Comunicati e Note
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Stimati Associati e gentili Sostenitori, a Dio piacendo concluderemo la breve dissertazione iniziata con il numero 216 di Sursum Corda e dedicata alla donna e la Chiesa: contro le aberrazioni e le falsificazioni del pensiero moderno. Utilizzeremo, anche oggi, l’opuscolo di approfondimento del Padre Giulio Monetti S.J., «Che cosa deve la donna a la Chiesa Cattolica?», Collana S.O.S., Serie III, numeri 30 e 31, imprimatur 1942. Preghiamo per l’anima dei nostri Autori.
• 5. La Madre cristiana. Veniamo adesso alla madre, tanto anch’essa nobilitata dagli splendori della luce Evangeli: anch’essa è grande, se vuole imitare gli esempi della Madre di Dio: anche ad essa incombe una sublime missione, non meno preziosa e necessaria al mondo di quella purificatrice e consolatrice propria delle vergini consacrate a Dio. E qui cominciamo dal punto fondamentale: dal concetto stesso della madre nella cristiana dottrina. Qui non abbiamo più nella madre soltanto una propagatrice dell’umana vita; la madre cristiana è qualche cosa di ben più eccelso. Se dalla natura (da Dio) essa fu disposta a rifornire man mano il mondo di nuovi abitatori ragionevoli, dal Sacramento del Matrimonio essa è chiamata al compito gloriosissimo di popolare il Cielo di nuovi Santi, educando i figliuoli non solo alla vita terrena, ma più specialmente alla vita eterna. Quel bimbo che essa genera, diverrà, grazie al Santo Battesimo, figlio anche di Dio, e Principe ereditario del Paradiso: quindi, se la madre sarà all’altezza del suo mandato, serberà sacro a Dio il caro deposito, e, con sollecita cura e gelosa, veglierà affinché quel cuoricino d’angelo non si disponga alla corruttela del vizio, ma col crescere in età diventi fecondo d’ogni affetto virtuoso. Fatto adolescente, il suo figliuolo verrà dal Sacramento della Cresima armato soldato di Gesù Cristo, difensore della sua fede e della sua Chiesa; toccherà di nuovo alla buona madre, con saggia e assidua educazione domestica, addestrarlo alle prime battaglie, e confortavelo col vivifico nutrimento della devota pietà, agguerrirlo contro le proprie passioni: sia con l’insegnamento che con l’esempio... E lei felice, se il giovane atleta par opera di lei entrerà generoso nel cammino della vittoria! Quando entrambi saranno entrati nei confini dell’eternità, un medesimo trionfo li renderà per sempre gloriosi: anzi m’immagino che il fortunato figliuolo ben volentieri farà omaggio alla madre della sua corona trionfale, poiché giustamente la riconoscerà da lei! Che prospettiva luminosa presenta dunque alle madri il Cristianesimo! E quali consolazioni ineffabili, imperiture, va preparando al loro cuore! Né manca di premunirle contro l’eventuale ingratitudine e riottosità dei figliuoli, cosa purtroppo non nuova in questo povero mondo.... Chè la Chiesa, presentando loro le Sacre Scritture, parola di Dio, fa leggervi ai figliuoli questi ammonimenti: «Quando tua madre sarà incanutita, guardati bene dal perderle il rispetto o dall’averla in non cale». «Non porre in dimenticanza i gemiti di mamma tua!». «L’occhio che si sia volto alla mamma con disprezzo, sia divelto dall’orbita da corvi del torrente, sia privo dal più vedere la luce, sia divorato dagli uccelli di rapina!». « Guardati dal meritare la materna maledizione; perché la maledizione di una madre dirocca sino dalle fondamenta le fortune meglio stabilite!». Chè se poi il figlio sciagurato traviasse, straziando il cuore della madre sua, la Chiesa sa alla povera madre suggerire ancora un rimedio; il rimedio così potente della preghiera e dei sacrificii; se la voce materna è sì potente presso Dio nel maledire, è almeno altrettanto potente nel supplicare a prò dell’anima dei proprii figliuoli. E la madre; veramente cristiana pregherà per essi; e imiterà l’esempio di S. Monica: piangente e supplicante per i traviamenti del suo povero Agostino, ed errante sui passi di lui, nell’ansia di riscattarlo alla fine e salvarlo. E lo salverà davvero anche lei, dovesse per ben 17 anni attendere l’ora della grazia come la attese Santa Monica... Anche di lei un altro Sant’Ambrogio dirà che figli di tante lacrime non possono andare perduti!
• Ricapitolando... Possiamo dunque dire, in generale, che la donna cristiana, sia nello stato verginale, sia a capo di una famiglia, è una creatura trasumanata, cara visione consolatrice... Diremo anche di più: essa è dappertutto una visione sovranamente benefica, consolatrice... Nella famiglia essa è, per la sua delicata e sollecita pietà figliale, il dolce conforto dei vecchi genitori; cresciuta alla longanimità amorevole, avvezza insieme al sacrificio, sarà il buon angelo di quel fortunato che la condurrà in isposa; e per i figliuoli, preziose perle da Dio piovutele in seno, la sua tenerezza, tutta fatta di divina carità e di operosa sollecitudine, non conoscerà confine. Ma più specialmente nel saio religioso rivelerà al mondo la poderosa efficacia, l’inesausta energia benefica che sa comunicarle l’amore divino; in forza di questa, la vergine a Dio consacrata sarà a volta a volta la madre dell’orfano, la provvidenza del povero, il conforto dell’infermo, il sostegno dell’affranto vegliardo; e persino tra il fragore delle tonanti artiglierie, là, nell’ambulanza da campo, raccoglierà, pietosa infermiera, l’ultimo sospiro del guerriero morente. Certo ci vorrebbero molti volumi a ben lumeggiare simili eroismi; ma il miglior panegirico che se ne potesse fare sarebbe comunque al disotto del merito; adeguato, perfetto, lo fara solo Cristo Giudice nel giorno estremo! Per ora accontentiamoci di riconoscere in tutto vere le magnifiche parole del Lacordaire.
• «Per una delegazione speciale, e quale impiego del suo tempo, e della sovrabbondanza delle sue virtù, alla donna cristiana sono stati affidati lutti i poveri, tutte le miserie, tutte le piaghe, tutte le lacrime. Essa è che in nome e in luogo di Gesù Cristo deve visitare gli ospedali, penetrare sino alle soffitte, sorprendere i gemiti, i sospiri anche più furtivi, esplorare il regno tanto e tanto vasto del dolore. Ad altri è commessa la cura della dottrina; a lei quella dei soccorsi; ad altri il rappresentare Gesù colla spada della parola; a lei il rappresentarlo colla gravità della tenerezza affettuosa! E, senza aggiungere altro (che ce ne vorrebbe troppo), vuoisi un paragone che in poco dica molto? Eccolo: tra il mondo pagano e il mondo cristiano, quanto alla donna, corre la stessa differenza che tra la sacerdotessa di Venere e la Suora di San Vincenzo de Paoli; andate al famoso tempio di Corinto, e vedetevi la sgualdrina che non ha più nulla da perdere: entrate nei nostri ospedali e vedrete la nostra Suora di Carità; ecco i due mondi, le due società!». [Purtroppo oggigiorno, a causa delle ribalderie politiche laiciste, delle Rivoluzioni, dei “risorgimenti” e, soprattutto, a causa del funesto ed ereticale Vaticano Secondo, la società si è gradualmente trasformata in peggio: tendendo sempre più al paganesimo. Ed ecco che sovente, anzi quasi sempre e dovunque, dobbiamo riconoscere sgualdrine in luogo delle Suore di Carità. Questa è la triste eredità delle società di fatto senza Dio, anche se nelle chiacchiere millantano fede e carità, ndr.].
• Conclusione. Qui ormai possiamo concludere: ce n’è a sufficienza per provare quanta riconoscenza la donna rigenerata debba alla Chiesa! Chè da questa essa riebbe la sicurezza personale, la dignità, la guarentigia dell’onore, la sollecitudine dei delicati riguardi, la stima, l’amore, l’equo riconoscimento dei diritti civili (dei veri diritti civili, non dei diritti incivili che le vengono concessi oggi per pervertirla, ndr.), il suo posto di regina nella famiglia oltre alla missione più invidiabile che ottenne nella società; per non ridire della più lusinghiera glorificazione che ebbe nella persona di Colei, cui il poeta cantava: «Vergine bella che di sol vestita. Coronata di stelle, al sommo Sole. Piacesti sì, che in Te sua luce ascose... e cui tuttora l’universo cristiano inneggia innamorato: “Salve Regina, Madre di misericordia, vita, dolcezza, speranza nostra!”». Perciò ripetiamo che tra lei genti infellonite che si levano in fremito tumultuoso contro la Chiesa: tra i popoli macchinanti stoltezza contro il Signore e il Cristo suo; tra quelle voci blasfeme, tra quelle fronti proterve, non dovrebbe gemmai udirsi la voce, scorgersi la fronte di una donna: troppo la donna deve a Gesù Cristo, troppo alla sua Chiesa!
• Un po’ di contraddittorio. — «Cicero pro domo sua!» — Sarà relativamente facile lo spigolare qua e là qualche tratto di privato autore cattolico, e persino qualche fatto più o meno eloquente che deponga in qualche modo in favore dell’interesse della Chiesa Cattolica per la donna: anche nei più fanatici il buon senso si prende a quando a quando la sua brava rivincita: — così pure la voce del cuore impone alla mente le sue leggi imprescrittibili di benevolenza al proprio simile, di simpatia per il debole oppresso, di cooperazione al bene comune, di convivenza più o meno armonizzata.... E così la Chiesa, specialmente dopo il fallimento delle istituzioni pagane riguardanti la donna, trovò opportuno — ecco il calcolo politico utilitario sufficiente a spiegare tutto — cambiare rotta e surrogare ai sistemi vecchi i sistemi nuovi, con un po’ di comodo modernismo pratico... Ma, se si sta ai domini ufficiali, alle dottrine solennemente definite — vale a dire alle teorie che si vorrebbero immutabili — le cose cambiano: bisognerebbe poter cancellare certe pagine della storia che stanno lì a dimostrare che, proprio la Chiesa Cattolica, con tutto il suo preteso riguardo verso la donna, col suo culto alla Vergine ed alle Sante del suo calendario, proprio essa lanciò in faccia alla donna l’ingiuria più cocente, negandole nientemeno che un’anima umana, e quindi la dignità di persona, con tutte le degradazioni, e private e pubbliche e consuetudinarie e giuridiche, che ne conseguono... — Sentiamo che ne dice il Guizot, scrittore peraltro assai benevolo al Cattolicesimo: egli dice testualmente («Memoires relatifs a l’histoire de France», I- 449): «Ci fu un Concilio, nel quale da uno dei Vescovi si proclamò che non si doveva annoverare la donna nella categoria degli uomini» — È chiaro?
• Rispondiamo: — Tutto qui? È pochino davvero per fare la voce grossa contro la Chiesa: e questa povera freccia spuntata non vale di più delle mille altre inutilmente scoccate dall’empietà contro la santa Sposa di Gesù Cristo! — Ragioniamo. Di che sì tratta? — Potremmo, in buona critica, non tener conto del testo del Guizot, posto che non cita né data, né nomi, né luoghi, per quello che narra: in tali condizioni di testo, chi ci garantisce in modo autentico l’attendibilità della narrazione? — Spetta all’accusatore il provare l’accusa: ma gli ci vogliono prove precise, concludenti; non chicchere anonime, dicerie correnti, che ben possono essere o calunnie maligne o palloni gonfiati od anche semplici leggende nate non si sa come e peggio divulgate con la consueta incoscienza di gente irresponsabile... Di tali bubbole ce ne son tante in giro! Però suppliremo noi alla deficienza del testo del Guizot. Tutto fa credere che egli si riferisca al racconto che troviamo in San Gregorio di Tours, nella «Historia Francorum» VIII-20 (P. L. LXXI-462). Vi si legge che nel Concilio di Macon (tenuto nell’ottobre del 585) vi fu un tale tra i Vescovi, che diceva non potersi la parola «uomo» adoperare per significare la donna. Tuttavia si lasciò convincere del contrario dagli altri Vescovi, dato che la Sacra Scrittura, nel Vecchio Testamento c’insegna che (Iddio creò Adamo ed Eva) ... Inoltre Gesù Cristo stesso suole chiamarsi «Figlio dell’uomo», perché nato dalla SS. Vergine, che era una donna... E con molti altri argomenti lo scrupolo del Vescovo si acquietò — Ecco il fatto nella sua semplicità. E adesso un poco di analisi del fatto stesso: essa ci mostrerà affatto ridicolo lo scalpore menato per questo fatto: non era proprio il caso che se ne occupassero gli studiosi tanto sul serio da farne come un affare di Stato! E veramente sino al 1595 non si trova scrittore alcuno che desse alcuna importanza all’accennato episodio: per ben mille e dieci anni nessuno se ne commosse. Ci voleva la piccineria maligna della critica anticattolica, uso «Centuriatori di Magdeburgo», per attaccarsi a simile inezia, pur di farsene un’arma contro la Chiesa! E da quel punto «generazioni intere di eruditi o sedicenti dotti divulgarono la storiella che — nientemeno! — al concilio di Macon s’era messo in discussione se la donna avesse o no un’anima umana!» (G. Kurth, «Le Concile de Mâcon et les femmes», in «Revue des questions historiques» 1892, LI-559) — E il Bayle ne parla nel suo «Dictionnaire historique et critique», 1897, 1-86: e l’Aimé-Martin nella sua «Pedagogia per le Madri di famiglia» (Parigi, 1. II, c. 6.o, p. 44) fa lo scandalizzato, scrivendo: «Si giunge al punto di mettere in dubbio l’esistenza di un’anima umana nelle donne»: e finalmente il Laurent e il Crémieux, nel 1851, portano la faccenda all’Assemblea Nazionale francese, forse per un senatusconsulto «ne quid respublica detrimenti capiat!» — E nondimeno ci voleva tanto poco a vedervi il trucco, la montatura! Torniamo al fatto e supponiamo, per un momento, che realmente il 2° Concilio di Macon avesse definito che la donna non ha anima umana. Sarebbe stato quello uno sproposito marchiano e doloroso: ma la fede cattolica non vi sarebbe entrata per nulla: è risaputo che Concilii soltanto provinciali, com’era quello, non hanno voce definitiva in materia dogmatica, né i loro decreti s’impongono alla Chiesa Universale come materia di fede. Ciò compete soltanto al Papa nelle sue «locutiones ex cathedra» ovvero al Concilio Ecumenico confermato dal Papa. — Per conseguenza, il Concilio di Macon non avrebbe fatto testo: le sue sentenze avrebbero potuto essere discutibili, anzi errate senz’altro, in buona Teologia Cattolica. Ma c’è poi stata davvero una sì strana definizione contro la dignità della donna? Per quanto la si cerchi negli atti del 2° Concilio di Macon, conservatici in antichissimi Codici e riprodotti nelle classiche Collezioni del Crabbe, del Surius, del Sirmond, del Lalande, del Labbe, dell’Hardouin, del Bouquet, del Mansi, del Maassen, dell’Hefele-Leclercq, non la si trova: anzi neppure si agitò ufficialmente tale questione. E perché mai se ne sarebbe trattato, se non era questione di cose ma soltanto di parole, questione non di credenze ma soltanto grammaticale, o meglio lessicografica? — Inoltre soltanto una voce sarebbe stata discorde, contro la voce di tutti gli altri Vescovi; né l’unico Vescovo discordante persistette nella sua opinione, dacché rimase convinto dalle prove addottegli in contrario; che si vorrebbe di più per ritenere «chiuso l’incidente», evidentemente un «incidente di corridoio»? Lasciamola lì! Sarà meglio per noi, a non perdere il nostro tempo, per l’onore dei nostri avversari — a non cadere nel ridicolo —, come pure per la serietà delle nostre discussioni!
• Ebbene, lasciamo pure questa questione, e passiamo ad altra, certamente seria e di tutta attualità... Come va che la Chiesa Cattolica approva, nel mondo del lavoro, il cosiddetto «salario femminile» che, per un medesimo lavoro, dà alla donna retribuzione inferiore a quella dell’uomo? — Che ingiusto antifemminismo!
• Rispondiamo: — Adagio con le obiezioni! Chè qui le cose si complicano e bisogna andar cauti. Distinguiamo anzitutto quale sia la parte della Chiesa in fatto di problemi economici e sociali, di fronte ad altre competenze. — La sua propria competenza in materia non è competenza tecnica che verifichi caso per caso l’equivalenza tra salario e lavoro imperata dalla giustizia: ciò spetta agli economisti, ai periti giudiziari od industriali, ecc. — La competenza della Chiesa è, invece, nettamente morale: supposti cioè già noti altronde i limiti massimi e minimi riconosciuti dalla giustizia, essa impone di rispettarli; imponendo insieme il rispetto d’ogni altro obbligo morale di carità, equità, fedeltà, ecc., che sussista in concreto nei vari casi. — E, quanto a questo, la Chiesa non guarda in faccia a nessuno: né fa differenza tra uomo o donna, ricco o povero, potente o inerme, civilizzato o selvaggio, scaltrito od ingenuo... Inoltre gli Economisti dimostrano che normalmente il lavoro femminile è in sé stesso meno redditizio del lavoro maschile: ond’è la sua minore valutazione sul mercato, stando ai criteri oggettivi di stretta giustizia. Socialmente poi, salva sempre la giustizia, i padroni ed i legislatori hanno ragione di arginare — anche coll’esiguità dei salari — l’esodo della donna dalla casa e dalla famiglia: officina ed impiego sono atmosfera in cui essa si sciupa, spesso irrimediabilmente: ad ogni modo sono atmosfere ben diverse da quella che le è destinata dalla natura! — Troppo lo prova la continua esperienza.
• Continua l’obiezione: Almeno si dovrà concedere che, accanto alle sollecitudini sue lodevolissime per l’elevazione della donna, la Chiesa Cattolica non fa mistero della sua opposizione al moderno femminismo: opposizione che depone contro di lei!
• Rispondiamo: — Non pare! Non dobbiamo qui badare soltanto alla identità di natura, sempre natura umana tanto nell’uomo quanto nella donna, con propria dignità personale, e con tutti i diritti che ne conseguono; come neppure dobbiamo fermarci alla capacità intellettuale, o morale, o fisica, che può ben essere in tale uomo. Bisogna invece attendere, più che ad altra cosa, alla missione della donna, al posto assegnatole da Dio nella società; di qui le determinazioni e i limiti della capacità giuridica femminile, onde sopratutto si preoccupa il femminismo. E c’è una missione propria della donna: mascolinizzare la donna, come pretende il femminismo, è almeno tanto stolto quanto il volere effeminare l’uomo. Ciascuno al suo posto! Non è vero?
• Continua l’obiezione: Egregiamente! Ma a condizione che il posto non sia arbitrariamente, violentemente fissato da usurpazioni, tirannidi, o giù di lì! — Orbene l’uomo s’è fatta, in confronto della donna, la parte del leone, col diritto della forza prepotente, e del sopruso, sfruttando la donna, quasi lui fosse tutto, e la donna non fosse nulla... E la Chiesa a benedire il fatto compiuto, ratificandolo!
• Rispondiamo: — Adagio un poco! Lasciamo ai tribuni — e magari alle tribunesse (sic!) — le sonore frasi da comizio: ragioniamo pacatamente, oggettivamente. E ripetiamo con la Chiesa che quanto sia contro la (vera) dignità umana è da riprendersi, e da punirsi in sede competente, anche se venga usato contro la donna, contro l’ultima delle donne. Su questo non si discute. Discutiamo, invece, se l’uomo e la donna debbano essere mutualmente indipendenti: se, dovendosi pur associare, debba l’uomo sottostare alla donna e la donna all’uomo: ovvero se possa accadere l’una cosa o l’altra, indifferentemente, senza gravi inconvenienti. L’ipotesi della mutua indipendenza è da scartare risolutamente: Dio Creatore ha fatto l’uomo e la donna l’uno per l’altro, perché si associno; il che moralmente importa tale coordinazione di attività e di atteggiamenti, che non può evitarsi la subordinazione d’una parte all’altra. [Lo attesta inconfutabilmente la legge di natura, ndr.]. E chi sarà il subordinato? L’uomo alla donna? La donna all’uomo? Vediamo? La stessa natura delle cose, oltre allo spontaneo sistemarsi della vita domestica e civile, mostra un’anomalia stridente nell’ipotesi che l’uomo obbedisca alla donna. Quando si tratta di libera concorrenza (non preclusa da determinate esigenze dell’ordine naturale, o da leggi positive, o da diritti affermativi preesistenti), il primato è di chi se lo piglia onestamente: e se lo piglia onestamente chi vi perviene senza violenze né fisiche né morali, senza imbrogli e senza altre irregolarità. Ciò fece l’uomo: e fece bene, secondando il disegno di Dio, che apposta lo fece preponderante sulla donna per ingegno, per forze, per costanza di propositi, ecc.; e la donna capì anche essa che, meno provveduta dell’uomo per le battaglie della vita, doveva “contentarsi” del secondo posto, e lasciargli il primo. E la Chiesa che poteva ridire? Con questo resta automaticamente eliminata l’ultima ipotesi: cioè non è per nulla indifferente il predominio dell’una parte o dell’altra del genere umano. Normalmente il predominio della donna sull’uomo non si potrà mai né in fatto, né in diritto, verificare; e quando per caso eccezionale mai accadesse, sarebbe sempre un’anormalità.
• Continua l’obiezione: Ahi! Con simili ragionamenti ricadiamo a piè pari nel paganesimo consacrante il diritto della forza! Sia essa forza di muscolo, o forza d’ingegno! La Chiesa parrebbe più coerente a se medesima, se, dopo aver parificata la donna all’uomo nella figliuolanza di Dio, nel diritto ereditario al Paradiso, uguagliandola così all’uomo innanzi a Dio loro Padre comune, l’uguagliasse altresì — e di diritto — innanzi agli uomini, alla società!
• Rispondiamo: — Il concetto cristiano, piuttostochè contraddire alla subordinazione della donna allo uomo, la ribadisce e in teoria e in pratica. In teoria: San Paolo scrive chiaro ai Corinzii che «capo della donna è l’uomo». In pratica poi, lo stesso San Paolo inculca alle donne la soggezione agli uomini, e il tacere ascoltando: si sa inoltre che la Chiesa esclude, per istituzione divina, la donna da ogni Ordine sacro. Né giova l’appello alla comune figliolanza di Dio ed all’eredità del Paradiso, anch’esse comuni, per chi voglia acquistarle: tali elementi sovrannaturali non c’entrano nella costituzione dell’ordine sociale naturale: ed anche entrassero, non sarebbe già per distruggerlo, ma per perfezionarlo. Siamo infine perfettamente d’accordo che forza e ingegno non creano di per sé il diritto, né lo misurano: valgono peraltro, se usati legittimamente, a creare situazioni di fatto, nelle quali si concretino le condizioni richieste all’attuazione del diritto: per esempio, nei casi di precedenza, occupazioni, invenzioni, meriti civili, ecc. Ci siamo?
• Continua l’obiezione: E allora la donna, proprio come ai tempi in cui Berta filava, dovrà rassegnarsi in perpetuo alla reclusione in casa? Tale almeno parrebbe in suo riguardo il pensiero della Chiesa!
• Rispondiamo: — E chi parla di reclusione della donna? Proprio in questi tempi nei quali la Chiesa tanto inculca l’Azione Cattolica, anche femminile ? Ma, tolta simile esagerazione, resta pur sempre vero che casa e famiglia sono il regno della donna [e non sono affatto una reclusione, ndr.]; lì deve svolgere l’ammirabile sua missione educatrice, consolatrice. E l’esperienza è là per dimostrare che la donna fuori di tale ambiente si sciupa: perde man mano quel riserbo ch’è il grande suo pregio: perde la paziente assiduità a quei minuti doveri per i quali ella, e non l’uomo, ha da natura la mano: perde la delicatezza d’affetto che deve nutrire per i suoi: e così invece di armonizzare insieme i vari elementi della famiglia — sua provvidenziale prerogativa — ne allontana il benessere e la pace.
• Continua l’obiezione: Se è così, addio, cultura femminile; addio impieghi; addio interessamento per la vita pubblica! Per le povere donne non resterebbe altro ideale che quello — ben antipatico — di cenerentola!
• Rispondiamo: — E dàlli colle vacue sentimentalità! Cenerentola, la regina del focolare? L’Angelo della casa? Chè il regno della casa si offre da sé, per natura di cose, ed è riaffermato dalla Chiesa alla donna, se essa se lo sa meritare! Né dirla subordinata al marito, al padre, ai fratelli, è il dirla senz’altro una schiava: non ogni soggezione è schiavitù, ma soltanto la soggezione violenta dello sfruttato sotto lo sfruttatore. Malinconia antipatica la vita casalinga della donna? Ma chi ha mai detto che si debba restringere all’opera della cucina, del guardaroba, della pulizia ed ordine delle stanze, dell’economia domestica? Certo vi dovrà attendere, secondo il suo grado; però — di nuovo secondo il suo grado — non le sarà interdetto di procurarsi una cultura, anche singolarissima, se ne sia capace: ma siccome scienza e cultura non sono che un mezzo per la perfezione umana, e questa è nel fare il proprio dovere e nell’esercizio della virtù, la donna non dovrà, per amore d’istruzione, rendersi inetta ai propri uffici, trascorrendo oltre al campo da Dio assegnatole. Lo stesso dicasi degli impieghi, in proporzione: se dura necessità impone oggi anche alla donna di cercarsi fuori di casa un pane per vivere essa e i suoi, non c’è da ridire, dovrà rassegnarvisi, come ad una malattia economico-sociale che travaglia contagiosamente la società moderna: ma ciò non potrà mai aversi per norma, essendo in verità degenerazione e sventura. Non parleremo infine degli svaghi onesti e delle giuste libertà che la donna potrà prendersi, anche fuori di casa, col santo timore di Dio e senza offendere in nulla i proprii doveri personali e famigliari: sicché — lo ripetiamo — la sua vita domestica è tutt’atro che reclusione. Da quando in qua s’è pensato di riprendere come scandalo le belle passeggiate festive o serotine della donna cristiana appoggiata al braccio del suo consorte, coronata dal vispo e chiassoso corteggio dei figliuoletti, quando e in chiesa e in casa siasi da lei compiuto tutto il suo dovere? Chi mai troverebbe a ridire sulle sue corse caritatevoli in visita di infermi o di poveri, in intervento ad adunanze od attività di Azione Cattolica, in ossequio alle convenienze sociali, che anch’esse appartengono al fiore della cristiana carità, se ben intese e praticate? Non si rinfacci alla Chiesa un farisaismo tirannico, che le è affatto estraneo!
• Continua l’obiezione: Ancora un’ombra: l’ostilità della Chiesa all’entrata della donna nella vita pubblica, politica.
• Rispondiamo: — Intendiamoci: opposizione aprioristica la Chiesa non ne ha mai dimostrata in proposito; non emanò in materia né definizioni né leggi. Ciò non toglie però che la Chiesa preveda per lo scendere della donna in piazza per le competizioni elettorali, o per il suo entrare nei Parlamenti, dei seri malanni... Tra l’altro ci sarebbe questo (e sarebbe ancora il meno!): Che due comari s’accapiglino sul mercato, l’è già buffa e brutta: ma che due deputatesse (sic!) si accapigliassero in Parlamento, che chiassata edificante per i Deputati, per la Nazione e per l’inclito pubblico internazionale? E la faccenda rischierebbe di non finire lì! [Previsione della Chiesa azzeccatissima anche questa. Dopo il decadimento della fede, della morale e dello stesso intelletto, complice il femminismo ma non solo, anche la politica ha raggiunto dei livelli di bassezza, di disonestà e di incompetenza come non si aveva memoria prima, ndr.]. Finiamo intanto noi il nostro cortese contraddittorio: non è forse tempo di lasciare in libertà il paziente lettore?
• Adesso alcune note di approfondimento a quanto pubblicato sui numeri 216 e 217 di Sursum Corda. 1° Da rapporti ufficiali fatti alla Camera dei Comuni in Inghilterra si ricava che anche sotto il dominio inglese perdurò assai a lungo (in India) l’orribile costume di bruciare vive le vedove indiane sul rogo dei loro defunti mariti. Per esempio, ancora nei quattro anni 1935-38, non furono meno di duemila seicento donne che nelle Indie Inglesi perirono in sì atroce maniera. Possiamo qui trascrivere dal rapporto ufficiale di Sir W. C. Malet, Presidente della Compagnia delle Indie a Poona, i seguenti raccapriccianti particolari su una di quelle tragiche scene. Eccone il racconto. «La giovane Poolesbay aveva sposato un uomo ragguardevole di Poona, che morì dopo cinque anni di matrimonio. Appena ne fu divulgata la morte, la vedova, in età di diciannove anni, si trovò circondata da Bramini, che la sollecitarono ad uniformarsi all’uso stabilito: minacciandola, in caso di rifiuto, d’infamia in questa vita, e di pene eterne nell’altra. Indarno un suo fratello, che l’amava teneramente, e che col frequentare gli Europei aveva acquistato sentimenti più umani, si sforzava di salvarla da sì orrendo supplizio. Totalmente sottomessa all’influenza dei Bramini, e vinta dal superstizioso terrore che s’era impadronito del suo spirito, ella acconsentì di abbandonarsi al fuoco, pensando: “Meglio ardere un’ora che tutta un’eternità!”. Il tempo del sacrificio fu fissato per il giorno seguente, alle cinque pomeridiane. Un corteggio immenso, composto di bramini, di guardie del Governatore, e di una folla stragrande di popolo, si avviò alla casa della vittima; e questa ne uscì accompagnata dai suoi genitori. La giovane era di statura mezzana, ma di forme eleganti, di lineamenti nobili ed espressivi, che le davano un’aria di dignità, resa ancor più spiccata allora dalla solennità della circostanza. I suoi capelli ondeggianti erano ornati di fiori, e i suoi sguardi innalzati al cielo sembravano già assorti nella contemplazione dell’eternità. Ella traversò la città spargendo a profusione foglie di cocco e di betulla. Giunta alle rive del Mootah, fiume che scorre in vicinanza di Poona, ella vi fece le sue ultime abluzioni: indi sedette sulla riva. Un ombrello tenuto sul suo capo la proteggeva dall’ardore del sole: mentre una delle sue compagne le faceva aria al volto, agitando un fazzoletto di seta. Essa era attorniata dai parenti, da alcuni amici e dai principali bramini, ai quali essa distribuì duemila rupìe e le ricche gemme ond’era ornata, non riservandosi altro che gli ornamenti consueti, cioè un anello che le trapassava le narici, e un braccialetto a ciascuno dei polsi. Fatta questa distribuzione, la povera vittima si pose in atteggiamento di preghiera e di invocazione, a mani giunte ed alzate sopra la testa; mentre, non lungi di là, a cento braccia di distanza, si veniva innalzando il rogo che doveva consumarla. Il funebre apparato si componeva di quattro pali dell’altezza di sei piedi, conficcati in terra per modo da formare un rettangolo lungo nove piedi e largo sei. Un tetto di assi, carico di quanti fastelli poteva sostenere, era attaccato per mezzo di corde alla sommità dei pali: alla base poi venne alzato, sino all’altezza di quattro piedi, un ammasso di legna coperto di paglia e di rami secchi di un arboscello odoroso; tre lati del rettangolo furono chiusi accuratamente con gli stessi materiali, lasciando aperto soltanto il quarto per dar passo alla vittima. E quando questi preparativi furono terminati, la povera Poolesbay s’avanzò con gli amici. Giunta a poca distanza dal rogo, essa si fermò: rinnovò i suoi atti di devozione [della falsa religione nella quale era nata, ndr.], e si ritirò un poco in disparte per lasciar passare il cadavere del defunto. Questo, ritirato dalla riva del fiume, dove era stato deposto, fu collocato sopra i sarmenti con grande quantità di paste, di confetti, e con un sacchetto pieno di sandalo. Dopo ciò la vittima girò tre volte attorno al rogo; poi, collocandosi sopra una pietra quadrata che si usa sempre in simili circostanze, e che portava rozzamente scolpita la forma di due piedi, ricevè dagli amici gli ultimi addii. Accarezzò coloro ai quali era più affezionata, passando loro sul capo la destra; si chinò verso di loro per abbracciarli affettuosamente, e s’incamminò al rogo... Giunta ad esso, si fermò un momento prima di salirvi: forse la fece esitare l’amore alla vita! Ma poi il fanatismo la vinse. Con passo fermo e sicuro, salì i gradini: si distese accanto al cadavere di suo marito, e subito fu tolta alla vista degli spettatori per mezzo della gran paglia con cui fu ostruito il passaggio ed alla quale fu subito dato fuoco. Dopo pochi secondi la sventurata giovane gettò un orrido grido. Il bruciore delle fiamme distrusse in un attimo l’ostentata fermezza che fino allora l’aveva sostenuta; e tornatole in tutta la sua forza l’istinto della propria conservazione, essa si spinse contro la debole barriera già quasi mezzo consumata, vi si aprì un passaggio, e corse al fiume come a un rifugio inaccessibile al terribile elemento che incalzava... Ma la sciagurata non poteva sfuggire alla sorte che l’attendeva, e che essa aveva coscientemente accettato: i “sacerdoti” l’inseguirono ben presto. Allora incominciò una lotta spaventosa: i bramini facevano forza per ricondurla al rogo; ed essa, aiutata dal fratello, opponeva la più disperata resistenza. La vittima mandava orrende grida implorando il soccorso della moltitudine, tenuta a freno dalle guardie del Governatore; ma la sua voce restò soffocata dalle trombe, che, ad un segnale suonarono tutte insieme. Finalmente la meschina, sfinita dai proprii sforzi svenne; e in questo stato fu di nuovo trascinata sfinita alla catasta. A quel punto, tutti gli spettatori di quella tragica scena si accalcarono per vederne la fine; alcuni tagliarono a colpi di scure le corde che sostenevano il palco superiore; altri portarono nuova esca al fuoco, e numerose torce dilatarono l’incendio; intanto il fratello della vittima era stato allontanato a viva forza, mentre invano, nella sua disperazione vomitava minacce di vendetta contro i manigoldi assassini di sua sorella». Fin qui il Malet.
• 2° La Chiesa considera la differenza tra l’uomo e la donna sopratutto sotto il punto di vista morale. Ma alla mascolinizzazione della donna si oppongono anche gli scienziati, partendo da un altro punto di vista: quello fisiologico. Così lo scienziato americano Alexis Carrel, nel suo notissimo libro «L’uomo, questo sconosciuto» al cap. III, N. IX scrive fra l’altro: «Le differenze tra l’uomo e la donna non stono dovute unicamente alle forme particolari di alcuni organi... Esse provengono da una causa assai più profonda, dal fatto che tutto intero l’organismo è impregnato dalle sostanze chimiche elaborate dalle ghiandole caratteristiche dei due sessi. Per l’ignoranza di questi fatti fondamentali, i promotori del femminismo sono stati condotti all’idea che i due sessi possano avere la medesima educazione, le stesse occupazioni, gli stessi poteri, la stessa responsabilità. In realtà la donna è profondamente diversa dall’uomo. Ognuna delle cellule del suo corpo porta l’impronta del suo sesso. Lo stesso si dica dei suoi sistemi organici, e sopratutto del suo sistema nervoso. Le leggi fisiologiche sono inesorabili come quelle del mondo siderale. È assurdo volerle sostituire con i desideri umani. Noi siamo costretti ad accettarle così come sono. Le donne devono sviluppare le loro attitudini secondo le linee della loro natura, senza cercare d’imitare i maschi. Il loro compito nel progresso della civiltà è più elevato di quello dei maschi: non devono tradirlo». E il compito della donna, secondo il fisiologo americano, è la maternità e l’educazione del fanciullo. Aggiungiamovi la maternità spirituale e vedremo che i risultati della scienza più recente [e non menomata dalle ideologie, ndr.] concordano con quello che la Chiesa insegna da venti secoli.
