i nostri nemici, il far loro del bene per imitare il Padre celeste, il quale fa bene anche ai malvagi, conservando comunque l’uso della forza per la legittima difesa dei diritti di Dio, di se stessi, della propria famiglia, ecc. La legge antica prescriveva l’uso onesto dei beni terreni, ma li lasciava godere, anzi prometteva, come rimunerazione del bene vivere, l’abbondanza di essi: la legge nuova vuole che distacchiamo il cuore da tutto il sensibile, ed inclina, per renderci somiglianti a Gesù, all’amore della povertà, e ci propone dei beni spirituali invece dei temporali per premio. La legge antica concedeva perfino, in certi, casi la pluralità delle donne: la nuova non solo non ne consente più d’una, ma esorta coloro che lo desiderino ad un’illibatissima purezza. La legge antica aveva riti e cerimonie che figuravano i misteri avvenire e che non davano altra giustizia che l’esteriore e legale: la nuova, invece, ha Sacramenti, i quali giustificano pienamente l’uomo comunicandogli la grazia interiore. La legge antica guidava i suoi professori per via di timore più che d’amore: la nuova li conduce per via d’amore più che di timore. E così si può dimostrare di molte altre differenze che vi sono tra le due leggi, per le quali si vede quanto l’evangelica superi la passata.
• Ciò presupposto, ecco quello che accade ai nostri giorni. Dopo che gli eresiarchi hanno impugnato ora l’una, ora l’altra delle dottrine speculative di Gesù Cristo, ed hanno fatta opera di distruggere il cristianesimo quanto alla credenza: ai giorni nostri, data un poco di tregua alle credenze , si tenta di distruggere tutta la parte pratica di esso, cioè tutta quell’ulteriore perfezione, che Gesù Cristo aggiunse alla legge naturale ed alla legge scritta . I pravi uomini d’oggi intendono, se fosse possibile, precipitarci allo stato in cui erano gli uomini prima di Gesù Cristo: anzi anche peggio, fatte salve alcune apparenze! Ed ecco in che modo.
• Gesù Cristo mirava, come abbiamo detto, nella formazione dei Suoi seguaci, a stabilire l’amore dei beni del cielo sul distacco dei beni della terra; e l’eresia moderna (che così può benissimo chiamarsi) sotto pretesto di erudire il popolo al secolo, di conciliare all’odierna civiltà la religione, inculca che non bisogna poi in grazia del cielo posporre la terra. Gesù Cristo, per formarsi un popolo spirituale e per comprimere l’amore del mondo e dei piaceri carnali, proponeva la penitenza, il digiuno, la fuga dalle occasioni di peccato, ecc.; e l’eresia moderna, sotto maschera di moderazione, condanna le austerità e le penitenze come eccessi, la fuga dalle occasioni come sciocca rusticità e bigottismo, e, al contrario, promuove e proclama tutto quello che sollecita i sensi e la carne. Gesù Cristo, per sottomettere lo spirito pienamente a Dio, inculcava l’umiltà, il disprezzo di se medesimo, la repressione del proprio volere; e l’eresia moderna fa tutto l’opposto, chiama imbecillità ed ignoranza tutto quello che serve all’umiliazione di se stesso, e fanatismo tutto quello che ripugna e contraddice alla propria volontà. Per l’eresia moderna, chi difende e prova a vivere le Sante leggi di Gesù ed i Suoi insegnamenti, diventa un fanatico, un estremista, un fondamentalista e finalmente un fariseo. Gesù Cristo, per ottenere la nostra santificazione, ha ordinato dei mezzi superiori agli umani, cioè le virtù soprannaturali, quali sono la fede, la speranza e la carità, mezzi soprannaturali che c’impetrino, o ci apportino la grazia interiore, quali sono l’orazione ed i Sacramenti; e l’eresia moderna, disconoscendo, apertamente oppure dietro sofismi, tutto quello che è sopra natura, vi sostituisce le sue virtù tutte umane, cioè la filantropia, l’amor proprio, il sentimento della propria dignità e simili pretese: rivendicate anche dai satanassi di ogni epoca, finalmente sdoganate dalle “alcòve” dei Massoni, finite per contaminare, nel nostro preciso e pernicioso senso, le menti dei deboli, della gioventù, infine dei molti! Gesù Cristo voleva che, nell’ attuare i mezzi della salute, noi dipendessimo totalmente dalla Chiesa che egli sostituì in Sua vece per dare un Magistero ai fedeli; e questa eresia, disconoscendo l’autorità stabilita, crede superbamente di poter fare da sé, e fa veramente da sé, non curandosi né punto, né poco del Magistero della Chiesa.
• In breve, Gesù Cristo ordinò modi e vie del tutto speciali per la salvezza di quelli che sarebbero stati Suoi fedeli; e l’eresia presente, dispettandoli tutti, tutti li prevarica iniquamente. Da ciò, quale sarà la conseguenza? Che con questa “riforma” si viene a negare, l’un dopo l’altro, ogni articolo della legge cristiana e ad annientare tutto il cristianesimo. In prova di ciò, facciamo pure finta che costoro osservassero quella legge qualunque di probità naturale che si propongono, e di cui sola affermano di accontentarsi (es. «... ci basta essere brave persone»), sarebbero con ciò ancora cristiani? Assolutamente no, dato che un poco di probità naturale, l’amore umanitario degli uomini, il sentire la propria dignità, il rispettarsi, e cento altre di queste virtù, possono stare ottimamente in un Gentile, che non ha mai sentito parlare Gesù Cristo. Cristianesimo è muoversi per fede, è aspirare ai beni eterni con la speranza, è operare per carità. Cristianesimo è stare sottomessi al legittimo sommo Pontefice, ai legittimi Vescovi che Dio ha proposto a reggere la Chiesa. Cristianesimo è praticare quelle virtù speciali che Gesù Cristo portò al mondo ed insegnò ai mortali, la purezza, l’umiltà, il distacco dai beni terreni, l’amore soprannaturale di Dio e del prossimo. Cristianesimo è onorare Dio non a capriccio, ma con quei modi determinati da Gesù stesso, quali sono il sacrificio della Messa, l’orazione, la partecipazione all’Eucaristia ed agli altri Sacramenti nei tempi e nei modi da Lui stabiliti.
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In data 3 marzo 2017, la nostra Associazione ha consegnato, sotto forma di donazione, al carcere di Potenza numero 200 tascabili di «Preghiere cristiane», facendo seguito alla richiesta del Cappellano del carcere di voler distribuire, fra i detenuti, un numero di circa 100 dei succitati libricini, anticipati in qualche copia già il 22 febbraio 2017, contestualmente alla donazione di 100 copie del «Catechismo breve» o «Primi elementi della Dottrina cristiana di san Pio X» ed altro. L’Associazione ha altresì formalmente rinnovato la propria disponibilità alla preghiera, alla formazione dottrinale, all’ascolto ed al sostegno morale dei detenuti.
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Stimati Associati e gentili Lettori, in questi lunghi mesi abbiamo ripubblicato “in pillole” sia il «Sillabo» di Papa Pio IX, che il «Lamentabili Sane Exitu» di Papa san Pio X. Due documenti fondamentali, quanto mai attuali, dove si elencano e si condannano una serie di proposizioni nocive per il genere umano. Nonostante ciò, quelle e simili pestilenze, di tanto in tanto, vengono rilanciate in pompa dai satanassi di ogni epoca. Condannando le 65 dannate proposizioni, così duole la Chiesa nel Lamentabili: «Con deplorevoli frutti, l’età nostra, impaziente di freno nell’indagare le somme ragioni delle cose, non di rado segue talmente le novità, che, lasciata da parte, per così dire, l’eredità del genere umano, cade in errori gravissimi. Questi errori sono di gran lunga più pericolosi qualora si tratti della disciplina sacra, dell’interpretazione della Sacra Scrittura, dei principali misteri della Fede. È da dolersi poi grandemente che, anche fra i cattolici, si trovino non pochi scrittori i quali, trasgredendo i limiti stabiliti dai Padri e dalla Santa Chiesa stessa, sotto le apparenze di più alta intelligenza e col nome di considerazione storica, cercano un progresso dei dogmi che, in realtà, è la corruzione dei medesimi».
Chi sono questi cosiddetti “cattolici”, che così tanto odiano Gesù Cristo e disprezzano l’umanità da diffondere simili nefandezze? Nel Motu proprio «Sacrorum antistitum» sentenzia il santo Papa Sarti: «[Essi sono] i modernisti, la maliziosissima categoria d’uomini che avevamo smascherato [...] nella Lettera enciclica “Pascendi Dominici Gregis”, [essi] non si sono astenuti dai propositi di turbare la pace della Chiesa. Infatti hanno continuato ad adescare nuovi seguaci ed a farli associare mediante un’alleanza segreta, e con essi ad inoculare nelle vene del cristianesimo il virus delle loro opinioni [...]. Uomini di tale condotta non sono altro che quelli che abbiamo già descritto là, nemici tanto più temibili quanto più sono vicini; i quali abusano del loro ministero per porre sull’amo un’esca avvelenata con cui corrompere gli sprovveduti, divulgando un’apparenza di dottrina, in cui è contenuta la somma di tutti gli errori».
Sono passati più di 100 anni da questo monito, «col quale si stabiliscono le norme atte a respingere il pericolo del modernismo» [cf. AAS, vol. II (1910), n. 17, pp. 655-680], ma, come tutti sanno, la situazione è davvero precipitata, tanto che proliferano millenaristi ed apocalittici di ogni risma. Alcuni, precipitosamente, sono giunti finanche ad evocare la «synagoga Satanae» di cui nell’«Apocalypsis Ioannis». I modernisti, «nemici della Chiesa fra i più dannosi», oggi più che mai, «agitano i loro consigli di distruzione non al di fuori della Chiesa, ma dentro di essa; ond’è che il pericolo si appiatta quasi nelle vene stesse e nelle viscere di lei, con rovina tanto più certa, quanto essi la conoscono più addentro». Di più, essi «non pongono già la scure ai rami od ai germogli; ma alla radice medesima, cioè alla fede ed alle fibre di lei più profonde. Intaccata poi questa radice dell’immortalità, continuano a far correre il veleno per tutto l’albero in modo tale che nessuna parte risparmiano della cattolica verità, nessuna che non cerchino di contaminare. Inoltre, nell’adoperare le loro mille arti per nuocere, nessuno li supera di accortezza e di astuzia: giacché la fanno promiscuamente da razionalisti e da cattolici, e ciò con così fine simulazione da trarre agevolmente in inganno ogni incauto; e poiché sono temerari quanto altri mai, non vi è conseguenza da cui rifuggano e che non spaccino con animo franco ed imperterrito» («Pascendi Dominici gregis», Papa san Pio X).
Da circa cinquant’anni, apertamente o dietro sofismi, nella promiscua simulazione d’esser cattolici o razionalisti in base al vento, i modernisti hanno vergognosamente riesumato finanche il rivoluzionario Martin Lutero, fra i più grandi nemici di Gesù Cristo, della Chiesa e del genere umano, di cui già si è scritto sul nostro settimanale. Pertanto ci sembra opportuno di ripubblicare “in pillole”, a partire da oggi, la bolla «Exsurge Domine» di Papa Leone X. Con essa, ultimo dei numerosi tentativi di estrema misericordia verso quel mentecatto, la Chiesa finalmente sta per recidere Lutero e lo consegna all’eterna infamia.
Per meglio capirci, il vitello d’oro “canonizzato” dai modernisti, ossia il dannato Lutero, è autore di tali e tante odiose proposizioni, da far accapponare la pelle anche ai più indifferenti. Egli affermò: - «Cristo commise adulterio prima di tutto con la donna che incontrò al pozzo di Giacobbe, di cui San Giovanni scrisse: “In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliarono che stesse a discorrere con una donna”. Nessuno tuttavia gli disse: “Che desideri”, o ”Perché parli con lei”? Dopo di lei fu la volta di Maria Maddalena, e poi venne la donna colta in flagrante adulterio che Cristo congedò così gentilmente. Quindi, anche Cristo, pur essendo così retto, si è reso colpevole di fornicazione prima di morire»; - «Non pensate che Cristo ubriaco, perché aveva bevuto troppo all’Ultima Cena, abbia sconcertato i Suoi discepoli col suo parlare a vanvera?»; - «Deus est stultissimus: Dio è molto stupido»; - «Certamente Dio è grande e onnipotente, buono e misericordioso, e tutto ciò che si può immaginare in questo senso, ma è anche stupido»; - «Dio si è sempre comportato come un pazzo»; - «Quando la Messa sarà scalzata, avremo scalzato il papato! Perché è sulla Messa, come su di una roccia, che poggia completamente il papato, con i suoi conventi, le sue Diocesi, le sue Università, i suoi altari, i suoi ministri e le sue dottrine [...]. Tutto ciò cadrà in rovina quando sarà abbattuta questa sacrilega ed abominevole Messa». Sull’Offertorio Lutero scrisse: «Poi segue quell’abominazione che viene chiamata “Offertorio”, nel quale tutto esprime oblazione». Sul Canone della Messa: «Questo Canone abominevole è una raccolta di lacune confuse [...]. Esso fa della Messa un sacrificio; altri offertori vengono aggiunti. La Messa non è un sacrificio o l’azione di chi sacrifica. Noi lo consideriamo un sacramento o un testamento. Permetteteci di chiamarlo una benedizione, l’eucaristia, la tavola del Signore o il memoriale del Signore». Sulla tattica da usare per introdurre la “messa” protestante: «Per giungere sicuramente e felicemente alla nostra mèta, dobbiamo conservare alcune delle cerimonie della vecchia Messa, così verrà accettata anche dall’indeciso che potrebbe rimanere scandalizzato da cambiamenti troppo frettolosi». Ancora: «Che pazzia voler monopolizzare il sacerdozio solo per pochi». Sul suo comportamento: «Da mattina a sera non faccio altro che bere. Chiedetemi perché bevo così tanto, perché parlo così loquacemente e perché mangio così spesso. Lo faccio per imbrogliare il diavolo che viene a tormentarmi [...]. È mangiando, bevendo e ridendo in questo modo e talvolta anche di più, e anche commettendo qualche peccato, che sfido e disprezzo Satana tentando di sostituire i pensieri che il diavolo mi suggerisce con altri pensieri, come ad esempio pensando con avidità ad una bella ragazza o ad una ubriacatura. Se non facessi così diventerei oltre modo furioso».; - «Ho avuto fino a tre mogli nello stesso tempo». Due mesi dopo, egli disse che ne aveva “sposata” una quarta, un’ex monaca. «Se condanniamo i ladri ad essere impiccati, gli scassinatori al patibolo e gli eretici al fuoco, perché mai non dovremmo usare tutte le nostre armi contro questi dottori di perdizione, questi cardinali, questi papi e tutto il codazzo della Sodoma romana affinché non possano più corrompere la Chiesa di Dio? Per quale motivo non dovremmo lavare le nostre mani nel loro sangue». Le citazioni sono state tratte dalla fonte accreditata: Crisi Nella Chiesa. Sebbene queste siano già terrificanti, le sue proposizioni peggiori sono comunque altre, che impareremo condannate, una per una, nella «Exsurge Domine».
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Il 30 dicembre del 1951 Papa Pio XII pronuncia un toccante «Radiomessaggio ai detenuti». Il Pontefice esorta i carcerati italiani a «librarsi dalle pene sulle ali della fede», solo in questo modo essi «non solo gusteranno le gioie della più intima ed arcana liberazione», bensì «le possederanno». Nessun evento, nessuna avversità, potrà mai rapire tali gioie: «né le asprezze del carcere, né i possibili errori della giustizia terrena, né l’incomprensione degli uomini, né lo stesso rimorso: dalla grazia elevato a salutare e consolante pentimento». Dunque Papa Pacelli esorta alla conversione del cuore, «riprovando e rinnegando, ove occorra, nel profondo del cuore, un triste passato; illuminati e sorretti dalla fede a guardare ed a sentire le vicende della terra con occhi e spirito di cristiani». Solo così «scoprirete nella stessa vostra condizione presente occasioni preziose e sorgenti sommamente feconde di grandi beni», dice ai detenuti. Pio XII torna a parlare di carcere e carcerati «ai Giuristi cattolici» il 26 maggio 1957. Nel suo sapiente e corposo «Discorso» egli pone l’accento sulla dipendenza della pena dalla colpa e sul significato della sofferenza: «Bisogna, così, dimostrare al carcerato che la società non è sua irreconciliabile nemica, costituisce un balsamo alle sue afflizioni». Ci erudisce anche sul senso della vita, facendo presente che «spesso le pene volute da Dio sono piuttosto un rimedio che un mezzo di espiazione, piuttosto “poenae medicinales” che “poenae vindicativae”». Conclude con le linee guida per ogni associazione che voglia essere di sollievo ai detenuti: «Conoscerli ed amarli come singole persone e come membri della comunità. Per essi è necessario un sincero perdono; credere al bene che si trova in altri; amare come ha amato il Signore», sempre «senza prevaricare sul diritto positivo». Poco prima di morire, il 10 aprile 1958, Pio XII compose anche la sua commovente «Preghiera per il carcerato». L’Associazione di volontariato «Sursum Corda», che ha sede a Pignola (PZ) ed opera da circa un anno, per vocazione recepisce le indicazioni della Chiesa cattolica circa «la cura dei carcerati agli occhi di Dio». Ecco come «il Signore intende che voi aiutiate i carcerati», ricorda l’anziano Papa: «direte loro le stesse parole, che illuminano, consolano e fortificano: “La tua sofferenza ti dà la purificazione, il coraggio e la più grande speranza di arrivare felicemente allo scopo, alle porte del cielo, a cui non conduce la via spaziosa del peccato. Tu sarai con Dio in paradiso; basta che ti affidi a Lui ed al tuo Salvatore”». Questi ed altri fondamentali documenti per il volontariato ai carcerati ed alle “categorie a rischio” sono stati recentemente ripubblicati sull’omonimo «Settimanale associativo», affinché si diffonda e rigeneri la vera carità cristiana. In data 22 febbraio 2017, il Presidente di «Sursum Corda», Carlo Di Pietro, ha incontrato il Cappellano del carcere, poi il Direttore della Casa circondariale di Potenza, la Dottoressa Maria Rosaria Petraccone, e contestualmente ha donato, per conto dell’Associazione, 100 copie del «Catechismo breve» o «Primi elementi della Dottrina cristiana di san Pio X», svariati tascabili di «Preghiere cristiane» e riviste per la tutela della vita fin dal concepimento. L’Associazione ha altresì formalmente offerto la propria disponibilità alla preghiera, alla formazione dottrinale, all’ascolto ed al sostegno morale dei detenuti.
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Stimati Associati e gentili Lettori, ci sia concessa una breve introduzione prettamente burocratica ed economica. Almeno una volta ogni anno è d’obbligo per le Associazioni. In data 15 febbraio 2017 l’Assemblea dei Soci ha approvato il nostro primo «Rendiconto economico», anno 2016. Abbiamo chiuso con una «Liquidità finale» di cassa quantificabile in euro 98,81. Nel 2016 dalle «Quote associative» abbiamo ricavato euro 1.540,00; dai contributi del Presidente per il «Progetto Sursum Corda 2016» euro 573,93; dalle «Donazioni deducibili ...» euro 1.206,38; dalle altre «Entrate marginali ...» euro 100,15. Per un «Totale entrate» pari ad euro 3.420,46. Adesso veniamo alle «Uscite» del 2016: euro 361,20 per i «Rimborsi spese dei volontari», soprattutto viaggi in treno e bus extraurbani; euro 1.617,47 per gli «Acquisti di servizi», per la stampa del nostro Settimanale, per la realizzazione di felpe e magliette, per Aruba, per le spedizioni postali, etc.; euro 150,00 per le «Utenze annuali»; euro 162,48 per il «Materiale di consumo»; euro 575,67 per gli «Oneri finanziari e patrimoniali», registrazione del marchio, registrazione della testata in tribunale, spese di tenuta conto PayPal, etc.; euro 454,84 per i «Beni durevoli». Per un totale pari ad euro 3.321,65.
La gestione oculata e parsimoniosa, ma non tirchia, dell’Associazione, ha perseguito risultati apprezzabili. Abbiamo assicurato i volontari come prevede la legge (R.C. ed infortuni); richiederemo l’iscrizione al «Registro regionale del volontariato», provvederemo ad espletare tutte le pratiche burocratiche necessarie. Probabilmente apriremo il nostro primo conto corrente postale, bolli esente, per donazioni e 5x1.000. Per il momento si tratta di propositi che affidiamo nelle mani di san Giovanni di Dio, nostro Protettore.
Adesso non perdiamo di vista lo spirito di Sursum Corda, che è quello del volontariato cattolico in generale, ma soprattutto presso le persone in difficoltà e le categorie sociali disagiate od a rischio di devianze. Questi primi anni di vita dell’Associazione sono e saranno, a Dio piacendo, intanto formativi per tutti noi; solo in seguito, quando i tempi saranno maturi, passeremo all’azione con attività più marcate sui territori, tante buone opere utili ad ottenere meriti presso Dio. Per concludere, prossimamente, a margine del «Progetto Sursum Corda 2016», acquisteremo un congruo numero di copie (100 pezzi) del «Catechismo di san Pio X» da donare ad una Casa circondariale della Lucania, affinché i detenuti possano usufruire di quelle buone letture, edificanti e di grande sostegno nei momenti di particolari tentazioni. Non appena ci saranno dettagli più precisi daremo comunicazione a Soci e Sostenitori tramite il Bollettino, il Sito e la Stampa locale.
Occorre, a questo punto, precisare alcune nozioni dottrinali fondamentali. Il bene comune è bene di ciascuno, ed il bene di ognuno è il bene di tutti. La grazia di Cristo, Capo della Chiesa, è distribuita dallo Spirito in tutte le membra - ricorda Padre Dragone nel suo «Commento al Catechismo», edizione CLS, Verrua Savoia. Quanto maggiori sono i meriti delle opere buone dei singoli membri, tanto maggiore è l’afflusso della grazia e degli altri beni che si riversa su tutti e su ciascuno. L’unico ostacolo alla partecipazione dei frutti della Comunione dei santi è il peccato, che divide spiritualmente da Cristo, priva della Sua vita e della Sua grazia, e chiude la via per cui vengono a noi i beni del Corpo mistico. Finché la nostra volontà è legata con l’affetto al peccato mortale e non ne è pentita, pone volutamente un ostacolo che impedisce l’unione, la comunione e lo scambio dei beni soprannaturali. II cristiano che vive in peccato mortale è unito al corpo della Chiesa ma è separato dalla sua anima. È come un ramo tagliato dal tronco, come un membro staccato dal corpo, e resta separato finché è privo dell’amore di carità, opposto all’affetto al peccato.
Al numero 144 del suo «Catechismo», Papa san Pio X ci spiega che «il peccato grave si chiama mortale, perché priva l’anima della grazia divina che è la sua vita, le toglie i meriti e la capacità di farsene dei nuovi, e la rende degna di pena o morte eterna nell’inferno». Difatti i meriti - commenta Padre Dragone - sono i frutti delle opere buone compiute in grazia, che danno diritto alla felicità ed al premio eterno. Se tagli dall’albero un ramo carico di frutti prima che siano maturi, li vedrai appassire e poi morire. Così vengono mortificati i meriti di chi cade in peccato mortale. I meriti non sono più imputabili a chi li ha fatti finché resta in peccato, Dio infatti non può premiare con la vita eterna chi muore reo di peccato mortale e quindi è degno della dannazione. I meriti, cioè il diritto al compenso soprannaturale, sono il frutto delle opere buone compiute in grazia. Perciò chi è privo della grazia, anche se compie opere buone, non ha la capacità di meritare soprannaturalmente. San Paolo afferma che a chi è privo della carità o grazia non giovano a nulla le opere, anche più grandi e meravigliose, fosse pure il parlare le lingue degli angeli e degli uomini, il dare le proprie sostanze ai poveri, l’immolarsi gettandosi nel fuoco (v. I Cor. 13, 1-13). Non illudiamoci, pertanto, che facendo del bene automaticamente si ottengano meriti soprannaturali! Non è così. Il peccato grave merita le pene eterne dell’inferno che è chiamato morte eterna, seconda morte, perché laggiù l’esistenza resta solo per dar modo di soffrire. È peggiore della morte o annientamento totale. I dannati vivono privi per sempre della vera Vita, cioè di Dio.
Badiamo bene, dunque, di fare sempre, con l’aiuto di Dio, della vera carità: noi NON siamo dei filantropi!
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Stimati Associati e gentili Lettori, domandiamoci - col Padre Franco - se la nostra santa Religione si possa modernizzare. Essa ha bisogno di essere moderna? Da vari secoli ormai si parla di conciliazione, oggi più che mai. I moderati dicono: «perché non si può fare un poco di transazione in fatto di religione?». Ed ancora: «se la religione si piegasse un tantino, se si adattasse e smettesse di essere così rigorosa, se si conformasse ai tempi, gli uomini smetterebbero di guardarla con occhio cattivo». Affermano pure: «se ci fosse un poco di discrezionalità, allora la religione potrebbe sperare nell’avvenire». Le citate proposizioni sono solamente alcuni esempi di un modo di favellare molto usato nel mondo. Questa fregola di ammodernamento un tempo divampava solo in e da ambienti settari: bene li descriveremo nel primo libro sulla Rivoluzione, che pubblicheremo, volendolo Dio, con la nostra Casa editrice nel 2017. Adesso, purtroppo, avendo la Rivoluzione infettato la Chiesa «nelle viscere, quasi nelle vene di lei», per usare la denuncia di Papa san Pio X, tali empietà, che non possono annidarsi nella mente di un cattolico, avvelenano il mondo dalla quasi totalità delle cattedre occupate dagli atei del Modernismo. Ma cerchiamo di rispondere a queste pretese.
Per prima cosa domandiamoci che cos’è la religione cattolica? È una religione rivelata da Dio, venuto sopra la terra a farsi Maestro degli uomini, una religione che professa un determinato numero di verità da credere, sempre nello stesso modo, ed un determinato numero di pii esercizi da praticare. Ora, come può venire in mente ad un cattolico, ad un uomo che abbia la vera fede, che tutto ciò si possa cambiare? Chi sarà quel soggetto che avrà il coraggio di mutare ciò che è di divina istituzione? Se dunque essi lo dicono per scherzo, sappiano che in materia grave non è lecito scherzare; se lo dicono davvero, evidentemente hanno perduto il senno: oppure non hanno la vera fede, non credono. Quello che dà noia a molti, e che perciò vorrebbero cambiare, sono i Sacramenti, l’osservanza dei Comandamenti, dei Precetti, l’autorità della Chiesa, ecc: ma chi può apportare cambiamenti a tali leggi? La Chiesa stessa, sebbene in alcuni di questi obblighi può determinare praticamente il modo cui soddisfarvi, non può mettervi mano nella sostanza e non può abrogarli. Difatti quello che Cristo ha rivelato un tempo, rimane rivelato per sempre; quello che fu vero una volta, rimane sempre vero; quello che una volta fu comandato da Gesù, non fu mai più da Lui abrogato. Chi, pertanto, avrà diritto di porvi mano e modificare, per suo arbitrio, ciò che Gesù ha stabilito? Solamente chi ha perso il senno, oppure, peggio ancora, chi NON ritiene, apertamente o dietro sofismi, che Gesù sia Dio. Finalmente gli atei, più o meno dichiaratisi tali.
I protestanti. Essi si formano la religione con giudizi privati, essi formano e riformano ciò che vogliono. Così noi vediamo che utilizzano questo loro preteso diritto con grande ampiezza. Nessun protestante, cinquant’anni dopo il dannato Lutero, credette più quello che credette l’infame Lutero; come la seguente generazione non credette più le stesse cose della precedente. Dai cambiamenti che si fanno ogni giorno, si può dedurre che i loro posteri crederanno cose ancora differenti. Sì, per loro tutto questo è possibile, ma non per noi, che non cambiamo la Religione così come si cambia un vestito in base alla moda. Noi professiamo solo quello che Gesù Cristo ha insegnato e comandato; noi sappiamo che la Rivelazione è chiusa da ben venti secoli e non ce ne possono essere più a posteriori. Per noi, tutto questo ammodernamento, questi venti di novità, questa fregola di cambiamento, nulla di tutto ciò è possibile. Difatti sappiamo che tutte le Sette cristiane, fra cui i cosiddetti Protestanti, di cristiano hanno solo il nome, anzi lo usurpano: essi vanno contro la volontà di Dio.
Molti adducono le ragioni del progresso. Rispetto alle verità rivelate, il progresso non costituisce alcuna prova, perde ogni sua forza e dimostra di essere poco più che un ciarlatanismo. La religione cattolica, essendo vera in origine e sempre vera nella medesima misura oggi, è stazionaria, ferma, immobile, come quella rocca sopra cui è fondata. Per questa ragione l’Alta Vendita Suprema intese, nel 1800, chiaramente di voler insidiare quella rocca che si chiama Pietro, dall’interno, nell’intento di porvi un suo uomo al comando, al servizio della Rivoluzione cominciata da Lucifero: «non servirò Dio!». Tutti i Papi, i Padri della Chiesa, tutti i Dottori ed i Santi, tutti i veri fedeli, gridano concordemente ad una voce, che si deve credere solo quello che fu sempre creduto, quello che fu tenuto ovunque, quod semper, quod ubique. Ogni novità è uno scandalo; non essendo antico, ogni ammodernamento sostanziale va rigettato. Quello che fu tenuto nell’antichità, va tenuto per sempre. Nei primi secoli nessun cristiano voleva alcuna comunione di preghiera con gli eretici, e nessun cristiano pregherà mai insieme con gli eretici, per sempre. Allora Gesù intimava la sommissione intera e compiuta all’autorità della Chiesa, pena l’essere tranciato e considerato etnico e pubblicano: ed ora pretende che dipendiamo sempre dalla Chiesa. Allora Egli proibiva le ribellioni, le congiure, i delitti, le perversioni, la disonestà, ed imponeva la sottomissione alle legittime autorità dei prìncipi, fossero anche discoli, ed ora intima lo stesso e non accorda di macchinare contro chicchessia.