[Le terrificanti conseguenze della modernità - che va contro la legge eterna, contro la legge di natura, contro il diritto divino positivo, contro l’intelletto, contro il buon senso e contro la stessa vera scienza - sono sotto gli occhi di tutti: pervertimento della donna; distruzione della famiglia; abbandono della gioventù alle più infami passioni; femminizzazione dell’uomo; fine della società civile; trionfo dell’egoismo e della sola pseudo-tecnica. Un popolo nuovo, in un mondo nuovo, assolutamente impreparato ed incapace di reagire alla tirannia della finanza, ndr.].
Per P. Giulio Monetti SJ e per gli onesti autori menzionati: + Réquiem aetérnam dona eis, Dómine, et lux perpétua lúceat eis. Requiéscant in pace. Amen. +
A cura di CdP
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Stimati Associati e gentili Sostenitori, domandiamoci cosa deve la donna alla Chiesa cattolica. La moderna - menzognera - vulgata attribuisce alla Chiesa le peggiori nefandezze contro la donna. È nostra intenzione, al contrario, dimostrare rigorosamente quanto la donna le è debitrice e quanto le debba essere riconoscente. Al bisogno utilizzeremo il prezioso opuscolo del Padre Giulio Monetti S.J., «Che cosa deve la donna a la Chiesa Cattolica?», Collana S.O.S., Serie III, numeri 30 e 31, imprimatur 1942.
• Introduce il P. Monetti negli anni ’40: Aberrazioni. Chi oggi tenga dietro alle vicende del giorno, ai referti della stampa, agli orientamenti del pensiero, ha ragione di temere che nei bassi fondi sociali si tenti di preparare dove più, dove meno copertamente, una paurosa rivoluzione, che dovrebbe scuotere dai suoi cardini l’intero ordine costituito, avviando il mondo per vie nuove, che si promettono prodigiosamente feconde di bene per gli individui e per i popoli... È la rivoluzione comunistica, il sogno macabro della gente dal «pugno chiuso», vibrato in aria in segno di odio e di minaccia. Minaccia ed odio che vorrebbe essere soltanto espressione e portato della lotta di classe, lotta apparentemente limitata, al solo campo economico-sociale: ma che realmente lo trascende mirando in fondo alla distruzione della Chiesa Cattolica, alla radiazione violenta di ogni culto religioso dal mondo civile, allo stabilimento e all’universalizzazione della società dei «senza Dio», fosse pure attraverso ai delitti più infami, alle stragi più feroci, alle più ciniche degradazioni. Orbene tra quei forsennati, sitibondi di sangue, essudanti livore maligno, — lo diciamo con animo addolorato e mosso a profondo ribrezzo — troviamo la donna, sia essa la «Passionaria» spagnola, sia la Kollontai sovietica, sia la tedesca Rosa Luxenbourg... E allora ci domandiamo costernati: — Come mai le turbe infellonite contro il Signore, tra i popoli macchinanti stoltezza contro il suo Cristo e la sua Chiesa, si scorge la fronte di donne; e la voce femminile, che sempre dovrebbe sognare bontà e dolcezza, si fa sentire frammista, a quelle voci blasfeme? — E aggiungiamo in compagnia del Divin Crocifìsso: «Padre, perdona loro, perché esse non sanno quel che si fanno! — Non pensano a quanto la donna debba al Cristianesimo!». Pensiamoci invece noi in luogo loro: Ci potrà servire a sgannare alcune di quelle anime che sono state fatalmente avvinghiate dai tentacoli del socialismo e dell’internazionale petroliera: e gioverà anche a noi per farci sempre più stimare ed amare l’opera della Chiesa Cattolica a prò dei deboli e degli umili, nel suo passaggio attraverso i secoli. Rammenteremo pertanto qual fosse la condizione della donna fuori dell’influenza cristiana, confrontandola poi coll’altezza morale alla quale l’ha portate la Chiesa Cattolica.
• La donna nella società pagana. Un essere senza diritti... Celebre nella storia della giurisprudenza riuscì il diritto Romano: ma qual sorte faceva esso alla donna nella società? Per un certo tempo, le negò ogni capacità giuridica. Francesco de Champagny, nella sua classica opera, Les Césars, II, così ne scrive: «Uscendo dalla propria famiglia, cioè dalla patria potestà, la donna entrava nella famiglia del marito, cadendo sotto la potestà di lui; diveniva, secondo il diritto, figlia del marito, sorella dei proprii figliuoli, sottomessa quanto essi ai rigori del tribunale domestico, e come essi riceveva una parte dell’eredità. — Vedova, ricadeva sotto il potere paterno; alla morte del padre doveva chiedere un tutore, senza l’assistenza del quale non poteva far testamento. — Non aveva famiglia che le appartenesse; cioè non aveva figliuoli sotto la sua potestà; non eredi che dipendessero da lei». E in questa materia si andò poi tant’oltre che si limitò talora, alla donna il diritto, pur così naturale, di possedere; citiamo la «Lex Voconia» sancita a Roma tra la 2.a e la 3.a guerra punica, in virtù della quale negavasi alla donna, ancorché fosse figliuola unica, il diritto di ereditare.
• Un essere senza dignità... Ma pazienza, quanto alla privazione parziale od anche assoluta di civili diritti di competenza propria del foro contenzioso! La donna vi si sarebbe più facilmente rassegnata, se le si fosse sempre conservato, e in seno alla propria famiglia, e al cospetto della società, quel rispetto che le era naturalmente dovuto. Pur troppo non fu così! In cento e mille occasioni la donna pagana dovè lamentare calpestato il suo diritto nativo a un posto dignitoso, consacrato da legittimo amore, nell’umana convivenza. E ciò in primo luogo per il dilagare della poligamia. Questa era comune in Egitto, fatta eccezione di qualche provincia e di qualche casta: ad esempio la casta sacerdotale; era comune tra i Germani del ceto dei maggiorenti, che ritenevano la donna come un oggetto di lusso; uso obbrobrioso, che prevalse anche nell’antica Media, e tra i selvaggi del Brasile e della Australia. Al quale proposito rileva il Lacordaire quanto triste dovesse riuscire la vita, nel sistema poligamico, di quelle «greggi di esseri tanto nobili al cospetto di Dio Creatore, e tanto degni di riguardo per parte della gentilezza del nostro cuore; veri armenti di donne, chiuse come bestie nel classico ginecèo, o nell’harem orientale, divenute nel tedio delle loro giornate, non già vittime di un sentito affetto, ma piuttosto di un momento di ebbrezza passionale, cui dovevano seguire anche anni ed anni di abbandono». E non dice nulla, delle rodenti gelosie femminee, degli alterchi velenosi delle rivali, della rabbiosa vita d’inferno cui erano moralmente condannate, tuttora vive, quelle povere creature!... E che dire di quell’altra abbietta forma di degradazione della donna, che fu il concubinato legalmente ammesso ? Fu infatti equivalente legalizzazione del concubinato la legge romana del trinoctium, triste monumento di corruzione ufficialmente autorizzata... Poiché è risaputo che tra i Romani le «justae nuptiae», ossia il matrimonio civile (e per conseguenza la terribile «manus virilis», ossia il potere più o meno discrezionale del marito sulla moglie) erano immediatamente prodotte tanto dalla «confarratio» o dalla «coemptio», quanto dall’«usus» o convivenza di fatto per un anno intero. Orbene la legge suddetta privò di quel suo effetto legale l’«usus», che per tre notti fosse stato interrotto: quindi il nome della legge, che fu detta del «trinoctium». E quasi ciò non bastasse, vi s’aggiunse la «Lex Julia et Papia Poppaea», che più immediatamente legittimava detto disordine. Non parliamo poi del divorzio, arma terribile dell’uomo contro la donna, oltreché disgregazione fatale della famiglia; è addirittura spaventosa la facilità con la quale vi si ricorreva in antico, ed anche al presente, tra i popoli avvolti nelle ombre di morte del paganesimo! Il d’Azambuja, in dotta memoria sul detto argomento, ricorda che in un solo anno, nel solo ormai civilissimo Impero del Giappone, i divorzi superarono più d’un terzo dei matrimoni celebrati; dacché su 330.467 matrimoni conchiusi, s’ebbero ben 118.122 divorzi “legalizzati”!
• Un essere senza difesa... Ed anche quando non si raggiungessero simili estremi, quanto spesso la sposa legittima vedevasi esposta, senza tutela da parte della legge, alle più cocenti offese ed alle amarezze più vive per parte dell’infedele marito! La legge, tra i Greci, tra i Romani, tra i Germani, non aveva sanzioni contro il marito adultero: se minacciava rigori, essi erano solo contro la donna che mancasse di fede al marito! Quindi come mai avrebbe potuto la donna garantirsi contro la capricciosa passione del suo consorte, sopratutto quando infortuni o malattie gliene facessero come un peso, od anche la stessa monotonia di diuturna convivenza, ponendone in evidenza i difetti, moltiplicassero gli screzi e i dissapori? A questa inferiorità giuridica aggiungiamo pure anche la tristissima inferiorità vorremmo dire sociale, in quanto la donna era troppo spesso dal marito degradata al livello di una schiava, e quasi di bestia da soma. Ed oltre al fatto già doloroso di questo manco di riguardo alla sua debolezza fisiologica, c’era ancora il fatto umiliante della motivazione di tale trattamento; chè il lavoro grossolano e materiale era troppo spesso riservato alla donna, appunto perché duro e degradante, secondo l’opinione pagana. Tale sistema di oppressione della donna vigeva nella Groenlandia, tra le tribù indiane dell’America Settentrionale, nella Mongolia, nella Tracia, (ancora oggi in molte zone dell’Africa, ndr.); persino i Germani, dei quali volle tanto decantarsi il rispetto per la donna, appunto a lei rimettevano i lavori manuali, come di sé meno degni; il che al dire di Piatone, tornava ad uno stesso che il ridurla all’avvilimento e alla schiavitù. E quante tribù selvagge tengono tuttora questo esoso sistema! Ma passi per la materiale fatica e per la durezza della vita: c’era ben altro. Non si può rammentar senza orrore a quali ludibrii in certe età e in certe nazioni, pur sì celebrate per civiltà progredita, andasse esposta irrimediabilmente la donna; ricordiamo la comunanza delle donne, sognata in teoria da Socrate e Platone, come condizione normale della perfetta repubblica: ricordiamo come Licurgo l’ammise in pratica a Sparta, in certi casi; ricordiamo gli infami «jus locandi» (in virtù del quale Catone il giovane cedette la sua sposa Marzia al rétore Ortensio) e «jus permutando», sanciti in Roma: appena potrebbe concepirsi degradazione più ributtante della donna, divenuta semplice strumento di piacere da potersi alienare, affittare altrui, e scambiare a capriccio! Resterebbe la sicurezza e incolumità personale: ce n’era garanzia seria nel paganesimo? Dobbiamo negarlo, per esempio, per i Romani, ai quali un tempo la legge dava potere di uccidere la moglie, non solo se riscontrata infedele (anche prima d’una condanna giuridica dei tribunali), ma eziandio per il semplice fatto che ella avesse bevuto del vino, o preso le chiavi del celliere. E per i popoli che riguardavano la nascita di una bambina come una disgrazia per la casa, e magari l’uccidevano soffocandola capovolta in una tinozza d’acqua, o l’abbandonavano su le strade in balìa dei cani randagi, o nei cespugli della, foresta, esca immancabile alle belve ? E per la Cina, ove, per millenni forse, si storpiavano i piedi alle neonate, sicché poi crescendo fossero costrette a rimanersene come prigioniere in casa? E per l’India, dalle cento caste, dove la vedova doveva consumarsi sullo stesso rogo che inceneriva la spoglia del proprio marito? E per l’Africa nera, tristamente celebre per gli orrori immani del Dahomey? E per il lontano impero del Messico, insanguinato, sotto il dominio delle dinastie Azteche, dal sangue d’innumerevoli vittime umane sgozzate nei templi? E per gli altri popoli dove i templi non vedevano scorrere il sangue della donna immolata, ma assistevano muti alle turpitudini delle «sacre prostitute» mancipate a culti inverecondi? Povere le donne! Quant’erano precipitate in basso nel paganesimo! Ma che meraviglia, se anche oggi le si comprano e si vendono tra i selvaggi, ed anche in nazioni che si pretendono civili, quando trattasi di collocarle in matrimonio? Del resto non era forse quella la mentalità dei tempi, logicamente espressa in concreto da tanto orribili costumi? Che cosa ci dicono della donna, per esempio, i tragici greci, che pur si volevano educatori del popolo?
• Un essere spregevole... Un essere spregevole: tale e non altra è in sostanza la designazione della donna per parte dei genii dell’Ellade antica. Euripide (Belleroph., fragm. 13) la dice «pessimo arnese». Altrove la dice creatura «da non fidarsene; tristo ingombro anche per chi sia stato tanto fortunato da incontrare una moglie buona» (Cress. fragm. 11). Asserisce anche «non esservi né mura, né tesori, né qualsivoglia altra cosa così difficile da custodirsi quanto la donna» (Danae, fragm. 8). E arriva a dire che «anche nel caso che un uomo si sposi con donna di ottima, fama, sarà sempre migliore l’uomo che non la donna!» (Danae, fragm. 2). «La donna è il peggiore di ogni male!» (Phoenix, fragm. 6). Secondo Eschilo (Supplic. 757), «la donna è indegna di considerazione, perché è imbelle»; «suo ornamento è l’inganno!» (Agamenn. 1645). Sarà forse diverso il sentire dei gravi filosofi da quello dei poeti? Pare proprio di no! Aristotile reputa la donna quale merce venduta al marito, in piena balìa, trasmissibile ad altri per testamento (come, per esempio, avvenne alla madre di Demostene); Catone la dice una bestia indomita, che vuol essere frenata, perché da sé non si contiene (Tito Livio, Hist. XXXIV, 2): Epitteto sentenzia che il savio non deve curarsi della sua sposa, più che d’un fiore colto a caso sulla sponda di un ruscello... Ed è perciò che, non fidandosene punto, il greco le negò l’istruzione, secondo il consiglio di un altro filosofo, per non renderla più ingegnosa al mal fare; e la volle rinchiusa nell’oicos, anzi nel ginecèo, intenta a tessere la tela per il suo signore...
• Un essere minorato... Data una situazione così obbrobriosa della donna nella famiglia e nella società, si capisce come insignificante purtroppo, od anche addirittura nulla, potesse essere la sua influenza morale dove non c’è autorità: nè può esserci autorità dove non c’è stima né amore verso chi potrebbe esercitarla. Da ciò la rovina della famiglia, cioè dell’ambiente da Dio destinato a produrre alla donna le più dolci e più squisite consolazioni, e ad ornarla insieme delle più care virtù! Scrisse il Weiss che il risultato concreto della degradazione della donna nel paganesimo può compendiarsi così: «Non padri, non figliuoli, non mariti !». Per esempio, tutta la vita dell’ateniese (diciamo di uno dei 20.000 cittadini, e non già di uno dei 400.000 schiavi di quella metropoli) agitavasi nella sua «agora»: ginnasii, bagni, teatri, portici, piazze, n’assorbivano così completamente l’esistenza, che soltanto il pochissimo che ne rimaneva era dedicato alla casa. E questa, anche tra i Romani, era fatta unicamente per servire di rifugio; si può vedere in Vitruvio quanto ristretta e malcomoda fosse l’abitazione riservata alla famiglia. Non si sentiva nemmeno il bisogno di fabbricarla con maggiori agi, non provandosi nessuna brama di starsene in casa, a godersi ivi la felicità di una vita di famiglia, di cui non rimaneva sentore: che «quando non c’è nulla di buono in casa, si passa il giorno in sul mercato, benché nessuna necessità vi ci chiami». Pensiamo ora come in simile ambiente dovesse trovarsi male la donna, cui certo il marito non permetteva fuori di casa quel compenso di distrazioni che egli invece s’affannava di procurare a se stesso! Tale era in complesso, in antico — e lo è oggi in parte — il vivere riserbato alla donna nella società pagana: miserabile quanto mai fisicamente, moralmente e socialmente: sebbene sia vero che le fosche tinte del quadro pennelleggiato qui sopra non convengano né ad ogni gente in modo indistinto, né ad una stessa nazione in ogni epoca della sua storia. Però l’essere stati, or qua, or là, ora in questo tempo, ora nell’altro, tollerati sì abominevoli eccessi, e, peggio ancora, il vederli eretti a quando a quando in costume, ben dimostra il bisogno estremo che ha l’umana corrotta natura di un principio superiore che ne risani la fibra, e la ritenga entro i limiti della ragionevolezza anche più elementare! E ne abbiamo purtroppo altre conferme di fatto!
• Condizione della donna nell’Islamismo. Dopo seicento e più anni di Cristianesimo s’andò man mano affermando, prima nel prossimo Oriente, e poi altrove, la potenza (militare, ndr.) mussulmana, dando una certa grandezza alla civiltà araba: ma, per la donna, fu dessa in progresso, in confronto delle sue sorti nella società pagana? Non sapremmo davvero risolvere il problema! Il fatto doloroso è questo: il mondo mussulmano non ha riconosciuto alla donna il suo grado nell’umana società. Bestiale e violento come i pagani, il seguace del Corano ha anch’egli recluso la donna tra le mura della cattività e dell’oblìo noncurante; egli attruppa nei suoi serragli i miserabili oggetti dei suoi turpi piaceri! Certo il vituperoso spettacolo delle sfrenatezze turche, anche tra popoli che non mancano di una certa ingenita nobiltà, è in quelle regioni un avviso della Provvidenza alla donna tentata di apostasia in vista della severità evangelica; essa ne potrà imparare quanto costi un amore non protetto da Dio: ed a che si riduca l’adorazione di un uomo che non adori Gesù Cristo. Essa vi vedrà la degradazione preparatale dove Gesù non distenda più la Sua mano sull’uomo per contenere e purificare la sua consorte, rendendoli ambedue come santuarii venerabili, dove arda la fiamma di un amore fedele e rispettoso! [Tanto si potrebbe scrivere anche sulla condizione della donna nel giudaismo talmudista, ndr.].
• La donna moderna fuori dell’influenza e dell’atmosfera cattolica. Passiamo adesso a considerare la condizione della donna in ambienti già illuminati dalla luce cristiana, ma che poi andarono man mano sottraendosi ai vitali influssi della Chiesa Cattolica, la unica vera Chiesa di Gesù Cristo. Accenniamo allo scisma, all’eresia, al cosiddetto libero pensiero: che ne hanno fatto della donna? Che ne fanno anche al presente? Il delitto loro comune, dal più al meno, è la dissacrazione del matrimonio, che, tra i cristiani, non può essere altro che Sacramento; tra gli acattolici, il matrimonio civile s’è venuto gradualmente sostituendo al matrimonio religioso, per opera della “legislazione” laicale che si è ovunque asserviti quei fantasmi di poteri religiosi che ancora sussistono fuori della Chiesa Cattolica. Ne segue immediatamente che quelle nozze, non essendo più Sacramento (almeno se la sostanza ne rimanga viziata o dall’assoluta profanità delle intenzioni, o dall’incompatibilità delle condizioni apposte anche quando non manchi la condizione vitale di un Battesimo valido) non son più valide per cristiani, riuscendo soltanto a stabilire un lurido concubinato. E allora? Addio, divine benedizioni, tanto necessarie specialmente alla donna per alleviarle i gravi pesi inerenti alle mansioni di sposa e di madre! Addio, dignità di provvidenziale missione di moltiplicare - mercé la legittima prole - nuovi cittadini alla patria terrena, nuovi Prìncipi per il Regno Celeste! La donna, moralmente squalificata per la delittuosa sua posizione, non sarà più che una qualunque... incubatrice per moltiplicare i capi dell’armento umano, o piuttosto il semplice zimbello della passione voluttuosa del suo indegno compare! E vi si aggiunge, immancabile in simili legislazioni, la piaga cancrenosa, quanto mai dissolvente, del divorzio, che vi si va vieppiù facilitando.
• Per lo scisma, ne diede saggio mostruoso il massacratore di regine, Enrico VIII Tudor, iniziatore dello scisma Anglicano: per l’eresia, assistiamo al sovvertimento del diritto matrimoniale in tutti quei paesi dov’essa prevalse, secondo i bestiali principii degli autori del protestantesimo: per il libero pensiero poi, materiato di razionalismo e di settarismo, sappiamo quale ampia porta abbia aperto alle nefaindità del divorzio, esso che nella sua stampa, nei suoi spettacoli quotidiani, nella ributtante sua pratica, pare facciasi svergognato paladino del cosiddetto libero amore.
• E il divorzio, cos’è per la donna? Quand’è un fatto compiuto, è la catastrofe! «La reietta, dice il Lacordaire, era venuta alle nozze giovane, integra, leggiadra... la si rimanda minorata dall’età, dalle malattie, dai dispiaceri, dalla stessa consuetudine coniugale; non è più che un rudere! E resta nella vita proprio come in una casa un mobile sciupato dal tempo, e fuori uso, che non lo si vuole tra i piedi, e si rilega là, tra i ciarpami». Per un divorziato è anche troppo facile trovarsi altro.... ricapito; ma la divorziata, di ordinario, non trova che amarezze e rimpianti, anche se non vi si venga ad aggiungere la mancanza stessa del necessario alla vita materiale! Ed anche prima che vengasi all’attuale separazione, che arma fatale non è la minaccia del divorzio, in mano dell’uomo contro la donna! Che strumento di abbietta, dolorosissima tirannia, in mano di un prepotente, di un cùpido, di un lussurioso! E che vita d’inferno non è allora per la donna ad inghiottire tutti i bocconi anche più amari, per evitare lo scocco della velenosa saetta! Per ultimo, non sarà qui ozioso un accenno fugace alla donna spregiudicata, quale ce la va purtroppo preparando la età nostra laicizzata, scristianeggiata, di nuovo paganeggiante. Che creatura esosa nei suoi sempre rinnovati capricci, nelle sue irritanti pretese, nella sua leggerezza fenomenale, nel suo egoismo insaziabile, nella sua esotica progressiva mascolinizzazione, nella sfacciata procacità delle sue mode, nella sua nullità riguardo all’assetto domestico, alle incombenze familiari, a quei minuti lavori che le sarebbero proprii! Poveri mariti di simili spose! Poveri figli (se mai ne nasceranno) di simili madri! Povera società, che nulla ne avrà da attendere di bene, minata nelle fonti stesse del suo rinnovamento!
• La donna nel regime comunistico. Qui possiamo dire in certo qual modo che tocchiamo il colmo della degenerazione e del disordine nei riguardi della donna, voluta scristianizzare. Diceva la «Pravda» (8 marzo 1920): «Trascinare la donna nel lavoro produttivo comune: strapparla al lavoro della casa: liberarla dalla sottomissione umiliante ed avvilente al marito, e dal trovarsi esclusivamente ed eternamente occupata nella cucina e tra le cure dei figli; ecco lo scopo principale da raggiungere!». E il Lenin dopo soli due anni dall’inizio dell’opera nefasta, cioè nel 1919, già poteva scrivere: «Noi non abbiamo lasciato letteralmente pietra sopra pietra di tutte le leggi odiose sull’ineguaglianza della donna, sulla restrizione del divorzio, sulla formalità tediosa che lo circonda, ecc.». Distruzione dunque dell’antico ordine giuridico matrimoniale, su tutta la linea; per sostituirvi che cosa? Leggiamolo nel libro «La donna e la Stato Comunista» della Kollontai, la famigerata ambasciatrice sovietica: «In luogo dell’antica famiglia, cresce ora una nuova forma di società tra uomo e donna: l’unione cordiale e cameratesca» (leggi la tresca più sfacciata e brutale, sotto il nome di libero amore). E così siam da capo coi mogliazzi da trivio, coi divorzi a ripetizione spaventosamente accelerata, con tutto l’orribile codazzo di mali, di lacrime, di odii insanabili, di rovine fatali, di stragi di innocenti con regresso di secoli e di millenni all’antica barbarie !... Ci si dirà esaltati, esagerati, pessimisti impenitenti? Parlino le cifre! «A Leningrado la più parte dei matrimonii dura da sette giorni ad un mese. (Si tratta sempre naturalmente, di matrimoni registrati ufficialmente: gli altri chi li controlla?). E a Mosca vi si ebbero nel 1934 ben 37 divorzi su cento matrimoni: nel 1935 la cifra dei divorzi saliva a 44, e l’anno dopo, 1936, saliva ai 45; sempre su cento matrimonii... E i matrimoni della durata di una sola notte non sono rari!» (Docum. Anticom., gennaio 1937). E meno male ancora, quando si abbia la triste lealtà di dichiarare apertamente il divorzio: chè almeno così si sa con chi si ha da fare, e come comportarsi in conseguenza; il peggio si è quando il caro adorato marito ti pianta lì, all’improvviso, coi figli sulle braccia, coi debiti da pagare, e con chissà quali imbrogli in soprappiù! Ed è appunto questo che è all’ordine del giorno nella Russia sovietica, paese classico del comunismo. La «Pravda» dell’11 agosto 1935 ci assicura che «il 40 per cento (quasi la metà!) di madri di famiglia operaie sono abbandonate dai loro mariti, e devono provvedere da sole alle necessità dei figli! E quindi nessuna meraviglia che tante di esse si sfibrino e invecchino innanzi tempo in un improbo lavoro, appunto per mantenere comechessia le loro povere creature, così abbandonate dai padri! Né possono sperare gran che dall’assistenza dei tribunali in simili circostanze: son troppo lenti; né sì muoverebbero, se prima la ricorrente non avesse scovato il marito latitante: ed a scovarlo ci vogliono troppe spese e troppo tempo, cui essa non può sostenere! Perciò il Krilenko, Commissario del Popolo per la Giustizia, ammetteva, nel 1935, per la sola Repubblica Russa, essere in sospeso ben 200.000 istanze giudiziarie contro mariti randagi, per costringerli a fornire gli alimenti dovuti. (Così le Izvestija del 10 agosto 1935). Disordini immani questi, già in se stessi : ma li rende più lacrimevoli ancora l’abbrutimento al quale n’è troppo spesso condotta la donna, fatta spietata contro il frutto stesso delle sue viscere. Né ci fermiamo a parlare dello stragrande numero di trovatelli, abbandonati anche dalla loro madre (nella sola Mosca, al dire della Pravda - 10 maggio 1935 - se ne raccolsero da 80 a 90 al mese, al disotto di tre anni!); accenniamo invece all’infanticidio ributtante e cinico, risuscitato in Europa dalle dottrine comunistiche. Ci attesta la Pravda dell’11 luglio 1935 che, due mesi prima, di 150 operaie bolsceviche ben 120 non vollero continuare ad essere madri, sopprimendo esse stesse la prole concepita! (Adesso addirittura l’infanticidio viene perpetrato negli ospedali e pagato con i soldi estorti delle nostre sudate tasse, ndr.). E il dott. Editt Summerkill comunicava in Londra, nel 1935, al Congresso di pace ed amicizia coi Soviet (tenuto nei giorni 7 ed 8 dicembre) come nel solo anno 1934 un solo medico avesse soppresso 12.000 creaturine! E se ne vantava! Del resto, non è una novità per quei disgraziati paesi: a Mosca si contano ben 100.000 simili soppressioni all’anno! Fermiamoci qui: ce n’è abbastanza per farci un’idea di ciò che il comunismo ha fatto della donna: putridume-miseria-cinismo-crudeltà! La gramigna indigena delle terre «senza-Dio»! Voltiamo pagina!
[Il nostro stimato e rigorosissimo Autore solo anticipa e presagisce quelle mostruosità cui il femminismo precipiterà l’intera nostra società da lì a trenta, quarant’anni. Tanto che oggi giorno, probabilmente, qualche lettore - assuefatto ed inebriato dal pensiero, dai vizi, dalla corruzione, dai modi moderni - potrebbe non provare disgusto e non accorgersi degli immensi danni provocati da sì funeste turpitudini ed abominazioni. L’uomo d’oggi potrebbe non avvertirne il pericolo. La circuizione della donna è distruzione e disgregazione della famiglia, per conseguenza è disfacimento dell’ordine sociale, è usurpazione dei diritti divini e naturali, è defraudazione dei ruoli di madre e di padre, è plagio ed atomizzazione della prole, è l’inizio di un “mondo nuovo” ben descritto da chi, come Aldous Huxley, verosimilmente ben conosceva, dall’interno, le trame dei settarii, ndr.].
• Riabilitazione della donna nella Chiesa Cattolica. Veniamo ormai a parlare dell’opera della Chiesta a pro’ della donna: riconosceremo nelle sue dottrine, nelle sue influenze, nelle sue sollecitudini, l’alito rigeneratore dell’oltraggiata e calpestata debolezza femminile: e a lei attribuiremo il vanto di avere in sì importante materia rimediato radicalmente al profondo disordine che per secoli e secoli afflisse e disonorò l’umanità. Non già che neghiamo che fuori della Chiesa sia possibile incontrare rispetto alla donna, e vivo impegno nel difenderla; ma non sappiamo quante volte ci verrà fatto d’incontrarlo non menomato nella sua nobiltà dai freddi calcoli dell’egoismo. Chè esso s’incontra tra gli Indiani: ma è in gran parte desiderio di figliolanza prosperosa; nel gius germanico si rinnoda a superstiziosi terrori; nel gius ripuario s’ispira a mire politiche; nel gius alamanno e bavarese traspare notevole l’influsso cristiano. Il che si avvera anche nelle nazioni moderne: dove il rispetto e il nobile amore verso la donna non è una semplice cornice di parata, ma realtà vissuta, là regna lo spirito cattolico, ovvero se ne sente ancora operosa la sopravvivenza.
• Gesù Cristo, il liberatore! Il poeta francese Henri de Bornier, dopo aver lamentato la triste sorte della donna nel paganesimo, così riassume l’opera ristoratrice, a prò di quella, compiuta dalla Chiesa: «Mais quelqu’un est venu briser ce joug infame. Il a mis une étoile au front blanc de la femme! Il a fait d’elle, au lieu de l’esclave domptée Un miracle charmant de vertu, de bonté: Et pour forcer enfin l’ironie à se taire, A l’homme, dont l’orgueil la courbait jusqu’a terre, Il dit: Au haut du Ciel, dans l’ombre du saint lieu Regarde! C’est la Mère, au coté de ton Dieu! » (L’Apôtre, II, 4). Questo Taumaturgo è Gesù Cristo, che della Chiesa si valse per la grande riforma: quella stella che fu riposta alla donna sulla candida fronte, è la dignità di lei pienamente ristabilita. Infatti qual è la dottrina della Chiesa riguardo a tal dignità? Essa ci richiama col suo insegnamento ai primordi stessi dell’umano genere; e vi ci mostra Adamo vagare solitario per il giovane mondo, senza un suo simile con cui intrattenersi. E ci aggiunge che Iddio, a ricreare tal solitudine, creò Eva, e la condusse sposa ad Adamo, simile a lui nella natura, nella ragionevolezza, nell’armonia degli affetti, nei destini oltremondani; affinché dividesse con lui la sovranità dell’universo. E ci predica alto come la donna, non meno dell’uomo, sia fatta ad immagine e somiglianza di Dio: che con la grazia di Dio può poggiare alle altezze più sublimi della virtù, dell’eroismo, e così cingere in Cielo un eterno diadema, fatta più veneranda ai mortali per la divina sembianza saputa da lei perfezionare in se medesima. Indi, sempre la Chiesa, traendoci seco in ispirito per le altezze serene dell’Empireo, ci addita quante stelle di superiore grandezza lassù risplendano, decoro e vanto del sesso femminile: sino a condurci ai piedi di quella Vergine «umile ed alta più che creatura» alla quale Gesù Cristo-Dio conferì in perpetuo l’impero sovrano del Cielo e della terra. E al sentire le angeliche schiere inneggiarle perennemente come a loro Regina: al contemplare, prostata ai piedi di Lei or supplice, or grata, l’umanità sofferente: al vederla fatta arbitra dei destini del mondo e tanto vicina a Dio, ripetiamo volentieri col poeta: «Donna, sei tanto grande, e tanto vali, Che qual vuol grazia, e a Te non ricorre, Sua disianza vuol volar senz’ali! In Te misericordia, in Te pietate: In Te magnificenza, in Te s’aduna Quantunque in creatura è di bontate!». Poteva la donna pagana, dal lacrimevole abisso ove giaceva, porgere gli occhi bramosi, molli di pianto, a vetta più eccelsa? Poteva sognare rivendicazione più compiuta, maggiore glorificazione?
• Riabilitazione giuridica. Rialzata così la dignità morale della donna, la Chiesa venne man mano migliorando in pratica la sua condizione sociale. Sin dal principio le rese il naturale suo posto nella famiglia; promulgò elevate alla dignità di Sacramento le nozze cristiane; intimò solennemente l’unità e l’indissolubilità del vincolo coniugale, rendendone sacra ed inviolabile la legge di amore. Appresso, quando potè farsi sentire fuori delle Catacombe, la Chiesa procurò che fossero riconosciuti e garantiti alla donna i competenti diritti civili (i diritti civili quelli veri, non i simulacri incivili moderni, ndr.): e fu così che «Costantino Magno abrogò la tutela contro natura, cui la donna era soggetta, e accordò alle donne maggiorenti diritti analoghi a quelli dell’uomo. L’anno 321, quel medesimo ch’è sì memorabile per la legge sugli affrancamenti, è anche l’anno nel quale Costantino estese a tutte le madri il diritto di partecipare all’eredità dei loro figliuoli ». (Troplong). Ed è ancora dalla Chiesa, e dai nuovi costumi da lei introdotti, che deve ripetersi quel rispetto, quel quasi culto della donna, il quale quando non fu viziato da eccessi irragionevoli, fu nobile ed anche santo, e venne chiamato «Cavalleria», dai Cavalieri cristiani che l’usavano. Al quale proposito così ragiona quel profondo psicologo che fu Giacomo Balmes: «Penetrando più addietro nello spirito della cavalleria, e fermandoci in particolare sui caratteri dei sentimenti che essa nutriva verso la donna, si vede che non fu già la cavalleria a rialzare la donna poiché la trovò già rialzata e stimata; non fu essa a darle un nuovo posto di onore : ma trovò che già l’occupava. E per verità, se non fosse così sarebbe impossibile concepire una galanteria, che divenne poi tanto esagerata e fantastica. Invece s’immagini la intemerata verginella cristiana, resa più celeste ed eterea dal candido velo onde l’adorna il Cristianesimo: si capirà il delirio del cavaliere che snuda la spada, roteandola contro il nibbio grifagno che insidia all’innocente colomba... S’immagini la sposa fedele, la virtuosa matrona, la madre teneramente sollecita, in una parola, quell’angelo della famiglia cristiana che incentra in sé l’affetto del marito e dei figli: s’intenderà facilmente l’ebbrezza del cavaliere, che pregusta, pur pensandola, tanta domestica felicità! Di qui l’entusiasmo che il preme, e che lo spinge all’eroismo; esso non è più un semplice amore ordinario; è qualcosa di meglio che un impeto passionato; se rimarrà onesto, sarà intima venerazione». Evidentemente non parliamo qui della cavalleria tutta sensuale, quale ce la hanno descritta, adulterandola, i romanzieri: parliamo di quel puro ideale di carità cristiana, ch’era tanto più umile e squisita nei suoi riguardi, quant’era più fervida e soprannaturale nel suo motivo: di quell’ideale che faceva sua impresa la difesa del debole, il sostegno della virtù, l’eroismo ad onore della SS. Vergine, consacrandosi per questo triplice fine al soccorso della donna, troppo spesso tra barbari popoli, e per lo più guerrieri, pericolante. Quest’era appunto l’ideale cavalleresco a cui s’ispirava il Beato Enrico Susone. Figlio di un nobile cavaliere, e figura egli stesso fra le più insigni, nel mondo sì vario della cavalleria medioevale, passava un giorno attraverso una campagna melmosa, seguendo l’unico stretto sentiero che v’era praticato. Ad un tratto egli vide venirsi incontro una povera donna ond’egli si ritrasse dalla via asciutta, spostandosi verso l’acquitrino, per cederle il passo. La poveretta, tutta stupita, lo interrogò: — «E come, buon signore, lei, uomo nobile e prete venerando, cede il passo a me, donna volgare?». Enrico le rispose: «Buona donna, non ve ne meravigliate: è mio costume fare onore e cortesia a tutte le donne, per amore alla cara Madre di Dio, che è nel Cielo!». Allora la donna levò gli occhi al Cielo, e riprese: — «Ebbene, io prego la stessa Veneranda Signora che lei non abbia a partire da questo mondo prima di aver ricevuto qualche grande favore dalla Madonna, che lei onora in tutte le donne!». Belle parole, sensi sublimi, che non è dato trovare fuori del Cristianesimo!
• Ascensioni sociali della donna nel Cristianesimo. La Vergine cristiana. Né qui s’arresta l’opera della Chiesa ristoratrice della donna; di origine celeste, come ella è, sempre la Chiesa mira più alto; e, com’è proprio dei giusti, sì accinge ardimentosa a sempre nuove ascensioni. Quindi, affinché la stima, il rispetto, l’amore, onde la Chiesa vuole circondata la donna siano sempre meglio fondati e durevoli, essa attrae lei per i sentieri di sovrumane virtù, e le irraggia in fronte una luce sovrannaturale; dolce riverbero di quella luce paradisiaca, che da sé riflette la «benedetta fra tutte le donne», la Beata Vergine Maria. Ed eccoci a parlare della vergine cristiana, creazione soave del Cristianesimo. Quanto è sublime nella semplicità dei suoi candidi veli, nell’eloquenza mistica del sereno suo sguardo, che, spregiata la terra, cerca più in alto l’oggetto degno dell’amor suo! Il niveo giglio che essa stringe tra le mani simboleggia l’immacolata purezza dell’anima, schiva di ogni corruzione; il suo costume è quello della colomba, che sulle paludi sorvola, e sovra esse trattiene il suo alito fuggitiva, per non contaminarsene; e solo sulle alture, dall’aere più spirabile, intemerata riposa. Oh quanto è ammirabile, cosa divina, la sposa amante di Gesù Cristo, sia che la contempli nel segreto notturno delle Catacombe assumere il bianco velo che le impone il Pontefice, alla vigilia forse del suo martirio; sia che la veda sotto l’abito di Suora della Carità vacillare e cadere insanguinata, colpita a Liao-yang, nella guerra russo-giapponese, dal primo obice lanciato in quella aspra battaglia! E, pari alla sublimità delle aspirazioni che essa rappresenta, è la sublimità della sua missione nel mondo: Iddio dissemina a disegno per la terra, anche negli ambienti più difficili (carceri, ospedali, campi di battaglia, lebbrosari, rifugi, eccetera) questi angeli in carne, perché col salutare esempio richiamino i figliuoli degli uomini dagli abbietti desideri della natura corrotta alle nobili aspirazioni dello spirito cristiano; quando pure non li moltiplica tra noi come vittime elette di espiazione per i peccati dei popoli, come nella Spagna rossa !... E di queste incomparabili creature la Chiesa Cattolica ne ebbe a milioni, di fronte al numero addirittura insignificante delle Vestali, — pur tanto discutibili — a mala pena racimolate nell’immensa distesa dell’antico Impero Romano!
[Tutto ciò, ben si intenda, prima del funesto Vaticano Secondo: Rivoluzione diabolica, ordita dai modernisti e dai settarii, che di giorno in giorno corrode la Chiesa dall’interno e, se mai fosse possibile, la distruggerebbe. Ebbene proprio con i mortiferi principii del Vaticano Secondo, la società ha precipitato la donna in una situazione di apostasia, dunque in una condizione peggiore di quella pagana. Così pure la verginità è quasi estinta e così gli ordini religiosi e le suore. Oggi rimane ben poco, almeno numericamente, di quella che era - e fu per quasi duemila anni - la società cristiana, ndr.].
• La sposa cristiana. Però la vergine cristiana, consacrata al Signore o con solenne rito ovvero anche nell’intimo santuario della propria coscienza, resta pur sempre un’eccezione anche nella Chiesa Cattolica. La Chiesa fu sempre ben lontana dall’errore di certi gnostici e manichei condannanti il Matrimonio, riconosciuto da essa quale uno dei sette Sacramenti. La via comune, tanto per l’uomo, quanto per la donna, è quella dello stato coniugale; quindi la Chiesa, non omise né cure né industrie per elevare e santificare la sposa cristiana. E anzitutto coll’unità e coll’indissolubilità delle nozze le assicurò la tanto necessaria stabilità del focolare domestico, assicurandola contro i capricci della passione o dell’incostanza del marito, e obbligando questo a vita ordinata per non mettersi da se medesimo la guerra in casa. E che fermezza non dimostrò la Chiesa attraverso dei secoli, per chiudere la porta alle infamie del divorzio; anche a costo di sfidare le bieche furie di prìncipi e di monarchi! Non le mancò sulle labbra il «non licet!» eroico del Battista, ovunque si trattò di difendere la santità del matrimonio, in favore di spose oppresse o rejette, fosse pure contro le ire di un Lotario Imperatore, o di un Filippo Re di Francia, o di un Enrico VIII Re d’Inghilterra. Con la grazia poi del Sacramento del Matrimonio la Chiesa assicurò alla donna l’amore cristiano del suo consorte, già garantito anche dal severo codice dei doveri vicendevoli promulgato dalla morale evangelica, e dalla Chiesa costantemente inculcato. E già Tertulliano all’inizio del III secolo cantava così la santità del matrimonio rinnovato: «Come varremo a descrivere la felicità del matrimonio, che la Chiesa procura, le preghiere confermano, gli angeli riferiscono in cielo, Iddio Padre ratifica? Quale soave giogo di due fedeli in una sola speranza, in una sola disciplina, in un solo dovere! Ambedue fratelli, ambedue conservi; nessuna divisione nelle cose spirituali e materiali. Insieme pregano, insieme piangono, istruendosi a vicenda, giovandosi l’un l’altro. Entrambi nella chiesa di Dio, insieme al banchetto divino, uniti nelle augustie, nelle persecuzioni, nei sollievi; uno non ha misteri per l’altro, né mai lo evita, né mai gli è di peso... Vedendo Cristo tali cose gioisce, e dona a questi due la sua pace; dove due, ivi è egli stesso» (Tertulliano, Ad uxorem II, 9). E ai nostri giorni quante volte il Santo Padre Pio XII ha avuto occasione di esaltare il vero amore nel matrimonio cristiano: «L’affezione vera — diceva agli sposi novelli il 30 Luglio 1941 — senza durezza come senza debolezza, l’amore vero, ispirato ed elevato da Cristo, noi li intravediamo in quelle prime famiglie di convertiti romani, come i Flavii e gli Acilii al tempo della persecuzione di Domiziano; ne ammiriamo lo splendore rifulgente intorno a una Santa Paola e a una Santa Melania.... Solo Nostro Signore è stato capace di far nascere in poveri cuori umani, feriti e traviati dalla colpa originale, un amore che resti puro e forte senza irrigidirsi e indurirsi, amore abbastanza profondamente spirituale per svincolarsi dai brutali stimoli dei sensi e dominarli, pur conservando intatto il suo calore e inalterata la sua delicata tenerezza». E il Santo Padre portava l’esempio d’un’altra Santa, d’una sposa «la cui vita è o dovrebbe essere ben nota a tutte le madri di famiglia, la Beata Anna Maria Taigi». Così in tutti i tempi la Chiesa nelle sue Sante fiorite di ogni virtù anche nello stato coniugale, moltiplicò i più suggestivi esempi di fedeltà, di abnegazione, di tenerezza assidua, di sollecitudine sagace, affettuosa, delicata per i proprii doveri, che mentre attirano sulla casa le tanto necessarie benedizioni di Dio, non possono normalmente non concimare alla sposa da parte dello sposo e ammirazione e amore. Chè se il marito resista alla grazia, la moglie cristiana troverà nei religiosi conforti che le moltiplicherà la Chiesa, nelle sue promesse, nei suoi Sacramenti e nelle sapienti direttive dei suoi Sacerdoti, quelle spirituali consolazioni al suo dolore di cui la donna pagana non potè mai avere, non pur la speranza lontana, ma neanche l’idea.... E così nobilitata e rafforzata dal Cristianesimo a quali altezze non assurse mirabilmente a quando a quando la sposa cristiana! Ammiriamo pure nel ceto beato delle Vergini le Agnesi, le Caterine, le Geltrudi, le Clare, le Giuliane... ma non lesiniamo la nostra ammirazione alle Lucine, alle Brigide, alle Clotildi, alle Teodolinde, alle Edvigi, ecc., della cui memoria s’onora non soltanto la Chiesa, ma anche la rispettiva Nazione che a quelle eroine dava i natali. La grazia divina santifica qualsiasi onesta condizione di vita! Prosegue nel numero 217 ...
Per P. Giulio Monetti SJ e per gli onesti autori menzionati: + Réquiem aetérnam dona eis, Dómine, et lux perpétua lúceat eis. Requiéscant in pace. Amen. +
A cura di CdP
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Stimati Associati e gentili Sostenitori, c’è chi giustamente vede un’antitesi fra il pensiero moderno e la morale cristiana, e vi è sopratutto chi scorge una netta ed irriducibile opposizione fra la vita moderna e l’ascetismo cristiano, che è della morale uno degli aspetti più caratteristici. Le accuse, che si fanno contro la concezione e la pratica cristiana della vita a questo proposito, si possono leggere raccolte nel seguente brano di uno dei tanti volumi di Guido Milanesi, assai noto per i suoi racconti di mare: «No, non era una valle di lacrime questo mondo, ed esso non era destinato, come ultima finalità, a produrre tisici e piagnucolosi santi, che la bestemmiano chiamandola vizio, che impiegano la loro esistenza oziosa a levare le ossute braccia al cielo, salmodiando! Consacrare templi agli atleti dai muscoli di ferro, alle Veneri dalla linea perfetta, a Bacco, alla Vittoria, sciogliere inni alla vitalità: Bios! Afrodite ne è l’essenza e anch’essa è eterna». (Thalatta: racconti e ricordi di mare, p. 292). Ecco una filippica in piena regola contro l’ascetismo cristiano in genere e contro i santi che ne furono gli eroi generosi. Due errori sono evidenti qui: una falsa concezione di tale ascetismo e una pagana esaltazione delle energie e dei godimenti fisici, a scapito dei valori superiori dello spirito e dei ben più nobili e intensi godimenti che essi ci offrono; mentalità pagana che appare bensì come una bella e benefica esaltazione della vita, ma è di essa una deturpazione foriera di rovine e di morte. Ragioniamo quindi un poco, ribattendo le accuse che si fanno al principio ascetico cristiano e ai suoi più insigni modelli, i Santi, riducendole alle due seguenti: 1°: L’ascetismo cristiano è brutta cosa, ipocrisia, rinnegamento della vita, e fa di questo mondo una valle di lacrime. 2°: I Santi poi l’hanno spinto a tal segno, da diventare colpevoli verso la società col rendersi inutili; verso se stessi, sciupando la propria salute; verso la natura, violentandola. Risponderemo separatamente alle due difficoltà utilizzando un prezioso opuscolo della collana S.O.S., «Ascetismo moderno e vita cristiana», del P. Clemente Cavassa S.J., Serie 1, Numero 8, imprimatur 1944.
• L’ascetismo. Questa parola significa, etimologicamente, esercizio (dal greco: askesis). In origine significò l’esercizio fisico, che si faceva dagli atleti; esso richiedeva sforzo e l’uso di un regime, per conservare e accrescere il vigore del corpo. Presso i filosofi, quella degli asceti formò una scuola: gli stoici si erano dati tale nome, comparandosi agli atleti. Essi sono, con i pitagorici ed i cinici, i fondatori dell’ascetismo filosofico, praticato poi dalla scuola di Alessandria: fondato sul disprezzo del corpo e delle sensazioni corporee, esso tendeva ad assicurare, con le sofferenze fisiche, il trionfo dell’anima sugli istinti e le passioni. Anche San Paolo, e dopo lui i dottori cristiani, usarono a proposito di ascetismo il paragone degli atleti. L’Apostolo ricorda lo sforzo e la continenza di questi ultimi nello stadio, per conquistare - egli dice - una corona corruttibile. «A più forte ragione — soggiunge — io affliggo il mio corpo e lo riduco in servitù, affinché non avvenga che, dopo aver Predicato agli altri, io sia riprovato». La diversa finalità quindi dà origine ai diversi ascetismi: fisico, intellettuale, morale, religioso. Vi è così l’ascetismo ebraico dei nazzareni e degli esseni, quello dei buddisti e dei maomettani.
• L’ascetismo cristiano. Consta di esercizi intesi a togliere o a ridurre nell’uomo gli impedimenti ad unire l’anima con Dio mediante l’amore di carità, cioè a conseguire la perfezione morale. Questa perfezione consiste in una armonia di tutto l’essere umano, nei suoi rapporti con Dio, col prossimo e con se stesso, quindi l’ascetismo si riduce essenzialmente ad esercitare le virtù della giustizia e della temperanza per cui l’uomo tiene soggetti alla volontà, guidata dalla ragione, i propri appetiti inferiori, e la volontà sottomette a Dio ed alla Sua legge. Unico ostacolo a raggiungere questa armonia sono le passioni disordinate: l’esercizio della perfezione cristiana, o ascetismo, consisterà praticamente nel domare ed orientare rettamente le passioni, non già nel soffocarle. a) Il Vangelo esorta a ciò. «Chi vuol venire dietro a me, ha detto Gesù, rinneghi se stesso, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua». Ecco qui proposte al cristiano le tre fasi dell’ascetismo: la rinuncia, ossia la lotta contro l’egoismo orgoglioso e sensuale; l’accettazione dei pesi, ossia dei doveri quotidiani della vita; lo sforzo per imitare le virtù del Redentore. b) A QUESTO FINE POSSONO ESSERE NECESSARI ANCHE DEI GRANDI SACRIFICI che sarà ragionevole, doveroso ed utile affrontare. Dice Gesù nel Vangelo: «Se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, (ossia di far del male) strappalo e gettalo lontano da te. Se la tua mano ti è motivo di scandalo, troncala e gettala via da te. È meglio per te che perisca uno dei tuoi membri, anziché tutto il tuo essere vada dannato». Ossia è meglio rinunciare ad una soddisfazione alla quale ci stimola la concupiscenza, e affrontare per questo la pena che accompagna tale rinuncia, che non violare la legge morale e quindi perdere la grazia di Dio ed esporci ad andare per sempre lontani da Lui nell’altra vita.
• La vita diventa così un giogo? Si e no! Si, perché pesa alla natura umana, decaduta dal suo stato di integrità originale, sottostante ad una legge che, per reintegrare l’armonia fa violenza alle tendenze inferiori e modera la ricerca del piacere sensibile, contenendolo nei limiti del lecito e dell’onesto. No, perché si tratta in realtà di una liberazione, e la grazia divina ne rende il peso leggero e soave. «Prendete sopra di voi il mio giogo: il mio giogo è soave, il mio peso è leggero», dice il Signore. Una vera liberazione dalla schiavitù dei sensi è il frutto dell’esercizio con cui la volontà afferma il proprio dominio sugli impulsi passionali della natura inferiore, mentre non vi è tirannia peggiore di quella esercitata dall’insaziata brama dei godimenti sensuali. G. A. Borgese, esaminando in D’Annunzio quel suo edonismo che lo porta ad esaltare nelle sue opere la ricerca, fino allo spasimo e al delitto, di tali godimenti, osserva giustamente: «È impossibile godere quanto l’immaginazione vorrebbe: e se pure si raggiunge un vertice o una palude (in questo caso il picco e la palude coincidono) sul vertice o nella profondità raggiunta non si trova il riposo, ma si incontra il vento di una libidine che aspira ad un vertice o ad una profondità più lontana. La lussuria, istruita e disgustata dall’esperienza, sazia sempre più debolmente le cupidigie della fantasia. Quindi una amarezza che diviene implacabile, via via che si allarga la distanza abissale fra il desiderio che giganteggia e la salute che sfiorisce». Fin qui il Borgese (non certo tenero per l’ascetismo cristiano), ma alle sue considerazioni va aggiunto che lo spirito soffre pur esso col corpo e più di esso, per questa disordinata ricerca del godimento, e quindi se ne va, colla salute fisica, anche, e sopratutto quella dell’anima, che si corrompe, si avvilisce e si rattrista nella propria sconfitta, come confessa D’Annunzio stesso in quei versi: «Tristezza atroce della carne immonda quando la fiamma del desio nel gelo del disgusto si spegne...». Invece i frutti del sacrificio per conservare il dominio dei sensi sono la pace e la serenità dello spirito, il benessere cioè che vi ha di più profondo nell’uomo e gli dà un godimento non saltuario ma perenne, non violento, ma intenso e diffuso ad avvolgere tutto l’essere, in modo ineffabile, che non debilita, ma stimola ad agire, e permette quindi di gustare la vera gioia di vivere, di sentirsi vivere cioè e di operare a bene degli altri.
• È innaturale ed irragionevole tutto ciò? Assolutamente no. È invece quanto vi può essere di più ragionevole e di più conforme alla natura completa dell’uomo, considerata cioè nel suo essere complesso, caratterizzato da una gerarchia di facoltà aventi e cercanti ciascuna il proprio bene e quindi dotate di proprie appetizioni, le quali allora soltanto saranno legittime e porteranno al vero bene dell’individuo, quando sarà rispettata la gerarchia nel mutuo rispetto dei limiti, che il complesso umano impone alle sue parti, e di quelli che il complesso sociale impone a ciascun uomo. Nulla di più naturale quindi e di più ragionevole che il forte esercizio della volontà nella ricerca dell’equilibrio morale, anche se per conquistarlo l’uomo debba contraddire e sacrificare tendenze, istinti, appetizioni, che sono bensì della natura, ma non per se stesse ordinate al suo bene, se non intervenga l’azione direttrice e moderatrice della volontà, guidata dalla ragione, detta perciò appetito razionale. Ed ecco due testimonianze a favore di questa tesi: Federico Forster, illustre pedagogista (benché protestante), scrive: «Il grande errore della Pedagogia moderna è stato di considerare come una cosa assai facile la padronanza di se stesso, che è il fondamento della libertà umana, senza considerare che in questo punto non vi ha altra via che un esercizio aspro ed austero». Giovanni Stuart Mill, noto filosofo ed economista inglese, dice: «Da colui il quale non si è negato alcunché di lecito, non può sperarsi con certezza che sarà capace di negarsi tutte le cose illecite». Va quindi affermato che l’esercizio della mortificazione del corpo risponde ad un misterioso bisogno dell’anima umana in vista nella perfezione morale, se, come brevemente è stato accennato: 1° Lo si incontra nella maggior parte delle religioni (nella nostra vera religione, ma anche in molte false religioni); 2° È stato in onore presso parecchie scuole filosofiche; 3° È un’applicazione del principio pedagogico-morale che l’offensiva è migliore della difensiva.
• Gradi dell’ascetismo cristiano. Un certo grado è doveroso per chiunque voglia evitare il male. Non si può essere discepoli di Cristo, se non si prende «ogni giorno la propria croce» camminando dietro di Lui, cioè se non si affrontano i pesi, le contrarietà ed i dolori della vita, e se non si usano i mezzi necessari a viverla bene. «Quelli che sono di Cristo — dice San Paolo — hanno crocifissa la propria carne con i suoi vizi e le concupiscenze». Oltre questo grado c’è il campo libero e aperto alla generosità di ciascuno, nello sforzo di raggiungere la perfezione, secondo l’esortazione evangelica «siate perfetti come è perfetto il Padre vostro, che sta nei cieli». Vi sono così tre stadi di ascetismo, corrispondenti ai tre gradi di perfezione della carità, che può essere nel cuore dell’uomo: 1° Incipiente: se le passioni vietano ancora l’esercizio facile e dilettevole delle virtù; sussiste il pericolo della caduta nella colpa grave: è stato di battaglia. 2° Proficiente: se le passioni sono soggette così da non spingere più notevolmente alla colpa, e l’uomo può esercitare le virtù con facilità e prontezza. 3° Perfetta: se le passioni sono così domate e l’esercizio delle virtù è così attivo, che con spontaneità e diletto si esercitano nel primo e perfettissimo ufficio della carità, che è di amare Dio sopra ogni cosa con tutte le forze, ed amare il prossimo come se stesso per amore di Dio (che significa anche e soprattutto non commettere peccato).
• Gioia e dolore. E qui, a conclusione di questa prima parte della nostra breve trattazione, cade opportuno richiamare il concetto esatto di gioia, benessere al quale ogni uomo aspira con impeto istintivo ed irrefrenabile, essendo noi tutti creati per la felicità; in opposizione al dolore, dal quale ciascuno istintivamente rifugge, come dal male contrario alla nostra natura e al nostro ultimo fine. Riferiremo qui, talvolta alla lettera, tal altra con qualche aggiunta e qualche variante, ciò che ebbe a scrivere tanto efficacemente il compianto Mons. Montalbetti, Arcivescovo di Reggio Calabria, sul periodico «Catechesi» del maggio 1935, dando prima il vero concetto della gioia, e mostrando quindi quali gioie il cristianesimo permetta e quali doni di suo, quali dolori tolga e quali non tolga. a) CONCETTO DI GIOIA. È lo stato di benessere che nasce dall’appagamento dell’uomo nel possesso del suo bene. Non è quindi la somma di piaceri ricavati dal possesso delle cose esteriori, non viene dall’esterno all’interno, ma sgorga dall’intimo, quando la parte migliore di noi, l’anima, è soddisfatta, e allora irradia di sé il volto, gli atti, le parole, e si riverbera sull’ambiente che ci sta intorno. Il mondo esteriore può bensì servire di stimolo all’esplosione della gioia, ma se l’intima sorgente della gioia in noi è inaridita, tutti i divertimenti e le frenesie del mondo non ci daranno un sorriso vero, espressione della piena soddisfazione di tutto l’io. È comunissima e disastrosa, specie nei giovani, questa confusione fra la gioia ed il divertimento, fra il riso vero e la risata. Quante volte il giovane, che è avido di gioia, si butta al divertimento senza criterio e senza misura, e resta poi con l’animo tanto più amareggiato quanto meno ha rispettato i limiti della temperanza e dell’onestà. V’è chi dice che la gioia induce alla fede, nel senso che le anime deboli, avendo bisogno di contentamento, di sicurezza, di gioia, e non sapendo trovarla da sé, si attaccano a Dio come a dispensatore di gioia. C’è del vero e c’è del falso: è vero che la fede dà gioia, non è vero che la gioia sia la causa della fede. La fede però si dimostra vera dando la gioia, come il cibo si dimostra tale nutrendo, il vino si dimostra genuino inebriando. Non è neppure da confondersi la gioia col trionfo: il soldato combattente può aver maggior gioia del trionfatore; il lavoratore maggior gioia del pensionato. Una giornata di lotte dà generalmente più gioia che una giornata di bonaccia, la quale induce facilmente alla noia ed allo scontento, come il tramonto di una giornata di tempesta di solito è più azzurro, più rosso, più luminoso del tramonto di una torrida giornata senza nubi. Il grande segreto della gioia, come dell’intera vita umana, è l’amore: ma l’amore nobile, puro, benefico; l’amore cioè di benevolenza con il quale cerchiamo il bene degli altri; non di concupiscenza, con il quale cerchiamo il bene nostro; l’amore quindi per Dio, che è il sommo bene, e l’amore per il prossimo, che vogliamo beneficare comunicandogli il nostro bene, a somiglianza di Dio che, essendo bontà infinita, gode nel comunicare a tutti gli esseri, in diversa misura, le proprie perfezioni. Così l’amore, nella sua più alta espressione che è la carità, ci avvicina e ci assimila a Dio, e quindi ci procura il sommo godimento, perché sazia in noi l’aspirazione più profonda e capitale, che è per il bene infinito. L’egoismo invece cerca il piacere e trova la delusione, la noia, il vuoto, poiché chiudendo l’uomo sopra di sé, lo confina nella sua insufficienza. È per questo che la massima serenità la troviamo nei Santi, e specialmente in quelli che brillarono per speciale carità, come San Francesco di Assisi, San Vincenzo de’ Paoli, il Cottolengo, ecc. La gioia è perciò la prima e l’ultima parola del Vangelo: l’angelo annunzia un gaudio grande sulla culla del Redentore, e questi, poco prima di morire, proclama ben alto, nel discorso della Cena, che vuole piena la nostra gioia.
• Le gioie nel Cristianesimo. Esso permette ed anzi intensifica elevandole e rendendo l’uomo meglio atto a goderne, tutte le gioie lecite, come la contemplazione della natura, il gaudio delle scienze — da quelle sperimentali a quelle più astratte —, le dolcezze profonde ed estasianti dell’arte, sia in chi produce i capolavori sia in chi li gusta; l’assaporamento dei doni e dei frutti svariatissimi della terra; le gioie famigliari, così riboccanti di vera poesia, e quelle dell’amicizia e della conversazione con i prossimi; i diletti che provengono dai sani divertimenti, non escluso lo sport ed i buoni spettacoli di ogni fatta. Oltre a ciò il Cristianesimo dà, di suo, tutto un tesoro di gioie purissime e ineffabili, che sgorgano da questi veri e supremi beni: una visione chiara e completa della vita nella sua origine, nei suoi sviluppi e nel suo fine ultimo; la fiducia nella Provvidenza in ogni evento; la pace del cuore; la sicurezza delle speranze immortali; la spiegazione del dolore e della morte; il rimedio in qualsiasi circostanza. Di ciò parla così eloquentemente il Manzoni nei Promessi Sposi, quando dice: «È una delle facoltà singolari e incomunicabili della religione cristiana il poter indirizzare e consolare chiunque in qual si voglia termine ricorra ad essa... È una strada così fatta che, da qualunque labirinto, da qualunque precipizio l’uomo capiti ad essa, vi faccia un passo, può d’allora in poi camminare con sicurezza e di buona voglia arrivare lietamente a un lieto fine».
• I dolori nel Cristianesimo. Molti casi, e i più gravi, li allontana da noi: le angosce del dubbio, i rimorsi, la desolazione del pessimismo e quella che nasce dal considerare la vanità di tutto, l’inutilità apparente del dolore, la crudeltà del destino, l’agitazione delle passioni aizzate e sempre meno sazie, le delusioni delle ricchezze, degli onori, dei piaceri, la solitudine, il vuoto, il non senso della vita, il terrore della morte. Il Cristianesimo non toglie alla vita i mali e quindi i dolori affatto indipendenti dalla fede e dalla coscienza di ognuno, quelli cioè che sono il retaggio di ogni uomo, come la fede stessa insegna e spiega, e cioè: la morte, le malattie, gli insuccessi, le passioni, l’ignoranza relativa, i disagi e le fatiche del lavoro, le difficoltà al bene, le persecuzioni, le incomprensioni, le ingratitudini, i tradimenti, ecc. Certo la fede anche più viva e l’onestà anche più schietta non eliminano questi mali e questi dolori, ma li addolciscono e li avvalorano, come ben fa dire il Manzoni, nella chiusa del suo immortale romanzo, ai due protagonisti: «Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani, e che quando vengono o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce e li rende utili per una vita migliore». Parole che valgono quanto un intero trattato di filosofia! Si potrebbe obbiettare che il Cristianesimo impone il dolore che proviene dall’astensione da tante gioie che esso vieta; ma si risponde che la privazione di quelle gioie invereconde, che formano la così detta felicità dei libertini e dei mondani non impone nessun vero dolore. Costa fatica in principio rinunziarvi, ma poi non se ne sente più attrattiva, anzi si giunge a provarne fastidio e nausea. A conferma di tutto questo si potrebbero citare innumerevoli testimonianze di uomini insigni, di tutti i tempi e di tutti i luoghi, i quali, lontano dal Cristianesimo, pur avendo dovizia di beni terreni, furono e si proclamarono infelicissimi; e di altri che, giunti alla fede cristiana, vi hanno trovato la gioia, sia pure fra le contrarietà e l’ardore delle battaglie.
• Ascoltiamone alcuni. Giacomo Puccini lasciò scritto in un foglio trovato, dopo la sua morte, nella casa di Viareggio ove era vissuto carico di onori e di milioni: «Mi sento solo. Pure la musica, triste mi rende. Oh! come è dura la vita mia! E sì che a molti sembro felice! Ma i miei successi...? Passano, e resta ben poca cosa! La vita corre: Passa veloce la giovinezza e l’occhio scruta l’eternità...!» (A. Fraccaroli: Vita di G. Puccini). Anatole France, al suo segretario Brousson, che gli andava ripetendo che nulla mancava alla sua gloria e alla sua gioia, prese le mani nelle sue e guardandolo negli occhi con occhi lucidi di pianto, rispose: «Basta, basta amico mio! Ah se voi sapeste leggere nella mia anima, sareste spaventato. Non c’è nel mondo intero una creatura così infelice come me. Mi si crede felice. Io non lo sono mai stato, un’ora, un giorno, mai» (Brousson: A. France intimo). Gabriele D’Annunzio scrisse nel 1935 questi versi, che esprimono il senso di profonda tristezza dal quale il suo animo era dominato: «Tutta la vita è senza mutamento. Ha un solo volto la malinconia. Il pensiero ha per cima la follia. E l’amore è legato al tradimento». Al contrario, San Paolo esclama: «Io sovrabbondo di gioia in mezzo a tutte le mie tribolazioni». Giosuè Borsi: «Il mio spirito era prima lo smisurato regno della morte cosparso di cenere e imbevuto di veleno; oggi è un mondo vivo. I pensieri ora rigurgitano in me, pensieri di vita e di verità» (I colloqui). Verkade, protestante olandese fattosi cattolico e monaco benedettino: «Una cosa mi ero proposto, è cioè che se io non avessi trovato la felicità nella Chiesa Cattolica, le avrei voltato le spalle con la stessa franchezza con cui ora vi facevo il mio ingresso» (Il divino tormento). Chesterton: «Si dice che il paganesimo è una religione di gioia e il Cristianesimo di tristezza... Ogni cosa umana deve contenere tristezza e gioia. Quel che interessa è il modo con cui le due cose si bilanciano e si distribuiscono. E l’interessante è che il pagano è sempre più felice avvicinandosi alla terra e sempre più triste avvicinandosi al cielo. La gaiezza del miglior paganesimo è una gaiezza esterna, che riguarda i fatti, non l’origine della vita. Per i pagani le piccole cose sono dolci come i ruscelli zampillanti dalla montagna, ma le grandi cose sono amare come il mare. Quando il pagano guarda al centro del cosmo resta agghiacciato... L’uomo è più se stesso, più umano, quando in lui la gioia diventa qualche cosa di gigantesco e la tristezza qualche cosa di particolare, di piccolo... La gioia, che fu la piccola appariscenza del pagano, è il gigantesco segreto del cristiano» (Ortodossia). Possono bastare queste citazioni, che sono una bella testimonianza delle parole del Maestro Divino: «Il mondo godrà e voi sarete nella tristezza, ma la vostra afflizione si muterà in gioia. Godrà il vostro cuore e nessuno potrà togliervi la vostra gioia» (S. Giov., XVI).
• Le “esagerazioni” dei Santi. Veniamo ora alla seconda obbiezione, che vede nell’ascetismo, così come è stato praticato da certi Santi e come lo si pratica nella vita dei monaci e nello stesso sacerdozio cattolico col celibato, una offesa contro la società, se stessi e la natura.
• Ascetismo rigido volontario. È certo che il Vangelo lascia adito alla generosità dei singoli nel praticare forme austere di ascetismo per raggiungere fini di ordine spirituale, e offre l’esempio di San Giovanni Battista, precursore del Messia, e quello stesso di Gesù, che premise alla predicazione quaranta giorni di digiuno e di preghiere nel deserto, e visse poi privandosi anche delle cose convenienti alla vita: «Le volpi hanno le loro tane, gli uccelli il loro nido, ma il Figliuol dell’uomo non ha ove posare il capo». Va ammesso che certi asceti, sopratutto in oriente, caddero in esagerazioni che non sono per nulla da approvare. Altri si dettero a penitenze straordinarie, come San Simone Stilita, che restò 21 anni sopra una colonna, mentre una forma assai estesa di ascetismo fu, specialmente dopo la persecuzione di Decio, la vita eremitica nel deserto (San Paolo e Sant’Antonio) finché, specialmente per opera di San Pacomio, discepolo di Sant’Antonio, l’ascetismo non venne reso popolare nella vita cenobitica. In occidente essa, per opera di San Benedetto, unì l’attività socialmente e direttamente benefica, all’austerità della vita contemplativa e penitente, secondo il motto «ora et labora» prega e lavora. [Dobbiamo soprattutto all’opera dei Benedettini il grande Occidente, come lo conoscevamo prima della turpe azione della massoneria e del modernismo sull’intera società (Rivoluzioni, Risorgimento, Vaticano Secondo, eccetera)]. In ogni caso, però, va ben stabilito che l’ascetismo cristiano, anche portato nei Santi, negli anacoreti e nei monaci alle forme più rigide: 1° Non considera affatto come un male la vita materiale e i rapporti che ne nascono, come fecero certi filosofi pagani; 2° Non impone a nessuno, ma consiglia la penitenza e la verginità come mezzi di perfezione, non già come fossero essi stessi la perfezione, quindi non permette che si denigrino o si condannino quelli che non le abbracciano.
• Oziosi? Ciò premesso diciamo, diciamo che i Santi, gli asceti, non sono mai degli oziosi, inutili alla società, alla quale rendono invece i servizi più preziosi, perché: a) PLACANO LA GIUSTIZIA DIVINA, compensando con le espiazioni volontarie, le iniquità umane. Scrive Guido Manacorda a questo proposito: «La sofferenza dell’innocente per il colpevole, a prima vista assurda, costituisce invece l’essenza e la razionalità suprema dell’amore. Se infatti amore significa uscire da se stessi e liberamente trasferirsi nell’oggetto amato, nulla di più rigorosamente logico, che in cotesto libero trasferirsi, chi ama prenda sopra di sé i dolori e, dove occorra, l’espiazione dell’amato. Se non che — ed è qui la meraviglia insieme del sacrificio e dell’amore — dove il trasferimento realmente e integralmente avviene, ecco che il dolore subito si tramuta in gioia: nell’uno perché libera, nell altro perché è liberato. Non è possibile gioia più grande. Questo tutto il senso della charitas, ossia dell’Incarnazione, Passione e Risurrezione di Cristo» (Il Frontespizio, Gennaio 1934). E i Santi sono, anche in questa espiazione volontaria, i più perfetti imitatori di Gesù. b) PERFEZIONANO MORALMENTE LA SOCIETÀ’, sia perché perfezionano se stessi, membri di essa, sia perché stimolano gli altri, coll’esempio eroico, a dominare la natura inferiore, indirizzando le passioni a fine onesto e benefico. c) DIVENTANO MEGLIO ATTI A CURARE IL BENE ALTRUI e a sollevare il prossimo dai suoi mali, con disinteresse, delicatezza e sacrificio di sé. Basti considerare ciò che essi operano a bene dei malati, dei poveri, degli orfani, disgraziati e bisognosi di assistenza e di aiuto.
• Suicidi? I Santi, gli asceti, non sono dei suicidi, nemmeno parziali, perché il loro ascetismo, generalmente, giova alla salute, e se in certi casi le nuoce, ciò è giustificato dal bene maggiore ottenuto con tale mezzo. a) GIOVA: la temperanza e la vita austera sottraggono tante cause di malattie e irrobustiscono il fisico. Ne è una prova la longevità dei monaci e degli anacoreti anche più penitenti. b) SE NUOCE reca il bene superiore dello spirito. 1° Il corpo è strumento dell’anima; è logico che serva al suo bene, anche con sacrificio proprio. 2° Molti altri uomini si espongono continuamente ad abbreviarsi la vita o a perderla, per il bene della famiglia e della società (il progresso delle scienze, le invenzioni, le scoperte, ed anche il semplice sfruttamento delle ricchezze naturali, come nelle miniere per esempio). 3° Certi eccessi sono rarissimi, e sono più da ammirarsi che da imitarsi. Li giustificano soltanto una speciale ispirazione di Dio o necessità speciali, straordinariamente gravi: a estremi mali, estremi rimedi.