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Stimati Associati e gentili Lettori, domandiamoci - col Ballerini - se la religiosità sia doverosa e necessaria a tutti, tanto da parte dell’individuo, quanto da parte della società. Oggi tanti “cattolici” nominali credono o dicono che «una cosa è la fede privata (sic!), che sarebbe lecita, altra è la fede pubblica e degli Stati, che sarebbe un bigotto oscurantismo da eliminare». Vediamo come stanno davvero le cose. Dire che la religione è doverosa a tutti, equivale a dire che tutti devono riconoscere e professare la propria dipendenza da Dio. Ora «nulla di più giusto e doveroso, sia da parte dell’individuo, come da parte della società».
Da parte dell’ individuo. 1) Perché ogni uomo è creatura: dunque dipende da Dio. Ma è creatura ragionevole e libera: dunque deve riconoscere con la sua mente e professare colla sua volontà la dipendenza che egli ha da Dio. 2) È dettame di natura che al superiore si debba ossequio, al benefattore gratitudine, al padre amore, al re onore. Ma Dio è, nel più alto senso della parola, nostro superiore, nostro benefattore, nostro padre e nostro re. Dunque a Lui si deve ossequio, gratitudine, amore ed onore. 3) È dovere d’ogni uomo conseguire il fine per cui fu creato. Ma il fine ultimo dell’uomo è Dio, e l’unico modo di conseguirlo è la pratica della religione. Dunque la religione è doverosa ad ogni uomo. 4) Perciò la religione non è solamente un dovere, anzi il massimo di tutti i doveri, ma è altresì un interesse, anzi il massimo di tutti gli interessi. Perché essa sola provvede efficacemente agli eterni destini dell’anima nostra. Essa sola ci fa conoscere e gustare, anche nella vita presente, la verità ed i beni soprannaturali che hanno formato i Santi e ispirato i più grandi ingegni e le anime più generose dell’umanità. Essa sola ci sostiene nella lotta e nei sacrifici della vita presente colla speranza dei beni eterni. Essa sola ci dà il senso della vita e ci addita le vere basi del giusto e dell’onesto nel compimento di tutti i nostri doveri. Essa finalmente è quella cosa che sopratutto nobilita il sentimento, corrobora la volontà, rafforza il carattere, reprimendo in tutto e dappertutto le sregolate passioni, e consacra tutto quello che vi è di vero, tutto quello che vi è di bello, tutto quello che vi è di buono nell’individuo, nella famiglia e nella società. Chi smarrisce la religione erra senza meta, atomisticamente, e si avvia alla rovina (cf. Sursum Corda numeri 3 e 4).
Da parte della società. 1) Perché la società non è che l’insieme degli individui; se dunque tutti e singoli gli individui devono riconoscere e professare la loro dipendenza da Dio, anche la società che ne risulta ha il medesimo dovere. 2) Perché la stessa società, come società, è da Dio. È Dio che ha fatto l’uomo naturalmente socievole e vuole il mantenimento dell’ordine sociale, mediante l’autorità che da Lui emana. Dunque anche la società, come società, deve riconoscere e professare la sua dipendenza da Dio. 3) Perché la società civile deve tendere al comune bene temporale, subordinatamente al comune bene spirituale ed eterno degli stessi associati. Dunque anche la funzione sociale dello Stato deve sottostare a quell’indirizzo, almeno tanto da non contrariarlo con le sue leggi (cf. Sursum Corda numero 42, Leone XIII, Libertas). 4) Perché senza religione manca alla società civile la stessa base di ogni autorità ed obbligazione morale. Onde Platone diceva: «L’ignoranza del vero Dio è per uno Stato la maggiore delle calamità, e chi rovescia la religione, rovescia le basi di ogni società umana» (Delle Leggi, 1, X). Lo stesso ripeterono poi Cicerone, Plutarco, e quasi tutti gli antichi sapienti. Né diversamente si esprimono i moderni politici.
Le nuove tendenze di modernismo sociale e politico. Sappiamo bene che oggi si fa appello alle mutate condizioni dei tempi ed ai nuovi orientamenti pastorali. Ma noi vorremmo chiedere se le mutate condizioni dei tempi, in seguito ai progressi scientifico- economico-sociali degli ultimi secoli, hanno potuto mutare anche la dipendenza che l’uomo ha da Dio, tanto nella sua vita privata come nella sua vita pubblica. Questi nuovi orientamenti sono voluti dall’opera di scristianizzazione delle sette e dei nuovi governi, che vogliono ad ogni costo strappare la fede dal cuore dei popoli onde allontanarli dalla Chiesa, dall’ordine e dalla ragione. E non comprendono che, tolta la fede religiosa nell’autorità divina, non ha più forza neppure l’autorità umana (La sovranità, difatti, NON è del popolo - cf. Sursum Corda numero 43, Leone XIII, Immortale Dei);
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Stimati Associati e gentili Lettori, accenniamo oggi al drammatico «Modernismo religioso», di cui già si è scritto in passato studiando dettagliatamente l’Enciclica «Humani Generis», del Sommo Pontefice Pio XII, contro la «Nouvelle Théologie». Perché tornare sull’argomento? Perché il nostro Bollettino, benché miserissima cosa, vuol essere informativo ma soprattutto formativo, attento alle questioni dell’ora presente, allorché un congruo numero di presunti “cattolici” dimostra di professare, purtroppo ma inequivocabilmente, non la fede cattolica, bensì la «falsa scienza dei modernisti».
Quali sono i loro capisaldi? I modernisti, in fin dei conti, accettano la conclusione degli increduli riguardo alla non conoscenza dell’al di là (agnosticismo); ma sostengono che i dati soggettivi e psicologici (immanenza vitale), a cui si arrestano gli increduli, bastino per ricostruire tutto l’edificio morale e religioso da essi demolito. Accettano l’«agnosticismo» con tutte le conseguenze che ne derivano contro l’«intellettualismo» scolastico; perché essi sono persuasi, affermandolo apertamente o dietro sofismi, rivelandolo oltremodo nelle prassi, che del soprannaturale non si possa dare nessuna dimostrazione, né in base ai miracoli ed alle profezie, che più non reggerebbero di fronte alla «critica storica», né in base ai fatti naturali, perché il «principio di causalità» non ci acconsentirebbe di uscire dal mondo «fenomenico». In questa breve ricostruzione molti non si riconosceranno e - potrebbe accadere - essi storceranno il naso. Tuttavia gli stessi sollazzano a gran voce: “tutte le religioni sono uguali, sono solo espressione delle varie tradizioni”, “i vari nomi delle divinità si riferiscono allo stesso Dio, ma secondo le usanze”, “vivo la religione secondo la mia esperienza personale, non per dogmi” e finalmente “ciò che importa presso Dio è quello che ognuno fa solo secondo la propria coscienza”. Cosa sono queste ribalde proteste se non delle palesi attestazioni di ultra modernismo? L’«ecumenismo», per esempio, è una delle principali espressioni di questo moderno sentire non cattolico: eterodosso nonché prossimo all’ateismo. Lo abbiamo imparato studiando minuziosamente l’Enciclica «Mortalium Animos» del Sommo Pontefice Pio XI. Secondo il modernista si devono, perciò, mettere in disparte le antiche basi della fede: «Le antiche basi della fede ci apparvero insanabilmente caduche», hanno scritto i modernisti nel loro Programma. Altri, più disonesti e sempre meno colti, oggi affermano che le antiche basi della fede dimostrerebbero le loro ragioni. Poveri ignoranti! Per loro la fede va dunque assisa su nuove basi, quelle dell’«immanenza».
Quali sarebbero queste nuove basi della fede secondo il modernista? Ed ecco in che modo. Dopo essersi chiuse tutte le vie che mettono al di là (agnosticismo), il modernista si raggomitola per così dire in sé stesso (immanenza vitale), e, tutto immerso nello inconoscibile che l’avvolge da ogni parte, sente nascere dal fondo del suo essere un arcano e misterioso sentimento in lui determinato dallo stesso inconoscibile. È il sentimento religioso, il sentimento del divino che lo porta a Dio non come a realtà conosciuta ma sentita. E questo sentimento, svolgendosi poi al di fuori, assumerebbe le più svariate forme, anche ridicole, anche assurde, e creerebbe tutte le religioni: che sono perciò - essi sostengono - tutte fattura dell’uomo, rispondenti ai gradi di cultura dei singoli popoli e svolgentesi progressivamente in essi.
La religione cristiana secondo il modernista. Cristo non avrebbe fatto altro che sollevare al suo massimo grado questo interno sentimento che costituirebbe la sostanza della religione e della Rivelazione. Sì, anche della Rivelazione: perché essa pure non sarebbe altro che questo sentimento religioso che si manifesterebbe alla coscienza, e le diverse tappe dell’evoluzione psicologica-morale religiosa attraverso i secoli, segnerebbero appunto i diversi periodi della Rivelazione divina. Non più «ispirazione», non più «inerranza», non più «Rivelazione di Dio», bensì «sentimento degli autori», «progresso», «evoluzione», «tradizioni varie». La Rivelazione - secondo loro - non ebbe perciò il suo compimento con Cristo e con gli Apostoli, ma continuerebbe attraverso i secoli: non sarebbe immutabile nel suo contenuto, ma si evolverebbe continuamente con la “civiltà” e col “progresso”. Cosa scaturisce da questa concezione della Rivelazione? Il relativismo dogmatico e morale, ovverosia la negazione degli attributi di Dio, della verità: dunque l’incredulità e la contraddizione.
La Chiesa ed i dogmi secondo il modernista. E come il bisogno di comunicare con altri la propria fede e professarla in comune farebbe nascere la società religiosa o chiesa, così le formule esterne entro le quali si racchiude la fede stessa farebbero nascere i dogmi, che avrebbero soltanto un contenuto pratico e morale, soggetto a continuo sviluppo, che renderebbe necessariamente variabile anche le formule esterne o dogmatiche. Ciò che resta sostanzialmente lo stesso (identico) sarebbe solo il germe o punto di partenza da cui, secondo loro, muove l’evoluzione religiosa, cioè il sentimento.
Il soprannaturale per il modernista. Che dire, allora, della divinità di Cristo, della divina ispirazione dei Libri santi, dei Sacramenti, di tutto il soprannaturale insomma? Tutto ciò che si stacca dalla realtà fenomenica e non può ridursi che al sentimento religioso, all’esperienza individuale o collettiva, sarebbe effetto della trasfigurazione, dello sfiguramento e del simbolismo operato dalla fede sulla realtà naturale. Ragione per cui una cosa può essere vera secondo la fede e falsa secondo la storia e viceversa, senza che per questo ci sia contraddizione fra scienza e fede, atteso il diverso ambito in cui funziona l’una e l’altra. Tale, in breve, la sostanza del «modernismo religioso» quale risulta dall’Enciclica di condanna «Pascendi Dominici gregis», di Papa san Pio X, e da tutta quell’ampia letteratura che ci hanno dato gli stessi modernisti.
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Stimati Associati e gentili Lettori, oggi diremo due parole sul cosiddetto «liberalismo», ed ognuno potrà vedere quanto sia falsa la dottrina del liberalismo. Usiamo schematicamente la «Breve apologia per giovani studenti, contro gli increduli dei nostri giorni» del prof. Giuseppe Ballerini, Parte II, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, Imprimatur 1914, dalla pagina 143 a seguire. Che cos’è e come si divide in liberalismo? Dicesi liberalismo quel sistema, o meglio quell’insieme di errori, per il quale nell’ordine delle idee si afferma la libertà di pensare quel che si vuole e come si vuole intorno a Dio, alla religione, alla moralità; e nell’ordine pratico o dei fatti, la libertà di vivere come si vuole. E si divide in assoluto e relativo, se tale libertà si fa valere sino a negare Dio e la necessità di qualsiasi culto; oppure si tiene come indifferente il professare questa o quella religione, considerandole tutte come buone in qualche modo. Il liberalismo assoluto si fonda sulla pretesa autonomia dell’uomo, della ragione, della volontà (ateismo); e contro di esso valgono tutti gli argomenti con cui si dimostra la esistenza di Dio, la dipendenza dell’uomo da Dio ed il dovere che perciò incombe all’uomo di riconoscere e professare la sua dipendenza da Dio. Il liberalismo relativo si fonda sulla falsa supposizione che tutte le religioni siano buone perché «in fondo non sono che varie forme esterne sotto cui si adora sempre lo stesso Dio»: e contro di esso valgono tutti gli argomenti dogmatici e naturali con cui si dimostra che una sola è la vera religione, e che le diverse religioni non importano soltanto diversità di forme esterne, ma di contenuto oggettivo ed interno, perché altre sono le dottrine o credenze delle une, ed altre sono le dottrine o credenze delle altre.
Vera e falsa libertà di pensiero, di coscienza e di culto. Il liberalismo si traduce praticamente nella libertà di pensiero, di coscienza e di culto. E siccome di queste parole oggi si fa uno strano abuso (erroneo o ereticale), così conviene prima determinarne il significato. Se per libertà di pensiero o di coscienza in materia religiosa si volesse dire soltanto che la religione non può essere imposta con la forza o la violenza, ma che deve essere spontaneamente abbracciata e professata, si direbbe il vero: «nessuno può costringere con la forza un pagano a professare la vera religione» (cf. Summa Th. 2a, 2ae, q. X, a. 8). Perciò, a frenare lo zelo male illuminato di Carlo Magno, che credeva di convertire i Sassoni colla spada più prontamente che non colla parola, Alcuino gli scrisse: «Ricordatevi che la fede è un atto di volontà e non di violenza. Non si può costringere l’uomo ad abbracciare la fede. Voi spingerete i popoli al battesimo, ma non farete far loro un passo verso la religione» (Epistola XVII ad Carol. Magn.). Insegnamento ripetuto poi da Papa Leone XIII nella sua Enciclica Immortale Dei: «Vuole assolutamente la Chiesa che nessuno sia tratto per forza ad abbracciare la fede cattolica, perché, come saviamente avverte sant’Agostino, l’uomo non può credere se non di spontanea volontà». Parimenti, se per libertà di culto si intendesse «il diritto che ha l’uomo nel civile consorzio di compiere tutti i suoi doveri verso Dio senza impedimento alcuno» (cf. Libertas, Leone XIII) da parte dei cittadini e dello Stato, si direbbe ancora il vero. «Questa libertà vera e degna dei figliuoli di Dio, scrive Leone XIII, la Chiesa reclamò ed ebbe carissima in ogni tempo. Siffatta libertà usarono con intrepida costanza gli Apostoli, la sancirono coi loro scritti gli apologisti, la consacrarono i Martiri in gran numero col proprio sangue» (Ivi.). Ma non è così che oggi s’intende la libertà di pensiero, di coscienza e di culto. Al contrario, si vuol pretendere la libertà di pensare quel che si vuole e come si vuole intorno a Dio ed alla religione, e, per conseguenza, la libertà di professare qualsiasi culto od anche nessuno, vale a dire la piena indifferenza in materia di religione: indifferenza eretta a sistema nell’ateismo pratico degli stati moderni.