• Violenti contro natura? I Santi, gli asceti non violentano la natura: a) Né con l’austerità della vita e le afflizioni volontarie del corpo, poiché la natura umana è complessa, ed essenzialmente razionale, ossia spirituale. È quindi nell’ordine della natura subordinare l’inferiore al superiore, è nell’ordine logico sacrificare un bene, una soddisfazione materiale, ed anche imporsi un male fisico, per conseguire un bene d’ordine superiore. b) Né con l’osservanza della castità assoluta, ossia del celibato volontario, per tre motivi: 1° Il matrimonio non è di precetto per il singolo, valendo per il genere umano nel suo complesso il precetto divino «crescete e moltiplicatevi» contenuto nel Genesi. Infatti è di precetto per il singolo, solo ciò che gli è necessario per il conseguimento della perfezione debita alla dignità umana. Ora per la propagazione della specie non è necessario che tutti gli individui contraggano matrimonio. Così nel regno inferiore della natura non tutti i germi di vita danno frutto di nuovi viventi. Né vale obiettare che, se tutti rinunciassero al matrimonio, l’umanità si estinguerebbe: è un’ipotesi assurda, dato il forte impulso di che Dio ha dotato l’uomo, e l’arduità della cosa. Così ad esempio, nessuno, che si senta portato, lascia di dedicarsi alla scienza, pur pensando che se tutti facessero così, gli uomini morirebbero di fame, perché non vi sarebbe chi attenda ai lavori della terra. 2° Il celibato (virtuoso) è moralmente più nobile del matrimonio, benché questo sia più necessario del genere umano. — Più nobile: per i fini nobilissimi che si propone l’uomo col celibato, ossia la perfezione dello spirito, la contemplazione delle verità superiori, la libertà di dedicarsi al culto divino e alle opere di bene per il prossimo. Benché meno necessario: così il cibo è più necessario all’uomo che la scienza, eppure non lo diremo più nobile. 3° Il celibato virtuoso non nuoce alla prosperità del consorzio umano. — Non quantitativamente: perché, dove esso fiorisce, il matrimonio è più fecondo per l’esempio di onestà e di austerità che esso offre, virtù che assicurano le famiglie numerose. — Non qualitativamente, perché la creatura umana che abbraccia la castità volontaria, mentre diviene meglio atta a conseguire la perfezione morale, stimola gli altri al dominio sugli appetiti inferiori, e così migliora il costume, diviene più atto a curare studi elevati, favorendo in tal modo la scienza e le arti, sente il cuore dilatarsi nell’amore del prossimo, e così può meglio consacrarsi ad aiutarlo, anche perché è più libero per farlo. Quindi, anche se il celibato (virtuoso) apparentemente priva di uomini possibili il genere umano, ne procura il bene in altro modo, e tutti sanno come la prosperità sociale non si calcoli tanto dal numero, quanto dalla perfezione dei membri.
• Una grave questione. Poiché la castità perfetta volontaria è una delle forme più caratteristiche dell’ascetismo cristiano ed è al tempo stesso una delle virtù più ardue della natura umana — che alla trasmissione della vita è sollecitata dalla voce possente della specie, che vuole vivere — è opportuno chiarire una duplice questione: in quale relazione essa sia col problema demografico e colla felicità umana. Anche perché, riguardo al celibato, vien fatto di sentire spesso due obbiezioni speciose, che però si annullano a vicenda: vi è chi lo definisce una forma comoda di sfuggire ai pesi e alle responsabilità della famiglia e quindi lo definisce la quintessenza dell’egoismo con la maschera della virtù — e vi è invece chi assolutamente lo proclama impossibile, innaturale, immorale, e quindi compiange come poveri esseri illusi e sacrificati quelli che lo abbracciano, e anzi si mostra scettico sulla loro sincerità e sulla fedeltà a un ideale di vita, che gli appare privo delle gioie più belle dell’amore e della famiglia. Due difficoltà antiche quanto il Cristianesimo, il quale ha messo in onore la verginità perfetta volontaria come uno stato permanente di vita, e che tendono a confondere due forme ben diverse e distinte di celibato: quello virtuoso di chi lo abbraccia come mezzo di perfezione propria e di beneficenza a favore del prossimo, e quello calcolatore e anche vizioso dell’egoista e del libertino, ossia dello scapolo impenitente, che lo eleggono per amore dei propri comodi. A queste due obbiezioni ha risposto già il divino Maestro diciannove secoli fa, in una famosa disputa avuta con i farisei, riferitaci da San Matteo al capo XIX del suo Vangelo e che converrà qui richiamare nelle sue battute salienti. Avendo i farisei interrogato Gesù se fosse lecito rimandare la propria moglie, cioè divorziare da essa, il divino Maestro negò recisamente, appellandosi alla natura stessa del matrimonio, istituito da Dio indissolubile alle origini della vita umana, come proclama la Bibbia nel Genesi. E poiché i farisei insistevano, citando una disposizione della legge mosaica, che consentiva al marito di dare il libello di ripudio alla propria moglie e così disfarsene, Gesù afferma essere stata quella un eccezione transitoria, concessa e anzi strappata a Mosè dalla durezza di cuore degli ebrei, e ribadisce che in principio non era stato così, e d’allora in avanti il matrimonio avrebbe riacquistata tutta intera la sua indissolubilità. Al che i farisei soggiungono: «Se tali devono essere i rapporti dell’uomo con la donna, non conviene sposarsi», e così danno a vedere di pensare e sentire come tanti egoisti, gaudenti e libertini di tutti i tempi e di tutti i luoghi, i quali rifuggono dal formarsi una famiglia per motivi di calcolo miserabile o addirittura scandaloso: per questi la tassa sui celibi stabilita dal Governo in Italia è un vero atto di giustizia sociale! Come risponderà Gesù a questa osservazione interessata? Con sapienza veramente divina, distinguendo dal celibato dipendente da condizioni naturali o comunque dalla cattiva volontà umana, quello virtuoso, di chi lo abbraccia «propter regnum coelorum» per il regno dei cieli, ossia per un fine di perfezione morale, di amore cioè di Dio e del prossimo; e soggiunge: «Chi può capire capisca» dopo aver detto che non tutti possono comprendere ciò, ossia che questo stato di celibato virtuoso costituisce come un’aristocrazia del genere umano, non potendo abbracciarlo chi non abbia la grazia speciale da Dio e volontà salda per corrispondervi. Ecco la chiave di soluzione delle due difficoltà suesposte, ed ecco anche nascere di qui la possibilità di porre nei suoi veri termini la duplice questione dei rapporti fra celibato e problema demografico, fra celibato e felicità.
• Celibato e problema demografico. In varie nazioni d’Europa si è dato da tempo l’allarme per l’incombente pericolo dello spopolamento e si è proclamato di voler affrontare e risolvere il problema demografico. Ma che cosa si intende precisamente con questa espressione? Problema demografico è la difficoltà che un popolo incontra ad assicurare la propria esistenza, in lotta contro l’egoismo calcolatore dei singoli, i quali o si astengono dal costituire una famiglia o, costituitala, temendo il peso della prole, la vogliono sterile o pochissimo feconda. Questa lotta batte in breccia i cittadini pavidi o moralmente corrotti, e vorrebbe farne dei fiduciosi e degli onesti, capi di famiglie numerose. Compito ben arduo, se lo si voglia assolvere con i soli mezzi umani, prospettando agli scapoli ed agli sposi dal focolare deserto o semideserto, l’onere di tasse sul celibato e l’allettativa dei premi di nuzialità e di natalità, poiché l’egoismo umano ha tali trincee da resistere a tutti gli attacchi. Invece questi mezzi diventano ben più efficaci se, come appunto avviene in Italia [n.b. l’Autore scrive nel 1944], si innestino sopra quei mezzi morali e religiosi i quali, ridando al matrimonio tutto il prestigio che gli viene dal suo carattere sacro, e formando i giovani alla conoscenza della legge cristiana e stimolandoli alla sua osservanza, preparano nuove generazioni di cittadini e di cristiani veramente sani nello spirito, forti cioè ed onesti, fiduciosi nella Provvidenza divina che assicura il necessario a chi le viva fedele, non meno che nelle proprie forze e nelle sagge iniziative dei poteri costituiti. Ecco perché il celibato virtuoso, del sacerdote e della vita monastica specialmente, ben lungi dall’essere l’alleato del celibato egoista, ne è il più acerrimo nemico, come è il correttivo più efficace ai focolari voluti deserti o semideserti, perché richiama ai cittadini le vedute soprannaturali e le sanzioni della legge divina, rinsalda negli animi la fiducia nella Provvidenza, mentre offre a tutti l’esempio di tante volontà, che, confortate dalla grazia divina e sprezzando le allettative e le soddisfazioni pur lecite dei sensi, trovano in quelle più nobili e profonde dello spirito la gioia di vivere e lavorare a bene dei fratelli. C’è poi il celibe che resta tale per condizioni e circostanze varie della vita, senza proporsi ed eleggersi tale stato come permanente e definitivo, ma abbracciandolo di fatto e vivendolo onestamente con quelle precauzioni e quegli aiuti della grazia, che Dio non nega mai a chi Lo invoca ed usa i mezzi di salute istituiti dal Redentore e dispensati dalla Chiesa. Tale stato non interessa direttamente la nostra trattazione; solo diremo, a scanso di equivoci, che esso è buono e può anzi essere per certi individui migliore di qualsiasi altro al quale essi non si sentono portati. Il Cristianesimo aiuta a viverlo bene e a renderlo benefico, orientando l’impiego delle energie e delle sostanze nell’esercizio delle opere di misericordia materiale e spirituale a favore dei prossimi, fonte di soddisfazione e di meriti. [Se poi pensiamo che molti dei calunniatori del celibato, i quali sollevano il cosiddetto problema demografico, sono poi i primi propagandisti dell’aborto, della contraccezione e del divorzio, ben comprendiamo da quale miserabile officina sono ispirati cotesti potenziali dannati, e da quali miasmatiche finalità scaturiscono siffatte obiezioni di cartapesta, tutt’altro che nell’interesse pubblico e sociale].
• Celibato e felicità. Ed eccoci introdotti, quasi senza volerlo, alla soluzione del secondo aspetto della questione: come può essere felice l’uomo che, sentendo necessariamente in sé lo stimolo della carne e la innata tendenza a completarsi con la creatura che Dio stesso volle e plasmò come compagna ed aiuto suo, e l’ansia di rivivere e sopravvivere nei figli, si mette volontariamente nell’impossibilità di rimediare legittimamente alla concupiscenza orientando a santo fine ogni impeto di passione, di espandere il cuore nel più soave degli affetti e di sentirsi circondato dalle proprie creature? La risposta a questa difficoltà, che pochi fanno esplicitamente, ma che affiora al pensiero di molti, sta nelle parole del Redentore «non omnes capiunt verbum istud ... qui potest capere capiat», sta sopratutto nella nuova energia che Egli è venuto a portare agli uomini di buona, anzi di ottima volontà. Certo è che, veduto nella sola luce naturale, considerato nel semplice gioco delle forze naturali, il celibato cristiano, anzi ogni stato di verginità perfetta volontaria è un assurdo: lo riconosciamo apertamente. Ma esso va invece considerato come uno stato di vita che il Figlio stesso di Dio fatto uomo ha abbracciato per sé e fatto abbracciare alle creature a Lui più vicine, ha esaltato come mezzo di elevazione e di apostolato, ha reso possibile con la grazia di redenzione meritataci dal Padre, anzi con aiuti del tutto speciali promessi a chi l’avesse seguito su questa via. Allora si capisce come la legge evangelica, caratterizzata da una doppia serie di indirizzi morali: i precetti, che sono di stretto obbligo per tutti, e i consigli, che sono di libera elezione per i chiamati a formare l’eletta dell’umanità, autorizzi, raccomandi ed esalti di fronte a tutta l’umanità questo stato di vita, e come la grazia divina, che è luce e forza ad un tempo, lo renda possibile e soave alla fragile natura umana. Allora, anche chi resta nella via ordinaria della grandissima maggioranza degli uomini, può e deve capire o almeno intravedere, di quali soddisfazioni e di quali gioie superiori alle comuni sia inondato, e quindi sorretto, l’animo di chi, eletto a questo stato di vita e vivendo ad esso fedele con l’uso dei mezzi naturali e soprannaturali richiesti per tale fedeltà, sente dilatarsi il cuore nel palpito della paternità universale delle anime, e deliziare la mente nella contemplazione di verità, che percepite nella luce di Dio e nella calma di una vita più serena, perché sgombra di tante preoccupazioni, dànno all’anima un gaudio che supera ogni umana dolcezza. Per non dire di tutta quell’onda di gioia ineffabile da cui è bene spesso pervasa la vita spirituale dell’anima nei suoi intimi rapporti con Dio, che allieta la sua perenne giovinezza e la compensa così del sacrificio fatto nella rinuncia a tante soddisfazioni della vita, e dello sforzo richiesto per mantenervisi fedele. Anche qui sta chiara la parola del Redentore: «Voi che avete lasciato tutto e avete seguito me, avrete il centuplo (quaggiù) e possederete la vita eterna». Tutto questo è una realtà che la Chiesa cattolica, ed essa sola, vive ed ha vissuto nei diciannove secoli della sua storia. Il celibato è la sua gloria purissima, che essa ha raccolto con mani tremanti dal cuore del suo Fondatore ed ha trasmesso con gioia e con fiducia ai suoi figli migliori; onore davvero divino, come intravidero gli stessi pagani negli omaggi resi alle vestali che salivano al fianco del sacerdote il colle sacro dei sacrifici, ma onore che porta seco un onere proporzionato.
• Gli scandali. Si comprende allora come in tutte le età vi siano stati e vi siano dei deboli, che l’han lasciato cadere e dei traditori che ne hanno abusato; di qui gli scandali, che i nemici del celibato affacciano come un’ultima difficoltà. Fra tanti ardimentosi che danno la scalata alle cime impervie delle nostre Alpi, parecchi cadono e si feriscono o vi lasciano la vita; fra un battaglione di fanti che si sono lanciati alla conquista di un’agguerrita trincea, più d’uno potrà, nei momenti più difficili, voltare le spalle: ma l’umanità ammirerà sempre i forti che sentono il fascino delle vette, la Patria esalterà sempre gli eroi che le assicurano la vittoria e la pace onorata. Così la Chiesa, nel suo secolare e arduo cammino «lascia che i morti seppelliscano i loro morti», secondo l’espressione del Redentore. Ossia, pur deplorando e piangendo le defezioni e gli scandali, che non hanno risparmiato neppure il soglio supremo, non abbassa la propria bandiera; ma ai vivi e agli stessi caduti che sanno risorgere, addita le mète più alte, li sostiene con le sue valide braccia, loro fornisce le armi più sicure, e ai più eroici vincitori, i Santi, tributa l’onore supremo del trionfo, additandoli ai secoli come modelli da imitare, come eroi da glorificare.
• Conclusione. Ed ora torniamo a leggere l’accusa, che ha dato occasione a questa breve trattazione. L’ascetismo cristiano sarebbe da rigettarsi come nocivo, perché : rinnega la vita, immalinconisce l’uomo, ne sciupa la salute, lo rende vizioso e inutile, violenta la natura. Invece sarebbe da curare la educazione dei giovani in modo da formare degli atleti dai muscoli di ferro, dei sensuali, devoti di Bacco e di Venere. A questa concezione perfettamente pagana della vita, si ispirano purtroppo molte manifestazioni della vita sociale moderna, in aperto contrasto con quello che pure si vorrebbe assicurare alla nazione: delle generazioni sane e robuste, capaci di lavorare efficacemente per la grandezza della patria. Ora il culto di Afrodite è proprio quello che consuma e sperpera le energie fisiche, infiacchisce la volontà, rendendo l’uomo egoista e crudele. Invano quindi si tenderebbe a formare degli uomini dai muscoli d’acciaio, se poi essi sperperassero questa energia fisica nelle brutture del senso, e avvilissero lo spirito nel culto alle «Veneri dalla linea perfetta» [nel migliore dei casi, nel peggiore al culto della pederastia]. È per questo che agiscono in aperto contrasto con i princìpi etici cristiani e con danno gravissimo della sanità morale e fisica delle nuove generazioni, tutte le produzioni letterarie, sceniche e cinematografiche, che, esaltando praticamente il culto di Afrodite, eccitano le più basse passioni umane prospettando scene di tresche, di adulteri di delitti — tutti i trattenimenti dove la musica, le danze, le esibizioni di nudità procaci esasperano i sensi e inducono l’uomo a leggerezza di costumi. Invece l’ascetismo cristiano, praticato da ciascuno secondo le proprie condizioni di vita e liberamente esercitato per ottenere il dominio di sé e il retto uso dei beni materiali, potenzia mirabilmente la stirpe ed è fonte di ineffabile soddisfazione per l’individuo, di benessere per le famiglie, di prosperità per le nazioni. Esso è frutto di fede ben radicata nell’anima, che diffonde un senso sacro della vita, e induce al rispetto del corpo, visto nel nobilissimo riflesso di strumento dell’anima, capolavoro della natura organica vivente, tempio di Dio, che nell’uomo giusto e onesto inabita con la grazia. Da esso nasce quel senso di pudore, di verecondia cioè e di modestia, che non è affatto un’ipocrisia, una supestruttura artificiosa e convenzionale, ma una salda difesa contro le seduzioni del male, il più bell’ornamento della persona, così com’è una spontanea e necessaria manifestazione dell’uomo moralmente sano. Il quale manifesta così di avvertire il dissidio fra le tendenze del corpo e quelle dello spirito, che nelle attuali condizioni dell’umanità — per essere stata spezzata colla colpa d’origine l’intima armonia fra le parti e le facoltà che costituiscono l’uomo — porta alla necessaria battaglia per la conquista del primato dello spirito sulla materia. La vita moderna è purtroppo inquinata da una fitta rete di rigagnoli malsani, che portano germi mortiferi, sia pure sotto una parvenza lussureggiante e profumata. Giornali, riviste, libri, films, rappresentazioni, danze... sono bene spesso tutta un’esaltazione del culto pagano a Venere e Bacco. E non è facile lottare contro le forze combinate dell’interesse e della sensualità, che spingono da una parte ad offrire e dall’altra a cercare tutto quanto sollecita le passioni ignobili e dà un brivido al corpo. Tutto questo è davvero una piaga della vita moderna. L’ascetismo invece rappresenta l’antidoto a tutti questi veleni, il sale che preserva dalla corruzione e infonde un gusto sano alla vita, il mezzo più potente per conservare ed accrescere nei giovani quelle riserve ed energie fisiche e morali che sono la più salda garanzia per il nostro domani, perché destinate a formare cittadini e cristiani saldi, capaci, generosi. Acquistano oggi un senso di dolorosa attualità le parole ammonitrici rivolte da San Paolo ai pagani della Roma di Nerone: «Se vivrete secondo la carne, morrete ...».
Per P. Clemente Cavassa SJ e per gli onesti autori menzionati: + Réquiem aetérnam dona eis, Dómine, et lux perpétua lúceat eis. Requiéscant in pace. Amen. +
A cura di CdP
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Stimati Associati e gentili Sostenitori, le guarigioni operate da Gesù hanno tutti i caratteri del miracolo. Sono fatti certi, superiori alle forze della natura, operati da Dio. Egli ha un potere incondizionato, irresistibile, onnipotente. Gesù è medico, ma medico straordinario, incomparabile, divino. Egli guarisce in forza di una virtù propria. «Virtus de illo exibat et sanabat omnes» (Lc., VI, 19). Eppure quanta critica razionalista, oramai da qualche secolo, cerca in tutti i modi di confutare, inutilmente, la veridicità delle guarigioni operate da Gesù. Oggi andremo ad affermare la verità storica, a glorificare Nostro Signore Gesù Cristo (ricorre la Festa di Cristo Re) e, contestualmente, a confutare le ridondanti obiezioni dei razionalisti. Confuteremo pure quei perniciosi sofismi dei modernisti che occupano abusivamente le nostre chiese oramai dalle tristi tenebre del Vaticano Secondo. Utilizziamo, dunque, il prezioso volumetto «Le guarigioni operate da Gesù e la critica razionalista», del P. Vittorio Marcozzi SJ, collana S.O.S., Serie IV N. 6 (74), imprimatur 1941. Per approfondimenti sulla dottrina dei miracoli consigliamo la lettura del libro «Racconti Miracolosi: Con saggio introduttivo sui veri e sui falsi miracoli».
• Fatti storici. Nel 1864 Davide Strauss, nel lavoro «Leben Jesu für das deutsche Volk», scriveva: «Vi sono poche personalità storiche di cui abbiamo così meschine testimonianze come per Gesù». Dopo mezzo secolo di indagini (1920), la critica razionalista giungeva alla deduzione diametralmente opposta: «Noi abbiamo per poche personalità dell’antichità così indiscutibili testimonianze storiche come per Gesù» (A. Schweitzer, «Geschichte der Leben Jesu Forschung», Tübingen, Mohr, 1938, 5 Auflage p. 6). E Dimitrj Merezkovskij, in un lavoro intitolato «Gesù sconosciuto», affermava: «...Il Vangelo è il libro più autentico di tutti quanti i libri passati presenti e certo anche futuri» (D. Merezkovskij, «Gesù sconosciuto», Firenze, Bemporad, 1937, p. 24). Quest’affermazione concorda perfettamente con quelle che i cattolici hanno sempre sostenuto, fino dai primi tempi della Chiesa, e cioè che i Vangeli sono i libri più autentici e veridici che possegga l’umanità. Essi furono scritti dai testimoni oculari della vita di Cristo che hanno riferito fedelmente ciò che con i loro occhi hanno visto, toccato con le loro mani, udito con i loro orecchi. «Vidimus oculis nostris, audivimus, manus nostrae contrectaverunt, spectatores illius magnitudinis facti sumus» (I Giov., c. I, v. 1). Nel presente lavoro noi presupponiamo questa verità, che si può trovare dimostrata altrove, né ci tratteniamo a dimostrare la storicità dei fatti evangelici, tanto più che ai nostri giorni anche molti razionalisti ammettono l’autenticità e veridicità dei Vangeli [Tra i razionalisti si è distinto specialmente A. Von Harnack nel dissipare, se mai vi fosse stato bisogno, gli ultimi dubbi intorno all’autenticità del Nuovo Testamento (cfr. I. Felder, «Gesù di Nazareth», Torino. Soc. Ed. Int. 1938, p. 46)]. Oggi generalmente non si negano più i fatti (alla narrazione evangelica dei medesimi fatti nessun contemporaneo poté avanzare obiezioni, ndr.), ma si tenta di spiegarli in modo naturale. Quasi tutti i razionalisti partono da un principio a priori, completamente gratuito: il miracolo è impossibile. I Vangeli parlano di miracoli. Dunque bisogna interpretarli (Cfr. I. Felder, ivi., p. 38). Saranno appunto queste interpretazioni l’oggetto principale del nostro studio. In quanto alla prima premessa dei razionalisti ci accontentiamo di osservare che per asserire l’impossibilità del miracolo bisognerebbe prima dimostrare la non esistenza di Dio o l’impossibilità che Dio intervenga, sospendendo il corso naturale delle leggi fisiche. Nessun incredulo o deista ha potuto mai dimostrare l’impossibilità di questi fatti. Al contrario argomenti della massima evidenza dimostrano l’esistenza di Dio e la possibilità di un suo intervento nel corso dei fenomeni fisici. Lo storico coscienzioso e sopratutto l’uomo che cerca la luce deve assolutamente tener conto di questa possibilità, se non vuole esporsi al pericolo di abusare del dono di Dio.
• Che cosa intendiamo per miracolo? Per miracolo intendiamo un fatto sensibile, che costituisca un’eccezione manifesta al corso ordinario delle leggi della natura, e che non possa essere compiuto che da Dio. Tre cose pertanto si richiedono perché un fenomeno si debba ritenere miracoloso. In primo luogo, dev’essere un fatto sensibile, cioè controllabile coi nostri sensi. Per esempio: un ammalato, supponiamo, un lebbroso, mi sta dinanzi. Io lo vedo, lo tocco, sento il fetore delle sue piaghe. E con me lo vedono, lo toccano, lo sentono, due, tre, dieci, quanti testimoni si vuole. Un uomo santissimo si presenta e pronuncia semplicemente queste parole: «Sii mondato». In quel medesimo istante, il pus scompare, le ferite si rimarginano, la pelle, delicata e morbida, come quella d’un fanciullo, si ridistende là dove esistevano piaghe purulenti. Il lebbroso è completamente ed istantaneamente guarito. Questo è il fatto sensibile, il quale consta precisamente di due momenti: la presenza della malattia, la scomparsa della medesima. È possibile controllare questi fatti? Nessuno potrà negarlo. Sono due fenomeni sensibili, facilmente controllabili, e che si succedono istantaneamente: la constatazione di una malattia, la scomparsa della medesima.
• Ma non basta il fatto sensibile perché un fenomeno si debba ritenere miracoloso. È necessario che esso superi la possibilità di tutte le forze della, natura. E non soltanto delle forze che noi conosciamo, ma anche di quelle che non conosciamo e che la scienza andrà via via scoprendo. Giacché, se il fatto fosse spiegabile con le forze naturali, sia pure ignote, è chiaro che esso non sarebbe più miracoloso ma semplicemente mirabile. Abbiamo criteri per stabilire, con certezza, che alcuni fenomeni non possono essere prodotti da nessuna causa naturale neppure sconosciuta? Sì, e lo vedremo fra poco, quando parleremo delle interpretazioni avanzate per spiegare le guarigioni operate da Gesù Cristo. Per il momento basta che si comprenda la necessità che il miracolo superi le possibilità di tutte le forze naturali. Ne segue necessariamente che, se un fenomeno non può essere naturalmente spiegato ricorrendo alle forze sensibili, dovremo ricercarne la spiegazione nel mondo delle forze non sensibili. Queste forze si dovranno senz’altro identificare col potere divino? No, perché chi ci vieta di pensare che, oltre al mondo sensibile, esista un mondo insensibile, ma creato, il quale possa esercitare un potere grandissimo sulla terra? Nessuno potrà mai dimostrare l’impossibilità dell’esistenza di questo mondo. Ora, se qualcuno di questi esseri intervenisse per produrre il miracolo, la sola constatazione che il fenomeno supera le forze naturali, non basta per concludere con certezza, che là vi è l’intervento di Dio.
• Ma noi saremo assolutamente certi che il prodigio è compiuto, almeno indirettamente, da Dio, se esso si compie in nome Suo e per un fine santo. Giacché sarebbe assurdo pensare che Iddio permetta si compia un miracolo in suo nome per confermare l’errore. Egli, la stessa santità, si renderebbe complice di una cattiva azione. Il fine pertanto del miracolo ci indica se esso viene da Dio o da un essere spirituale ribelle. Pertanto: fatto sensibile, superiore alle forze della natura, fine santo si richiedono per un miracolo. (Noi sappiamo, per esempio, che i “miracoli” operati presso gli eretici, gli scismatici, gli infedeli e presso ogni altra falsa religione non possono essere veri miracoli: Dio non conferma l’errore, ndr.). Le guarigioni operate da Gesù Cristo hanno questi tre requisiti? Se sì, noi dovremo concludere che esse sono miracolose e quindi che Dio era con Lui: Gesù è Dio.
• Le guarigioni operate da Gesù. Le guarigioni miracolose operate da Gesù sono innumerevoli. È impossibile determinarne il numero anche solo approssimativo. Frequentemente si trovano negli Evangelisti espressioni come queste: «E molti lo seguirono, ed Egli li guarì tutti» (Mt., XII, 15). «E (nell’uscire) visto gran folla, se ne mosse a compassione, e ne guarì gli infermi» (Mt., XIV, 14). «...Il popolo cercava di toccarlo perché scaturiva da Lui una forza che sanava tutti» (Lc., VI, 19). Ma oltre a queste espressioni generiche che ci danno la frequenza delle guarigioni da Lui operate, si trovano descritti nel Vangelo ventisei «casi» particolari che si possono classificare in speciali categorie: guarigioni di ciechi, di sordi, di sordomuti, di epilettici, di lebbrosi, di idropici, di paralitici e d’altri ammalati, nonché tre resurrezioni di morti. I casi sono riferiti con la massima semplicità e schiettezza, senza il minimo commento (e, lo ripetiamo, proprio all’epoca dei fatti non risultano obiezioni storicamente attendibili, ndr.).
• Qualche esempio. Due ciechi seguivano Gesù dalla casa dell’Archisinagogo, e gli dicevano: «Figlio di David, abbi pietà di noi». E Gesù disse loro: «Credete voi che Io possa farvi questo?». Ed essi risposero: «Si, o Signore». Allora Gesù toccò gli occhi dicendo: «Vi sia fatto secondo la vostra fede». E sì aprirono i loro occhi. Un’altra volta, discendendo dal colle, dove Gesù aveva tenuto il discorso delle Beatitudini, gli si accostò un lebbroso, che gli disse: «Signore, se vuoi puoi mondarmi». Gesù mosso a compassione, stese la mano dicendo: «Lo voglio, sii mondato». E la lebbra disparve subito dalla sua persona. A Cafarnao gli viene portato un paralitico, disteso sul suo tettuccio. Gesù gli dice: «Confida, figlio, ti sono perdonati i tuoi peccati». Gli Scribi mormorano in cuor loro: «Chi è costui che si arroga il potere di rimettere i peccati?». Ma Gesù che aveva visto i loro pensieri dice: «Perché pensate male in cuor vostro ? Che cosa è più facile dire: ti sono rimessi i tuoi peccati, oppure levati e cammina? Ora, affinché sappiate che il Figlio dell’Uomo ha il potere di rimettere i peccati in terra, io dico a questo paralitico: alzati, prendi il tuo letto e cammina». E il paralitico si alzò e andò a casa sua. L’amico Lazzaro è morto da quattro giorni. Le sue carni esalano il fetore cadaverico. Le sorelle del defunto vanno incontro a Gesù piangendo e gli dicono: «Signore se foste stato qui, nostro fratello non sarebbe morto». Gesù risponde queste misteriose e semplici parole: « Io sono la resurrezione e la vita: chi crede in Me, sebbene sia morto vivrà e ognuno che vive e crede in Me non morrà in eterno». Lo conducono al sepolcro. È presente una folla di Giudei. Gesù ordina sia tolta la pietra sepolcrale. Marta gli fa osservare: «Signore, già puzza, chè è di quattro giorni». E Gesù le risponde: «Non ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?». Viene tolta la pietra. Allora Gesù, alzati gli occhi al cielo, disse: «Padre ti ringrazio d’avermi esaudito. Sapevo bene che sempre mi dai ascolto; ma l’ho detto per il popolo circostante, affinché creda che Tu mi hai mandato». E detto questo, con voce forte esclamò: «Lazzaro, vieni fuori». E uscì subito fuori il morto, legato mani e piedi con fasce e il volto coperto da un fazzoletto. Gesù disse ai circostanti: «Scioglietelo e lasciatelo andare». (Lazzaro era un uomo molto conosciuto dai Giudei dell’epoca, dunque il miracolo della sua resurrezione fece scalpore. La voce si diffuse rapidamente e questo suscitò l’ira della Sinagoga che, avendo dimenticato Dio ed avendo già tradito la legge di Mosè e la stessa religione di Abramo, si trovò impotente al cospetto della manifesta divinità di Cristo. Decretò, così, la sua uccisione delle più cruente, ndr.).
• Cristo ed i vari “taumaturghi”. I fatti che abbiamo esposto sono tali che non esitiamo a chiamarli miracoli. Alcuni razionalisti, comprendendo che non sarebbe stato facile spiegarli naturalmente, preferirono trattarli come miti o leggende inserite nel fondo del Vangelo. E per sostenere il loro argomento essi dissero: «Tutti i fondatori di religioni hanno fatto miracoli. Se ammettiamo che quelli di Cristo sono autentici, lo dobbiamo ammettere anche per quelli di Budda e di Maometto». Ma il confronto non regge, da qualsiasi lato lo si consideri. I miracoli di Gesù Cristo sono d’una serietà e dignità incomparabile. I prodigi di Budda e Maometto assomigliano piuttosto ai racconti di fate ed alle storie del «gatto con le scarpe», che si raccontano ai ragazzi. Ecco come i libri “sacri” Lalitta Vistara raccontano la nascita di Budda. «Quando giunse il momento, egli discese nel seno di Maya, sposa di un re famoso, in forma di un piccolo elefante bianco, con sei zanne e col capo rosso come cocciniglia, e i denti come una linea d’oro. Tutti gli dei, e Brahma stesso, vennero a visitarlo. Dieci mesi dopo la nascita, apparvero 32 segni portentosi...» («Lalitta Vistara», trad. dal Sanscrito di Ph. Ed. Foucaux, Parigi, Leroux, 1884, C. VI e seg. pp. 54 e segg.). Quanto alla potenza di Maometto, ecco che cosa ci dicono i suoi biografi. Un giorno alcuni nemici del profeta gli lanciano la sfida: «Se tu vuoi che noi crediamo in te, obbliga la luna a fare sette volte il giro della Caaba e a dirti: la pace sia con te, o apostolo di Dio! e poi ad entrare per la manica sinistra della tunica, e uscire dalla destra». E il profeta immediatamente rispose: «Io non sono di quelli che si ritraggono indietro», e subito fece i prodigi richiesti (P. E. Pinard de la Boullaye S. J., «Il taumaturgo e il profeta», Torino, Marietti, 1932, p. 90). (Oltre all’episodio in sé ridicolo, ma dal quale deriva la mezzaluna, ricordiamo la risposta data da Gesù al demonio: «Non tenterai il Signore Dio tuo». Dopo aver esaurito ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da lui per ritornare al tempo fissato, ndr.). Certo insieme a questi racconti fantastici sono descritte anche presunte guarigioni, ma la presenza di quei racconti toglie ogni credibilità anche a quelli più seri. Nulla di simile nel Vangelo: mai un miracolo che sappia del fantastico o del ciarlatanesco. Quando si trovò davanti ad Erode che si aspettava di veder compiere da Lui qualche miracolo, Gesù nulla operò, e neppure disse una parola sola: non era un giocoliere! La carità con la necessità dell’insegnamento erano l’unico motivo dei suoi miracoli; e questi poi, nel modo come sono raccontati, dànno spesso tutta l’impressione di fatti vissuti. E ciò è naturale, poiché la vita di Gesù fu scritta da testimoni oculari delle sue azioni, o da chi ne aveva raccolto il ricordo da testimoni oculari, i quali riferivano tutto colla massima fedeltà e veracità. Invece le vite, per esempio, di Budda e di Maometto non furono scritte che lungo tempo dopo, anche qualche secolo dopo la morte degli “eroi”, quando già si erano infiltrati elementi leggendari. (Quando i testimoni oculari, che facilmente avrebbero obiettato, erano deceduti da lungo tempo, ndr.) Si aggiunga che i miracoli di Gesù non sono un elemento accidentale del racconto evangelico, ma piuttosto una parte così importante, che sopprimerli equivarrebbe a sopprimere tutto il Vangelo. (Per i modernisti, che dal funesto Vaticano Secondo occupano le nostre chiese, ordinariamente si tratta o di fatti leggendari, o di aggiunte postume, o di episodi narrati con enfasi ma spiegabili da ragioni naturali. In pratica essi - i modernisti - non hanno la fede cattolica e non credono veramente nel soprannaturale, ndr.). Posto tutto ciò, si comprende come anche Davide Strauss, che in un primo tempo aveva caldamente sostenuto la teoria del mito, finì per adottare l’interpretazione naturalistica. E cioè si ammettono i fatti, ma si tenta di spiegarli naturalmente.
• Federico Bahardt, professore di filosofia a Lipsia, ma espulso dall’insegnamento per la sua pessima condotta, e qualche altro suo degno collega, come Cabanès, escogitarono la seguente spiegazione delle guarigioni operate da Gesù. «Gesù non fu il santo che si crede, ma un furbo», essi dissero. Egli fu educato dalla setta segreta degli Esseni o Terapeuti, medici valentissimi, i quali gli avrebbero insegnato medicamenti dall’efficacia quasi portentosa, di cui egli si sapeva servire al momento opportuno per attirare l’ammirazione del popolo. Questo, secondo Cabanès («Remèdes d’autrefois. Les miracles de Jésus», Paris, 1913). Federico Bahardt, invece, sostiene che il maestro di Gesù fu un misterioso persiano. (Fillion, «Les étaper du Rationalisme», Paris, Lethielleux, 1914, p 29). «Gesù è un furbo !», affermano questi autori. Essi non hanno compreso nulla della sublime grandezza del Vangelo. La figura morale di Gesù è troppo luminosa perché i loro occhi possano contemplarla. Le nottole divengono cieche quando fissano il sole! Ma supponiamo pure che Gesù fosse andato a scuola dagli Esseni e dai Persiani, che cosa si spiega con questo ? Le sue guarigioni miracolose? Neppure per sogno. Non soltanto dai Terapeuti ma neppure dai migliori medici dell’antichità, come Ippocrate, Esculapio e Galeno, anzi neppure dai più grandi scienziati dei nostri giorni, Gesù avrebbe imparato il segreto delle sue guarigioni. Quale medico, per quanto sapiente ed esperto, ha mai guarito in un istante i lebbrosi, dato la vista ai ciechi nati, ridonato la vitalità ad una mano inaridita, ridato la vita ai morti? L’enormità era troppo palese perché altri razionalisti non se ne accorgessero. E si tentarono nuove fantasiose spiegazioni.
• Fascino d’uomo superiore. Ernesto Renan spiega le guarigioni di Gesù, ricorrendo ad ipotesi diametralmente opposte a quelle di Bahardt e di Cabanès. No, egli dice, Gesù non si intendeva affatto di medicina. Anzi ai tempi di Gesù non esisteva scienza medica tra gli Ebrei di Palestina, egli guariva con la presenza di uomo superiore, che tratta dolcemente l’infermo e lo rassicura della guarigione, prodigandogli i suoi sorrisi. Ecco le testuali parole: «La medicina scientifica, già fondata in Grecia da cinque secoli, al tempo di Gesù era cosa ignota agli Ebrei di Palestina. Con tali cognizioni, la presenza di un uomo superiore che tratti dolcemente il malato, e, con qualche segno sensibile, lo rassicuri sulla guarigione, è di sovente un rimedio decisivo. Chi oserebbe dire che in molti casi, salvo le lesioni appieno caratterizzate, il contatto di persona squisita non valga gli spedienti della farmacia? Il piacere di vederla guarisce. Essa dà quel che può, un sorriso, una speranza, e non è inutile» (E. Renan, «Vita di Gesù», Milano, Daelli, voi. IlI, pp. 128-129). Non si potrebbero dire più spropositi in così breve spazio. In primo luogo è falso che gli Ebrei non conoscessero la medicina. Il capo 28 dell’Ecclesiastico illustra molto bene la professione del medico, e la considera un’occupazione vantaggiosa, con l’assistenza di Dio, anche quando si ritenga che la malattia è un castigo dei peccati. «Onora il medico, scrive l’Ecclesiastico, perché fu fatto dall’Altissimo... L’Altissimo creò dalla terra i medicamenti e l’uomo prudente non li disprezzerà... Lo speziale (unguentarius) manipola unguenti salutari... Figlio mio quando sei ammalato, prega il Signore... e poi chiama il medico...; egli non si parta da te perché la sua presenza è necessaria». (Ecclesiastico, cap. 28 vers. 1-13). Gli Ebrei avevano medici e li tenevano in considerazione. Del resto l’Evangelista San Luca ci dice che l’emorroissa fu risanata, toccando la veste del Maestro, dopo aver sperimentato le cure di molti medici, per 12 anni (Lc., VIII, 43). La prima affermazione pertanto di Renan è falsa. La seconda sarebbe incredibilmente ingenua, se non fosse maliziosa. «Il sorriso d’una persona eletta e santa, egli afferma, vale meglio che tutte le specialità farmaceutiche». Gesù fu una persona eletta e santa. Che amabile concessione! Salvo poi ad accusare Gesù di impostura nella resurrezione di Lazzaro. Ma questa frase è poco gentile per i medici di tutti i tempi. Nessun medico ha mai operato prodigi col solo sorriso. Dunque nessun medico è stato eletto e santo. Ma essa è anche poco lusinghiera per tutti i non medici, perché per essere una persona eletta non è necessario ottenere la laurea in medicina. Eppure nessun uomo ha mai guarito istantaneamente tutte le malattie con la sola sua presenza. Bisogna concludere che Renan ha voglia di divertirsi, a meno che, come supponiamo, per «sorriso» non intenda parlare di suggestione e di ipnotismo.
• Suggestione? E allora consideriamo una nuova spiegazione dei miracoli di Gesù, sostenuta, specialmente tra i medici, da Martino Charcot, il noto fondatore della scuola di psichiatria della Salpêtrière a Parigi. Egli ammise che le guarigioni operate da Gesù, come quelle di Lourdes, fossero effetto di suggestione. L’ammalato suggestionato o ipnotizzato dall’idea di guarire, guarisce realmente. E porta come prova alcuni casi di guarigioni di persone isteriche (M. Charcot, «La foi qui guérìt», Paris, Alcan, 1897). Una teoria simile è sostenuta anche da alcuni autori americani ed inglesi. Cfr Dr. Henson, «Spiritual Healing», in The Hibbert Journal, XXIII, 1925, p.p. 335-401.) È noto come gli isterici possono, in forza di un’apprensione più o meno fondata d’aver un male, prodursi essi stessi quel male. Ora, se si riesce a suggestionarli che essi non hanno nulla o che sono in via di guarigione, il loro sistema nervoso, all’idea «io devo guarire, io sto per guarire», agisce in modo da produrre realmente la guarigione. È tipico il caso della signorina Coirin, soggetto manifestamente isterico, addotto dallo stesso Charcot. Questa signorina cadde due volte da cavallo. La seconda volta batté il lato sinistro del torace su un mucchio di pietre. S’impressionò d’essersi fatta più male che in realtà. Il sistema nervoso, sotto l’influsso dell’idea «mi sono fatta molto male», incominciò a funzionare come se realmente fosse ammalata. Si formò dapprima un disturbo vaso-motore, poi un falso tumore, che si ruppe formando ulceri. Se si riesce ad impressionare l’ammalata ed a convincerla che essa guarirà, il male dovrebbe sparire. Infatti bastò a questa signorina mettersi la tunica del diacono giansenista Paris, perché il male scomparisse in trenta giorni. Non c’è dubbio che la suggestione può avere un influsso grandissimo sul corso di certe malattie. Per convincersene basterebbe pensare anche solo al fatto, a tutti noto, che la guarigione è assai più difficile quando ci sentiamo abbattuti e depressi che quando abbiamo l’animo sollevato e fiducioso. Per questo i medici cercano generalmente di tenere nascosta all’ammalato la vera natura del male, non solo per risparmiargli un dolore, ma specialmente perché essi sanno, per esperienza, quale influsso abbia lo stato d’animo sul fisico.
• Quanto alla cura delle malattie mediante la suggestione, esse possono dividersi in due gruppi: malattie funzionali e malattie organiche. Le malattie funzionali sono quelle che non presentano, almeno coi nostri mezzi attuali di indagine, lesioni anatomiche degli organi e dei tessuti, né grossolane o macroscopiche (come può essere un tumore, un processo infiammatorio, un’ulcerazione, ecc.) né microscopiche; e si devono attribuire in prevalenza a disturbi nervosi. È chiaro che la suggestione, nella cura di queste malattie, può essere di grande efficacia. È ammalato principalmente il sistema nervoso e la suggestione è diretta a questo. Famose sono le guarigioni di ammalati nervosi, in genere, e di isterici, in particolare, ottenute, col metodo dell’ipnotismo e della suggestione, da Charcot a Parigi, e dal Dubois a Berna. Il prof. Pazzini, dell’Università di Roma, asserisce di aver guarito, in breve tempo (45 secondi), un mutismo isterico che si prolungava da tre giorni (A. Pazzini, «I Santi nella storia della medicina», Roma, Libr. Catt. Inter., 1937, pag. 103). Bernheim, mediante la suggestione, sarebbe riuscito ad arrestare certe metrorragie. Grasset avrebbe fatto cessare delle emorragie gengivali dovute ad emofilia e delle epistassi (A. Pazzini, ivi., p. 103, nota 119). Tuttavia questi casi, per confessione degli stessi specialisti, non sono molti. Esistono moltissimi ammalati del sistema nervoso che non si possono guarire né migliorare col metodo della suggestione. Bernheim, specialista di malattie nervose, afferma: «Quando la nevrastenia è ereditaria, quando è dovuta ad una conformazione viziosa del sistema nervoso, allora il più delle volte è inguaribile». E, in un altro luogo, riferendosi ad altre malattie nervose, continua: «L’ammalato apparentemente è guarito, ma non pretendete lo sia di fatto; vi sono dei guasti che non si riparano» (Bernheim, «Hypnotisme, suggestion, psychothérapie», Paris, 1909 pp. 336-339).
• Quanto poi alle malattie organiche, la suggestione ha un influsso ben più limitato. Essa può talvolta renderla possibile, facilitarla anche, ma non mai renderla istantanea (Cfr. Lavrand citato da E. Le Bec, «Prove mediche del miracolo», Torino, Marietti, 1935, p. 83). Nessuno specialista, per quanto rinomato e valente, come Bernheim e Charcot, è riuscito a ottenere la formazione istantanea di brandelli di carne mancanti. Nessuno è riuscito a suggestionare un cieco nato così da dargli istantaneamente la vista, né a chiudere così le piaghe di un lebbroso. La stessa piaga della signorina Coirin, benché di origine isterica, ha impiegato 30 giorni per chiudersi. Ora domandiamo: è possibile spiegare tutte le guarigioni operate da Gesù Cristo mediante la suggestione? Concediamo pure, per un momento, che tutte le malattie nervose siano curabili mediante la suggestione, e istantaneamente; perciò mettiamo da parte senz’altro tutte le guarigioni operate da Gesù Cristo, in cui ci fosse un dubbio sulla loro origine nervosa. Via allora le guarigioni dei muti, dei paralitici, degli epilettici, degli ossessi. Restano però le malattie di natura certamente organica e certamente incurabili con la suggestione: i ciechi nati, i lebbrosi, gli idropici, ecc. Nessuno è mai riuscito a sanare istantaneamente un solo lebbroso. Gesù Cristo ne guarisce non soltanto uno ma dieci contemporaneamente. Si è obiettato che quelli non erano veri lebbrosi, ma ammalati di malattie cutanee. Gli Ebrei, si è detto, non distinguevano la lebbra dalle malattie della pelle. Ciò è falso. Gli Ebrei conoscevano esattamente questa terribile malattia (Cfr. K. U. Knur, «Christus medicus?», Firenze, Libr. Ed. Fior. 1907, p.p. 89-91). Il Levitico ce ne dà una minuta ed esatta descrizione e la distingue sufficientemente dalle altre malattie cutanee. I provvedimenti che si prendevano per i disgraziati, infetti dalla lebbra, erano draconiani, e ben diversi da quelli per gli altri ammalati. «Il lebbroso, si legge al capo XIII del Levitico, sarà isolato, per giudizio del Sacerdote, avrà scucite le vesti, il capo nudo, il volto coperto colla veste, e griderà di essere contaminato ed impuro. Per tutto il tempo che sarà lebbroso ed immondo, starà solo fuori dagli alloggiamenti (Levitico, cap. XIII, 46). La lebbra era ritenuta pressoché inguaribile, e questo è un altro carattere che ci dimostra come la distinguessero dalle altre malattie. Il Capitano Siro Naaman si presenta al Re d’Israele perché lo guarisca dalla lebbra. Il re si strappa le vesti ed esclama: «Sono forse io Iddio che possa risuscitare, perché abbia il potere di guarire la lebbra?» (Libro IV dei Re, cap. V, 1-11). Noi oggi abbiamo maggiori cognizioni intorno a questa malattia, ma non possiamo fare molto di più per curarla. Se, ai nostri giorni, un lebbroso guarisse istantaneamente, noi non rimarremmo meno sorpresi degli ebrei del tempo di Gesù. Ma anche ammesso che con la parola «lebbra» si dovessero intendere altre malattie cutanee, la guarigione istantanea di queste, con la scomparsa delle piaghe che le rendevano simili alla lebbra, non potrebbe spiegarsi, come osserva giustamente il Prof. Pazzini, con la sola suggestione. («I Santi nella Storia nella medicina», Libr. Catt. Inter., Roma, 1937, p. 106, nota 128). E poi come spiegare la risurrezione dei morti con la sola suggestione ? Nessuno è mai riuscito a dare la vita ad un morto. Gesù Cristo risuscita un morto di quattro giorni. Si è detto che Lazzaro non era veramente morto. Si trovava in uno stato di morte apparente: di catalessi. Ciò è in aperta contraddizione coi segni più certi della morte: il fetore cadaverico. Ma ammettiamo pure non fosse morto; anche in questo caso la suggestione è insufficiente a spiegare come venga risvegliato dal sepolcro. Lazzaro, supponiamo, ha sofferto una malattia che lo ha ridotto in uno stato da sembrare morto. Rimane quattro giorni chiuso nel sepolcro, senza prendere cibo ed acqua. Alla voce d’un uomo che lo chiama, egli esce dal sepolcro, sostenendosi da solo, in condizioni da poter camminare ed agire come un sano. Chi gli ha dato questa forza, chi lo ha rimesso completamente in salute? Ma poi i morti risuscitati da Gesù Cristo sono tre. Saranno stati tutti casi di morti apparenti ? Che combinazione curiosa che tutti i morti incontrati da Gesù non fossero veramente morti, mentre sappiamo che la catalessi è un fenomeno eccezionalmente raro! E come avrebbe potuto agire la suggestione in questi casi? La suggestione ha sempre un potere limitato.
• Ma i razionalisti suppongono che essa sia addirittura onnipotente e che tutte le malattie, sia funzionali che organiche, siano guarite istantaneamente mediante la suggestione. Ebbene: neppure se questo fosse vero, ed è falso, la suggestione dà la spiegazione delle guarigioni operate da Gesù. Perché la suggestione agisca bisogna che essa sia possibile, e cioè che l’ammalato si trovi in condizioni tali da poterne sentire l’influsso. Le persone assenti, le incredule, quelle che nutrono sentimenti ostili o che pensano a tutt’altro che alla loro guarigione, non sono soggetti atti ad essere suggestionati. La suggestione in essi non può aver luogo. Ora, in molti casi di guarigioni evangeliche, mancano assolutamente tutte le condizioni per la suggestione. Il servo del Centurione è guarito a distanza. Un Centurione Romano si presenta a Gesù Cristo e gli dice: «Signore, se voi dite una sola parola, il mio servo sarà salvo». Gesù gli risponde: «Va, e come hai creduto ti avvenga». Nello stesso momento il servo fu guarito, e, quando gli inviati tornarono a casa, lo trovarono sano. (Mt., VIII, 1-13; Lc., VII, 1-10). Gesù ha finita la sua accorata preghiera nell’orto del Getsemani. I soldati e i servi del Sinedrio, armati di spade e bastoni, vengono per imprigionarlo. Pietro tenta di difendere il Maestro. E con un colpo di spada taglia l’orecchio a un servo di nome Malco. Gesù rimprovera Pietro. Quindi accostatosi a Malco tocca l’orecchio di quello e lo guarisce (Lc., XXII, 50-52). La suggestione, anche in questo caso, è impossibile, perché Malco era animato da sentimenti ostili verso Gesù: «Siete usciti con spade e bastoni come contro un brigante», gli dice il Signore. La suggestione è parimenti impossibile negli incoscienti. Ora, Gesù guarisce un epilettico durante la crisi, quindi in stato d’incoscienza (Lc. IX, 38). Il Vangelo riferisce inoltre guarigioni, operate da Gesù, a vantaggio di persone che nulla chiedono e nulla aspettano da lui. Essendo egli entrato, un giorno di sabato, in casa d’un capo dei Farisei, questi gli tenevano gli occhi addosso per cercare di coglierlo in fallo. Gesù lesse questi pensieri, e, visto un idropico, che gli stava davanti, lo toccò e lo guarì sull’istante, per provare che le opere buone si possono compiere anche in sabato. (Lc., XIV, 1-6). Lo stesso avvenne di un uomo che aveva la mano secca (Mt. XII, 9-14). In tutti questi casi, anche ammettendo che Gesù avesse avuto un potere ipnotico immenso, la suggestione non basta, per la semplicissima ragione che non aveva luogo. Una persona lontana, o incoscia, o incredula, o ignara non può essere guarita per suggestione. Eppure Gesù guariva istantaneamente anche in questi casi. L’ipotesi della suggestione si mostra allora insufficiente a spiegare tutte le guarigioni operate da Gesù. È necessario ricorrere ad altre spiegazioni. Si fece allora appello alle forze occulte della natura [Alexis Carrel, dopo aver chiaramente affermato che le guarigioni miracolose di Lourdes sono autentiche, sembra volerle spiegare facendo ricorso a forze misteriose di natura psichica. «Tali fatti, egli scrive, mostrano la realtà di alcune relazioni, di natura ancora sconosciuta, fra processi psicologici e quelli organici» («L’uomo, questo sconosciuto», Milano, Bompiani 1937, pag. 164).].
• Forze Occulte? È questa la spiegazione generalmente ammessa dalla maggioranza degli increduli e razionalisti. Quante forze della natura esistono, essi dicono, che noi non conosciamo ! Ora, chi ci può assicurare che, tra queste forze occulte, non ve ne siano alcune che operano le guarigioni che noi chiamiamo miracolose? Anche i selvaggi attribuiscono al fulmine e al terremoto il significato di manifestazioni della divinità, perché ne ignorano le cause fisiche. Non potrebbe essere il medesimo di noi rispetto al miracolo? Chi avrebbe sospettato, anche solo cento anni fa, che l’uomo sarebbe riuscito a parlare con persone lontane migliaia e migliaia di chilometri, che sarebbe riuscito a vederle e che il suo sguardo sarebbe penetrato attraverso i corpi opachi? Se un nostro buon antenato avesse visto le meraviglie della radio, della televisione, o della radioscopia avrebbe certamente gridato al miracolo. Ma quel grido di ammirazione non avrebbe espresso che la sua ignoranza. Non potrebbe essere il medesimo di noi nei riguardi delle guarigioni miracolose? Cominciamo ad osservare, a proposito del nostro buon antenato, che se si fosse trovato di colpo davanti alle invenzioni moderne, sarebbe sì stato colto dalla più grande meraviglia, ma la presenza d’un ricevitore radio, o d’un generatore di Raggi X, avrebbe presto suscitato almeno qualche sospetto. Noi sappiamo bene, dalle relazioni dei missionari, che quando i Negri dell’Africa centrale udirono per la prima volta la voce del grammofono, non gridarono al miracolo, ma andarono cercando dove fosse nascosto l’uomo che parlava da quella tromba. Quindi i nostri antenati poterono sbagliare, se giudicarono che non fosse mai possibile trovare dei mezzi con cui si riuscisse a parlare a distanza o a vedere nell’interno dei corpi, ma non sbagliarono giudicando la cosa impossibile con i mezzi che avevano allora a propria disposizione. Anche adesso, se un medico, senza nessun apparecchio, riuscisse a vedere, come in una autopsia, il cuore e i polmoni d’un malato, attraverso tutti i tessuti della cassa toracica, noi potremmo legittimamente gridare al miracolo. E più in generale, alla difficoltà sopra esposta possiamo rispondere che ammettiamo benissimo l’esistenza in natura di molte forze a noi occulte; ma ciò non toglie che alcune leggi e alcune forze le conosciamo abbastanza bene per poter affermare che qualche cosa è possibile o no, entro certi limiti e sotto determinate condizioni.
• Posto tutto ciò, possiamo senza esitazione affermare che qualunque sia la natura e la potenza delle forze naturali che l’ingegno e la potenza umana andranno scoprendo, per quanto siano grandi le meraviglie che la natura chiude ancora nel suo seno misterioso, è certo che noi non troveremo mai la forza fisica che dia la spiegazione delle guarigioni operate da Gesù Cristo. Tutte le forze naturali, cioè sensibili, agiscono nello spazio e per conseguenza nel tempo. Nessun fenomeno della natura può sottrarsi al fattore tempo. Il tempo infatti non è che la durata di un fenomeno; il numero dei suoi stadi successivi. Ora, tutti i fenomeni naturali, richiedono un certo tempo per svolgersi, perché sono legati alla materia stessa e cioè avvengono nello spazio. Per andare da un punto all’altro dello spazio è necessario passare per i punti intermedi. Ma passare per punti successivi è impiegare tempo. Questo tempo potrà essere breve, brevissimo, quasi istantaneo, come per la luce, ma non mai nullo. I fenomeni biologici richiedono sempre tempi considerevoli. Essi sono strettamente legati alla natura colloidale del plasma. I numerosi catalizzatori che si trovano in esso, facilitano e accelerano i fenomeni della vita ma non li rendono mai eccezionalmente celeri. Una divisione cellulare, nelle migliori condizioni, impiega in media mezz’ora [La durata della divisione cellulare, in cellule di embrione di pollo coltivate in vitro, oscilla fra 18 e 40 minuti; secondo Olivo attorno a 38 minuti. Alla durata della divisione cellulare (mitosi), bisogna aggiungere quella del riposo che segue fra una divisione e l’altra (durata dell’intercinesi), necessario perché la cellula si accresca e raggiunga lo stato di maturità che si richiede per la divisione. La durata dell’intercinesi, secondo esperienze di Olivo e Delorenzi, oscilla fra i valori da 7 ore a 21. (G. Levi «Trattato di istologia», Torino, U.T.E.T., 1935, pp. 164-165)]. Tempi molto più lunghi si richiedono perché una giovane cellula raggiunga la sua differenziazione specifica. Ora, si consideri il numero stragrande di cellule, che si trovano in un lembo di carne umana. Le cellule sono della grandezza di pochi millesimi di millimetro. Si tratta di parecchie migliaia. La formazione di queste non può essere contemporanea, perché ogni cellula ha origine da un’altra cellula per scissione. La cicatrizzazione procede dai labbri verso il centro della ferita. Supponiamo ora che esistano forze occulte potentissime, meravigliose: esse potranno accelerare di molto questi processi, ma non mai renderli istantanei o quasi. Per renderli istantanei sarebbe necessaria la formazione contemporanea di tutte le cellule, ciò che equivale ad una nuova creazione.
• Ora è proprio questo che si osserva nella maggioranza delle guarigioni operate da Cristo. Esse sono caratterizzate dall’assenza del fattore tempo. Inoltre, tutte le forze naturali sono deterministiche, fatali, cioè, poste le medesime circostanze, agiscono necessariamente. La forza miracolosa di Gesù Cristo invece obbedisce alla sua libera volontà. Egli compie il miracolo quando e come vuole, nelle circostanze più differenti. Egli inoltre è padrone della sua forza al punto da poterla comunicare agli altri, anche dopo la sua morte. Che un uomo possa avere un potere misterioso, si comprende, ma che egli ne sia talmente padrone da poter dire: «Se credete in me potrete compiere prodigi maggiori dei miei», è inspiegabile, se non si ammette che quell’uomo abbia Dio con sé. Ora, Gesù dice ai suoi Apostoli proprio queste parole: «Annunziate il regno di Dio e durante il vostro viaggio guarite gli infermi, risuscitate i morti, rendete sana la carne dei lebbrosi» (Mt., X, 7-8). E più tardi: «Chi crede in me compirà opere simili alle mie e anche maggiori». E, notate bene la spiegazione che aggiunge, «perché io torno al Padre mio, e tutto quello che voi chiederete a mio Padre, nel mio nome, io lo farò: hoc faciam» (Gv., XIV, 11-14). Ma ciò che più ancora sorprende è che questa promessa si è adempiuta alla lettera. L’Evangelista San Luca e l’Apostolo San Paolo ci attestano che l’ombra di San Pietro guariva come l’ombra di Cristo (Atti, V, 12-16), che San Paolo risuscitava i morti e tutti gli Apostoli moltiplicavano guarigioni miracolose (Mc., XVI, 20). È inutile ricorrere all’ipotesi della fede che guarisce «la foi qui guérit» poiché non è che la medesima ipotesi della suggestione o auto-suggestione di cui abbiamo dimostrato l’insufficienza. Ora, è possibile ammettere che la scienza, fra due o quattro mila anni, spiegherà questi fatti? Che arriverà un giorno, più o meno lontano, in cui i nostri nipoti, più sapienti di noi, dimostreranno che l’impossibile è la cosa più naturale del mondo e l’assurdo è verità? Noi pensiamo che, per quanto il calcolo matematico progredisca, rimarrà sempre vero che due più due fa quattro e non mai cinque, e sarà sempre falso il contrario, per quanto spiriti stravaganti si sforzino di provare la falsità della nostra asserzione. Sino a tanto che esisterà lo spazio, le forze che agiscono in esso richiederanno il tempo. Migliaia e milioni di cellule d’un lembo di carne, con relativi muscoli, tendini, nervi, conservando la loro natura, non si potranno mai formare in un istante. Ed anche ammesso che questo potere qualcuno lo avesse, non potrebbe cederlo a chi vuole e quando vuole, anche dopo la sua morte, purché lo si chieda con fede. Ora, tutto questo si osserva nelle guarigioni di Gesù. Dunque le guarigioni di Gesù non si spiegheranno mai naturalmente. Ma vengono esse da Dio o da un altro essere immateriale? Gesù le compie in nome di Dio e in conferma della verità. L’onore e la santità di Dio ne sono strettamente interessate. È assurdo pensare si tratti d’uno spirito maligno. Dunque Dio interviene. Gesù è Dio!
• Conclusione. Pertanto le guarigioni operate da Gesù hanno tutti i caratteri del miracolo: sono miracolose! Sono fatti certi, superiori alle forze della natura, operati da Dio. A un cenno di Gesù la lebbra scompare, le ferite si rimarginano, gli idropici guariscono, le pupille spente dei ciechi si schiudono alla luce, i morti ritornano alla vita. Egli ha un potere incondizionato, irresistibile, onnipotente. Gesù è medico, ma medico straordinario, incomparabile, divino. Egli guarisce in forza di una virtù propria. «Virtus de illo exibat et sanabat omnes» (Lc., VI, 19). Le guarigioni da Lui operate si moltiplicheranno sino quasi ai piedi del Calvario. Inchiodato sul duro legno della Croce, che si profila austera come un monito, Egli ha il corpo piagato più di un lebbroso, le braccia tremanti come un paralitico, il petto rigonfio come un idropico, gli occhi velati di sangue come un cieco, la lingua riarsa come un muto. Uomini ubriachi di odio gli gridano, insultando al suo dolore: «Se sei il figlio di Dio discendi dalla croce». «Tu che hai sanato gli altri, sana te stesso» (Lc., XXIII, 35). Un brivido di trepidazione dev’essere passato per gli astanti. Accoglierà Egli la sfida? I buoni devono aver fissato il Crocifisso con speranza, i cattivi con terrore. Ma Gesù risponde: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che si fanno». Il Medico che ha sanato tutte le piaghe, che ha lenito tutti i dolori, che ha guarito tutte le infermità rifiuta di guarire Se stesso, il più grande degli infermi. Egli muore, lasciando aperte le sue ferite del corpo, per chiudere quelle più profonde e sanguinanti delle anime nostre. Medico divino sino all’ultimo, Egli ha compiuto sulla Croce la Sua guarigione più miracolosa: la guarigione delle anime. Ma noi uomini siamo così materiali, così aderenti alla realtà sensibile, che non avremmo, forse, mai creduto al più grande dei miracoli, il miracolo della salute delle anime, se Egli prima non avesse chiuso, col Suo potere divino, le ferite aperte della nostra carne dolorante.
Per P. Vittorio Marcozzi SJ e per gli onesti autori menzionati: + Réquiem aetérnam dona eis, Dómine, et lux perpétua lúceat eis. Requiéscant in pace. Amen. +
A cura di CdP
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Stimati Associati e gentili Sostenitori, per introdurre l’argomento di oggi raccontiamo un episodio accaduto a Nagasaki il 17 marzo 1865. Il P. Petitjean è appena entrato nella Chiesa dei Martiri, e non ha ancora terminato la sua breve preghiera di adorazione, quando tre sconosciute gli si inginocchiano davanti e, accennando col gesto a un gruppo di altre sei o sette persone, gli dicono: «II cuore di tutti noi che siamo qui presenti è lo stesso del cuore tuo». L’espressione del viso ed il tono della voce rassicurano il missionario, il quale capisce subito di trovarsi fra amici. Infatti constata con sorpresa che conoscono il nome di Dio, di Gesù e di Maria. Da quando i preti occidentali avevano rimesso piede sul suolo Giapponese, quei cristiani erano venuti studiandone, inosservati, la vita e le abitudini. Il loro cuore aveva sussultato di gioia; la voce era corsa: son essi! Ora erano lì, ai piedi del missionario, per ossequiarlo e per dissipare un ultimo dubbio, un grave dubbio. — Avete figli?, chiede timidamente Pietro Domingo. — Voi e i vostri fratelli pagani e cristiani del Giappone siete i figli che il buon Dio ci ha dati e non pensiamo di averne altri. Il prete, come i vostri primi missionari, deve mantenere il celibato per tutta la vita. A questa risposta del Padre, Pietro e i suoi compagni si chinano fino a terra, esclamando: «Essi sono vergini! Grazie! Grazie! Virgen degotaru! O arigato! O arigato!». E non sanno come esprimere la loro riconoscenza e la loro gioia. Secondo le precise istruzioni degli eroici loro antenati, tre erano i segni dai quali avrebbero infallibilmente riconosciuto i veri missionari cattolici: il celibato, il culto di Maria e l’ubbidienza al Papa. Episodio questo soffuso di candore e semplicità tutte orientali; ma molto significativo. Parliamo, dunque, di celibato. Come principale fonte utilizzeremo un prezioso opuscolo della collana S.O.S.: «Cuori che non amano», Angelo Capitta, Serie VI, numero 102, imprimatur 18 settembre 1944.
Il celibato è il segreto della grandezza e della perenne giovinezza del clero cattolico. Di più: è l’arma di tutte le sue conquiste. Questo hanno compreso anche i suoi nemici; i quali con palese mala fede strombazzano ai quattro venti i veri o presunti scandali del prete (n.b. l’Autore scrive negli anni ’40, quando le nostre chiese NON erano occupate da orde di scandalizzatori modernisti travestiti da preti, ndr.), e niente lasciano d’intentato per screditare e avvilire il celibato ecclesiastico, in faccia al mondo. Ad essi vorremmo giungesse la nostra parola. Non per smania di rabbiosa polemica o d’interessata apologia, ma per uno scopo più nobile e più degno.
Oggi si fa un gran parlare di ricostruzione sociale; e va bene. Una cosa però, vorremmo non si dimenticasse. Tale ricostruzione non può riuscire efficace e duratura se non a una sola condizione: che muova dal campo dello spirito e poggi sulla decisa e netta affermazione degli eterni valori religiosi e morali, non su quelli effimeri e contingenti della materia. In questo senso il celibato ecclesiastico conserva ancor oggi il suo significato, e ha una lezione sommamente utile ed importante da dare alle brancolanti e anemiche generazioni moderne. «La causa da difendere, la bandiera da rialzare solennemente in faccia al mondo», ha scritto il Dott. Mariano Lepore, («La Purezza forza del Corpo», Torino, Marietti, 1938, pag. 8) «è la purezza. Questa virtù è il segreto delle razze forti, è la sorgente delle famiglie, è l’avvenire e la grandezza materiale di un paese». Possano le nostre parole tornare non disutili alla rigenerazione religiosa, morale e sociale di questa Italia, che è la terra prediletta di Cristo e del Suo Vicario, e che noi amiamo tanto. Ad essa dedichiamo queste pagine.
Origine e sviluppo storico. Per queste note storiche ci siamo serviti abbondantemente del Todesco - «Storia della Chiesa», Torino, Marietti, 1938, Volume II, pag. 326-329 ; e di Ries - «La Castità e la Chiesa», Milano, Vita e Pensiero, 1939, Trad. Palin, pag. 185-198. S’è posta la questione: il celibato è un’istituzione d’origine divino-apostolica oppure ecclesiastica? La risposta non è unanime tra gli studiosi cattolici: c’è chi propende per la prima, e chi per la seconda sentenza. Comunque, una cosa è certa. Già fin dagli inizi del Cristianesimo numerosi furono coloro, i quali rinunciavano alla vita coniugale o al matrimonio per potersi più speditamente dedicare al sacro ministero e insignirsi, agli occhi del popolo, della paternità spirituale. Le testimonianze dei Padri e degli Scrittori Ecclesiastici non ci permettono dubbi su questo punto. Particolari condizioni storiche e psicologiche determinarono un diverso attuarsi della disciplina celibatana nei paesi orientali e latini. In Oriente, sotto l’influsso delle eresie e del cesaropapismo bizantino, si sviluppò una disciplina più larga, codificata nel 692 dal Concilio Trullano o Quinisesto. Per essa, Greci e Orientali di rito cattolico, non possono contrarre matrimonio dopo il Suddiaconato, mentre, persone sposatesi precedentemente, possono essere ammesse agli Ordini sacri e continuare poi nell’uso del matrimonio. Tali sacerdoti sposati non possono però, in caso di vedovanza, passare a seconde nozze, né esser eletti vescovi. Anche presso i Greci e gli Orientali, i monaci, sacerdoti o no, professano perfetta castità. Una prassi più rigida fu adottata nella Chiesa latina, sopratutto dopo l’editto di Milano (313). Il canone 33 del Concilio di Elvira (306) che intimava ai vescovi, presbiteri e diaconi l’obbligo di separarsi dalla consorte, pena la deposizione, confermato più tardi dai papi Siricio, Innocenzo I e Leone I, il quale ultimo lo estendeva anche ai suddiaconi, dovette, è vero, superare lentezze, incertezze ed ostacoli, ma poderosamente propugnato da Ambrogio, Girolamo, Agostino e Cesario d’Arles, finì col trionfare. Nel medio evo la disciplina del celibato segue un’alterna vicenda, finché decade quasi universalmente lungo il secolo di ferro. Le cause: simonia e ingerenza oppressiva del potere laico nell’elezione dei Pontefici e nella nomina dei Vescovi; attori principali di quel dramma epico: Gregorio VII ed Enrico IV; epilogo: il Concilio Lateranense del 1123, il quale, sotto Callisto II, dichiarava canonicamente nullo il matrimonio contratto dopo l’Ordinazione. Così veniva stabilito irrevocabilmente e per sempre l’impedimentum ordinis. In seno all’Umanesimo d’indirizzo pagano non potevano mancare, e non mancarono di fatto, attacchi e satire velenose contro il celibato e il matrimonio; ma furono cose di poco rilievo. Venne infine Lutero: con lui e per lui la furia di Odino si riversò sul settentrione d’Europa, travolgendo in un incendio di fuoco e di lussuria chiese e conventi, e «le miserabili e micidiali follie di antiche sette furono immesse nel patrimonio della civiltà moderna e codificate nelle moderne legislazioni» (Ries, op. cit., pag. XI). La Controriforma Cattolica iniziata dal Concilio di Trento (1545-1563), caldeggiata e promossa potentemente da Pontefici, Santi e Ordini religiosi, arginò e contenne il diluvio dell’eresia, e restituì nel suo antico fulgore l’osservanza del celibato ecclesiastico. Dopo d’allora, dobbiamo discendere, in Francia al tempo della dannata Rivoluzione; in Germania, al secolo scorso, e in Cecoslovacchia, al dopo guerra del 1914-1918, per trovare defezioni e movimenti anticelibatari di una qualche entità: ma furono fatti e tentativi locali, presto falliti. Arriviamo così al nuovo Codice di Diritto Canonico (1917), il quale ha fissato per sempre nei seguenti termini la prassi della Chiesa Romana in ordine al celibato. (n.b. noi crediamo che il cosiddetto C.d.C. del 1983 non abbia alcun valore in quanto promulgato da un non papa. Testimonianza ne sono, fra le altre, le pretese leggi peccaminose che esso contiene, ndr.).
La legislazione attuale. 1. — Coloro elle hanno ricevuto uno degli Ordini maggiori (suddiaconato, diaconato, presbiterato), non possono contrarre matrimonio, sono obbligati a osservare perfetta castità e, violandola, si rendono colpevoli di sacrilegio, (can. 132 par. 1). 2. — I chierici che abbiano ricevuto solo la tonsura o gli Ordini minori (ostiariato, lettorato, esorcistato, accolitato), possono contrarre matrimonio, ma per ciò stesso scadono dallo stato clericale (can. 132 par. 2). 3. — Invalido e nullo, davanti a Dio e alla Chiesa, è il matrimonio attentato da chi ha un Ordine maggiore: tali unioni sono veri concubinati (can. 1072 e 1073). 4. — Vivendo la moglie, il marito non può, senza dispensa della S. Sede, ricevere gli Ordini maggiori (can. 132 par. 3). Tale dispensa, poi, non si suole concedere se non alla condizione che la moglie, affatto spontaneamente e col consenso del marito, entri in un Ordine Religioso. Nessuna legge ostacola l’accesso agli Ordini ai vedovi che non abbiano contratto più d’un matrimonio.