Dogmatismo e libero pensiero. Ora la libertà di pensiero, di coscienza e di culto, così intesa, non potrebbe essere legittima che in un sol caso: quando, cioè, si potesse dimostrare che nulla vi è di certo intorno a Dio ed alla religione. E questa è, difatti, la pretesa degli odierni increduli quando oppongono il libero pensiero al dogma. Che il nostro pensiero non sia libero davanti alle verità naturali che a noi s’impongono con l’evidenza dei fatti, lo riconoscono anche alcuni liberi pensatori; ed è fiato sprecato quello degli apologisti che si affannano a provare contro di essi che anche il pensiero ha le sue leggi, e che l’intelletto non può sottrarsi al vero evidente. Tutto ciò essi pure concedono, ma negano che tale sia la condizione delle verità religiose e rivelate. Queste, dicono, non sono che «asserzioni accampate per aria, senza neppur la possibilità di essere dimostrate». Dogma è per essi un’affermazione che si «tiene per certa pur non essendola», e dogmatismo è il metodo o sistema di «dar per certo quello che non lo è». È contro questo dogmatismo che essi insorgono, perché il nostro pensiero «non può tener per certo se non quello che è dimostrato, e al di là non ammette nessuna dimostrazione». I modernisti lo sostengono apertamente o dietro sofismi, p. es. con Edoardo Le Roy che scriveva nella «Quinzaine» del 16 aprile 1905 — e l’articolo fu poi riprodotto nel libro «Dogme et critique», rapidamente messo all’indice: «Dogma è una proposizione che si presenta da se stessa come indimostrata e indimostrabile. Coloro stessi che la affermano vera, dichiarano impossibile che si giunga mai ad affermare le ragioni intime della sua verità. Ora il principio del metodo scientifico, sin dai tempi di Descartes, è incontestabilmente questo: che non bisogna, cioè, ritenere per vero se non quello che si vede chiaramente esser tale. Nel dogma al contrario si dovrebbe fare eccezione a tale principio, proprio quando si tratta di proposizioni che si presentano come le più importanti, le più probabili, le più singolari fra tutte. Ciò è impossibile».
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Stimati Associati e gentili Lettori, la «Immortale Dei» è una delle grandi encicliche di Papa Leone XIII (novembre 1885), in cui, riprendendo i principi di Papa Gregorio XVI («Mirari vos») e di Papa Pio IX («Sillabo» e «Quanta cura»), la Chiesa fissa la dottrina sui diritti e doveri reciproci della Chiesa e dello Stato e sulle libertà rivendicate dai popoli moderni e soprattutto fissa per la prima volta i limiti entro cui i cattolici possano prestarsi alle rivendicazioni dei popoli ed alle pretese dello Stato. Già alle idee esposte nel Congresso di Malines (1863) dai cattolici liberali, aveva dato una risposta riservata ed in forma privata il Sommo Pontefice Pio IX per mezzo di una lettera del cardinal Antonelli: questa precisazione non rallentava però affatto l’espansione e la minaccia del liberalismo. Una nuova condanna era richiesta dalle stesse circostanze. L’enciclica «Quanta cura» dell’8 dicembre 1864 mirabilmente assolse questo compito: furono riprovate con tanta chiarezza le idee liberali, che anche gli stessi fautori dovettero abbandonare la lotta in base all’equivoco. L’errore fu messo nella sua giusta luce, con la condanna esplicita del naturalismo; però le tendenze liberali non si spensero del tutto, e continuarono ancora qua e là nei discorsi, nei giornali, nelle riviste. Pur senza aver l’aspetto d’un sistema dottrinale, in quasi tutte le nazioni europee queste idee provocavano dissensi fra i cattolici. Leone XIII con l’enciclica «Nobilissima Gallorum gens» (1884) deplorò queste deleterie divisioni connesse con aspre polemiche e invitò i fedeli ad unirsi per la difesa degli interessi maggiori della religione. Con il medesimo spirito scrisse ai vescovi spagnoli («Cum multa sint», 1884) perché la questione religiosa non si confondesse con le competizioni dinastiche fra carlisti e partigiani della costituzione. Questo appello non fu accolto benevolmente. Inoltre in Francia l’Univers non cessava di criticare le tendenze pratiche del nuovo Pontefice: in Spagna il Siglo biasimava il modo di agire del nunzio e della Santa Sede. A Roma stessa le idee di conciliazione erano attaccate. Gli articoli comparsi in Spagna e a Roma furono apertamente disapprovati dalla Santa Sede. Il cardinal Pitra però, interpellato sulla portata di questo biasimo, rispose con una difesa degli autori biasimati. Per por fine a tutte queste contese e divisioni, Papa Leone XIII intervenne con un documento dottrinale: l’enciclica «Immortale Dei» che espone i principi fondamentali regolatori dei rapporti fra lo Stato cattolico moderno e la Chiesa. Uno degli elementi unitari dello Stato è l’autorità, la quale, benché non possa provenire che da Dio (Rom. 13, 2), pur tuttavia si estrinseca in varie forme di governo, le quali, se seguono la legge della giustizia divina, non possono essere riprovate dalla Chiesa. A questa origine divina corrisponde per i popoli l’obbligo della sottomissione all’autorità legittima, senza ricorso alla rivolta (Rom. 13, 2). Quest’obbligo si fonda sulla legge naturale che sospinge l’uomo verso la società e verso la dovuta riverenza alla Maestà divina. E un obbligo di religione che non deve sentire l’individuo soltanto, ma anche l’intera società, la quale non può in nessun modo agire come se Dio non esistesse, ma deve favorire in tutti i modi la vera religione. Fra le due società, quindi, sovrane ciascuna nella propria giurisdizione, non deve regnare la lotta ma l’armonia; del resto il fine ultimo e remoto dell’una e dell’altra società perfetta coincidono: conseguire il vero bene dell’umanità. Questa concordia, legge suprema del medioevo, è stata spezzata dallo Stato ateo, dalla libertà illimitata di pensiero, di parola, di stampa e dall’eguaglianza assoluta di tutti i culti, con conseguenze deleterie sulla formazione della gioventù e dei popoli. Da questo, però, non segue che la Chiesa sia nemica del progresso e ripudi lo Stato moderno, poiché essa è stata sempre antesignana dello sviluppo d’ogni forma culturale e sociale che abbia per fine il benessere generale; solo rigetta le dottrine che sotto il pretesto di libertà aprono ai popoli la via d’ogni licenza e della servitù. In particolare la libertà dei culti può essere tollerata [non approvata, ndR] solo in vista d’un bene maggiore che da essa può provenire alla Chiesa. L’autorità ecclesiastica non ha mai condannato la libera discussione su problemi puramente politici. La condotta però dei cattolici in tali questioni deve essere sempre conforme alle direttive della Santa Sede e dei vescovi. In questo numero di «Sursum Corda» studieremo l’enciclica «Immortale Dei» per fornire indicazioni soprattutto a quei soggetti che desiderano impegnarsi in politica: conservando la fede cattolica. Questa introduzione è tratta dall’«Enciclopedia Cattolica», Vaticano, Imprimatur 1951, Vol. VI, Colonne 1681 e 1682.
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Stimati Associati e gentili Lettori, cerchiamo di capire cosa significa «Libertà». Usiamo innanzitutto la «Breve apologia per giovani studenti, contro gli increduli dei nostri giorni» del prof. Giuseppe Ballerini, Parte I, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, Imprimatur 1912, dalla pagina 310 a seguire. Successivamente studieremo l’Enciclica «Libertas» del Sommo Pontefice Leone XIII. Abbiamo definito il progresso un movimento dell’essere al fine. Nella vita è progresso lo sviluppo del vivente che tende a compirsi ed ingrandire; nell’intelligenza è progresso l’incedere libero della mente verso la verità; nella volontà è progresso la tendenza della medesima verso il bene. Ora è noto che negli esseri irragionevoli questo movimento avviene in modo necessario, nei ragionevoli in modo libero. Il progresso umano si potrebbe quindi definire: il libero movimento dell’uomo verso il suo fine. Muoversi liberamente verso il proprio fine, non vuol dire operare senza nessuna legge; come portarsi liberamente ad un luogo, non vuol dire non tenere la via che adesso conduce. L’uomo è libero, ma è ragionevole; anzi è libero perché ragionevole: e ciò significa che nelle sue particolari azioni deve regolarsi non con l’istinto, come il bruto, ma colla ragione che gli addita le norme per giungere al bene e fuggire il male. L’eterno equivoco dei nostri avversari sta nel confondere la libertà fisica o naturale, che consiste nel dominio sui nostri atti, con la libertà morale, che consiste nella esenzione da ogni legge. Sì: l’uomo è fisicamente libero nel suo operare, in quanto la sua volontà non è costretta o determinata ai suoi atti da nessuna fisica coazione interna od esterna; ma egli è moralmente necessitato, se vuol raggiungere il bene che appetisce, di tenersi alla via che ad esso conduce, e quindi agire in conformità alle leggi morali, divine, umane. Dunque essere libero non vuol dire essere indipendente, cioè non obbligato ai doveri morali, religiosi, civili: vuol dire soltanto che la volontà nel compiere questi doveri non è fisicamente necessitata o determinata da nessuno. Quando perciò si accusa la Chiesa di essere nemica della libertà, in qual senso i nostri avversari pigliano questa parola? Intendono essi parlare della libertà fisica o naturale? Allora sono per lo meno ridicoli; poiché di questa libertà la Chiesa fu sempre la più grande banditrice e datrice, come lo è anche oggidì contro le pretese dei deterministi. — Dunque, perché l’accusa abbia valore, bisogna intenderla nel senso che la Chiesa avversa quella libertà che importa esenzione da ogni legge morale. Ma allora non è solamente la Chiesa nemica della libertà, ma la stessa società civile, lo stato, la famiglia, ogni autorità insomma che esista sulla terra. Poiché la libertà morale, in quanto dice esenzione da ogni legge, dice abolizione di ogni autorità, e, per conseguenza, distruzione di ogni ordine sociale, anarchia la più completa ed assoluta. E questa è davvero la libertà che la Chiesa riprova e condanna, come quella che è la libertà dell’errore e della perdizione. «Dove in filosofia mirano i naturalisti e i razionalisti, là riescono nelle cose morali e civili i partigiani del liberalismo, poiché applicano ai costumi ed alla vita i principii posti da quelli. Infatti principio capitale del razionalismo egli è la sovranità dell’umana ragione, che ricusando la debita obbedienza alla ragione divina ed eterna, e proclamandosi indipendente, si fa a se medesima principio supremo e fonte e criterio della verità. Ora allo stesso modo i seguaci del liberalismo pretendono nella vita pratica non esservi potere divino, cui debba ubbidirsi, ma ognuno essere legge a se stesso; d’onde nasce quella filosofia morale, che chiamano indipendente, e che sottraendo sotto colore di libertà la volontà umana dall’osservanza dei divini precetti, suole dare agli uomini una licenza sconfinata. Le quali cose tutte dove infine riescano, segnatamente nell’ordine sociale, è facile vedere [i danni]». Così Leone XIII nell’Enciclica su «La libertà». Che dire pertanto delle pretese libertà moderne? Leone XIII nella sua celebre Enciclica su «La libertà» afferma: «Ciò che in esse vi ha di buono, è tanto antico quanto la verità, e la Chiesa senza la minima ripugnanza lo ebbe ognora approvato e messo in pratica; quello al contrario che vi si aggiunge di nuovo, a dir vero, è la parte loro più triste, frutto di tempi torbidi e di eccessiva brama di novità». E basterebbe osservare come la proclamazione che di queste libertà moderne ha fatto la rivoluzione francese col famoso trisagio — libertà, eguaglianza, fraternità — non è che la laicizzazione dell’idea cristiana.
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Stimati Associati e gentili Lettori, fra gioie e dolori, l’anno del Signore 2016 si è concluso. Abbiamo sopportato l’oltraggio nel nome di Gesù Cristo, con «dolore nel quale versiamo a causa della guerra crudele e sacrilega mossa, in questi tempi terribili, contro la Chiesa cattolica in quasi tutte le regioni della terra», afferma Pio IX, il Papa e Re, nella Quanto conficiamur moerore. Ci diano coraggio ed ardimento, alimentando la nostra fede soprannaturale di cui ci è fatta grazia dall’Altissimo, le sapienti lettere del grande Pontefice san Leone: «Quantunque condivida con tutto il mio cuore le afflizioni che avete sopportato per la difesa della fede cattolica e consideri ciò che avete sofferto non altrimenti che se io stesso avessi patito, tuttavia sento che vi è più motivo di gaudio che di lamento nel fatto che Voi, confortandovi in Nostro Signore Gesù Cristo, siate rimasti invincibili nella dottrina evangelica ed apostolica e che, cacciati dalle vostre Chiese ad opera dei nemici della fede cristiana, abbiate preferito soffrire i dolori dell’esilio piuttosto che insudiciarvi al contatto con la loro empietà» (Epist. 154 ad Episcopos Aegyptios, Edit. Baller). Viviamo l’infelice epoca della «corruzione dei costumi [...] che si propaga in ogni parte, continuamente alimentata da scritti empi, infami, osceni, da rappresentazioni teatrali, da postriboli aperti pressoché ovunque e da altri perversi artifici; gli errori più mostruosi ed orribili disseminati ovunque; il crescente e abominevole straripare di tutti i vizi e di tutte le scelleratezze» (Pio IX, Op. cit.). Le solenni denuncie del Sommo Pontefice, era il 10 Agosto 1863, quando i potentati massonici di tutto il mondo, coordinati in segreti consessi diabolici, depredavano affannosamente la Chiesa di Dio di anime e di beni, oggi sono più attuali che mai. Il movimento modernista, discendente naturale di queste spelonche di turpi satanassi, che occupa quasi tutte le nostre chiese con le sue prave dottrine e la sua infame immoralità, oggi più che mai sparge quasi indisturbato - e protetto talvolta dalle polizie al soldo della Setta - «il mortale veleno dell’incredulità e dell’indifferentismo [...]; la noncuranza ed il disprezzo [...] per le cose e le leggi sacre; l’ingiusto e violento saccheggio dei beni della Chiesa; la ferocissima e continua persecuzione contro i Ministri sacri, contro gli Alunni delle Famiglie Religiose, contro le Vergini consacrate a Dio; l’odio davvero diabolico contro Cristo, la Sua Chiesa, la Sua dottrina [....]». Infine «gli altri eccessi, pressoché innumerabili, commessi dagli accanitissimi nemici di quanto è cattolico e sui quali siamo costretti a versare quotidiane lacrime, sembrano rimandare e allontanare il tanto desiderato momento in cui sarà concesso vedere il pieno trionfo della nostra santissima religione, della giustizia e della verità» (Ivi.). Non perdiamoci d’animo, affinché questo “esilio”, affrontato grazie a Dio con santità d’animo e di opere, sia per noi speranza di salvezza. Restiamo aggrappati irriducibilmente, costi quel che costi, alla vera ed unica Chiesa di Cristo, visibilmente riconoscibile dalla sua Unità, Santità, Apostolicità e Cattolicità di dottrina, di culto e di legge (cf. Satis Cognitum, Papa Leone XIII). Asserisce Papa Pio IX: «Ancora dobbiamo ricordare e biasimare il gravissimo errore in cui sono miseramente caduti alcuni cattolici. Credono infatti che, vivendo nell’errore, lontani dalla vera fede e dall’unità cattolica, possano pervenire alla vita eterna. Ciò è radicalmente contrario alla dottrina cattolica. A Noi ed a Voi è noto che coloro che versano in una invincibile ignoranza circa la nostra santissima religione, ma che osservano con cura la legge naturale ed i suoi precetti, da Dio scolpiti nei cuori di tutti; che sono disposti ad obbedire a Dio e che conducono una vita onesta e retta, possono, con l’aiuto della luce e della grazia divina, conseguire la vita eterna. Dio infatti vede perfettamente, scruta, conosce gli spiriti, le anime, i pensieri, le abitudini di tutti e nella sua suprema bontà, nella sua infinita clemenza non permette che qualcuno soffra i castighi eterni senza essere colpevole di qualche volontario peccato. Parimenti è notissimo il dogma cattolico secondo il quale fuori dalla Chiesa Cattolica nessuno può salvarsi, [...] non può ottenere la salvezza eterna. Infatti le parole di Cristo Nostro Signore sono perfettamente chiare: Chi non ascolta la Chiesa, sia per te come un pagano o come un pubblicano (Mt. 18,17). Chi ascolta voi ascolta me; chi disprezza voi disprezza me, e chi disprezza me disprezza Colui che mi ha mandato (Lc. 10,16). Colui che non mi crederà sarà condannato (Mc. 16,16). Colui che non crede è già giudicato (Gv. 3,18). Colui che non è con me è contro di me, e colui che non accumula con me, dissipa (Lc. 11,23). Allo stesso modo l’Apostolo Paolo dice che questi uomini sono corrotti e condannati dal loro proprio giudizio (Tt. 3,11) e il Principe degli Apostoli li dice maestri mendaci che introducono sette di perdizione, rinnegano il Signore, attirano su di sé una rapida rovina (Epist. 2, c. 2, v. 1)».
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Stimati Associati e gentili Lettori, oggi festeggiamo la Solennità del Santo Natale. La Santa Chiesa celebra tre Messe. Per i testi ed i commenti useremo il «Prontuario del Predicatore», Houdry - Porra, Volume IV, Parte prima, ed. Daverio, Imprimatur 1934, dalla pagina 106 alla pagina 148. Prima Messa, Testo evangelico: «In quei giorni appunto uscì un editto di Cesare Augusto per fare il censimento di tutto l’impero. Questo primo censimento fu fatto, mentre Cirino era preside della Siria. E andavano tutti a dare il loro nome, ognuno alla sua città. Anche Giuseppe andò da Nazareth, di Galilea, alla città di David, chiamata Betlem, in Giudea, per essere lui del casato e della famiglia di David, a dare il nome, insieme con Maria a lui sposata in moglie, la quale era incinta. E avvenne che, mentre ivi si trovavano, si compì per lei il tempo del parto; e diede alla luce il figlio suo primogenito, lo fasciò e lo pose in una mangiatoia; perché non trovarono posto nell’albergo. E nello stesso paese c’erano dei pastori che pernottavano all’aperto e facevano la guardia al loro gregge. Ed ecco, apparire innanzi ad essi un angelo del Signore, e la gloria del Signore rifulse su loro, e sbigottirono per gran timore. E l’angelo disse loro : — Non temete : che eccomi a recarvi l’annunzio di grande allegrezza la quale sarà per tutto il popolo: infatti oggi v’è nato un salvatore che è Cristo Signore, nella città di David. Questo per voi è il segnale: troverete un bambino avvolto in fasce, giacente in una mangiatoia. E a un tratto si raccolse presso l’angelo una schiera della milizia celeste che lodava Dio dicendo: — Gloria negli altissimi a Dio, ed in terra pace agli uomini di buon volere» (S. Luca, II, 1-14). Il Vangelo ricorda il censimento ordinato da Cesare Augusto, censimento che fu fatto essendo preside della Siria Cirino. Per ottemperare all’editto imperiale Giuseppe e Maria si portano a Betlemme. La più nobile coppia del mondo a Betlem non trova un asilo; si rifugia in una stalla. Nella stalla nacque il Figlio di Dio. La Madre lo avvolse fra misere fasce e lo depose nella mangiatoia. Sui medesimi prati, dove un tempo l’avo del Messia, Davide ancora giovanetto, faceva pascolare la sua greggia, alcuni pastori passavano la notte vegliando l’armento. Ed ecco un Angelo si presenta ad essi, nunzio del grande fausto avvenimento. Nell’istante medesimo all’Angelo si unì una grande turba dell’esercito celeste, lodando Dio e dicendo: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli, e pace in terra agli uomini di buon volere». Seconda Messa, Testo evangelico: «Ma quando gli Angeli si furono da essi tornati nel Cielo i pastori dicevano tra loro : — Or passiamo in fino a Betlemme, a vedere questo fatto che è avvenuto, e che il Signore ci ha manifestato. — E vennero frettolosi, e trovarono Maria e Giuseppe, e il fantolino reclinato nella mangiatoia. E vedutolo riconobbero la parola, che era stata detta loro, intorno a questo fanciullo. Quanti poi ne udivano, si meravigliavano delle cose che dai pastori erano loro riferite. Maria intanto di tutte queste cose faceva tesoro, paragonandole nel suo cuore. Ed i pastori se ne tornarono, glorificando e benedicendo Dio di quanto avevano udito e veduto, secondo che era stato detto loro» (S. Luca, II, 15-20). Il Vangelo della 2a Messa continua l’argomento del Vangelo della prima Messa. Il concerto angelico, l’allegrezza angelica commossero il cuore dei pastori. Nella loro estasi decidono di correre alla grotta di Betlem. E andarono in tutta fretta a Betlemme, dove trovarono Maria, Giuseppe, e Gesù. Quivi si manifestò in tutta la sua forza la fede ardente dei pastori. Essi non videro che un Bambino, senza alcun che di celeste, avvolto in cose terrene, le più miserabili. E malgrado tutto credettero e adorarono. Terza Messa. Testo evangelico: «Nel principio era il Verbo, ed il Verbo era presso Dio, ed il Verbo era Dio. Questo era nel principio presso Dio. Tutto per lui fu fatto, e senza di lui nulla fu fatto di quanto è stato fatto. In lui era vita, e la vita era la luce degli uomini. E la luce splende nelle tenebre, e le tenebre non l’hanno compresa. Fuvvi un uomo mandato da Dio il cui nome era Giovanni. Questi venne per testimonianza, a fine di testimoniare della luce, perché tutti credessero per lui. Egli non era la luce, ma venne per rendere testimonianza alla luce. Questa era la luce verace, la quale illumina ogni uomo, che viene nel mondo. Era nel mondo, ed il mondo per esso fu fatto; ma il mondo non lo conobbe. Venne nella propria casa, ed i suoi noi ricevettero. Ma a quanti lo ricevettero, credenti nel nome di Lui, diede facoltà di divenire figliuoli di Dio; i quali non da sangue, né da volontà di carne, né da volontà di uomo, ma da Dio sono generati, ed il Verbo si è fatto carne, e ha fra noi abitato; e noi abbiamo contemplato la sua gloria; gloria, come di unigenito del Padre, pieno di grazia e di verità» (S. Giovanni, I, 1-14).
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Stimati Associati e gentili Lettori, oggi termineremo lo studio della «Providentissimus Deus» di Papa Leone XIII. Stiamo dimostrando che noi cattolici crediamo nel Vangelo perché ce lo dice la Chiesa (cf. «Contro Mani ...», sant’Agostino), non altri. Privi, difatti, della guida infallibile della Chiesa, noi non sapremmo affatto discernere un falso da un vero Scritto ispirato (cf. «Denzinger», 2009, numeri 202, 213, 354, 1504, 1863, 2538, 3006, 3029). Ma questo non basta. Noi crediamo in quella vera, unanime ed immutabile interpretazione di fede della Scrittura che ci è data dalla Chiesa, per conseguenza noi rigettiamo l’interpretazione soggettiva o personale della sacra Scrittura, laddove questa si discosti o si contrapponga a quella vera e santa della Chiesa. Tanto abbiamo già attestato a riguardo, cosicché solo ignoranti, insalubri o reprobi osano opporsi a tali evidenze, tuttavia cerchiamo ancora, per benevolenza e misericordia, di dimostrarlo usando delle sentenze specifiche. Da tali documenti si evince che bisogna pure rigettare tutte quelle false esegesi che, pur provenendo da alcuni uomini nominalmente di Chiesa, superbamente pretendono di contraddire e di opporsi a ciò che si è sempre compreso, insegnato e creduto. Sinodo di Roma, Papa Agatone, 27 marzo 680: «[Noi] crediamo […] professiamo […] riconosciamo [tale dottrina…] giacché ci viene mostrato che la tradizione apostolica ed evangelica ed il Magistero dei santi Padri, che la Chiesa santa, apostolica e cattolica ed i venerabili Sinodi hanno accolto, hanno ciò fissato» («Omnium bonorum spes»; cf. «Denzinger», 2009, numeri 546 - 548). Sedicesimo Sinodo di Toledo, Papa Sergio I, 693: «La santa Chiesa cattolica […] ha questa fede [… si enuncia la dottrina] [e tutti coloro che non la accolgono] e non avranno creduto senza macchia di dubbio tutte le asserzioni che il Concilio di Nicea […], l’Adunanza di Costantinopoli […] e l’autorità del primo Concilio di Efeso decise di accettare e che la volontà unanime dei santi Padri a Calcedonia o degli altri Concilii o anche di tutti i venerandi Padri, che vissero giustamente nella santa fede, prescrivono di osservare, saranno puniti con la condanna alla dannazione eterna e alla fine del tempo verranno bruciati con il diavolo ed i suoi soci in roghi vomitanti fiamme» («L’eccellenza e la necessità della Chiesa di Cristo», cf. «Denzinger», 2009, numeri 568 - 575). Sinodo di Roma, Papa Niccolò I, 862: «Si deve credere veracemente e professare in ogni modo [… questa dottrina] come insegna l’Autorità apostolica e mostra in maniera eminentissima la dottrina dei santi Padri. Coloro poi che affermano [… il contrario] siano colpiti dall’anatema» (cf. «Denzinger», 2009, numeri 635 - 636). Papa Gregorio IX, «Ab Aegyptiis argentea» ai teologi di Parigi, 7 luglio 1228: «Anche l’intelletto teologico è in grado quasi come uomo di presiedere a qualsivoglia facoltà, e quasi come spirito di esercitare il dominio sulla carne e di dirigerla sulla via delle rettitudine, affinché non se ne allontani. […]. In verità Noi, colpiti da dolore nell’intimo del cuore [cf. Gn. 6,6], siamo ricolmi dell’amarezza dell’assenzio [cf. Lam. 3,15], perché [...] alcuni di voi […] spinti dalla profana novità si danno da fare per travalicare “i confini posti dai Padri” [cf. Pro. 22,28], e infatti, la comprensione della Celeste Pagina, delimitata per le cure premurose dei santi Padri, coi sicuri confini delle loro interpretazioni, la trasgressione dei quali non solo è cosa temeraria, ma profana, essi piegano alla disciplina filosofica delle realtà naturali, per fare ostentazione di scienza e non per un qualche pregresso degli ascoltatori, e così si rivelano non esperti di Dio o teologi, ma diffamatori di Dio» (cf. «Denzinger», 2009, numero 824). Concilio di Lione II, Papa Gregorio X, 18 maggio 1274: «Con fedele e devota professione, confessiamo [... si enuncia la dottrina]. Questo ha ritenuto finora, ha predicato e insegnato, questo crede fermamente, predica, confessa e insegna la sacrosanta Chiesa romana, madre e maestra di tutti i fedeli. Questa è l’immutabile e vera dottrina dei Padri e Dottori ortodossi [ovvero integralmente cattolici, ndR], sia latini che greci. Ma poiché alcuni, ignorando l’irrecusabile verità ora accennata, sono caduti in vari errori, noi, desiderosi di precludere la via a questi errori, con il consenso del santo Concilio, condanniamo e riproviamo tutti quelli che osano negare […]» («Il Procedere dello Spirito Santo», cf. «Denzinger», 2009, numero 850).