Impostazione della questione. Per quasi venti secoli la Chiesa Cattolica, con un’energia e decisione non facilmente riscontrabili in altri pur gravi affari d’ordine religioso e sociale, ha impegnato a fondo il peso della sua divina autorità a favore del celibato, contro ostacoli interni ed esterni d’ogni genere. Questo cosa ci dice ? Che ci troviamo di fronte ad un elemento di vitale interesse per la sua vita e per la civiltà. Infatti la legge del celibato, — come osserva anche un autore moderno —, (Ries, op cit., pag. 137), «investe tutte le relazioni della vita sacerdotale, ecclesiastica e sociale, e fu accompagnata in ogni tempo da effetti di vastissima importanza, di carattere storico mondiale e sociale». Disciplina così severa esige un’adeguata giustificazione. Né varrebbe allo scopo tirare in ballo la presunta tirannica ingerenza della Chiesa Romana. Per due motivi. Primo, perché alla Chiesa, come a qualunque altra società umana, compete l’inviolabile diritto di scegliersi i ministri alle condizioni meglio rispondenti al suo fine soprannaturale. Secondo, perché la stipulazione di questo speciale contratto bilaterale è perfettamente libera, accettata coscientemente, dopo lungo esperimento a corpo e mente sani, e in età conveniente (almeno 21 anni) dal candidato al Suddiaconato. Del resto, il voler appellare a tale presunta tirannia, sposterebbe — a nostro parere —, non risolverebbe i dati della questione. Sempre rimarebbe da chiedersi: perché mai la Chiesa abbia fatto uso di poteri così eccezionali, in materia che incide tanto sensibilmente sulla libertà individuale, e ne sopprime l’aspirazione legittima a creare una famiglia? Ebbene, la ragione c è, sapientissima. La dignità e gli uffici del Sacerdote.
Giustificazione del Celibato. È opinione comune agli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi, che la continenza racchiude in sé un qualche cosa di celeste che innalza l’uomo e lo rende accettevole alla Divinità; per necessaria conseguenza, che ogni funzione sacerdotale, ogni atto religioso, ogni cerimonia sacra, poco o nulla si accordano col matrimonio. Se ciò è vero d’ogni antico sacerdozio, a più forte ragione lo è di quello cristiano. Vi siete mai domandati chi sia il prete? La nera veste talare, la sua vita dicono subito che non è un uomo come tutti gli altri. Ma lo avete considerato al lume della Fede ? La fede ci scopre nel prete un essere privilegiato, unico al mondo; una persona sacra, non proprio per una libera convenzione internazionale, ma per suprema volontà di Dio, il quale in forza d’una vocazione speciale l’ha segregato dal mondo, e in forza di una speciale consacrazione spirituale l’ha innalzato alla sublime dignità di suo ministro, cioè di intermediario ufficiale tra l’Altissimo e gli uomini; di «alter Christus» e di continuatore dell’Opera redentrice attraverso i secoli; di ministro dell’Eucaristia e della Penitenza; di dispensatore della grazia mediante gli altri Sacramenti; di luce del mondo e di sale della terra; di banditore del Vangelo alle genti; di medico e pastore delle anime, di padre dei poveri; di tutore dei supremi interessi di Dio sulla terra. Tutto ciò è, senza dubbio, grande, nobile, santo; sufficiente per se medesimo a darci un’idea alta del sacerdote, e a collocarcelo al centro del quadro divino della Redenzione, circonfuso d’un’aureola celeste. (n.b. ci riferiamo, ovviamente, ai veri sacerdoti. Nulla a che vedere con i tanti modernisti travestiti da preti che oggigiorno occupano abusivamente le nostre chiese, ndr.). Introdurre nella cornice di questo quadro una donna; stringere il sacerdote coi vincoli d’umana passione, nel fascino traviatore di fugace bellezza, sarebbe — a detta di Balmes (Cfr. «Obras Completas», IV Del Clero Cattolico, Barcellona, Biblioteca Balmes, pag. 12-13) — un distruggerne la grandiosità, rimpicciolire il sacerdote, minorarne la dignità, scemarne il prestigio. La ragione? Perché, se n’andrebbe quella speciale consacrazione ch’è nella continenza. Perché — secondo un’espressione del Michelet (Cfr. De Maistre, «Du Pape», pag. 360-61, citato dagli Editori) — anche nel matrimonio più santo il cuore più saldo perde qualche cosa di sé. Perché, infine, tutto ciò meno si confà con l’austerità dello stato clericale e con la santità eminente, che necessariamente esige. Infatti sarebbe ingenuo e falso credere, che il matrimonio preserverebbe il sacerdote dagli stimoli della carne e da miserande cadute: esso non ne preserva neppure i secolari, i quali, per trovarvisi più esposti, troppo spesso e malauguratamente vi cadono. Di più, nel caso che il matrimonio dovesse precedere l’ordinazione sacra, esso distrarrebbe il candidato dallo studio serio e da quella matura formazione spirituale ed ascetica, che sono condizione indispensabile di successo, e che sole si trovano dov’è raccoglimento e pace interiore. Comunque, il matrimonio, costituendo il sacerdote oggetto e centro d’umane e interessate contese, non lo sottrarrebbe certo a quei mille pericoli, pettegolezzi, scandali, e vendette che, di solito, vi si collegano. Sopratutto, il popolo difficilmente ascolterebbe volentieri la parola d’un uomo il quale, chiamato per dovere a predicare una morale purissima e di perfezione, non la osservasse lui medesimo. Peggio, poi, se la moglie, i figli non fossero fiori di donna e di ragazzi; se lui stesso, irretito entro raggiri muliebri, si prestasse facile gioco alle loro suscettibilità e velenose gelosie: sempre, ma irrimediabilmente in questo caso, egli vedrebbe l’opera sua paralizzata, derisa dai buoni e dai malevoli, e il suo confessionale deserto. La confessione da sola, esige il celibato. Mai le donne, di cui bisogna particolarmente tener conto su questo punto, accorderebbero una confidenza piena al prete ammogliato. Finanche il folle Nietzsche trovava bensì logico che Lutero avesse tolto ai pastori protestanti la confessione auricolare, ma aggiungeva che con ciò «di pari passo era spacciato nella sua ragione basilare il sacerdote cristiano» (Ries, op. cit., pag. 208). Infine: parlare a questo povero prete, tutto assorto nelle preoccupazioni materiali della famiglia, parlargli di preghiera, di zelo delle anime, di milioni d’infedeli da ricondurre al vero Dio; di poveri da soccorrere, d’istituzioni di carità da alimentare; di diritti della Chiesa e degli oppressi da tutelare di fronte e contro le prepotenze dei governi e delle sette, a costo di spogliazioni e della stessa vita; in una parola, parlargli degl’ideali apostolici della sua vocazione sarebbe un fuori luogo: correreste pericolo di vederlo scrollare le spalle, e «mio caro», rispondere, «ho ben altro per la testa: uxorem duxi!». Un prete siffatto, potrebbe forse piacere a taluni cristianelli all’acqua di rose, e agli affiliati di talune sette, ma costituirebbe un allarmante pericolo per la Chiesa, di cui potrebbe, a ogni momento dilapidare i beni per arricchirne sé, i figli e i nipoti; allarmante pericolo anche per la civiltà, cui verrebbe a mancare, a poco a poco la luce confortante del Vangelo e il salutare fermento di una vita integralmente cristiana. Queste ragioni, prese nel loro complesso, sono certamente forti e tali da non ammettere replica.
Accuse contro il celibato. Tuttavia, bisogna confessarlo, i moderni denigratori del celibato non sembrano darsene gran conto; prescindono anzi da ogni ragione d’indole religiosa: preferiscono sferrare i loro attacchi su altro fronte, mettendo — come si vuol dire — la scure alla radice stessa del male. Negando la possibilità e la moralità d’ogni raffrenamento degli istinti sessuali per ciò stesso scalzano dai suoi presupposti naturali ed essenziali il carattere virtuoso del celibato ecclesiastico. L’importanza dell’argomento, esige che, per un momento, seguiamo i nostri nemici sul loro terreno di battaglia, esaminando il problema della purezza nei suoi termini più generali. Se ci riuscirà di dimostrare inconsistenti e nulle le moderne accuse contro la continenza, avremo per ciò stesso rivendicato al celibato i suoi pieni diritti di cittadinanza nella repubblica delle virtù e dei valori sociali. Antinaturale. C’è chi dice: il celibato è antinaturale perché in perfetta antitesi con l’istinto della natura. E altri: il celibato è antinaturale perché nocivo alla salute. Vediamo separatamente le due posizioni. «[...] La sentenza detta da Dio: Crescete e moltiplicatevi, è non un precetto, ma più che un precetto, cioè un’opera divina... ed è altrettanto necessario... e più necessario che mangiare e bere, purgarsi ed espettorare, dormire e vegliare. Si tratta di una natura e qualità ingenita [.....]» [Denifle, «Lutero e Luteranesimo», Roma, Desclée, (Trad. Mercati) 1925, pag. 294 Nota 2.a). È il grande argomento di Lutero e dei suoi discepoli, più o meno coscienti. Molto ci sarebbe da dire. Limitiamoci a brevi osservazioni. Prima di tutto, il passo del Genesi (I, 28) tirato in ballo da Lutero esprime non un precetto, ma una benedizione; o, se si vuole, importa sì un comando, ma diretto non ai singoli individui, ma agli uomini in generale, alla famiglia umana. In secondo luogo che dalla presenza d’un organo e di una facoltà se ne deduca la necessità d’esercizio; che cioè, si voglia collocare sul medesimo piano d’azione e di valori l’istinto della conservazione propria e l’istinto della propagazione della specie — ci sembra un manifesto paradosso, smentito decisamente dalla scienza e dall’esperienza (Cfr. D’Alès, «Dictionaire apologétique de la Foi catholique», T. I, ecc. 504-506, sotto la voce «Chasteté». Ed altrove: l’Autore cita numerose fonti, ndr.). Di cibo e di bevanda abbiamo incessante bisogno, fin dal primo istante della nostra vita. Non così dell’istinto sessuale: tant’è vero che esso si manifesta l’ultimo, durante la pubertà, e scompare il primo, con la vecchiaia; inoltre, eccitato prematuramente e soddisfatto smoderatamente è dannoso all’individuo, alla famiglia ed alla specie (basti pensare ai tanti pervertimenti che stanno distruggendo la moderna società, ndr.). Infine studiato dal punto di vista fisiologico, esso si presenta, sia nell’animale che nell’uomo, come «funzione facoltativa , come «attitudine», non mai come «necessità» ineluttabile. Unica la differenza: nell’animale è regolato da leggi cieche, nell’uomo dalla ragione. Se in quest’ultimo, a volte, può e deve parlarsi di necessità, lo è solo di necessità «passionale», contratta con l’abitudine peccaminosa, non di necessità «fisiologica». Fare appello a «voce di natura», a «qualità ingenita» è un non aver ancora compreso cosa sia voce di natura e dell’istinto. Quale istinto più radicato e potente di quello della vita ? Eppure, quante volte, il farne getto per salvare un’esistenza preziosa, per difendere la Patria, è un nobile eroismo od un preciso dovere! E perché non si potrebbe fare tacere l’istinto sessuale in vista appunto di ideali più nobili e generosi? Un ultimo appunto che si muove al celibato è quello di serrare in una fredda solitudine il cuore del sacerdote e del religioso, e di chiuderlo alle gioie dell’amore e di quella pura e santa amicizia, che lega l’un l’altro il cuore dei due sposi cristiani, rendendo così soavi e leggieri i pesi della loro vita. Ebbene il contatto continuo e cordiale del sacerdote con la grande famiglia delle anime (non sono forse sua famiglia i fanciulli, i giovani, i poveri, i membri tutti della parrocchia, dell’associazione?...), la molteplice attività apostolica, lo studio, e sopratutto il contatto intimo con le supreme realtà della Fede — mediante la vita di preghiera — sono più che sufficienti a dissipare ogni senso di solitudine. Ma il suo cuore non è chiuso neppure al caldo soffio dell’amore e dell’amicizia; solo ne è nobilitato l’oggetto, Dio. Neppure la donna esula completamente dalla sfera del suo amore. Maria, l’immacolata, la più bella e amabile di tutte le creature, sta continuamente davanti ai suoi sguardi e costituisce, dopo Dio, tutto l’oggetto del suo amore tenero ed entusiasta. Così anche nell’ordine della grazia niente è soppresso di quelle che sono le legittime aspirazioni del cuore umano. Tutto vi è anzi nobilitato, perfezionato, reso più saldo. Antigienico? Esaminiamo ora il quesito se la continenza perfetta non costituisca un serio pericolo per la sanità. Qui, evidentemente, l’unica autorità competente è la Medicina: ad essa lasceremo tanto più volentieri la parola, convinti come siamo che nessuna seria opposizione potrà mai esservi tra Scienza e Fede. Il Dott. Escande, della R. Università di Tolosa, nella sua tesi di laurea ha così formulato il verdetto della Scienza: «Non vi è alcuna malattia dovuta alla continenza» (Cfr. Dott. Henry Bon, «Medicina e Religione», Torino, Marietti, 1940, p. 173-74, dove reca altre preziose conferme. Testo molto interessante e rigoroso con tante pagine dedicate ai Santi medici, ndr.). La conferenza internazionale di Profilassi Sanitaria, tenutasi a Bruxelles nel 1902, dopo aver citato oltre centocinquanta celebrità mediche del mondo intero, votava all’ unanimità quest’ordine del giorno: «Bisogna insegnare ai giovani che non solo la purezza e la continenza non sono nocive, ma che anzi queste virtù sono le più consigliabili dal punto di vista medico» (Hoornaert, «A coloro che hanno vent’anni», Roma, Ferrari, 1923, Trad. Colazzi, pag. 196). Più categorica è la dichiarazione della Facoltà di Medicina dell’Università di Cristiania: «Non conosciamo alcun caso di malattia e nessuna forma di debolezza che si possa attribuire a una condotta perfettamente pura e morale » (Dott. Antonelli, «Per l’igiene e la morale», Roma, Pustet, 1930, pag. 94-95). Da noi, in Italia, il Prof. Luigi Scremin, ha realizzato qualche cosa di più. Tra il 1920-40, ha consultato in proposito le autorità mediche più illustri e famose d’Europa e d’America, ed ha raccolto in un opuscolo le risposte di più che ottanta di questi specialisti, raggruppandole secondo le cinque categorie di appartenenza dei singoli sanitari. Risposte tanto più sincere in quanto che redatte in forma privata e confidenziale, e non per la pubblicità. Il punto su cui tutti incondizionatamente convengono è di asserire che «ogni malattia vera e propria è esclusa», e che quindi la «continenza, nel senso più stretto della parola, la severa norma morale, non è per se stessa in contrasto con le esigenze dell’igiene e può (come deve) essere proposta e consigliata ai giovani come sicura e nobile norma di vita» (Scremin, «La continenza giovanile sessuale e l’igiene», Torino, Lice, 1943, pag. 13). Queste testimonianze ci sembrano più che sufficienti a confermare una tesi del resto moralmente evidente e che solo la passione impugnerà sino alla fine del mondo. Impossibile. «Non ci riesco! Impossibile», è la parola dei fiacchi, dei vili, dei naufraghi; di quanti, insomma, sono al punto di disertare dal posto di combattimento. «Non ci riesco! Impossibile!». Lo pensava anche Agostino. Nell’angosciosa lotta che precedette la conversione, vide comparirsi davanti «la casta dignità della Continenza, improntata a pudica, e severa allegrezza. [.....] Fanciulli e fanciulle, giovani numerosi e persone d’ogni età» le facevano corona. «E mi guardava », dice il Santo «con un sorriso ironico per farmi coraggio, quasi volesse dirmi: non potrai tu fare quello che sono stati capaci di fare questi e queste?» (Conf. 1. VIII, c. 11). Oh, a quanti giovani moderni, traviati e scoraggiati, la casta Continenza potrebbe rivolgere, come al sensuale Agostino, l’ironico ammonimento! Parecchi medici, di quelli citati dal Prof. Scremin, quando trattasi di rispondere al quesito se sia possibile o no conservarsi casti nel bollore degli anni, non sanno far di meglio che appellarsi alla propria esperienza personale maturata nei più svariati ambienti giovanili, e all’esempio luminoso del clero cattolico. Mons. Olgiati ha interrogato direttamente i giovani della sua Associazione giovanile: soldati, operai, studenti. Confessioni candidissime che si fanno solo al sacerdote. Questi giovani affermano: sì, è possibile perché noi stessi lo siamo («I nostri giovani e la purezza», Milano, Vita e Pensiero, E. 4.a, 1921). E, personalmente, sappiamo di centinaia e centinaia di giovani eroici e illibati i quali, nel mondo, hanno consacrato a Dio, con voto, la loro purezza. Davanti alla solenne e quotidiana smentita dei fatti, non mette la pena attardarsi a confutare il grido insano e spudorato di quanti ci vanno ripetendo: impossibile! impossibile! Certamente non è facile conservarsi casti a lungo: anzi è praticamente impossibile, abbandonati unicamente alle proprie forze naturali, senza la grazia di Dio. Ma questa grazia non viene negata a nessuno che la chieda a Dio con cuore umile e sincero. Sincerità che richiede una vigilanza continua e la rinuncia a tutte quelle cause di eccitazione, letture, compagnie, spettacoli, che pongono sulla china sdrucciolevole del peccato. Lanciarsi volontariamente tra le fiamme, e pretendere di non bruciare; per puro capriccio, destare e stuzzicare quella parte di bestia ch’è in noi, e pretendere di non restarne offeso, sarebbe da stolto e da temerario. Ma a chi lotta con pura volontà, la grazia di Dio non manca e la vittoria è sicura. Quindi se a tutti è difficile la castità (meno, però ai sempre puri, più ai naufraghi e recidivi;) impossibile, essa non lo è mai: per nessuno. Sopratutto ove, alla preghiera, all’uso frequente dei Sacramenti della Confessione e Comunione, alla devozione figliale alla Madonna, alla pratica giudiziosa della mortificazione cristiana, alla fuga delle occasioni pericolose e ad uno sport moderato, si congiunga il consiglio d’un esperimentato direttore spirituale. Lacordaire, ch’era venuto a contatto intimo coi figli della dannata Rivoluzione, scriveva: «Le donne non sono le sole alle quali la continenza torni facile. Sovente io stupii della facilità con cui si può strappare un giovane alla depravazione» [Cfr. Monsabré, «Esposizione del Dogma Cattolico», Torino, Marietti, 1891, (Trad. Bonomelli) Quar. 1887, Conf. 90, pag. 265]. Il clero poi — è bene notarlo — in questo campo come altrove — si trova in condizioni di netta superiorità rispetto ai semplici fedeli e alla gente di mondo, per una speciale grazia di stato inerente alla sua vocazione, che gli rende più soave e facile il grave impegno del celibato. Antisociale. Forse non tanto da noi, in Italia, quanto altrove, sotto le brume del settentrione, oggi si declama contro il celibato e si versano fiumi d’inchiostro per dimostrare, anche ai ciechi, ch’è lui, proprio lui che uccide le nazioni. — Volgete attorno lo sguardo, vi dicono; osservate le nazioni d’Europa: sono tutte colpite da progressiva sterilità, sintomo indubbio di vecchiaia, preludio certo di decadenza e di morte. — Verissimo. Ma di chi la colpa? Del celibato ecclesiastico? — Non lo crediamo. Certo, a guardare le cose superficialmente, per il fatto medesimo che celibato dice diserzione dalla paternità naturale, il suo contributo al problema demografico non può esser diretto. Ma non segue, da ciò, che non vi apporti nessun contributo. Nel dicembre del 1941 «l guardasigilli Francese Barthélemy, lamentava che, nella coscienza di larghe porzioni del suo popolo, l’infanticidio fosse divenuto un peccatuccio, tanto da tollerare l’uccisione annua di 60.000 innocenti. Una strage, compiuta in stato di narcosi e d’incoscienza. Ma perché? Perché a troppa gente non arriva più la voce d’un maestro e giudice che, con forza e persuasione e minaccia di castighi non passeggeri, tuoni dal pulpito o fulmini da un confessionale il divieto: — Non ammazzare —; ricordando che, se l’infanticidio è scusato solitamente dalle corti d’assise (come ha deplorato il guardasigilli stesso) non è però scusato dalla giustizia di Dio. [.....] E col divieto, non arriva più a quelle coscienze la spiegazione di quel che il matrimonio sia, di quel che la famiglia significhi» (Giordani, «Noi e i preti» in «Fides», Rivista mensile ecc., aprile 1942, pag. 166). Augusto Isaac, alla XV Settimana Sociale di Francia dichiarava molto giustamente: «In fondo, bisogna sempre ritornare qui: la questione della popolazione [.....] è sopratutto per i nostri concittadini un affare di volontà, per conseguenza una questione morale» (Cfr. «Le Probleme de Population», Paris, Gabalda, 1923, pag. 241). Un affare quindi di particolare competenza del sacerdote, il quale appunto perché può offrire in sé l’esempio d’una vita incontaminata, è, più d’ogni altro, in grado d’essere ascoltato. Solo che non gli si imbavagli la bocca, e su riviste e giornali da postribolo non se ne mettano in canzonatura gl’insegnamenti. Nel secolo scorso s’accusò il celibato ecclesiastico come causa di spopolamento, «ma la vera», scrive il Dott. Cattani, «erano il libertinaggio e la prostituzione nella quale colano tutte le immondizie e le nefandezze della corrotta natura umana» («Igiene del Matrimonio», Milano, Hoepli, 1925, pag. 306). Libertinaggio, prostituzione ! Ecco davvero il nemico numero uno; il vero cancro che rode l’Europa. Lo hanno riconosciuto statisti, sociologi e pubblicisti di tinte tutt’altro che cattoliche. Storia e medicina non fanno che dare il loro verdetto di conferma.
Cuori che non amano. Al celibato si rivolge un’altra accusa: quella di egoismo. Ad evitare equivoci, chiariamo subito il nostro punto di vista: C’è un celibato libertino: l’atteggiamento di chi rifugge dal matrimonio per potersela godere in barba ad ogni legge divina ed umana; e c’è un celibato virtuoso, santo: l’atteggiamento di chi rinunzia alla famiglia naturale per potersi più liberamente dedicare a Dio e al servizio dei propri fratelli. Del secondo e non del primo difendiamo la causa. Dalle pagine che seguono apparirà chiaro quanto sia vuota di senso l’accusa di egoismo.
Frutti del celibato ecclesiastico. Sbarazzata la via dalle prevenzioni e accuse, che si muovono contro il celibato ecclesiastico, passiamo ad additare in esso — attraverso i suoi risultati un elemento di vitale importanza per la rigenerazione religiosa, morale e sociale della Patria. Passato e presente saranno sicura garanzia per l’avvenire. Beni per il sacerdote. Studi statistici hanno messo in risalto che il clero è di tutte le classi e professioni sociali, la più sana moralmente e fisicamente (n.b. l’Autore scrive prima dell’occupazione modernista delle nostre chiese. Nella condizione attuale il falso clero, creduto per vero, stravolgerebbe le statistiche, ndr.). Nessuna meraviglia. Ormai è acquisito alla scienza e all’esperienza che la castità perfetta non solo non nuoce alla salute, ma anzi costituisce per l’organismo una magnifica riserva di energie vitali di prim’ordine, le quali conferiscono vigore alle membra, lucidità alla mente, fermezza e costanza alla volontà, agilità e resistenza a tutto il corpo. Ammaestramento non privo d’interesse, ove lo si consideri nel complesso delle sue cause. Eppure più ricco è il significato spirituale del celibato. Se è vero che il 99 °% delle defezioni dalla Fede, e la stessa delinquenza, nei cattolici, muovono inizialmente da crisi giovanili nella purezza; non è men vero che la Fede e la santità in nessun’altra virtù hanno un’alleata più potente e fedele come nella purezza. Per tre ragioni. Prima: perché la purezza tempra la volontà alla lotta, e forma il carattere al sacrificio e all’eroismo. Pretendere, come taluni vorrebbero, che il prete non possa essere puro e casto, se non a condizione d’essere un minorato fisico, o supporre che basti porsi addosso un pezzo di tonaca o di talare per mutare, ipso facto, natura, è un’ingenuità: a sfatare la quale s’incaricano le defezioni e deviazioni (non molte, ma reali ed innegabili) di alcuni membri del clero, in materia di castità. No, no: il giovane che varca la soglia del seminario o della casa religiosa per consacrarsi a Dio, nulla ha perduto della sua natura; egli sa, anzi, che un combattimento lungo e arduo l’attende contro un nemico subdolo e tenace che mai non s’arrende. Ma sa pure che per trionfare della carne è necessario crocifiggerla e sottrarle tutti i mezzi di offesa, come sarebbero compagnie frivole e mondane, letture e spettacoli pericolosi; libertà di sguardi e di pensieri, l’attacco smodato alle ricchezze, ai propri comodi, al proprio io superbo ed orgoglioso. Ingaggiare questa lotta, e continuarla per anni e anni, senza debolezze e senza compromessi, non è, forse, un eroismo? La volontà e il carattere se ne avvantaggiano: «[...] in seguito alla repressione dei loro appetiti sessuali, gli esseri forti sono resi più forti ancora mediante questa forma d’ascesi» (Carrel, «L’homme, cet inconnu», Paris, Plon, 1936, pag. 169). Seconda: la purezza, abbisognando per crescere e svilupparsi, d’un elemento ricco e pregno di soprannaturale, apre, necessariamente, l’adito a tutte le virtù. La castità è possibile solo con convinzioni religiose profonde. E anche qui, se tu sei puro, ma non sinceramente umile, mortificato, prudente, uomo di preghiera...: tu sei lo stesso in continuo pericolo di capitombolare, perché i peccati mortali sono come le ciliege che una tira l’altra. E quando si combatte per la vita o per la morte, poco importa per quali vie si giunga alla capitolazione. Terza: la purezza, concentrando in Dio tutte le energie vitali dell uomo, e preservandole dalla dispersione, apre il cuore alla carità, e per ciò stesso a tutte le forme di beneficenza cristiana di cui il mondo è ricco. A questo contatto intimo, quotidiano col Dio dell’Eucaristia il cuore umano si forma, si riplasma, si divinizza quasi. A poco a poco, i pensieri, i sentimenti, i desideri, gli affetti del Cuore di Dio rifluiscono nel cuore dell’uomo. Siamo così al termine dell’opera, il capolavoro è pronto: la vita, la gioia, la beatitudine, la bontà dal cuore del sacerdote traboccano e si espandono per le vie insanguinate del mondo. Il fascino misterioso ma irresistibile della purezza tralucendo dallo sguardo e dal sorriso, attira a lui i piccoli fanciulli e gli apre i cuori giovanili che si schiudono alla vita. Ed è sempre questa purezza incontaminata che assiepa attorno al sacerdote le turbe di popolo e fa della sua persona l’amico ricercato delle ore di gioia e di dolore, il depositario d’ogni più caro segreto, l’animatore di ogni iniziativa di bene, l’autorità più sacra ed amata. È Cristo che passa, ricondotto in terra dall’immacolata purezza d’un cuore verginale. È questo il trionfo del celibato! Beni per la famiglia. - Si direbbe che celibato e matrimonio siano due antagonisti, sempre pronti alla zuffa: invece, grazie all’opera conciliante della Chiesa Cattolica, essi sono due fedeli e cari alleati. E così il celibato, lungi dal suonare condanna del matrimonio, n’è il più forte baluardo e la più sicura difesa. Papa Pio XI nella «Casti connubii» (1930); Papa Pio XII nei discorsi agli sposi novelli e in quello ai Parroci e Quaresimalisti di Roma, per la Quaresima 1944, hanno stimmatizzato i moderni errori circa il matrimonio. Da tali teorie (per lo più d’importazione estera) chi n’esce sempre malconcia è la povera dignità umana; poiché esse, in ultima analisi, non mirano che a svincolare il reprobo senso da ogni legge umana e divina, porre la ragione sotto il tirannico predominio dell’istinto, e degradare la donna al livello di «strumento» di piacere in mano dell’uomo (oggigiorno, a causa del perverso femminismo, è anche viceversa, ndr.). In questo senso, «il voto di celibato volontario», ha scritto il Forster, «ben lungi dall’avvilire il matrimonio, è anzi una protezione per la santità del vincolo matrimoniale, in quanto personifica la libertà spirituale dell’uomo di fronte agl’istinti di natura, [.....] rappresenta una coscienza ammonitrice di fronte a tutti i capricci e a tutte le usurpazioni del temperamento carnale, [.....] preserva i coniugi, nei loro stessi rapporti vicendevoli, dal credersi schiavi di una semplice e stupida forza naturale, e li educa a serbare sempre di fronte alla natura, anche nello stato matrimoniale, un contegno da liberi e da padroni». Né si esauriscono qui i vantaggi del celibato in rapporto alla famiglia: in tutti i tempi il clero è stato il suo più valido ausiliare nell’opera dell’educazione cristiana e scientifica della gioventù, facendo così rifluire in essa i tesori della cultura e dello spinto. Beni sociali. - Sfatiamo subito un pregiudizio. Si è troppo abituati, oggi, a considerare gli Ordini religiosi e, in generale, il clero, come un qualcosa di avulso dalla società moderna, dalla vita del popolo. Niente di più falso. Una importante ragione d’essere del clero e degli Ordini religiosi, anche più lontani da noi, come i claustrali, è eminentemente sociale. Come bellamente ha scritto Igino Giordani, (Op. cit., pag. 172) i grandi Ordini religiosi «non sono milizie di creature distaccatesi da noi, ma arruolatesi anche per noi; sono i nostri ordini, la nostra milizia. Così come l’esercito di una nazione non è distaccato dalla nazione, ma è, come si dice oggi, la nazione stessa armata». Non è, quindi, sciocca pretesa la nostra, quella di parlare di frutti sociali del celibato. Esempio. - Un proverbio indiano dice: Come uccellini affamati intorno alla madre loro, così stanno tutti gli uomini intorno all’olocausto di colui che vince il mondo. Modo grazioso e semplice che rivela l’efficacia dell esempio. Ad esso, infatti, si riannoda il segreto di riuscita d’ogni pedagogia. Così fa la Chiesa: propone alla nostra imitazione la virtù eroica dei Santi — di questi esseri plasmati di carne e d’ossa come noi, e che, come noi e più di noi, hanno conosciuto l’asprezza della lotta e, magari, l’onta della sconfitta. Ma sopravvengono, per ogni uomo, ore di tenebra così fitta e di combattimento così angoscioso, che l’esempio e l’ammonimento dei Santi non basta più, e siamo tentati di capitolare vilmente. Per attenuare la nostra parte di responsabilità, ci trinceriamo, allora, dietro gli arzigogoli, spesso fantastici e aprioristici, di chi sa quali grazie gratuite e irresistibili concesse ai Santi, e a noi negate. Ecco, perciò, l’imperioso bisogno di sentire al nostro fianco, nell’ora della mischia, altri soldati del medesimo esercito, difensori della medesima bandiera: persone conosciute, di provata e palese integrità: i vittoriosi della purezza. Ai tribolati dalla carne, ai giovani tutti, la Chiesa — additando la gloriosa ed immacolata falange dei suoi leviti, che ancora pugnano sulla terra — dice: Siate puri, come questi miei figli e fratelli vostri: lo potete: dovete! Sacrificio. Per dare un’idea meno inadeguata di quanto la società moderna, anzi la civiltà stessa, vadano debitrici al sacrificio del celibato cattolico, dovremmo enumerare a una a una tutte le benemerenze dei Pontefici, Vescovi e clero verso l’Italia, l’Europa e il mondo intero in questi venti secoli di Cristianesimo, perché solo così essi hanno potuto adempiere ai molteplici e difficili loro compiti di pastori delle anime, di tutori della morale, di banditori del Vangelo, di tutela del diritto, di salvaguardia della civiltà, di padri del popolo, di consolatori degli afflitti, di cultori delle scienze e delle arti. Così una paternità più vasta, più nobile, più divina s’è sostituita alla paternità umana. Qui accenneremo solo a tre punti, che più specificamente si riallacciano al celibato, cioè la vasta opera di bene svolta dagli Ordini e Congregazioni religiose di tutti i tempi, nel campo della carità sociale, della scienza e delle missioni. Al servizio della carità, in Occidente troviamo innanzi tutto un grande Italiano, S. Benedetto da Norcia, ch’è stato giustamente definito «padre di nazioni», e ciò non solo perché i suoi figli dissodarono gran parte dell’Europa, ed i suoi monasteri costituirono l’asilo di rifugio dei poveri, dei diseredati, degli oppressi, che attorno ad essi edificarono le loro città, ma anche perché da essi uscirono i grandi missionari che portarono la civiltà cristiana in Francia, Inghilterra, Germania, e nei Paesi Slavi. Ai Benedettini spetta il merito d’aver salvato la cultura, i libri sacri, i testi classici e le arti. In questa sfera d’azione entrarono, dai secoli X al XII, i Cluniacensi, Cistercensi, Camaldolesi e Vallambrosani e Certosini, i quali tutti dipendono dalla regola di S. Benedetto. Nel sec. XIII, ecco S. Francesco, il «padre dei poveri»: i suoi figli, andando al popolo, molto si adoperarono a sollevare la miseria facendo sorgere «monti di pietà», e sradicando le discordie cittadine. Già prima del Mille, s’era dedicato alla cura dei lebbrosi l’ordine di S. Lazzaro, seguito e imitato per gli altri infermi (sec. XI e XII) dagli Antoniti, dai Fratelli dello Spirito Santo e dai cavalieri Giovanniti e Teutonici; per la liberazione dei cristiani schiavi degl’infedeli dai Trinitari e Mercedari (sec. XII e XIII). A partire dal sec. XVI e XVII un rifiorire di carità si nota in Spagna, Francia e Italia per opera di S. Giovanni di Dio, di S. Vincenzo de’ Paoli e di S. Camillo de Lellis, con le rispettive famiglie religiose. Finché nei sec. XIX e XX non arriviamo al Cottolengo, a Don Bosco... E siam ben lontani dall’esser completi! Al servizio della scienza. Per il medio evo citiamo l’autorevole testimonianza del Prof. Jean Guiraud («Histoire partiale Histoire vraie», Paris, Beauchesne, 1914, vol. I, Ed. 35.a, pag. 350-351), il quale — in base a indagini precise — afferma che allora «tutte le scuole (non escluse l’università) erano ecclesiastiche, e che la Chiesa fu la sola depositaria, la sola dispensatrice delle lettere, delle scienze, della cultura intellettuale e della civiltà». Per l’età moderna, abbiamo tutta l’opera degli Ordini e Congregazioni religiose, dei quali ricordiamo i nomi più popolari in Italia: gli Scolopi, i Barnabiti, i Fratelli delle Scuole Cristiane, i Salesiani e i Gesuiti. Al servizio dell’ idea missionaria. Oggi la Chiesa conta 61 Ordini religiosi e 93 Congregazioni maschili di diritto Pontificio quasi tutte applicate alle missioni, con un contributo complessivo di oltre 20 mila missionari (poi arrivò la “nuova pentecoste” del Vaticano Secondo che ha gravemente snaturato e danneggiato, se non distrutto, ogni missione, ndr.). Il risultato di quest’opera la conosciamo: il sorgere e propagarsi della civiltà cristiana nei continenti extra-europei. Invece di tornare sul già detto, ecco un brano di vita vissuta. Parlano il P. Rosso, della Consolata di Torino, e un ministro protestante, entrambi missionari nel Kenia, nel 1924. — E lei. Padre, non ha paura della peste? — Io, no; la mia vita è nelle mani di Dio. — Anche la mia; ma volevo dire: come si regola lei con gli ammalati? va a trovarli? Dà loro i sacramenti? fa la sepoltura dei morti? — Naturalmente; è questo il mio dovere ed io lo compio il meglio che mi è possibile. — Non sarebbe più prudenza tralasciare queste cose, stante la serietà del pericolo per la propria vita? — Ma, caro ministro, anche le pecorelle sono in pencolo, e noi bisogna essere buoni pastori e non abbandonarle. Noi, anzi. Padri e Suore, abbiamo già fatto al Signore l’offerta della vita, perché si degni risparmiare questi poveri indigeni. — Voi avete un coraggio «tremendo» (l’aggettivo è la traduzione letterale); ma io ho la moglie e li figli. — Io sono assai più fortunato di lei; anche per quel lato lì, non ho preoccupazioni di sorta. — Padre, ha ragione. Le auguro buona fortuna. Spero di venirla a trovare a Fort-Hall prima di partire per l’Europa. — Ma... va in Europa? — Sì, la settimana ventura. Voglio mandare i miei figli a Londra per le scuole; la mia signora li accompagnerà, ed io accompagnerò lei. Ritornerò dopo sei mesi; poiché è mia intenzione di fare il missionario ancora per un anno, onde avere diritto alla pensione. Spero che il Signore ci scamperà dalla peste (Da «La Consolata» periodo mensile missionario, Torino, anno XXIII, 1924, pag. 181 ss). I nostri missionari, oggi, durante l’imperversare di questo immane conflitto, hanno scritto una pagina non meno gloriosa. Essi sono là, fermi al loro posto, in prima linea, al di sopra delle ristrette barriere di nazionalità, a predicare con la parola e con l’opera l’unica Fede che affratella e salva: il Cattolicesimo integrale.