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Stimati Associati e gentili Lettori, anche in questo numero del nostro settimanale SC parleremo di «esegesi» e di Sacra Scrittura. Fino al Santo Natale resteremo su questa materia. Impareremo dei punti di dottrina fondamentali da credere e da tenere, per onorare Dio e guadagnare meriti presso di Lui (che si guadagnano in stato di grazia - cf. «Catechismo Maggiore» numeri 526 - 546), anche contrastando adeguatamente coloro che, «mostrando zelo per la Religione, mettendo avanti un [finto] modello di pietà, fanno passare le novità, preparano le riforme, fingono la rinascita della Chiesa. [...] E mentre vergognosamente si perdono nei loro pensieri, mettono insieme, tra loro, errori che sono stati [già] condannati dalla Chiesa» («Quo Graviora», Gregorio XVI). La scorsa settimana abbiamo introdotto, citando puntualmente molti santi punti di dottrina, il «principio di convergenza dei Padri». Possiamo riassumerlo utilizzando il «Decreto sull’edizione Vulgata della Bibbia e sul modo di interpretare la Sacra Scrittura», Concilio di Tento, in vol. «Denzinger», ed. 2009, numeri 1506 - 1508. Facciamo tesoro di queste parole, regnante è Papa Paolo III: «Lo stesso sacrosanto Sinodo [di Trento], considerando che non sarà di poca utilità per la Chiesa di Dio sapere chiaramente fra tutte le edizioni latine in circolazione quale è l’edizione autentica dei libri sacri, stabilisce e dichiara che l’antica edizione della Volgata, approvata dalla stessa Chiesa da un uso secolare, deve essere ritenuta come autentica nelle lezioni pubbliche, nelle dispute, nella predicazione e spiegazione e che nessuno, per nessuna ragione, può avere l’audacia o la presunzione di respingerla [cf. Denzinger, 3825]. Inoltre, per frenare certi spiriti indocili, stabilisce che nessuno, fidandosi del proprio giudizio, nelle materie di fede e morale, che fanno parte del corpo della dottrina cristiana, deve osare distorcere la sacra Scrittura secondo il proprio modo di pensare, contrariamente al senso che ha dato e dà la santa madre Chiesa, alla quale compete giudicare del vero senso e dell’interpretazione delle sacre Scritture; né deve andare contro l’unanime consenso dei Padri, anche se questo genere di interpretazioni non dovesse essere mai pubblicato. [...] Ma volendo, com’è giusto, imporre una norma su questo punto agli editori, [... il Concilio] stabilisce che, d’ora in poi l’antica edizione della Scrittura detta Volgata sia stampata secondo la versione più corretta; inoltre nessuno potrà stampare né far stampare libri di argomento sacro senza il nome dell’autore, né in futuro venderli o anche solo tenerli presso di sé, senza l’esame e l’approvazione preliminare dell’ordinario [...]». Ed ancora quanto chiaramente attesta la nostra «Professione di fede» stabilita da Papa Pio IV sulla base del Concilio di Trento: «Io N.… con fede sicura credo e professo tutto e singolarmente quanto è contenuto nel simbolo di fede di cui fa uso la santa romana Chiesa, cioè: [...] Fermissimamente ammetto ed accetto le tradizioni ecclesiastiche e le altre osservanze e costituzioni della stessa Chiesa. Ammetto pure la sacra Scrittura secondo l’interpretazione che ne ha dato e ne dà la santa madre Chiesa, alla quale compete giudicare del senso genuino e dell’interpretazione delle sacre Scritture, né mai l’intenderò e l’interpreterò se non secondo l’unanime consenso dei Padri [...]». Questa è la nostra fede a riguardo, tuttavia oggigiorno le «guide cieche», di cui parla il Signore (cf. S. Mt. XV, 14), pullulanti ed imbastardite mai come prima, senza «uscire dalla cerchia della Chiesa» e «per poter cangiare a poco a poco la coscienza collettiva», essi, «i modernisti non esitano punto nell’affermare che quei libri [della sacra Volgata], e specialmente il Pentateuco ed i tre primi Vangeli, da una breve narrazione primitiva, son venuti man mano crescendo per aggiunte o interpolazioni, sia a maniera di interpretazioni o teologiche o allegoriche, sia a modo di transizioni che unissero fra sé le parti. A dir più breve e più chiaro vogliono che debba ammettersi la evoluzione vitale dei Libri sacri, nata dalla evoluzione della fede e ad essa corrispondente. [...] Così non pochi restano ingannati che forse, se meglio vedessero le cose, ne sarebbero inorriditi. Da questo prepotente imporsi dei fuorviati, da questo incauto assentimento di animi leggeri nasce poi un [...] corrompimento di atmosfera che tutto penetra e diffonde per tutto il contagio [...]» («Pascendi Dominici Gregis», san Pio X).
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Stimati Associati e gentili Lettori, oggi parliamo di «esegesi». Secondo il «Dizionario di teologia dommatica», Piolanti, Parente, Garofalo, Studium, Roma, Imprimatur 1952, pagina 117: «L’esegesi è l’arte di trovare e proporre il vero senso di un testo e, nel campo teologico, di un testo della Sacra Scrittura. L’esegesi è arte in quanto applica le norme di ordine razionale e di ordine teologico che la scienza ermeneutica stabilisce. Il processo di interpretazione di un testo biblico passa dalla fissazione del testo stesso mediante i principi della critica testuale e, per mezzo delle regole dettate dall’ermeneutica, né dà la esatta esegesi, ricorrendo eventualmente alla critica letteraria per accertare il genere letterario del libro in cui è contenuto il testo in esame ed alla critica storica per ambientarlo nel suo tempo. Scopo supremo dell’esegesi è far brillare attraverso le parole umane la pienezza della luce e del pensiero divino». Di questa definizione prettamente accademica ci faccia riflettere particolarmente la conclusione degli autori: «Scopo supremo dell’esegesi è far brillare attraverso le parole umane la pienezza della luce e del pensiero divino». A cosa serve, pertanto, l’esegesi? A far brillare la pienezza della luce e del pensiero divino. L’esegesi di coloro i quali pretendono di dare lustro alle proprie opinioni, oscurando il pensiero divino, è, in realtà, una falsificazione tipicamente protestante o moderna. Impareremo il perché. La Chiesa comanda di leggere la Scrittura attraverso la sapienza del Magistero (cf. «Denzinger», numeri 325, 3792s, 3826, 3828, 3888s, ecc…). Definisce solennemente che «l’estensione dell’ispirazione (divina) si estende a tutti i Libri riconosciuti dalla Chiesa con tutte le loro parti» (Op. cit., numeri 1504, 3006, 3029). Poiché «il Canone, comprese le Lettere di san Paolo, fu stabilito dalla Chiesa» (Op. cit., numeri 179s, 186, 213, 1335, 1520s) e «questo Canone deve essere riconosciuto esclusivamente e con tutte le sue parti» (Op. cit., numeri 202, 213, 354, 1504, 1863, 2538, 3006, 3029). Senza l’intervento della Chiesa docente è impossibile riuscire a «decifrare l’ispirazione» e quindi anche a «comprendere correttamente la Scrittura», tanto che il dotto Sant’Agostino scrive ai Manichei: «Non crederei al Vangelo se non mi ci inducesse l’autorità della Chiesa cattolica»(Contra ep. man., 5, 6; cf. Contra Faustum, 28, 2); ai Donatisti ricorda «l’universalità» e «l’antichità» della «Tradizione apostolica» (De bapt., 4, 24, 31); ai Pelagiani insegna che «deve ritenersi per vero ciò che la Tradizione ha tramandato» (Contra Iul., 6, 5, 11), poiché i Padri «hanno insegnato alla Chiesa ciò che hanno imparato nella Chiesa» (Opus imp. c. Iul., 1, 117; cf. Contra Iul., 2, 10, 34), dimostrato che fuori dalla Chiesa non si imparano le cose sante. Contro gli oppositori, si può presentare anche l’inoppugnabile verità storica. Purtroppo, oggigiorno, molti «[…] modernisti sostengono e quasi compendiano in sé molteplici personaggi: quelli cioè di filosofo, di credente, di teologo, di storico, di critico, di apologista, di riformatore […]» («Pascendi Dominici gregis», san Pio X). Dunque, anche nelle loro esegesi, evidentemente violentano il pensiero divino, magnificando le loro falsificazioni. Di essi ci avverte il Signore: «Sinite illos: caeci sunt, duces caecorum. Caecus autem si caeco ducatum praestet, ambo in foveam cadent» (s. Mt., XV, 14). Afferma Papa Pio XII: «Reca dispiacere il fatto che non pochi di essi (autori moderni o novatori), [...] quanto più volentieri innalzano l’autorità di Dio Rivelatore, tanto più aspramente disprezzano il Magistero della Chiesa, istituito da Cristo Signore per custodire e interpretare le verità rivelate da Dio. […] E perciò taluni, più audaci, sostengono che ciò possa, anzi debba farsi, perché i misteri della fede, essi affermano, non possono mai esprimersi con concetti adeguatamente veri, ma solo con concetti approssimativi e sempre mutevoli» (Humani generis). Proviamo a ragionare con logica semplicità usando il pensiero del Pontefice. La Chiesa, attraverso la sua esegesi, NON attraverso quella di terzi, fa brillare e ci comunica la pienezza della luce e del pensiero divino. Il pensiero divino è immutabile ed esclude l’errore (difatti "è luce"), dunque è inammissibile e falsa l’esegesi che pretenda di far cadere Dio in contraddizione sui medesimi argomenti. Il principio di non contraddizione è proprio del pensiero di Dio, dunque della Chiesa, cosicché Papa Pio XII conclude contro questi moderni “sapientoni”: «I Pontefici infatti – essi vanno dicendo – non intendono dare un giudizio sulle questioni che sono oggetto di disputa tra i teologi; è quindi necessario ritornare alle fonti primitive, e con gli scritti degli antichi si devono spiegare le costituzioni e i decreti del Magistero. Queste affermazioni vengono fatte forse con eleganza di stile; però esse non mancano di falsità. Infatti è vero che generalmente i Pontefici lasciano liberi i teologi in quelle questioni che, in vario senso, sono soggette a discussioni fra i dotti di miglior fama; però la storia insegna che parecchie questioni, che prima erano oggetto di libera disputa, in seguito non potevano più essere discusse».
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Stimati Associati e gentili Lettori, oggi parliamo di «Infallibilità» della Chiesa e del Romano Pontefice. Per iniziare studieremo l’«Enciclopedia Cattolica», Vaticano, 1951, coll. 1920 ss., alla voce Infallibilità, successivamente altri testi utili, infine il dogma enunciato nella «Pastor Æternus» del 18 luglio 1870, da Papa Pio IX in Concilio Vaticano. Al bisogno potete approfondire sui punti di «Denzinger» qui suggeriti. L’infallibilità è quella prerogativa soprannaturale, per cui la Chiesa ed il Papa non possono errare nel professare e definire la dottrina rivelata, per una speciale assistenza divina. L’infallibilità non esclude soltanto l’errore di fatto, ma anche di diritto, eliminando ogni possibilità di deviazione nel campo dottrinale. L’infallibilità della Chiesa differisce da quella di Dio, dalla quale deriva per partecipazione; non implica né manifestazione di nuove verità, né impulso soprannaturale a scrivere, ma un’assistenza divina (attribuita allo Spirito Santo) che dirige tutto l’insegnamento ecclesiastico con interventi negativi e positivi, impedendo la formulazione definitiva di falsi giudizi e indirizzando le menti del corpo docente alla retta comprensione e rielaborazione del dato rivelato. Attraverso questa assistenza è garantita pure l’infallibilità del credente, che aderisce (integralmente, ndR) alla dottrina proposta alla sua fede da un Magistero infallibile. L’assistenza divina non esclude i mezzi umani di ricerca della verità rivelata e dei suoi sviluppi, ma li suppone, li promuove e li preserva da deviazioni nel loro risultato finale. L’infallibilità non è, dunque, l’onniscienza, l’impeccabilità, la taumaturgia abituale del Papa, né l’unione ipostatica di tutti i vescovi con lo Spirito Santo, come non raramente viene presentata dai protestanti. L’infallibilità della Chiesa, in genere, non è mai stata formalmente definita come dogma, ma deve indubbiamente ammettersi quale verità rivelata proposta dal Magistero ordinario e universale; è supposta dal Concilio Vaticano nella definizione dell’infallibilità del Papa (Costituzione dogmatica Pastor Æternus, cap. 4; Denz-U, 1839; Denzinger ed. 2009, 3073-3074, ndR); può stabilirsi, con tutta certezza, dall’esame dei testi neotestamentari e dalla primitiva tradizione. 1) La Chiesa, nel Nuovo Testamento, appare investita della stessa missione e dello stesso potere di Cristo. Ora la missione ed il potere di Cristo ebbero per oggetto la predicazione della dottrina ricevuta dal Padre: cf. Mt. 18, 18; 28, 18-20; Mc. 16, 15-16. 20; Lc. 10, 16; Rom. 1, 5; I Cor. 1, 17; II Cor. 5, 20; 10, 4; I Tim. 1, 19; I Io. 2, 24; II Io. 1, 10. 2) I testi della solenne investitura dei poteri di Cristo agli Apostoli (Mt. 28, 18-20 e Mc. 16, 15-16), oltre la missione generale d’insegnare con il compito di «far discepoli», promettono un’assistenza efficace, i cui limiti di tempo sono gli stessi della durata del mondo presente. «Io sono con voi» è, nell’uso biblico, assicurazione divina di buon esito della missione affidata da Dio ai suoi messi, missione che nei testi citati è conservazione ed insegnamento orale del Vangelo. 3) Gesù Cristo minaccia la dannazione eterna a chi non crederà alla predicazione apostolica (Mc. 16, 16); minaccia assurda se il Magistero della Chiesa potesse concepirsi in disarmonia con la dottrina del Maestro. 4) Gesù indicò anche la causa soprannaturale dell’infallibilità additandola nello spirito di verità, che, posseduto e operante, assisterà gli Apostoli, come suoi testimoni ed interpreti della sua dottrina, illuminandoli, santificandoli con ogni verità, facendoli una cosa sola con Lui e con il Padre (Lc. 24, 48-49; Io. 14, 16 segg. 26; 15, 26; 16, 7-14; 17, 17; Act. 1, 8 e 2, 4). 5) Gli Apostoli, d’altronde, appaiono pienamente consapevoli della loro infallibilità (Act. 5, 32; 15, 28) e trasmettono i loro poteri ai successori (I Tim. 4, 11-16; II Tim. 2, 2; Tit. 1, 5) secondo una legge di successione chiaramente attestata da san Clemente Romano (Cor. 44, 1) e contemplata già nelle promesse di Gesù. 6) I Padri più vicini agli Apostoli riecheggiano lo stesso insegnamento. Per sant’Ignazio d’Antiochia i vescovi sono la dottrina stessa di Cristo, come questi è la dottrina del Padre; ad essa devono unirsi i fedeli (Ephes., 3, 2; cf. Philadelp., 3, 2). Per sant’Ireneo la dottrina apostolica, pervenuta mediante la successione dei vescovi, è il criterio per discernere la verità dall’eresia (Adv. haer., 1, 10, 1; 3, 3, 1; 3, 4, 1). Ma il Collegio episcopale, erede dei poteri del Collegio apostolico, infallibile sia nelle solenni definizioni dei Concili, sia nel Magistero ordinario e universale, esplica la sua missione di insegnamento soltanto in subordinazione al suo capo, secondo la divina istituzione del primato, che racchiude, perciò, nella sua stessa natura, l’infallibilità, attributo inseparabile dal Magistero universale (sia esso ordinario o straordinario, ndR). Il Papa è anzi l’unico soggetto immediato o diretto, o la fonte, rispetto alla Chiesa, dell’infallibilità, secondo la speculazione teologica oggi prevalente, insinuata anche da un testo della Mystici corporis (AAS, 35 [1943], p. 216), e già formulata così dal teologo passionista Giacomo del S. Cuor di Maria: «Il Papa non è infallibile da sé, ma da lui, Gesù; nondimeno il Papa è infallibile per sé come per sé è infallibile Gesù Cristo. Laddove la Chiesa non è infallibile né da sé, né per sé ma da Cristo per il Papa».