Conclusione. Dopo quanto siamo venuti dimostrando, alla luce chiara della scienza e dei fatti, due conclusioni si impongono per importanza e attualità: 1.a — La società moderna non ha nulla da temere dalla continenza e dal celibato. Tanto meno gl’individui. All’érta quindi dai falsi profeti! «I falsi profeti, che van proclamando come ideale della vita un edonismo senza pudori, alla gogna! Codesti ribaldi, che per poter vivere essi una vita scapigliata, gridano impossibile ogni freno degli istinti, ipocrisia ogni richiamo salutare» (Ries, pag. 8). Essi sono i veri nemici della Patria, — coloro che ne preparano il crollo; più temibili di qualunque nemico esterno. 2.a — Dal celibato ecclesiastico la società ed i partiti d’ogni colore, purché animati da sincera e fattiva volontà, hanno tutto da ripromettersi per la ricostruzione religiosa, morale e civile degl’individui, delle famiglie e degli stati: ne son garanti la divina saggezza della Chiesa che l’ha voluto, e un glorioso passato di venti secoli.
Per Angelo Capitta e per gli onesti autori menzionati: + Réquiem aetérnam dona eis, Dómine, et lux perpétua lúceat eis. Requiéscant in pace. Amen. +
A cura di CdP
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Stimati Associati e gentili Sostenitori, in questo lungo comunicato affronteremo i seguenti argomenti: — 1. Non si muove foglia, che Dio non voglia. — 2. Il dolore, compagno assiduo dell’uomo. — 3. Perché soffrire? Mistero! — 4. Vani conforti umani. — 5. Dio è saggio, buono e giusto. — 6. Quanta forza di espiazione! — 7. Fucina delle virtù evangeliche. — 8. Uno strappo all’incanto del mondo. — 9. Gesù, l’uomo dei dolori. — 10. La corona della vita eterna. La nostra principale fonte sarà, come di consueto, un ottimo opuscolo apologetico dell’estinta collana S.O.S.: «Il dolore», del P. Antonio Oldrà, Serie 1, n° 10, imprimatur 1942. Preghiamo per le anime di questi dimenticati autori, molti dei quali si distinsero per la loro risoluta lotta al modernismo: «Sintesi di tutte le eresie».
• Quanti pagani tra i cristiani! Quanti atei e naturalisti, non in teoria, ma in pratica, quando si tratta del come giudicare o agire, di fronte agli avvenimenti che ci circondano! I più infatti delle persone del mondo, anche nominalmente cristiane, giudicano e vedono, approvano o condannano, prescindendo da Dio e dalla Sua Provvidenza, e non vedono negli avvenimenti (passati, presenti o futuri), se non le cause seconde o create, il gioco del caso, la buona o la cattiva fortuna, la malizia o la bontà degli uomini. Di qui infiniti errori, seguiti quasi sempre da altrettante colpe; innumerevoli illusioni, anche queste seguite sovente da un ugual numero di delusioni; di qui sogni fantastici, pieni di pericoli e di amarezze, provvedimenti imprudenti, sofferenze irragionevoli. Difetti tanto frequenti quanto deplorevoli, i quali hanno origine dalla mancanza di spirito di fede; difetti che perciò scompaiono e si correggono col dolce e rassicurante dogma cristiano della Divina Provvidenza, messoci dinanzi dalla santa fede, secondo il quale «non muove foglia, che Dio non voglia», come ben dice un proverbio nostro, eminentemente cristiano, sia che si tratti dell’ordine fisico e naturale, sia ancora che entrino in gioco le passioni degli uomini, la loro malizia, la loro bontà od ignoranza. Giacché, tanto sopra gli elementi e le forze della materia bruta, come sopra le volontà degli uomini, si sovrappone sempre l’azione di Dio, come causa prima e suprema, che, senza violentare le cause seconde e senza cambiarne la natura, tutto guida, tutto muove ed indirizza a un disegno paterno di sapienza e d’amore, di gloria Sua e di bene nostro, come ha diretto un giorno l’odio dei nemici di Cristo, la viltà di Pilato, la congiura dei Farisei, il tradimento di Giuda — tutte cause umane, libere e anche malvage — al compimento della grande opera della redenzione del genere umano, già voluta da Dio e decretata fin dal principio del mondo. Se noi non dimentichiamo questa consolante, e solenne verità, dell’intervento di Dio buono e sapiente in tutti gli avvenimenti umani, grandi e piccoli, se noi non dimentichiamo quello che la fede ci insegna, che nulla avviene, sia nel mondo in generale, sia ad un uomo in particolare, senza o l’ordine positivo o almeno la permissione del Signore, e sempre per un fine di bene, noi non saremo più tentati, come troppe volte ci è accaduto in passato, di avventarci, come fa il cane contro la pietra che lo ha colpito, senza pensare alla mano che l’ha lanciata; noi non saremo più tentati di credere ciecamente al mondo ed ai ciarlieri suoi portavoce, che tutto e sempre vedono e giudicano dai tetti in giù, cioè secondo i loro criteri del tutto terreni, d’interesse, di politica, di odii o di simpatie personali. Ma sollevando lo sguardo più in alto, in ogni cosa, anche nei fatti più contrari, sapremo sempre vedere qualche lato buono, almeno nell’ultimo termine, in cui l’avvenimento andrà a risolversi o tardi o tosto, guidato dalla mano di Dio. Sennonché, fra tutti gli avvenimenti ve n’è uno, così brutto ed antipatico, per spiegare il quale con calma e con sapienza, e ancora più per accettarlo virtuosamente, senza subirne troppo le scosse violente e i danni gravissimi, lo spirito di fede è non soltanto necessario, ma assolutamente indispensabile; perché di fronte a questo fatto tutte le altre voci o sono mute, o sono insufficienti, o (peggio ancora) sono cattive consigliere. Questo è l’avvenimento della sofferenza e il fatto del dolore, che tanto spesso ci si presenta dinanzi, come un fato ineluttabile. Guai a noi, se in questo incontro non ci assiste lo spirito di fede! Allora sono ruggiti di rabbia e di ribellione, che vomita il cuore, insorgendo contro il nemico; o, se glie ne manca la forza, sono progetti folli e disperati contro noi stessi, per sfuggire con una morte violenta all’assalto del dolore. Due follie e due colpe enormi, a cui ci provoca l’avvenimento del dolore, se lo spirito di fede non ci illumina colla sua luce, se Dio non ci fortifica colla Sua grazia. Interroghiamo dunque questo prezioso ausiliare e preghiamolo a prestarci la Sua efficace assistenza, la sua difesa, il Suo conforto, di fronte all’ineluttabile e terribile conflitto col dolore, pel quale riesce vana e insufficiente ogni altra forza o luce di natura e di umanità.
• Chi di noi non ha assistito, almeno qualche volta, allo spettacolo di un grande dolore? Quei genitori erano attorniati da una bella corona di figliuoletti, che formavano tutto il loro amore. Ed ecco, in capo a poco tempo, il vuoto desolante intorno a quella tavola, divenuta muta e silenziosa. Quella madre aveva un tesoro di figlio già grandicello, che era tutto il suo orgoglio e tutta la sua speranza; l’avvenire sembrava impaziente di possederlo, per averne valido appoggio e titolo d’onore. Ma ecco un male subitaneo e misterioso, che in pochi giorni lo rapisce alla madre e alla società. Miratene la salma gelida e scolorata, chiusa in quella angusta bara. Quegli sposi cristiani trovavano nel loro mutuo amore la più dolce ed insieme la più buona esistenza. Ma ahimè! il fiore della loro unione appena sbocciato è stato svelto violentemente dalla morte, e del sogno ridente di tanta felicità non rimane più che una povera, vedova, che piange sopra una tomba. E così per infiniti altri casi, che si riproducono ogni giorno in questa valle di lagrime. Quanti rosei disegni di avvenire spezzati in un colpo da una disgrazia inaspettata! Quante esistenze segretamente torturate per insuccessi, per sventure, per dispiaceri intimi di famiglia! Quanti cuori straziati, quanti martirii occulti per dolori e pene, che nessuno saprà mai ! Talora la sventura diventa veramente implacabile. Come una fiera furibonda, entra in una famiglia, graffia, uccide, devasta, semina lo sterminio, l’infermità, la morte, la miseria in ogni angolo di quella povera casa. Ecco là le sue vittime, in quella stanza, vicine a quel capezzale funebre, davanti al crollo ed alla rovina di tutta la famiglia. Esse sono immobili, pallide, meste, senza parola, come schiacciate sotto un peso opprimente, simili (direbbe il Salmista) a un ferito disteso in un sepolcro. Ma ciò che aggrava enormemente questo spettro del dolore, è che esso non è un avvenimento eccezionale e raro nell’umana famiglia, che colpisce solo di tempo in tempo, e solo alcuni pochi disgraziati, presi specialmente di mira dalle sue frecce acuminate e velenose. Se il suo furore non ascende sempre al colmo, sì può però dire con ogni verità, che la sua presenza è la regola ordinaria della vita umana, o prima o poi, in maggiore o minore misura. Non sono parecchi o più uomini, non è la schiera di alcuni colpevoli e indegni che ne è colpita; ma è l’umanità intera, che è condannata a questa legge fatale, da tanti secoli quanti ne conta di vita; è la umanità intera, che copre coi suoi resti sanguinosi il suolo, che è costretta a traversare. Ora qual effetto questo terribile avvenimento produce sul cuore e sulla vita morale dell’uomo, se egli non è illuminato e sostenuto dalla fede? Quale è l’atteggiamento, che l’uomo prende di fronte a questo crudele visitatore e compagno della vita, se la luce dei principii cristiani non viene a guidarlo e ad appoggiarlo a tempo? Ahimè ! Tutti lo vediamo. L’uomo, che col suo genio ha domato la natura, l’uomo, che ogni giorno le strappa dal seno qualche nuovo segreto, l’uomo, che incatena, la folgore e percorre i cieli sulle ali gigantesche dei suoi velivoli, non sa poi sottrarsi alle strette del dolore che lo colpisce, lo afferra, lo lega come uno schiavo, lo trascina seco e lo sbatte al suolo, come un giocattolo. Egli, che può tutto in ogni altro campo, egli, che si crede invincibile davanti a qualunque altro ostacolo o nemico, è poi del tutto impotente in faccia a questo avversario, il dolore, che, quando è suonata la sua ora, come una valanga impetuosa ed irrefrenabile, lo travolge, lo schianta, lo precipita nei suoi abissi.
• E gli abissi, in cui il dolore travolge l’uomo, se non lo salva la fede, sono ordinariamente, o la furente ribellione contro il fato avverso, o la disperazione altrettanto furibonda, per sottrarsi ai suoi assalti. Così il dolore, dopo aver seminato nel cuore dell’uomo l’agitazione, l’oscurità, la mestizia, la debolezza, alla fine con un colpo mortale l’uccide moralmente, in un parossismo di rabbiosa pazzia. Egli infatti — contro quanto affermano i liberi pensatori e gli uomini senza fede — sente benissimo, che il dolore non è, per legge di natura, un debito necessario dell’esistenza, né un effetto, che esca fatalmente dalla nostra stessa natura, come un frutto del suo germe. Egli sente, che esso non è che un male contro natura, un ospite intruso ed ingrato della terra, un forestiero sinistro e malaugurato, un cancro doloroso, introdotto sull’albero dell’umana famiglia da qualche suo nemico giurato. No, grida egli, io non sono nato per soffrire, ma per godere. Tutto me lo dice in me. Me lo dice, in modo infallibile, l’aspirazione più irrefrenabile e profonda del mio essere verso la felicità. Me lo dice l’orrore istintivo, anch’esso invincibile, di tutta la mia natura per la sofferenza e il dolore. Perché dunque debbo io soffrire? Chi mi insegna, chi mi aiuta a liberarmi dalle strette di questo ingiusto assalitore? Ed allora escogita tutti i mezzi più ingegnosi, invoca tutti i sistemi più arditi inventati dagli uomini, compie gli sforzi più disperati per riuscire nel suo intento — tanto ragionevole del resto, tanto umano e naturale! — di uscire dal dolore, o almeno di renderne più rari gli assalti e di mitigarne le ferite. Ma tutto è vano, se voi non credete in Dio. Se voi non sapete, che noi siamo creati per Lui e siamo qui in via per raggiungerLo; se voi guardate questo vasto mondo come un campo chiuso ove lottano forze fatali, oh! Allora il dolore non ha più alcun senso per voi. Nel vostro scoramento, nello strazio della vostra anima, che volete che vi dica? Non vi resta che soffrire in silenzio il vostro dolore, senza importunare coi vostri lamenti un cielo vuoto e persone che non possono nulla per voi. Chè tale è appunto la punizione di chi vive senza Dio: soffrire senza conforto. Il dolore, finché non si assurge a principii più alti, quali sono quelli della fede, rimane un fato tanto misterioso e inesplicato, quanto inevitabile. Esso è un carnefice che ci strazia, ci fa gemere e piangere, ma non ci fa dire il segreto delle lacrime che ci strappa dagli occhi; non sa destare coi nostri gemiti una voce liberatrice. Come il naufrago, abbandonato in un’isola deserta, in mezzo all’immensità dell’oceano, getta invano su quelle profondità silenziose il suo sguardo disperato, senza nulla vedere attorno a sé che acqua e cielo; così l’uomo interroga invano la notte cupa e senza stelle del suo dolore, e nel gran vuoto implora soccorso con grida disperate, che non hanno né eco, né risposta. Tutto è buio, tutto è silenzioso intorno a lui.
• No, io m’inganno. Egli sente di tempo in tempo, da punti diversi dello spazio, suoni deboli, incerti, simili ai balbettamenti di un bambino. Sono i timidi tentativi della sapienza umana per spiegare questo triste fatto del dolore, e per aiutare l’uomo a liberarsene. Egli tende l’orecchio; ma, o nulla comprende di tali voci, fuorché rumori vani di parole inconcludenti, o non sente che delle follie, fatte solo per inasprire le sue piaghe e peggiorare il suo stato dolorante. Nulla che lo illumini, che lo sollevi almeno e lo conforti, come un opportuno calmante, se proprio non è possibile ottenere la completa liberazione. Chi gli dice coi Manichei, che è una divinità crudele, il principio sussistente del male, che lo fa soffrire così, perché questo è il suo piacere, torturare gli uomini. Ed ecco: la bestemmia e l’imprecazione spuntare sul suo labbro, contro questo preteso barbaro dio del male. Chi gli sussurra all’orecchio che si dia pace, e si adagi al suo destino, né cerchi nemmeno di liberarsi e sollevarsi dal dolore; perché tutto è frutto del caso nel mondo, tutti siamo lo zimbello d’una fatalità cieca. Ed ecco il baratro della disperazione affacciarsi al suo sguardo, ed invitarlo a lanciarsi dentro. Altri per sollevarlo dalle sue pene, lo vuol “far ragionare”, e pretende di fargli credere che il dolore non esiste, non è una realtà, ma una parola per il vero sapiente e filosofo. Ed allora egli si adira, contro il sarcasmo beffardo dello stoico, che alle sue sofferenze aggiunge ancora il disprezzo, trattandolo da pazzo o allucinato. Altri ancora lo consigliano a vendicarsi del suo crudele destino, gettandosi a capofitto e a corpo perduto nel fango dei godimenti materiali, per ubriacarsi e dimenticare così se stesso e la sua triste sorte. Sennonché, sia che egli segua stoltamente il bestiale consiglio, sia che non lo possa seguire per i suoi stessi mali, egli diventa ancora più infelice, sentendo il vuoto, la nausea, la sazietà, ed anche la vergogna, che sogliono lasciare siffatti piaceri, dopo che sono passati (e passano tanto presto!); e se è cristiano, diventa infelice anche perché prevede con sicurezza un non lontano domani d’oltre tomba, nel quale egli dovrà rendere conto e del suo stesso dolore e della sua pazza gioia. E freme e si adira, e si strugge nella sua impotenza, unita all’assenza di ogni vero conforto. Finalmente, egli sente ancora una voce dolce e mite, che cerca di consolarlo nelle sue afflizioni. È una visita di condoglianza. E come rifiutare tali visite di umanità? Come non essere commossi da tanta gentilezza? Ma che audacia è mai la vostra, o mondani visitatori non cercati, di osare provarvi a compiere l’ufficio di consolatori — nei grandi dolori della vita specialmente — senza l’aiuto della religione, senza un principio di fede? Che altro potete dire a chi soffre, se non delle formule convenzionali, delle banalità sonore (come i miasmi che abitualmente escono dalla bocca dei modernisti, ndr.), delle frasi frivole e delle vere scempiaggini da far pietà e muovere la nausea di chi vi ascolta? Ah! tacete, tacete, consolatori onerosi ed importuni. Abbiate il pudore del silenzio; rispettata il carattere sacro del dolore; non provocate all’impazienza i poveri sofferenti ed i loro testimoni; non aggravate, colla vostra compassione da teatro, la pena di chi soffre. Che cosa può fare o dire, per consolare un afflitto, chi non crede a Dio, a Gesù Cristo, a una vita futura? Potrà prendere parte al suo dolore e mostrarglielo colle parole e colle lagrime. È certamente un conforto questo per chi soffre, il vedere che altri si rattristano, soffrono e piangono con lui; è segno che qualcuno gli vuol bene. Ma se questo compatimento dura un poco a lungo, il conforto si cambia in aumento di dolore, perché è cosa penosa il far soffrire altri per cagione nostra. Potrà sollevarlo materialmente dalle sue sofferenze, con qualche farmaco o aiuto esterno? Sì, se si tratta di sofferenze fisiche, e se queste ammettono rimedio. Ma quando il rimedio non esiste? E quando si tratta di sofferenze morali, intime, del cuore, dell’anima? Potrà promettere o fare speranze al sofferente, che il suo male presto o tardi avrà termine? È ben questo il conforto che aspetta chi soffre; e il conforto ha un valore se la speranza è ben fondata, ma se speranza fondata non v’è, se non v’è neppure una lontana probabilità di cessazione del male, e il sofferente lo sa al pari di voi, non gli potrete dire una bugia pietosa per illuderlo vanamente sulla realtà delle sue condizioni. E allora, che rimane per confortare quel meschino? La morfina, se il suo male è un dolore fisico, ed è quella a cui ricorrono i medici. Ma la morfina dell’anima, il calmante del cuore dove esiste, fuori della fede? In conclusione, qual conforto o sollievo può mai trovare l’uomo, in tutte queste voci della sapienza o bontà umana, che risuonano al suo orecchio, quando egli è oppresso dal dolore? Qual effetto producono sul suo cuore? Poiché l’insensibilità artificiale o l’apatia stoica gli è impossibile (essendo un vero assurdo contro natura), da tutte queste voci egli non trae, se non nuova ragione di irritarsi e piangere, di prendersela contro la sua sorte o di abbattersi fino all’avvilimento, di adirarsi contro la Provvidenza, di disperare di se stesso, dell’avvenire, della vita, di Dio, di tutto; fino al momento in cui, perduto ogni ritegno e misura, si abbandona all’impeto della furia ribelle e disperata, e ruggendo, come una fiera ferita, maledice il giorno in cui è nato, impreca alla vita e a chi glie l’ha data, invoca sul suo capo la morte, come la sola liberatrice. E Dio non voglia, che, in un accesso di più grande esasperazione, con un gesto folle, tenti egli stesso di porre violentemente fine ai proprii giorni, per piombarsi così in un altro abisso di mali peggiori e per colmo di sventura eterni ed irrimediabili (l’Inferno).
• Ecco tutto quello che sa produrre la “sapienza” o filantropia umana in colui che soffre (ai nostri giorni basti pensare alla mostruosa misura dell’eutanasia, tanto propagandata da filantropi ed illuminati di ogni sorta, spacciata finanche per «diritto civile», ndr.): dopo la parvenza di un sollievo effimero e passeggero come il lampo, nient’altro che ruggiti di dolore o atti insensati di morte violenta; vale a dire un grave peggioramento del suo male presente e futuro; ma nessun vero conforto, nessuna speranza di liberazione, nessun valore morale di virtù e di merito al dolore. Poiché nulla vale e può la sapienza e la bontà umana davanti al fatto del dolore: venga dunque la religione, venga la fede, entri in questa camera del duolo e del pianto, penetri in questi cuori affranti e morenti, ed io vi prometto, che essa sola ne comprenderà tutta la profonda amarezza ed acerbità, essa sola vi apporterà un poco di verace lenimento e consolazione fin dal presente: mentre saprà offrire il modo di trasformarlo, senza esagerazione, in vero strumento di felicità. Parla dunque, o fede santa, e dì a noi, dì a tutti i sofferenti della terra la tua parola di sollievo, di speranza, di salvezza. Ascoltatela, voi tutti che avete il cuore spezzato e la carne inferma, questa voce soave della fede, che vi dipinge il dolore nella sua divina realtà, bella, feconda, ricca, potente; come un angelo tutelare, come un anello di fidanzamento dell’uomo col Dio umanato. Diamo dunque, dietro il suggerimento della fede, uno sguardo a Dio, un altro al dolore stesso, un terzo al santo Crocifisso, poiché in questi tre “oggetti” si concentra la parola serena, profonda, consolante della fede. Questa è la spiegazione vera e divina del dolore, ed insieme il segreto sicuro per trarne conforto e salute. Dio è provvido, mi ricorda la fede anzitutto; Dio è saggio, buono e giusto; non comunque, ma in misura infinita; senz’ombra, senza vicissitudini o cambiamenti. Dunque tutto ciò che Egli opera o permette, avviene sotto l’influsso della Sua bontà sovrana. Dunque tutto ciò che accade nel mondo, non è frutto del caso o del disordine: ma un fatto preordinato da Lui con somma sapienza. Dunque tutto ciò che tocca le Sue creature, è l’effetto di una perfetta ed equa sentenza. Orbene, è sotto gli occhi di questo Dio buono, sapiente e giusto, anzi è sulle ginocchia e sul cuore di questo Dio, mio Padre, come vuol essere chiamato, che io soffro, mi agito, tremo e rabbrividisco dal dolore. Sia pure, che io non sappia ancora l’ultimo perché del mio dolore; sia pure, che io non veda ancora chiaro, se il dolore debba essere per me una sterile convulsione o un germe di speranza; che importa ciò? Io so intanto che Dio è buono, giusto, sapiente, e tanto mi basta. Dunque Egli ha un disegno segreto di bene sopra di me, quando mi fa o mi lascia soffrire. Dunque Egli mira, con questa sua Provvidenza afflittiva, ad uno scopo alto, degno della Sua bontà e ordinato alla mia felicità; non ne posso dubitare. Dio onnipotente, che ha organizzato il caos, illuminato i cieli e fecondata la terra; Dio buono, che usa le brine, le nevi e le tempeste a preparare le messi e le raccolte; come non volgerà il Suo occhio pietoso ai solchi scavati nel mio cuore dal dolore? Come non ordinerà tutte le mie sofferenze a un fine misericordioso di mio vero vantaggio e felicità? E se anche, questo fine, io non lo vedo ancora, almeno in forma chiara, precisa e specifica, io però già lo presento, già lo intuisco, con la mia fede incrollabile nella bontà e sapienza di Dio, e lo cerco anche, con la pazienza cristiana, nelle profondità dell’avvenire. La pazienza cristiana! Ecco la parola sublime della fede, ecco il balsamo virtuoso, che la fede sparge sulle nostre ferite, col primo raggio di luce, che fa risplendere nel nostro cuore afflitto e tribolato, ricordandoci la sapienza e bontà di Dio; pazienza, che già rende meno cocente e più sopportabile il dolore e (ciò che più vale) virtuosa e meritoria la nostra sofferenza. La pazienza cristiana! Una seconda effusione di questo dolce e salutare balsamo aggiunge la fede, con un altro benefico raggio di luce, quando, mostrandoci il fatto multiplo e misterioso del dolore, ci fa rilevare i tre grandi valori e beni, che esso racchiude, e che ce lo debbono rendere amabile o almeno tollerabile, dal punto di vista soprannaturale. Essi sono: La forza espiatrice del nostro passato colpevole; La forza educatrice del nostro presente fiacco ed imperfetto; La forza trionfatrice di tutti i nemici e ostacoli futuri.
• Il dolore, che Dio poteva imporci anche nello stato d’innocenza, come un crogiuolo di prova e una fucina di virtù virile e di merito, nello stato attuale di decadenza è invece una vera punizione e una conseguenza del peccato, almeno nella sua prima introduzione sulla terra. Noi lo sentiamo nell’intimo della nostra coscienza, e, in certi momenti di sincerità, anche lo confessiamo. Noi sappiamo e sentiamo anche troppo, che una rivoluzione violenta è passata sull’anima nostra e vi ha portato la devastazione, insozzando, rovesciando quanto vi era di bello, di puro, di grande. Noi sentiamo e sappiamo, per esperienza tutti gli effetti dolorosi e miserevoli, che la fiamma devastatrice del peccato ha lasciato nell’interno del nostro essere le tenebre dell’intelligenza, l’impurità della carne, la debolezza della volontà, la malizia del cuore, la difficoltà del male, e sopratutto quell’enorme debito di colpa e di pena, che abbiamo verso di Dio, e che ci tiene lontani da Lui, finché non sia interamente estinto, e ci rende immeritevoli della Sua affettuosa benevolenza paterna. Ebbene il peccato, che è penetrato nella nostra natura, come una macchia di famiglia, il peccato, che noi stessi troppo sovente commettiamo, imbrattandoci l’anima di una macchia e colpa del tutto personale, porta con sé il dolore, come conseguenza necessaria. È legge terribile, implacabile, ma universale, giusta e santa, voluta dalla coscienza umana, come dalla giustizia divina, e professata in tutti i secoli da tutto il genere umano. Noi dunque soffriamo, perché abbiamo peccato. Noi soffriamo, perché abbiamo bisogno e dovere di espiare. Non è forse questa la meravigliosa potenza del dolore rispetto al peccato, l’espiazione? (È naturale, anche per il mondo profano, che il colpevole sia punito dal giudice, ndr.). Ora, poiché non v’è nessuno, che non abbia peccato, in misura più o meno grave, tutti dobbiamo fare buon viso al dolore, divenuto lo strumento fortunato della nostra riabilitazione morale. Se è duro il soffrire, è però dolce e consolante il compiere, con la sofferenza, la più essenziale e importante delle opere buone, la riparazione in noi stessi delle rovine accumulate dal peccato; poiché la prima proprietà della sofferenza, la sua capacità intrinseca ed essenziale è appunto quella di riparare la colpa, di allontanare i fulmini della giustizia divina, di riconciliarci con Dio. Oh quale forza pacificatrice esercita il dolore sul cuore di Dio! Quando noi, novelli prodighi, estenuati dalla sofferenza, curvi sotto il peso delle disgrazie, reduci dalla regione lontana dei nostri traviamenti, con lo sguardo a terra per la vergogna, ci presentiamo a Lui, Dio non sa resistere allo spettacolo del nostro dolore. Intenerito e commosso ci riapre le Sue braccia, e stringendoci al petto, depone il bacio di riconciliazione sulla nostra fronte, che cessa per Lui di essere colpevole, perché è disgraziata. Sì, il dolore intenerisce il cuore di Dio, lo muove a compassione del nostro misero stato; e la compassione la vince sull’indignazione provocata dal nostro peccato; ne disarma la giustizia, e ne ferma la vendetta punitiva. Siamo stati cattivi con Dio. Ma ora siamo infermi, feriti, disgraziati, piangenti; e tanto basta al cuore del nostro Padre, per perdonarci e amarci nuovamente. Lo abbiamo offeso in mille modi, abbiamo cercato il nostro piacere, disprezzando il Suo onore e calpestando i Suoi precetti. Ma ora eccoci abbattuti, schiacciati, umiliati dal dolore. Tanto basta. Siamo divenuti espiatori e supplichevoli al cospetto di Dio, e Dio, commosso sul nostro stato, si riconcilia con noi, riammettendoci nella Sua amicizia. (Obiezione: ma che colpa attuale ha quel bambino morto per disgrazia? Quel bambino, morto innocente e nell’età dell’innocenza, è salvo per l’eternità. Se battezzato, è in Paradiso dove prega per i suoi genitori. Se non battezzato, è al Libo dove in eterno gode di una felicità naturale, ndr.). Vi è forse una potenza più irresistibile per la nostra riconciliazione con Dio, che le- lacrime e i dolori, tollerati con cristiana pazienza, in ispirito di espiazione? Vi è forse una voce più potente che il dolore, per richiamarci al dovere abbandonato? Per farci rientrare in noi stessi, e sentire tutto insieme vergogna e pentimento dei nostri disordini? Beato colui che ascolta questa voce amica, benché rude e aspra, del dolore, e nella confessione lacrimosa dei proprii falli, si lascia dal dolore espiatore ricondurre tra le braccia di Dio placato! O felice vittima del dolore! Il suo nero passato vien cancellato e comincia per lui un’esistenza nuova, pura e immacolata; e tutto questo in virtù del dolore, il quale, come viene oscurato nella sua origine dalle tinte nere del peccato, così, per una felice antitesi, si illumina nei suoi effetti coi riflessi chiari della riparazione. E per contrario infelice l’anima colpevole ed impenitente, che è risparmiata dal dolore, e in mezzo ai suoi disordini, cammina balda e sorridente, sotto un cielo sempre sereno e senza nubi, quasi sfidando la giustizia e la longanimità di Dio! Spaventosa felicità che fa tremare, se si pensa al domani della vita terrena! Poiché infine Deus non irridetur, Dio non lo si burla impunemente. E la pena, che viene differita, non sarà che più grave e più intensa, dovendo riparare a rigore di giustizia ciò che non è riparato prima coll’espiazione volontaria del dolore ben sopportato. No, non vi è al mondo un amico più prezioso e benefico per l’uomo, che il dolore. Perché dunque noi tanto lo abbiamo in odio e lo fuggiamo a tutto potere, come il peggiore dei nemici? Perché non ci assiste lo spirito di fede, ma sempre e solo seguiamo la voce della povera natura (e degli stolti consiglieri del mondo, ndr.). Portiamo rimedio al nostro errore; ascoltiamo il consiglio della fede; riconciliamoci col dolore, per poter riconciliarci con Dio.
• Riconciliamoci col dolore, ora soggiungo, per poter compiere ogni giorno la nostra formazione cristiana. Giacché, senza il dolore, praticamente essa è un’impresa quasi impossibile; o almeno, nessun altro mezzo, meglio e più presto che il dolore, la può compiere. La nostra formazione cristiana infatti consiste essenzialmente nel vivere, quanto più si può, uniti a Dio, nella Sua, grazia e nell’attuale amore, superando o infrangendo gli ostacoli, che si frappongono a questa unione con Dio, vale a dire la congenita mollezza e tendenza alla mondanità; l’amore, anch’esso innato, al godimento; e l’attacco alla terra ed alla vita presente. Ebbene, ci dice la fede, senza lo stimolo del dolore, tu, per quanto fatto da Dio e per Dio, troppo facilmente ti distacchi da Lui e Lo abbandoni per tua rovina; perché, o la mollezza e la mondanità ti avvincono a sé e ti distraggono dal grande ideale; o l’amore al godimento ti tarpa le ali e ti rende materiale, egoista, pigro, inerte; o l’attacco alla vita presente spegne in te tutte le vedute alte della virtù e dell’avvenire celeste. Immerso in una grossolana ignoranza o in un disastroso oblio, tu vivi col pensiero lontano da Dio, tutto ingolfato nella cura di te stesso e di mille altre faccenduole ed inezie che ti assorbono. Ed ecco, che Dio chiama in Suo aiuto il dolore, per scuoterti dal tuo letargo spirituale. E questo, con le sue scosse salutari, mette in fuga o fa tacere tutte le voci estranee e aliene da Dio, ristabilisce nell’anima un certo silenzio sacro, una specie di solitudine claustrale, e apre la porta dell’anima al Signore perché incominci l’opera della tua trasformazione interiore. Intanto apre anche l’orecchio dell’anima alla voce di Dio, affinché tu non faccia il sordo alla divina chiamata e comprenda davvero la preziosità della Sua grazia, le delizie della Sua conversazione, il bene immenso di vivere in unione intima col Signore. Il prodigo del Vangelo, finché nuotava nell’abbondanza, finché tutto andava prosperamente per lui, dimentico completamente di suo padre e della casa paterna, non pensava che a stravizi, a bagordi, a donne, a compagni di disordine, e a godere allegramente la vita. Ma quando si è visto piombato nella miseria e abbandonato da tutti, allora finalmente si è destato dalla cieca ubriacatura del piacere, ha aperto gli occhi, è rientrato in se stesso, in se reversus, e si è ricordato di avere ancora un padre, una famiglia, una casa sempre aperta, ed ha fatto la risoluzione del ritorno: Ibo ad patrem. Oh quanti altri prodighi vanno debitori alle disgrazie, dalle quali furono colpiti a tempo, se hanno avuto la somma ventura di tornare a Dio e alla via del bene, male abbandonato nel tempo della prosperità! Vexatio dat intellectum. Tale è la missione che Dio affida ai grandi e piccoli dolori della vita, di ricondurre a Lui i miseri traviati. Così è compiuto il primo passo nell’educazione spirituale del nostro cuore. Ma purtroppo quest’opera di Dio trova contro di sé l’ostacolo dell’enorme debolezza della nostra volontà e la viltà del nostro animo, che mandano a vuoto le Sue pressanti esortazioni e sante ispirazioni, e rendono vane le Sue grazie più forti e più grandi. Allora che fa Dio, per temprare la nostra anima a generosità e fortezza? Per dare consistenza e vigore alla nostra fiacca volontà? Chiama un’altra volta in Suo aiuto il dolore. Questo viene prontamente e comincia il suo lavoro: ci lima, ci pialla, ci stropiccia, ci punge. Per tal modo Dio ci mette (talora un po’ per forza e a nostro dispetto, ma sempre per nostro bene) nel noviziato o nella prima scuola della virtù, e, non dando retta ai nostri strilli puerili di impazienza, ci tiene ben fissi in quel crogiuolo acceso, dal quale uscirà, radioso e puro, l’oro delle virtù della fortezza, dell’umiltà, della generosità, della pazienza cristiana. Il dolore allora, divenuto stimolo al bene, aprirà alla calda preghiera le nostre labbra, finora mute, pigre e silenziose; il dolore raffermerà e renderà invincibile il nostro cuore nei combattimenti contro le passioni; il dolore abituerà la nostra volontà alla costanza nel bene ed alla tolleranza coraggiosa e nobile del male. Senza il pungiglione del dolore, noi saremmo sempre rimasti dei fanciulli capricciosi ed indolenti; laddove, grazie ad esso, siamo diventati uomini seri, volenterosi e forti, prodi soldati del dovere; ci siamo allenati alla fatica, alla virtù rude e senza compenso umano; abbiamo acquistato qualche cosa di robusto e di resistente, che prima non avevamo, quella forza magnanima, senza di cui è vano pensare all’acquisto delle virtù cristiane (almeno ordinariamente, ndr.). Siamo dunque grati al dolore di questo prezioso servizio, che ci ha reso in nome di Dio, per la nostra santificazione.