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Stimati Associati e gentili Lettori, oggi parliamo di «Tradizione», parola che, nella storia, è stata ed è davvero abusata da ogni sorta di setta eretica e scismatica, ed anche da alcuni che si dicono cattolici. Facciamo alcuni esempi: — I sedicenti “Ortodossi” affermano: è Tradizione ritenere che il Pontefice abbia solo un primato di onore e non di giurisdizione; — I “Protestanti” sostengono: è Tradizione che ogni uomo possa passare al setaccio e giudicare la dottrina della Chiesa; — I cosiddetti “Tradizionalisti” oggi asseriscono: è Tradizione credere che lo Spirito Santo assista la Chiesa solamente nelle dichiarazioni ex Cathedra del Pontefice, non in altri casi . Ovviamente sono tutti in grandissimo errore, lo dimostreremo con semplicità. Per principiare, ci faremo aiutare dal Sac. Ferdinando Maccono e dal suo Commento dogmatico e morale al Catechismo di san Pio X. Si tratta del libro «Il Valore della Vita», Parte II, Rist. 2a, SEI, Torino, 1942, dalla pagina 255 in avanti. D. 235. Che cos’è la Tradizione? La Tradizione è l’insegnamento di Gesù Cristo e degli Apostoli, fatto a viva voce, e dalla Chiesa trasmesso fino a noi senza alterazione. Gesù Cristo insegnò la sua dottrina a viva voce, e non scrisse nulla; non comandò neppure agli Apostoli di scrivere, ma di predicare (s. Mt., 16, 1). In principio essi insegnavano a viva voce, quanto avevano imparato da Gesù; più tardi furono inspirati a scrivere per utilità degli uditori, per vantaggio dei fedeli lontani e dei posteri, che non avrebbero avuto la fortuna di sentirli; ma scrissero solo una parte degl’insegnamenti di Gesù, non tutti; quindi il complesso delle verità insegnate e dei precetti dati da Gesù Cristo, e non registrati nei libri santi, ma insegnati a viva voce dagli apostoli fino a noi, formano la tradizione che vuol dire tramandare un insegnamento di bocca in bocca. Quindi san Paolo diceva: «Ritenete la tradizione che avete appreso dalle nostre parole e dalla nostra lettera» (II Tess., 2, 14). Volete qualche verità che si sa per tradizione? Ecco, per esempio, per tradizione sappiamo che il battesimo dato dagli eretici, poste le debite condizioni, è valido; che il matrimonio è vero Sacramento; che Maria Santissima fu assunta in Cielo, ecc.; così la pratica del digiuno quaresimale si sa per tradizione che fu stabilita dagli Apostoli. Le verità ed i precetti, trasmessi a viva voce, furono poi raccolti dai dottori e scrittori ecclesiastici, inseriti nei Concilii della Chiesa, negli Atti della Santa Sede, illustrati dall’arte cristiana, ecc. La tradizione, accettata dalla Chiesa, ha lo stesso valore della Sacra Scrittura, perché vera parola di Dio; onde il Concilio Vaticano dice: «La divina rivelazione, secondo la fede della Chiesa universale dichiarata dal Santo Concilio di Trento, è contenuta nei libri santi e nelle tradizioni non iscritte» (Cost. «Dei Filius», cap. II), cioè, non scritte nei libri divinamente inspirati. Nella seconda parte di questo numero di Sursum Corda riporteremo e studieremo interamente la Costituzione «Dei Filius». Riprendiamo dal Maccono. Queste verità furono, come si è detto, dai Padri e Dottori della Chiesa inserite nelle loro opere, o in altri documenti storici; e quindi, oltre la tradizione orale, abbiamo anche la tradizione scritta. Fonti principali della tradizione sono: — 1° I Concilii della Chiesa ; — 2° i libri liturgici ; — 3° gli Atti dei Martiri ; — 4° le iscrizioni sulle tombe e sui monumenti ; — 5° le preghiere pubbliche ; — 6° la Storia Ecclesiastica ; — 7° le opere dei Padri e dei Dottori della Chiesa e degli Scrittori ecclesiastici. Il titolo di Padri si dà agli Scrittori dei primi secoli, fino a san Bernardo (secolo XII), i quali rifulsero per santità e dottrina; quello di Dottore si dà tanto ai Padri quanto ad altri la cui dottrina è approvata dalla Chiesa e generalmente seguita; quello di Scrittori ecclesiastici si dà a coloro che scrissero la Storia della Chiesa. D. 236. Chi può con autorità farci conoscere interamente e nel vero senso le verità contenute nella Scrittura e nella Tradizione? La Chiesa sola può con autorità farci conoscere interamente e nel vero senso le verità contenute nella Scrittura e nella Tradizione, perché a lei sola Dio affidò il deposito della Fede e mandò lo Spirito Santo che continuamente l’assiste, affinché non erri. I Libri inspirati e la Tradizione mi manifestano ciò che Dio vuole che io creda e pratichi; ma come faccio io a sapere quali e quanti sono i Libri veramente inspirati, e quali affermazioni della Tradizione accettare o rigettare? Di più: quando il senso dei Libri inspirati è oscuro e controverso, ammesso dagli uni e negato da altri, come faccio io ad averne la retta interpretazione? Ecco quindi la necessità d’un’autorità competente, ed immune da ogni errore, la quale mi certifichi dei libri inspirati e del vero senso in essi contenuto, e delle verità tramandate dalla Tradizione. Ora tale autorità non può avere, come pretendono i protestanti, né un certo buon senso naturale, né un certo buon gusto spirituale, cose variabili secondo gl’individui e fallaci; né il consenso dei più studiosi e dotti, perché fallibile; né l’interna individuale inspirazione dello Spirito Santo, di cui non solo non ci consta, ma anzi vediamo che i protestanti, i quali l’affermano, andare d’accordo come le campane rotte, e gli uni affermare quanto altri negano. Se fossero inspirati, sarebbero tutti d’accordo, perché lo Spirito Santo è spirito di verità e non di contraddizione.
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Stimati Associati e gentili Lettori, dalla scorsa settimana abbiamo iniziato a riportare ed a studiare alcuni punti del decreto Lamentabili Sane Exitu. Come già facemmo per il Sillabo, proseguiremo settimanalmente fino al termine anche di questo importante documento. Oggi ci occupiamo, per meglio comprendere il valore del Lamentabili e del Sillabo, soprattutto del Divino Magistero della Chiesa, partendo dal Capitolo I del libro di Commento al Decreto Lamentabili ..., Editori Pontifici, Roma, 1914, scritto da Mons. Francesco Heiner ed introdotto dal Card. Merry Del Val (a nome del Sovrano Pontefice, san Pio X). Prima di entrare nel vivo della questione urge tuttavia parlare nuovamente di Dio e dei Suoi castighi. La questione è tornata improvvisamente di moda visto che alcuni cosiddetti “credenti” continuano a negare che Dio possa castigare, tanto che con il nostro Centro Studi Vincenzo Ludovico Gotti abbiamo già diffuso sul web la Breve ricerca sui castighi per i trasgressori della legge divina. Cercheremo di sintetizzarla in questo Comunicato numero 34. Papa Benedetto XV nel Discorso ai Predicatori (19.2.1917) insegna: «Lo spirito del cristiano consiste nel riconoscere Iddio come nostro Padrone assoluto e come nostro Sovrano Legislatore. […] Tutto ciò che accade nel mondo dev’essere spiegato alla luce della fede. […] Questo ammirabile lume […] ci fa comprendere che le private sventure sono meritati castighi, o almeno esercizio di virtù per gli individui, e che i pubblici flagelli sono espiazione delle colpe onde le pubbliche autorità e le nazioni si sono allontanate da Dio». La sola menzionata dichiarazione pontificia, che evidentemente poggia già sull’interpretazione infallibile della Scrittura da parte della legittima Autorità, stanti i dogmi enunciati p. es. nella Pastor Aeternus (18.07.1870) e nella Providentissimus Deus (18.11.1893), ci obbliga a credere che Dio sia anche castigatore. Vediamo, ora, il nesso fra il castigo di Dio ed i terremoti. Papa Pio IX nella Cum Nuper (20.2.1858) parla di «[…] acerbissimo dolore […], allorché abbiamo avuto notizia che nello scorso mese di dicembre molte città di codesto Regno furono talmente sconquassate da grandi terremoti che molte persone, travolte dalle rovine di edifici cadenti, in modo miserando hanno perso la vita». Stando all’insegnamento della Prima Cattedra, la spiegazione al cataclisma è la seguente: «[…] Vi sono noti i passi della Sacra Scrittura, che chiaramente e palesemente insegnano che tali castighi di Dio sono provocati dalle colpe degli uomini». Il Pontefice non può essere accusato di falsa interpretazione della Scrittura o di menzogna, questo se si vuol rimanere cattolici (cf. Mystici Corporis, Pio XII, 29.6.1943; Pascendi Dominici Gregis, san Pio X, 8.9.1907; etc.). Più recentemente, Papa Pio XII, nella Ingruentium malorum (15.09.1951) attesta il rapporto i fra castighi di Dio e la corruzione dei bambini (es. il Gender): «Non possiamo in alcuna maniera passare sotto silenzio un nuovo misfatto […] Ci riferiamo a quella iniqua campagna che gli empi conducono a danno della candida innocenza dei fanciulli […]. Non deve destare molta meraviglia il fatto, che tanti popoli gemano sotto il peso dei divini castighi, e vivano sotto l’incubo di calamità ancora maggiori». Contro il castigo di Dio del cosiddetto femminismo, Papa Pio XII si esprime il 12.03.1953 nel Discorso alla gioventù femminile. Difatti le vere donne cristiane, ossia le non femministe: «[sono] potenti ad impetrare grazie, [sono] modelli viventi per chi vuole entrare nel regno dei cieli, esse distornano i castighi divini dalle nostre famiglie e dalle nostre città». Per conseguenza, le femministe evidentemente attirano o sono «castighi divini sulle nostre famiglie e sulle nostre città». Nel Discorso ai profughi di guerra (12.3.1944), il Pontefice imputa ai peccati degli uomini anche il castigo di Dio della guerra: «[…] Portate anche voi la vostra [croce] in penitenza ed in espiazione dei peccati vostri e altrui, che hanno provocato i giusti castighi di Dio». Ribadisce il concetto pure nel Discorso ai giuristi circa l’aiuto dei carcerati del 26.05.1957. Appurato che Dio certamente castiga permettendo (o con) guerre, pestilenze, cataclismi ed altro, vediamo se regge anche la correlazione fra castighi e “legislazione” iniqua, come p. es. il preteso riconoscimento delle “unioni civili”. In Dall’Alto (15.10.1890), Papa Leone XIII spiega che i castighi provengono anche dalla separazione “legislativa” fra Stato e Chiesa: «[...] Come nell’ordine sociale la guerra fatta alla religione riesce funestissima e sommamente micidiale all’Italia, così nell’ordine politico […] è per l’Italia sorgente di grandissimi danni. […] Vuol dire alimentare nel seno della nazione […] i germi funesti di mali e di castighi gravissimi». Già Papa Pio VI si era espresso nella Quae Causa (24.11.1792): «Ci incalzano infatti minacce ostili, e ogni giorno maggiori pericoli ci sovrastano. […] Si deve bussare senza intermissione alle porte della misericordia, fintanto che l’ira di Dio, eccitata dai nostri peccati [anche collettivi], si converta alla compassione […]. Dio infatti non vorrebbe castigarci». Papa Gregorio XVI in Mirari Vos (15.8.1832) insegna che la pretesa “libertà” di andare contro l’Ordine divino e naturale è davvero un «delirio».
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Come già preannunciato, dopo aver riproposto sul nostro settimanale il Sillabo di Papa Pio IX, numero dopo numero, diamo adesso spazio al Lamentabili Sane Exitu, voluto e promulgato da san Pio X. Scrive Mons. Francesco Heiner nel suo Commento al Decreto Lamentabili ..., Editori Pontifici, Roma, 1914, con lettera introduttiva del grande Card. Merry Del Val (a nome del Sovrano Pontefice): «Bisogna tener conto che il Decreto Lamentabili non è altro che una silloge (una raccolta, ndR) d’errori prorpii specialmente dei nostri tempi. La loro condanna da parte della Chiesa Cattolica contiene, implicitamente, quale sia la vera dottrina da credere e da seguire: quindi un commento al Decreto vale quanto dire un’esposizione formale di quello che ogni Cattolico deve professare per restare nel seno della Chiesa» (pag. IX). Ancora: «Ai giorni nostri, difatti, quello che più maggiormente importa è la cognizione di ciò che la Chiesa, nostra Madre amorosa, vuole che noi crediamo, e di ciò che essa vuole che noi rigettiamo. In mezzo a tanto dilagare di pubblicità di ogni sorta, dove sovente l’errore è insegnato sotto mentite spoglie, è cosa sommamente buona e lodevole il conoscersi dalla comune degli uomini, a qualunque ceto essi appartengano, quello che ogni fedele deve credere e quello che deve condannare. [...] Non furono affatto mire umane, che ci spinsero all’immane lavoro di una versione, tutt’altro che agevole: ma l’ideale di fare un’opera buona qualsiasi, mediante la quale gli erranti, nel caso nostro i Modernisti, conoscano i loro errori e tornino all’unità della fede. Questo stesso voto esprimiamo nella ristampa di questo libro, che dedichiamo ancora una volta al Supremo Pastore delle anime, vigile custode della fede nostra, con la preghiera che benedica noi e tutti coloro che lo leggeranno, affinché presto si avveri nella Chiesa di Cristo che fiet unum ovile et untis Pastor!». Anche il Decreto Lamentabili ed il Sillabo sono considerati dai Modernisti - i quali oggi occupano la Chiesa nelle viscere (cf. Pascendi, san Pio X) e presiedono materialmente a tutte le principali cattedre - poco meno di due documenti figli del loro tempo, dunque da rigettare e ridicolizzare. La «sintesi delle eresie» (Ivi.) dei Modernisti, come abbiamo già dimostrato, passa anche attraverso il cosiddetto storicismo, che pretende di ridurre i dogmi ad una sorta di regole temporanee, suscettibili di nuove interpretazioni in base alla sedicente evoluzione. Questo complesso di sofismi storicisti, più o meno eretici, è la negazione stessa della fede cattolica (cf. Dei Filius, Concilio Vaticano, 1869-1870). Pretesa, quella dei Modernisti, ereticissima, biasimata già da Gesù (cf. san Matteo, XXVIII, 19-20), poi dalla Chiesa sin dalla fondazione (cf. Ai Galati, I, 8-9), ed anatematizzata, sul piano dottrinale e sociale, nel Sillabo al numero 80, mediante la condanna della proposizione moderna: «Il Romano Pontefice può e deve col progresso, col liberalismo e con la moderna civiltà venire a patti e conciliazione». Difatti la religione cattolica prevede inequivocabilmente che il Romano Pontefice, ovvero colui che custodisce la fede e la tramanda inalterata (cf. Pastor Aeternus, Concilio Vaticano, 1869-1870), NON può e NON deve col progresso, col liberalismo e con la moderna civiltà venire a patti e conciliazione (coi tempi). Il Lamentabili si apre con questa dichiarazione: «Con deplorevoli frutti, l’età nostra, impaziente di freno nell’indagare le somme ragioni delle cose, non di rado segue talmente le novità, che, lasciata da parte, per così dire, l’eredità del genere umano, cade in errori gravissimi. Questi errori sono di gran lunga più pericolosi qualora si tratti della disciplina sacra, dell’interpretazione della Sacra Scrittura, dei principali misteri della Fede. È da dolersi poi grandemente che, anche fra i cattolici, si trovino non pochi scrittori i quali, trasgredendo i limiti stabiliti dai Padri e dalla Santa Chiesa stessa, sotto le apparenze di più alta intelligenza e col nome di considerazione storica, cercano un progresso dei dogmi che, in realtà, è la corruzione dei medesimi. Affinché dunque simili errori, che ogni giorno si spargono tra i fedeli, non mettano radici nelle loro anime e corrompano la sincerità della Fede, piacque al Santissimo Signore Nostro Pio per divina Provvidenza Papa X, che per questo officio della Sacra Romana ed Universale Inquisizione si notassero e si riprovassero quelli fra di essi che sono i precipui. Perciò, dopo istituito diligentissimo esame ed avuto il voto dei Reverendi Signori Consultori, gli Eminentissimi e Reverendissimi Signori Cardinali Inquisitori generali nelle cose di fede e di costumi, giudicarono che le seguenti proposizioni sono da riprovarsi e da condannarsi, come si riprovano e si condannano con questo generale Decreto». Segue l’elenco delle proposizioni diaboliche. Come abbiamo già visto, il Lamentabili fu approvato da san Pio X e fu diramato in tutto il mondo. Da adesso in avanti useremo Sursum Corda per ricordare le proposizioni da riprovare e condannare, se intendiamo conservare la fede cattolica. (A cura di CdP)
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In questo numero di Sursum Corda mediteremo le parole di Papa Pio XI nella «Quas Primas», del giorno 11 dicembre 1925. Questi insegnamenti dogmatici del Pontefice, atti anche a rendere feconde e pacifiche le nazioni per la gloria di Dio, validi a perenne memoria e che vengono sin dall’origine dei tempi, oggi sono, a torto, considerati retaggio del passato: così la società si sta dissolvendo nella più completa e mondana «follia» (cf. Epistula I ad Corinthios, II, 14). Purtroppo alcuni «usurpatori nella Chiesa» (cf. Pascendi, san Pio X), «bugiardi» ed agenti contro la volontà di Nostro Signore (cf. Epistula I Ioannis, II, 4), dunque nemici delle sentenze divine e della Prima Sede (cf. Pastor Aeternus, Pio IX), in pubblico e notorio anatema (cf. Epistula ad Galatas, I, 8-9), hanno preferito il «dannoso ecumenismo» (cf. Mortalium Animos, Pio XI), la «delirante libertà di coscienza» (cf. Mirari Vos, Gregorio XVI) o addirittura il «nocivo socialismo» (cf. Rerum Novarum, Leone XIII), alla salutare «Regalità Sociale di Cristo Re dell’universo». Insegna san Pio X nella Vehementer Nos (11 febbraio 1906): «È una tesi assolutamente falsa, un errore pericolosissimo, pensare che bisogna separare lo Stato dalla Chiesa. [...] Questa tesi è un’ovvia negazione dell’ordine soprannaturale [...]. Sconvolge pure l’ordine saggiamente stabilito da Dio nel mondo [...]. Danneggia gravemente la stessa società civile, che non può essere né prospera né duratura quando non vi è posto per la religione, regolatrice suprema e sovrana maestra allorché si tratta dei diritti e dei doveri dell’uomo». Dopo questa lettura, Dio lo voglia, credo che tutto ci sarà più chiaro e, senza alcun indugio, gli stimati Associati ed i gentili Lettori, che fossero ancora turbati o dubbiosi, ben sapranno scegliere da che parte stare: se con i «bugiardi» o con Dio e con tutti i veri cattolici (cf. Apocalypsis Ioannis II, 2-5). Citazione aggiuntiva sulla Regalità sociale di Cristo, che oggi 30.10.2016 festeggiamo: "(…) Nonostante però tante e sì solenni affermazioni della regia potestà di Cristo contenute nelle sante Scritture e nella divina liturgia, pure da oltre un secolo e mezzo mena strage nel mondo civile un’esiziale eresia, che da alcuni venne detta liberalismo, da altri laicismo. Quest’errore è multiforme, ma tutto in sostanza si riduce a negare la supremazia di Dio e della Chiesa sulla società civile e sugli stati, i quali ufficialmente si proclamano indipendenti da qualsiasi altra superiore autorità; – libera Chiesa in libero stato – quando pure non giungano a quella frenesia di statolatria, che rivendica allo stato le prerogative divine, cui, come una volta all’idolo Moloch, vuolsi oggi sacrificato ogni altro diritto, così individualmente, che familiare. – Lo stato [sarebbe] la suprema espressione dell’assoluto. – (…) Dio è il fine sovrannaturale dell’uomo. Ora, è preciso compito della società civile e di chi la presiede, di collaborare colla Chiesa e di prestarle aiuto, nel campo, s’intende, proprio dell’autorità civile, perché la Chiesa stessa possa con più facilità e sicurezza compiere, la sua divina missione di illustrare e governare le anime, stabilendo in esse il regno di Cristo. Quest'alta potestà della Chiesa Cattolica e del Romano Pontefice sugli stati e suoi loro monarchi, faceva parte, nel medio evo, del diritto internazionale dei popoli cristiani: così che più volte si videro i Papi deporre dal trono del re immeritevoli di tale ufficio, e prosciogliere anche i sudditi dal giuramento di fedeltà già loro prestato (…)" (card. Schuster, Liber Sacramentorum, vol. IX).
A cura di CdP
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Stimati Associati, abbiamo terminato la pubblicazione delle 80 proposizioni con condanne di Papa Pio IX nel Syllabus complectens praecipuos nostrae aetatis errores del 1864 (8 dicembre). Nel Sillabo (e Quanta Cura) sono di già condannati infallibilmente il panteismo, il naturalismo ed il razionalismo assoluto (§ 1 - 7); il razionalismo moderato (§ 8 - 14); l’indifferentismo ed il latitudinarismo (§ 15 - 18); il socialismo, il comunismo, le società clandestine, le società bibliche e le società clerico-liberali (IV) - Tali pestilenze sono condannate più volte e con gravissime espressioni nella Qui pluribus, nell’Allocuzione Quibus quantisque, nella Noscitis et Nobiscum, nella Singulari quadam e nella Quanto conficiamur. Sono altresì condannati gli errori intorno alla società cosiddetta «civile» nei rapporti con la Chiesa (§ 39 - 55); gli errori contro i diritti della Chiesa (§ 19 - 38); gli errori intorno all’etica naturale e cristiana (§ 56 - 64); gli errori circa il matrimonio cristiano (§ 65 - 74); gli errori intorno al principato civile del Romano Pontefice (§ 75 e 76); gli errori riguardanti il liberalismo moderno e la cosiddetta «laicità» (§ 77 - 80). Il modernista J. Ratzinger definirà il Sillabo «nulla più di una dichiarazione di guerra contro la sua generazione. [...] contro la visione scientifica e politica del mondo del liberalismo» e si farà promotore di una «sorta di controsillabo» (cf. «Principles of Catholic Theology», pag. 381). Dalla prossima settimana pubblicheremo a puntate il Decreto della Suprema Sacra Inquisizione Romana ed Universale «Lamentabili Sane Exitu», approvato da papa san Pio X il 3 luglio 1907. Il Decreto contiene una lista di 65 proposizioni ricavate dalle pubblicazioni di alcuni esponenti modernisti, con relativa condanna per tentata «corruzione dei dogmi, sotto le apparenze di una più alta intelligenza e con il nome di considerazione storica». Secondo alcuni, il Lamentabili può essere considerato il seguito del Sillabo. Il Motu Proprio «Praestantia Scripturae Sacrae» del 18 Novembre 1907, conferma espressamente le condanne inflitte dal Decreto Lamentabili e dall’Enciclica Pascendi: «Noi rinnoviamo e confermiamo, in virtù della Nostra Autorità Apostolica, tanto quel Decreto della Sacra Suprema Congregazione, quanto l’anzidetta Enciclica, aggiungendo la pena della scomunica a danno di coloro che contraddicano a questi documenti [...] Questa scomunica poi è indipendente dalle pene, nelle quali quanti mancheranno in ordine ai surriferiti documenti possano incorrere come propagatori e difensori di eresie, allorquando le proposizioni, opinioni o dottrine da essi propugnate siano eretiche; il che agli avversarii dei due citati documenti accade in non pochi casi e principalmente allorché difendono gli errori del Modernismo, sintesi di tutte le eresie».
A cura di CdP
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La prestigiosa e dimenticata Enciclopedia Cattolica dedica una voce molto corposa alla Massoneria. Intendiamo riproporla integralmente, dato che la suddetta Enciclopedia è oramai difficile da reperire, mentre la Massoneria è, al contrario, attiva oggi più che mai. Definizione: Società Segreta a carattere cosmopolita e iniziatico, sorta col fine di affratellare gli uomini di tutte le nazioni e di organizzare la società su basi esclusivamente umanitarie e laiche. Operatività. L’origine si ricollega con le antiche corporazioni dei maestri d’arte muraria, che ebbero la massima espansione ed importanza specialmente dall’XI al XIII secolo. Nella febbrile attività edilizia di quell’età si spiega come buoni architetti e buoni muratori, capomastri, lapicidi, ecc., venissero dappertutto ricercati ed allettati con privilegi, immunità e franchigie e come l’arte muraria acquistasse una sorta di internazionalità ed un primato su tutte le altre arti. I Pontefici non si mostrarono meno larghi dei Principi secolari: Bonifacio IV (1110), Niccolò III (1277) e Benedetto XII (1331), riconobbero loro il diritto di governarsi secondo i propri statuti, con esenzioni da oneri ed obbligazioni locali, di potersi trasferire di Paese in Paese liberamente, di godere di una specie di monopolio per la costruzione di fabbriche religiose di maggior importanza. Di qui l’appellativo «liberi» (franc, free) e l’attributo che, con legittimo orgoglio, le corporazioni murarie si attribuirono di arte reale. A conservare ed accrescere tale prestigio contribuì non poco la rigida osservanza delle norme stabilite negli statuti corporativi circa l’iniziazione di nuove reclute e la promozione dal grado di apprendista, con cui esse venivano ascritte all’arte, a quelli di compagno e di maestro, la solennità di cerimonie e di riti con cui venivano vestite dei simboli dell’arte, squadra, compasso, grembiule ecc..., i solenni giuramenti, l’inviolabile osservanza dei segreto professionale e dei doveri civili, religiosi e morali imposti dagli statuti. Con tale investitura, il fratello (così si nominavano i membri fra di loro), era reso partecipe di una parola d’ordine, di segni di riconoscimento, ecc., con i quali veniva ricevuto dovunque si recasse ed accolto fraternamente da compagni d’arte, provveduto e aiutato nei propri bisogni. Gli statuti corporativi erano molto esigenti quanto ai requisiti non solo professionali, ma anche personali dei membri, né permettevano l’ammissione se non a persone le quali avessero giusti natali e condotta religiosa e morale del tutto ineccepibile. Un documento francese della fine del sec. XIV, il «Poème maçonnique», in cui si ha una specie di galateo, civile e religioso, del buon libero muratore, insiste in particolar modo sulla devozione che questo deve avere verso Dio, verso i santi e verso la Chiesa. Gli stessi precetti sono inculcati in tutti gli antichi statuti corporativi che si conservano, fino alle «Constitutions of Masonry» del 1704, che sono le ultime che in Inghilterra si conoscano prima della trasformazione delle Logge da operative in speculative. L’attaccamento dei franchi muratori alla Chiesa cattolica è dimostrata in Francia dalla parte rilevante presa da essi nel movimento della «Ligue», in Inghilterra dalla tenace resistenza fatta agli sforzi di Enrico VIII (1491-1547) e della regina Elisabetta I (1533-1603) per introdurre la «Riforma» nelle Logge, in Italia dalla frequenza di altari e di cappelle erette dalle corporazioni dei «Lombardi», là dove si ritrovavano in maggior numero. Accanto alle corporazioni di mestiere, esistevano assai spesso confraternite, che il protestantesimo (dice René Le Forestière) riformò, ma che sussistono ancora, osservando il culto della fratellanza, il rispetto alla religione ufficiale e gli usi tradizionali. L’abbandono dell’architettura religiosa nei Paesi invasi dalla «Riforma protestante», nonché le dissensioni intestine che presto si incominciarono a manifestare tra maestri ed artigiani (collegati questi in segrete leghe di resistenza - compagnonnage - dai nomi strani, a riti e gergo non meno bizzarri: una sentenza del 14 marzo 1655 della Facoltà teologica della Sorbona ne dichiara empie, sacrileghe e superstiziose le pratiche e i riti), arrecò con la crisi professionale anche il decadimento delle corporazioni. Per rialzare il loro prestigio queste adottarono il sistema di ammettere membri onorari influenti appartenenti alle classi dell’alta società. Fin dal principio del secolo XVII, in Inghilterra si contano non pochi nobili tra i membri delle corporazioni ed era una moda, un gesto di squisita eleganza farsi iscrivere ad esse. A poco a poco, l’elemento intellettuale e aristocratico costituì il vero elemento direttivo, così da preparare insensibilmente la trasformazione della Massoneria da operativa in speculativa. «Tutto porta e cedere - dice Padre Bertoloot - che dal principio del sec. XVII gli elementi speculativi la vincessero su quelli operativi, sicché la sostituzione già dal principio del secolo XVIII fosse in atto in tutti i grandi paesi d’Europa». Ormai gli storici seri, anche massoni, hanno definitivamente ripudiato come infondate certe mirabolanti versioni, che vorrebbero far discendere la Massoneria da Lameck, architetto del tempio di Gerusalemme, da Zoroastro, da Confucio, da Pitagora, dai misteri d’Egitto e di Grecia, dai Templari e perfino da Noè e da Adamo. ... (Prosegue negli altri articoli. Cliccare sul Tag Massoneria).
[Articolo estratto da «Enciclopedia Cattolica», vol. VIII, Vaticano, 1951, coll. 312-325, voce «Massoneria», a cura di P. Pietro Pirri S.J. dell’«Istituto Storico della Compagnia di Gesù»].
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