• E siamogli pur grati, come ci esorta la fede, perché esso solo è quello, che, con le sue angosce, con le sue lacerazioni e coi suoi strazi di cuore, con le sue delusioni dolorose, ci strappa a viva forza da quel letto di rose e di comodità, ove ci tiene legati l’amore del dolce vivere e del godimento e l’egoismo inerte della nostra anima, indolente e sensuale; ci strappa a viva forza dalla contemplazione, dall’incanto affascinante, che esercita sulla nostra anima debole il miraggio dei fiori della terra, e la scena variopinta del mondo, con le sue musiche, serate, gale e passatempi, più o meno vani e pericolosi. «Che ti stai trastullando così, come un fanciullino, con balocchi o giocattoli indegni di te e del tuo alto destino?», ci dice al cuore il Signore, tanto ostinato a salvarci, quanto noi lo siamo a perderci. Ma a che serve la Sua voce, finché dura in noi l’incanto della terra? Essa va perduta negli spazi, soffocata e coperta dal frastuono di altre voci più potenti e vicine, senza che noi neppur l’avvertiamo. E allora per rendere più efficace il Suo rimprovero paterno, che fa Egli per il nostro bene? Invoca di nuovo la spada rozza del Suo ausiliare, il dolore, e gli ordina di spazzare via tutti quel fiori incantatori, di farli impallidire, spegnendo per poco il sole che dà loro quelle tinte vaghe e seducenti, di devastare, a colpi di folgore, il campo perfido, ove essi germogliano. Ed ecco, sotto la spada di questo barbaro servo del grande Padrone dell’universo, scomparire davanti al nostro sguardo l’incanto della terra e distendersi un velo di tristezza sulla nostra esistenza; ecco la nostra dimora terrestre diventare solitudine, il nostro cuore un Calvario. Deh! Non vi lagnate! Non accusate Dio, non maledite la Provvidenza! Ringraziate il dolore. Solamente ora, voi comprendete la vanità e la caducità dei beni della terra; solamente ora, voi vi convincerete che non è sulla terra la vostra felicità, ma altrove; solamente ora, grazie al dolore, come già il prodigo divenuto affamato, voi vi ricordate della casa paterna del Cielo, che vi attende tra poco e per la quale siete fatto; solamente ora voi pensate ai beni superiori e imperituri dello spirito, che sono la virtù, il distacco, il sacrificio, le opere sante, e fra le altre, la più santa di tutte, la pazienza cristiana. Ringraziate dunque il dolore, che vi ha rimesso in senno e sulla via della felicità eterna, mentre stavate correndo allegramente per la strada larga della perdizione. Ecco i beni inestimabili, i valori sommi del dolore, svelatici dalla fede, per riconciliarci con Lui, e farcelo accettare con dolce rassegnazione, se non con gioia ed amore.
• Ancora uno sguardo (ci dice la fede, per completare le sue rivelazioni sui vantaggi del dolore), ancora uno sguardo al S. Crocifisso. Miralo, o uomo - Egli è il tuo Dio, ma è pure l’uomo dei dolori, il quale essendosi messo davanti agli occhi il gaudio, sostenne la Croce, non tenendo conto dell’ignominia. È il tuo Dio, che si è fatto l’Uomo dei dolori, per fare del dolore il centro della salute, il perno della Redenzione, la consumazione della santità, il tributo più ricco della Sua gloria, il diamante più scintillante della Sua corona. Egli, il Dio della beatitudine, finché dimorava nel seno glorioso del Padre, non conosceva, né poteva conoscere per esperienza personale il gusto amaro del dolore. Appena ebbe toccata coi suoi pedi questa terra di lagrime, Gesù si assise alla scuola del dolore, né più interruppe o sospese per un’ora sola le sue spaventose lezioni, finché non fu certo che Egli aveva gustato tutte le amarezze, che possono tormentare i figli di Adamo; Tota vita Christi crux fuit et martyrium (De Imit. II, 12). Allora, ma solamente allora, Egli pronunciò compiuto il Suo mandato e ottenuto il fine della Sua missione: Consummatum est! Io non ho più nulla da fare in questo mondo, ora che sono divenuto il vero uomo dei dolori, ora che possiedo tutta la scienza delle infermità umane. Oh partite pure, Salvatore divino, da questa terra, ora che vi siete satollato al banchetto della sofferenza e inebriato della voluttà del dolore. Ora potete morire, quando vi piaccia, poiché il calice dell’amarezza l’avete bevuto fino all’ultima goccia. Ed Egli infatti abbassò il capo e spirò, misurando la durata della Sua vita mortale con la pienezza delle Sue sofferenze. Ma fu appunto con la catena dei suoi dolori, che Cristo svincolò l’umanità dai ceppi della sua schiavitù, e con l’eroismo del Suo sanguinoso sacrificio, che diede al Padre la più grande gloria che potesse mai ricevere. Mai Dio fu più adorato, obbedito, servito , e glorificato, mai più fortemente fu proclamato grande, giusto, santo, terribile, come dall’Uomo dei dolori. Mai Cristo stesso fu più vittorioso e trionfante del mondo e dell’Inferno, che per mezzo del Suo supplizio, quando appunto divenne in realtà l’Uomo dei dolori. La Croce è diventata il Suo trono di Re, dopo essere stata il Suo altare di Pontefice. Il Sangue, onde era coperto, è divenuto la Sua porpora regale, e di lassù Egli proclama con eloquenza invincibile la virtù, il valore, la forza del dolore; di quel dolore, che Egli ha fatto Suo, ed ha (per così dire) divinizzato, rendendolo strumento del nostro riscatto, e l’oggetto delle nostre adorazioni, con la Croce benedetta, che ci ha salvati. Ora Cristo è il nostro capostipite, il tipo ed il modello della nuova umanità da Lui redenta. Poiché il mistero dell’Incarnazione consiste appunto in questo, che un Dio ha voluto rassomigliarsi agli uomini, nella loro natura, per imporre agli uomini il dovere di rassomigliarsi a Lui nella santità della vita e sopratutto in ciò che vi è di più sublime e generoso nel campo della virtù, la forza di ben soffrire. Pertanto il destino del dolore, in Lui avveratosi, deve compirsi pure in noi, perché ci vengano applicati i meriti a noi acquistati con le Sue sofferenze. La Croce di Cristo deve diventare nostra, non per forza, ma per libera elezione o almeno accettazione virtuosa; dev’essere da noi amata e sopportata per amore di Cristo e come complemento della Sua Croce. Come Cristo ha salvato il mondo col dolore, così ha disposto di associare ai Suoi dolori tutti quelli, che per Lui si salveranno (La Passione di Cristo è più che completa e sufficiente per la salute del mondo: non le manca altro, affinché produca il suo effetto, se non che i Suoi seguaci sappiano soffrire anch’essi a Sua imitazione e portare bene la propria croce. Così si compie la Passione di Cristo, che soffre nei Suoi membri sino alla fine del mondo). E sarà appunto questo, il segno unico di riconoscimento, per appartenere al numero degli eletti, cioè la rassomiglianza con Cristo nella sofferenza virtuosa e paziente dei dolori. Quel che Egli riconosce per Suoi, quelli che ama e stringe a sé e fa riposare sul Suo petto, sono solamente coloro, che Egli vede come Lui colpiti dai flagelli, inchiodati come Lui alla Croce, torturati come Lui sul Calvario, coloro insomma, che il dolore ha fatto Suoi fratelli e compagni. O doloranti pellegrini della terra, ci ripete la fede, guardate ancora una volta il divin Crocifisso, e se mirandolo non avete peranco il coraggio di amare il dolore, pur reso così amabile e caro da Gesù, che lo ha fatto Suo, se non avete ancora la forza di dire con San Paolo, mirando la Croce: «Io sovrabbondo di gaudio in ogni nostra tribolazione», ovvero ancora: «Io non so gloriarmi, se non nella Croce del Signor Nostro Gesù Cristo», abbiate almeno il buon senso di accettare il dolore con umiltà, e di sopportarlo con rassegnazione e pazienza, per tutti i beni immensi, di cui è apportatore alle anime vostre: Primo, perché mandatovi da Dio buono, per un fine santo di vostro bene. Secondo, perché è il principale mezzo di espiazione del vostro passato colpevole. Terzo, perché è il principale strumento della vostra virtù e perfezione morale. Quarto, perché è stretto obbligo di ogni cristiano di imitare Cristo in tutto, e battere le sue orme fin sul Calvario, essendo Egli il modello unico ed universale di tutti gli uomini. Quinto finalmente, perché il dolore è il più sicuro ed efficace tramite per giungere alla vita eterna. Commenta Sant’Agostino le parole di San Paolo: «Avrebbe potuto l’Apostolo gloriarsi della sapienza di Cristo, della sua maestà e potenza e ne avrebbe avuto ogni ragione; ma egli disse: Mi glorio solo della Croce di Cristo. Dove il filosofo mondano trovò la vergogna, ivi l’Apostolo trovò il suo tesoro (...)».
• Per giungere alla vita eterna ! Ecco l’ultimo conforto, che apporta la fede a chi soffre, mostrandogli ancora il divin Crocifisso. Poiché, se ci fosse stato qualche cosa di meglio e di più utile alla salvezza degli uomini, che il patire, Gesù Cristo ce l’avrebbe fatto conoscere con la parola e con l’esempio. Ma ecco che la medesima tragedia del Calvario, mentre ci incoraggia alla forza del patire, sull’esempio del Martire divino, ci allarga pure il cuore alla più dolce speranza, ricordandoci il trionfo della vicina risurrezione. Infatti, se Gesù in croce muore coperto di piaghe e affogato nel mare del dolore e dell’ignominia, tutto questo dramma di sangue e di disonore anche per l’uomo Dio ha avuto un termine, e in un secondo tempo è stato seguito da un trionfo di gioia, di gloria, di felicità. Non più che tre giorni dopo, tutto fu cambiato per Gesù, e l’Uomo dei dolori, com’è stato il nostro capostipite e modello nel patire, ora è divenuto il nostro esemplare nella felicità della Risurrezione e nella Vita della gloria. Tutto troviamo in Lui, attraverso la fede. Vi troviamo prima la tolleranza eroica del dolore sulla Sua grande Croce, per puro amore dell’umanità; tolleranza che ci domanda il ricambio dell’amore paziente nelle nostre piccole o grandi croci di tutti i giorni. Ma vi troviamo pure il passaggio, non lontano dalla tragedia, al gaudio: dalla croce al tripudio eterno. Anche di questo consolante passaggio Egli è il modello a tutti gli eletti, che per molte tribolazioni debbono entrare nel regno di Dio (Act. XIV, 22). E di questo passaggio Egli ha voluto darci una consolantissima prova di fatto, sul Calvario stesso, prima di spirare sul patibolo. Poco prima di spirare infatti, dal Trono insanguinato della Croce Gesù Cristo ha rivolto una promessa di felicità eterna all’infelice giustiziato, che agonizzava al Suo fianco, e lo ha rinfrancato a sopportare da forte sino alla fine il suo atroce supplizio, col pensiero del Paradiso, che Egli gli prometteva per quel medesimo giorno, sul Suo onore di Dio, sulla Sua parola di Redentore: «Amen dico tibi, hodie mecum eris in paradiso» (Luc. XXIII, 43). Così il Calvario ci trasporta con lo sguardo al cielo, per dirci ancora una volta, quando il peso del dolore sembra opprimerci e schiaccarci, e noi ci sentiamo cadere di animo : Coraggio e pazienza! Pazienza ancora per poco; il giorno della liberazione è vicino. Il vostro patire, se tollerato virtuosamente (con preghiera, Sacramenti, etc...), tra non molto si cangerà nella gloria del cielo. Oggi, ossia fra breve, forse domani, tra poche ore, riceverete il premio dei vostri dolori: Hodie mecum eris in paradiso. Oh la dolce speranza! Oh parola confortante e suggestiva per le nostre povere anime affrante dal dolore! La momentanea e leggera tribolazione nostra produce in noi uno smisurato peso di gloria, che supera ogni immaginazione (II Cor. IV, 17). Sì, è lassù nell’alto dei cieli, che dobbiamo fissare l’occhio, per trovare un po’ di riposo, quando la terra ci appare troppo brutta. Lassù, al possesso beatifico di Dio, dobbiamo mirare ed aspirare con tutto l’ardore, per animarci a compiere il dovere faticoso di portare la croce, quando questa ci pare divenuta troppo pesante e oramai intollerabile. La luce della seconda vita, intravista fin d’ora con l’occhio dalla fede, compenserà le tenebre in cui è avvolta l’ora oscura del dolore, e non ci lascerà smarrire il sentiero scosceso, che a quella mèta ne conduce. L’eterna pace di quel beato soggiorno, già pregustata fin d’ora sulle ali della speranza, ci farà sembrare leggera, in confronto del premio, la fatica della lotta e finanche dolce il sacrificio della vita. Ecco il conforto ultimo, che ci dà la fede mostrandoci il Crocifisso, il conforto cioè della speranza cristiana, che, dopo il Calvario della vita che passa, ci fa contemplare fin dal presente il Tabor della gioia, che non passa più, a somiglianza di quella di Cristo. Spera dunque in Dio, o anima tribolata, e ti basti la Sua grazia, ci dice la fede. La vita talvolta è triste e brutta, è vero; ma passa, come è passata la Passione di Gesù, ben più triste e terribile. Passa la vita con le sue croci e passa presto, perché il tempo non è che un lampo fuggevole in confronto dell’eternità che ci aspetta. Passa la vita coi suoi dolori e finisce, ma finisce bene, come quella di Cristo nella gioia e nella felicità, per chi lo vuole. Coraggio dunque e avanti ancora un poco, finché venga l’ora della liberazione e della piena ricompensa.
• E che cos’è una breve sofferenza per una eternità di gaudio? Che c’importeranno allora le pene, le afflizioni, le tristezze, le miserie della terra? Quanti al presente, per conquistare un bene terreno, una vittoria, una corona, un guadagno, si sacrificano giorno e notte, senza badare a incomodi e pene! E tu, figlio della luce, erede dell’eternità, tu non saprai sopportare le lotte del martirio quotidiano, per conquistare la palma del cristiano vittorioso, che ti farà godere una felicità eterna? Guarda il Sepolcro glorioso di Gesù, e starai da forte con Lui sul tuo Calvario! Guarda il cielo che ti aspetta domani, e saprai tollerare in pace le spine della giornata di oggi che passa! Raccomandiamo instancabilmente la nostra anima alla Vergine Maria ed alle centinaia di migliaia di santi Martiri che hanno patito sofferenze inenarrabili per Nostro Signore Gesù Cristo e per la Sua unica e vera Santa Chiesa. Preghiamo incessantemente con ardimento e fiducia.
Per Antonio Oldrà e per gli onesti autori menzionati: + Réquiem aetérnam dona eis, Dómine, et lux perpétua lúceat eis. Requiéscant in pace. Amen. +
A cura di CdP
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Stimati Associati e gentili Sostenitori, Provvidenza e libero arbitrio sono due verità certissime, fondate su argomenti solidi ed inoppugnabili, e che qui presupponiamo già dimostrate. Il problema che ora vogliamo trattare è quello della loro conciliazione. Che cos’è il fatalismo? Che cos’è la predestinazione delle anime? Chi sono gli eletti? Come mai alcune anime si salvano ed altre si dannano? Perché il pessimismo protestantico mal si concilia con la dottrina di Gesù Cristo? A queste ed altre domande risponderemo poggiando sull’ottimo opuscolo della collezione S.O.S. «Fatalismo e Predestinazione», Francesco M. Gaetani, Serie VI, numero 106. Del medesimo autore segnaliamo il volume «La Provvidenza divina», Napoli, D’Auria, 1941, opera dalla quale è tratta la materia del presente opuscolo. Vedasi pure nella collezione S.O.S. il numero 85: «La verità che più consola».
Queste due certissime verità (Provvidenza e libero arbitrio), messe l’una di fronte all’altra, si presentano come due immensi pilastri, che sorreggono un ponte misterioso, il quale congiunge il cielo con la terra, Dio con l’uomo, l’azione divina con la libera volontà umana. Noi vediamo, ammiriamo la saldezza dei pilastri, sappiamo con piena certezza che un ponte li congiunge; ma questo ponte si lascia appena intravedere al nostro sguardo avido ed ansioso, mentre una voce interiore ci avverte di andare cauti e prudenti nella nostra indagine, perché stiamo per toccare i segreti di Dio. Il primo carattere dunque del problema che intendiamo trattare è un intreccio di luce e di mistero: di luce, intorno alle due verità fondamentali, la Provvidenza ed il libero arbitrio; di mistero, intorno al modo con cui queste due verità si congiungono, senza che l’una violi i diritti dell’altra, senza che l’azione divina annienti la libera volontà umana, senza che la libera volontà umana attenti ai sovrani diritti di Dio. E da questo primo carattere deriva al nostro problema un secondo carattere, perché le questioni che stiamo per affrontare, non sono meramente filosofiche, ma sono sopratutto teologiche; e la parte più difficile di questo problema nasce appunto dall’insegnamento della rivelazione divina, la quale ci attesta: a) Che la Provvidenza divina sulla creatura umana si svolge in un campo soprannaturale; b) Che il fine, verso il quale Iddio dirige la creatura umana, è un fine soprannaturale; c) Che il mezzo indispensabile al raggiungimento ili questo fine è la grazia divina; d) Che questa grazia, mentre è un mezzo indispensabile per meritare la vita eterna, d’altra parte è un dono gratuito di Dio; e) Che da questo incontro del dono divino con la libera cooperazione dell’uomo dipende la salvezza eterna dell’uomo. Ora questi problemi, che si fondano sui dati della rivelazione divina, non possono essere convenientemente trattati se non interrogando la stessa rivelazione, quale ci è fatta per mezzo delle Sacre Scritture, le quali contengono la parola di Dio, per mezzo della Chiesa, custode infallibile del sacro deposito, per mezzo dei Padri e dei Dottori, interpreti sicuri della verità rivelata. Noi dunque interrogheremo le Sacre Scritture, la Chiesa ed i Padri; ed essi ci diranno che vera contraddizione, vero contrasto non vi è mai stato, né potrà mai esservi, tra la verità della Provvidenza e la verità del libero arbitrio. Ma prima di entrare in argomento osserviamo che la Provvidenza è opera della sapienza, della onnipotenza e della bontà divina. Da questi attributi derivano vari problemi, che tratteremo separatamente.
• La prescienza divina ed il libero arbitrio. Nell’azione della Provvidenza, la sapienza divina ordina ogni cosa secondo un fine, un disegno concepito dalla mente divina. Ora la Sapienza divina, per avverare il suo disegno nell’uomo, per ordinare la creatura umana al fine concepito fin dall’eternità, deve conoscere fin dall’eternità e con piena e assoluta certezza tutti gli atti della creatura umana, tutte le determinazioni ch’essa prenderà, tutte le determinazioni ch’essa prenderebbe se fosse collocata in diverse circostanze. Se qualche cosa sfuggisse alla conoscenza, alla prescienza divina, oh allora la Provvidenza non sarebbe più possibile, brancolerebbe nel buio, sarebbe frustrata dall’imprevisto. Iddio dunque, fin dall’eternità, conosce con piena ed assoluta certezza tutte e singole le libere determinazioni della mia volontà, quelle che avverranno, e perfino quelle che avverrebbero se mi trovassi in diverse circostanze. Ma se Dio fin dall’eternità conosce con piena ed assoluta certezza tutte le mie deliberazioni, tutte le libere determinazioni, tutti gli atti della mia volontà, questi atti dovranno certamente avvenire, verificarsi nell’ora, nel punto, nel modo previsto da Dio. Ma se dovranno certamente verificarsi, che cosa resta del mio libero arbitrio? Se nell’ora e nel punto previsto da Dio io certamente opererò così come Dio già conosce fin dall’eternità, se io certamente non opererò diversamente da quanto è stato previsto da Dio, sembra doversi concludere che non resta più niente del mio libero arbitrio. È un contrasto che si direbbe insolubile, e che pure si risolve con una risposta così semplice ed ovvia quanto vera e giusta. Giacché, se Iddio fin dalla eternità vede esattamente tutte e singole le cose future, Egli vede queste cose così come esse avverranno e saranno. Dunque Egli vede le cose necessarie come effetti indipendenti dalla libera volontà dell’uomo, ed Egli vede le cose libere come atti della libera determinazione della volontà umana. Dunque la prescienza divina, lungi dall’annientare il libero arbitrio dell’uomo, piuttosto lo suppone e lo conferma. Ricordiamo i versi di Dante? «La contingenza che for del quaderno della vostra materia non si stende tutta - è dipinta nel cospetto eterno: necessità però quindi non prende se non come dal viso in che si specchia nave che per corrente giù discende. (Par. XVII, 37) Per chiarire questo concetto, adduciamo qualche testimonianza dei grandi Padri della Chiesa; e cominciamo con Sant’Agostino, che è l’autore al quale più frequentemente si appellano i teologi. Contro Cicerone — che non sapendo come conciliare il libero arbitrio e la prescienza divina —, nel libro II «De divinatione», aveva finito col negare la prescienza divina — Sant’Agostino, al libro V «De civitate Dei», ci ha lasciato una pagina di squisito sapore agostiniano. Egli dice: «Cicerone nega ogni scienza del futuro e con tutte le forze cerca di dimostrare che essa non esiste assolutamente né in Dio né nell’uomo. Ora confessare che Dio esiste e non ammettere che Egli sia consapevole del futuro, è chiarissima pazzia. Sembra che Cicerone faccia ciò per non ammettere il fato e così, distruggere la libera volontà umana. Ma di che ebbe paura Cicerone nella prescienza dei futuri, così che, con detestabile ragionamento, volle distruggerla? Ebbe paura di ciò, che se tutte le cose future sono conosciute prima, esse verranno con quell’ordine col quale si prevede appunto che verranno ; e se verranno con quest’ordine, Dio è sicuro dell’ordine delle cose; e se è certo dell’ordine delle cose, è certo altresì dell’ordine delle cause; se poi è certo l’ordine delle cause, niente è in nostro potere e non vi è l’arbitrio della volontà; e affinché non seguano queste conseguenze perniciose agli uomini, Cicerone non vuole ammettere la prescienza del futuro. E così Cicerone costringe l’animo dell’uomo religioso a questa dura necessità: o di ammettere la nostra libertà o di ammettere la prescienza delle cose future... E così volendo fare gli uomini liberi, li fa sacrileghi... Noi contro queste sacrileghe ed empie presunzioni, affermiamo che Dio sa tutte le cose prima che avvengano, e che noi operiamo liberamente tutto ciò che sentiamo e sappiamo che da noi si fa liberamente... Dal fatto che Dio è sicuro dell’ordine delle cause, non ne viene che noi non siamo liberi in niente. Gli stessi atti della nostra volontà, certo, si trovano nell’ordine delle cause, del quale ordine Dio è consapevole nella sua prescienza: infatti la volontà umana è causa delle opere umane. Dunque Colui che sa la causa di tutte le cose, non può ignorare tra quelle cause anche i nostri atti di volontà, che Egli prevede essere causa delle nostre opere. Né infatti l’uomo pecca perché Dio ha previsto che egli peccherebbe; ma l’uomo peccherà, allorché pecca, perché Dio previde che non il fato o la fortuna o altra cosa, ma l’uomo stesso peccherebbe; il quale uomo, se non vuol peccare, certamente non pecca, ma se non vuol peccare, anche questo Dio prevede». Dunque la prescienza divina abbraccia tutte e singole le cose future, ma le conosce così come esse avverranno e saranno: conosce le cose necessarie come necessarie, le cose libere come libere, e se le cose libere previste da Dio certamente avverranno, esse avverranno come atto della libera volontà umana. Ecco perché Sant’Agostino, nel trattato «De libero arbitrio» (1. III, c. 4) scriveva: «Iddio con la sua prescienza non costringe a fare quelle cose che di fatto avverranno». Non costringe: perché Egli prevede che avverranno per libera determinazione della volontà umana. Se questi concetti richiedono riflessione per essere ben compresi, contengono pure la verità più certa e più feconda. Così San Giovanni Crisostomo nelle «Omilie su S. Matteo» (59, 1) — spiegando la parola di Gesù Cristo: «È cosa necessaria che vi siano scandali» — commenta: «Quando Cristo dice necessità non intende di togliere il libero arbitrio né la libertà della volontà, né di soggettare la vita a una certa necessità delle cose; ma soltanto predice quello che certamente avverrà. Non è dunque la predizione di Cristo che adduce gli scandali, absit! e nemmeno gli scandali avvengono perché li ha predetti, ma Egli li ha predetti perché sarebbero avvenuti. Così che, se quelli che danno gli scandali, non volessero, gli scandali non verrebbero mai, e se gli scandali non venissero, non sarebbero stati predetti». E San Girolamo, dopo una stringata e nervosa argomentazione contro Marcione «et omnes haereticorum canes», i quali spropositavano intorno al peccato di Adamo, così conclude: «Non per questo Adamo peccò perché Iddio sapeva che avrebbe peccato; ma Iddio, in quanto Dio, previde ciò che Adamo con la propria volontà avrebbe fatto» (Dial. adv. Pelagianos, 1. IlI, c. 6). Ma in che modo Iddio sa e prevede quello che l’uomo liberamente farà? Non lo sappiamo in modo certo, e perciò varie soluzioni, sottili e delicate, sono state proposte dalle varie scuole teologiche, ma tutti, o per una via o per l’altra, vengono a questa conclusione: Iddio nella sua prescienza abbraccia tutti i nostri atti liberi così come essi sono, e intanto li prevede come liberi in quanto essi nella loro realtà sono e saranno liberi; non li prevederebbe come liberi se non fossero realmente liberi; dunque non vi è contrasto tra la prescienza divina e il libero arbitrio dell’uomo; che anzi, la prescienza divina degli atti liberi dell’uomo è la più efficace conferma del libero arbitrio dell’uomo.
• La divina Provvidenza e il peccato. Noi sappiamo che la Provvidenza di Dio ordina, dispone e muove tutte le creature e particolarmente l’uomo, per un fine degno della Sua sapienza, onnipotenza e bontà; eppure l’uomo, sotto lo sguardo e la mano di Dio, commette liberamente il più grave male morale, il peccato, il vero male, quel male che lo rende meritevole del male più irreparabile, la dannazione eterna. Come conciliare gli attributi divini, la sapienza, onnipotenza e bontà, col male morale, che è la più grave e aperta violazione dei diritti divini? Perché Iddio non fa prevalere i Suoi diritti? Tanto più che l’uomo non può liberamente peccare se Dio non lo crea, se Dio non lo conserva in vita, se nel momento stesso della libera scelta peccaminosa Iddio non gli lascia la potenza di operare: come conciliare tutto questo con la divina Provvidenza? Non sarebbe stato meglio non creare quest’uomo? E dopo averlo creato, privarlo del libero arbitrio? Oppure conservandogli il libero arbitrio, non farlo trovare in quelle circostanze nelle quali l’uomo liberamente sì, ma certamente peccherà? Ecco un altro apparente contrasto tra la divina Provvidenza e il libero arbitrio dell’uomo. Ma vero contrasto non c’è; e dimostreremo che Dio non è in nessun modo autore o causa del peccato, e che, se permette il peccato, lo permette per un fine degno dei suoi attributi divini.
• Iddio non è autore del peccato. Contro Calvino ed i suoi seguaci, il Concilio di Trento ha definito: «Se alcuno dirà che non è in potere dell’uomo far male, ma è Dio che fa le opere cattive, non solo in quanto permette ma ancora in senso proprio e per sé, per guisa che sia opera Sua propria non meno il tradimento di Giuda che la vocazione di Paolo, costui sia scomunicato». (Sess. VI. can. 6). Il Concilio di Trento non fa che compendiare in forma dogmatica l’insegnamento della rivelazione divina, contenuto nelle Sacre Scritture e nella Tradizione. Infatti nelle Sacre Scritture, quasi in ogni pagina, assistiamo al contrasto tra Dio e l’uomo peccatore: tra Dio che cerca d’impedire all’uomo di cadere, che lo invita amorosamente a risorgere dopo la caduta; e l’uomo che respinge l’invito divino, che liberamente pecca, che si ostina nel suo peccato. Dunque Dio e il peccato sono due cose assolutamente antitetiche; Dio non è, non può essere in alcun modo l’autore del peccato. E perciò Sant’Agostino nella forma più risoluta esclama: «Dio non è l’autore nemmeno del più lieve peccato». (In «Psal. 104»). E in questo tutti i Padri ed i Dottori sono unanimi. Ed ogni uomo, che abbia retto giudizio, ne vede subito la ragione, giacché non vi è male morale, non vi è peccato, che là dove è opposizione tra una volontà creata e la legge morale espressione della volontà divina. Ora se Dio fosse autore o causa del peccato, si avrebbe la negazione stessa di Dio: l’Essere sapientissimo si adoprerebbe perché la causa creata turbasse l’ordine da Lui stesso stabilito; l’Essere giustissimo punirebbe nella creatura quelle azioni di cui Egli sarebbe responsabile; l’Essere santissimo e perfettissimo oscurerebbe la Sua infinita dignità con una macchia che nulla può cancellare. Ma questo sarebbe negare Dio stesso. Dunque Dio non è, non può essere in alcun modo autore o causa del peccato.
• Perché Iddio permette il peccato. Se Dio non è l’autore del peccato — dicono gli avversari — tuttavia lo permette. Questa permissione come è conciliabile con gli attributi divini? Rispondiamo che Dio permette il peccato per un fine degno dei Suoi attributi divini, della Sua sapienza, bontà e onnipotenza. Anzitutto, come si dimostra in sede filosofica, il libero arbitrio è una proprietà della natura razionale, è la perfezione di ogni essere dotato d’intelligenza e di volontà. Se Dio, dunque, liberamente crea l’uomo — e nessuno può arrogarsi il diritto di dettare a Dio la legge se debba creare o non creare l’uomo — egli deve alla Sua sapienza di creare l’uomo, essere razionale, dotato di intelligenza e di volontà, e quindi libero. Sarebbe contrario alla sapienza divina creare una natura razionale, e nel tempo stesso privarla della libertà, di una proprietà inseparabile dalla natura razionale. Ma questa proprietà, si dirà, è una proprietà poco gradita, perché lascia all’uomo la possibilità di peccare. È vero, ma non è questo il fine inteso da Dio; Egli non lascia all’uomo la possibilità di peccare perché pecchi: bensì Dio lascia all’uomo la libertà, perché l’uomo coscientemente, volontariamente, liberamente glorifichi Dio, e con ciò si renda meritevole della pienezza della felicità. Dunque il fine inteso da Dio nel creare l’uomo intelligente e libero, è di creare un essere il più perfetto di tutto questo mondo sensibile, un essere che non sia astretto da una necessità fatale, un essere che, con lo sforzo della sua libera volontà (e con l’ausilio della grazia), sia costante nel tendere al bene e nel compiere il bene, un essere capace di operare moralmente e di rendersi meritevole della pienezza della felicità. Dunque Iddio permette il peccato per lasciare all’uomo quel libero arbitrio, che è la condizione di ogni ordine morale e la fonte di ogni merito. Accanto alla sapienza risplende la bontà divina. Perché se da una parte Iddio lascia all’uomo la libertà di scegliere tra il bene e il male, dall’altra gli porge innumerevoli stimoli per evitare il male ed operare il bene. E chi potrà mai descrivere adeguatamente i doni che la Provvidenza ci largisce, per preservarci dalla colpa? È questa la parte più splendida e più commovente dell’azione divina. Noi purtroppo, quando pensiamo alla Provvidenza siamo soliti di fermarci alle cose terrene ed ai beni materiali; e non riflettiamo che il campo più fecondo e più meraviglioso, in cui si svolge l’amorosa Provvidenza di Dio, è il campo dei valori spirituali. Iddio comincia col farci distinguere il bene dal male, ci manifesta la Sua legge, ci alletta con la speranza dei beni più veri, ci minaccia coi più gravi castighi, se siamo ribelli. E quando stiamo per commettere la colpa, Iddio ne risveglia in noi l’orrore; quando stiamo per riportare la vittoria, Iddio suscita in noi un’intima approvazione; quando stendiamo la mano all’oggetto proibito, Iddio accende in noi il soffocante rimorso; quando consumiamo la colpa, Iddio non ci lascia ancora, finché il sincero pentimento non l’abbia cancellata. Così la possibilità del male è per Dio l’occasione di esercitare di più la paterna Provvidenza. In terzo luogo, nella permissione del male morale, risplende la onnipotenza divina. Giacché Iddio intanto permette il male morale in quanto sa e può dallo stesso male ritrarre un bene, e un bene che supera immensamente il male che permette. Ce lo attesta la rivelazione divina. Ce lo dice Sant’Agostino nel suo stile lapidario: «Iddio onnipotente, essendo sommamente buono, in nessun modo permetterebbe alcun male, se non fosse così onnipotente e buono da ottenere il bene anche dal male». («Enchir.», 2). Ed infatti il peccato intanto è permesso da Dio, in quanto serve a manifestare la Sua onnipotenza amorosamente misericordiosa e santamente giusta. Onnipotenza amorosamente misericordiosa verso il peccatore che si converte: infatti il perdono che Dio concede, se si considera l’eccellenza infinita di chi perdona e l’estrema viltà di chi è perdonato, è manifestazione massima dell’onnipotenza misericordiosa; la facilità con cui Dio perdona, se si considera la moltitudine e gravità dei peccati ed il poco che è richiesto per un sincero pentimento, è manifestazione massima dell’onnipotenza amorosa; la ricchezza dei doni, che Dio largisce a chi l’aveva abbandonato e vituperato, è manifestazione massima dell’onnipotenza generosa. Che se poi il peccatore si ostina, e resiste all’invito paterno, e calpesta le grazie che gli sono offerte, e impenitente chiude la sua triste giornata terrena, allora Iddio, dopo aver mostrato abissi di dolcezza, di clemenza, di misericordia, dopo aver profuso tesori di pazienza, di grazia, di amore, fa sfolgorare la sua onnipotenza santamente giusta. E così, nel permettere la colpa, Iddio manifesta i Suoi attributi divini, la Sua sapienza, la Sua bontà, la Sua onnipotenza.
• La redenzione. Ma non è tutto: dal disordine della colpa Iddio ha saputo trarre un tale bene, che fa esclamare alla Chiesa: «Felice colpa» che ci ha procurato questo bene: la redenzione! Per comprendere quanto questo bene sopravvanzi infinitamente ogni male, noi dovremmo comprendere chi è Gesù Cristo, il nostro Redentore, quale è l’omaggio che Gesù rende al Padre in nome dell’umanità da Lui redenta, quali infiniti tesori di grazie Egli ci ha meritati. Ora se la colpa doveva essere per Dio occasione di tanta gloria, e per noi occasione di tanto bene, perché Dio non poteva permetterla? Dunque nessun contrasto tra gli attributi divini e la permissione del male morale, ma invece il trionfo della sapienza, dell’onnipotenza, della giustizia e della bontà divina. Concludiamo: il nostro libero arbitrio, in un modo o nell’altro, finirà sempre col concorrere alla gloria di Dio, ma dipende da noi che la glorificazione di Dio si congiunga col nostro bene, con la nostra felicità. E per questo appunto Gesù è disceso su questa povera terra e si è immolato per noi e ci ha lasciato in eredità il Suo divino insegnamento: perché noi imparassimo a servirci della nostra libertà, per avverare in noi i disegni della Provvidenza divina, con la sincera ed operosa osservanza della legge divina, con i mezzi di santificazione che ci preservano dalla colpa, con la fortezza cristiana nelle prove della vita, con la filiale fiducia nell’amorosa Provvidenza del Padre. E così ci renderemo degni di vedere un giorno nella luce di Dio quelle vie, per le quali il Padre nostro che è nei cieli, senza violentare la nostra libertà, ci ha sapientemente ed amorosamente condotti alla eterna felicità, per la quale ci ha creati.
• Luce e mistero nella predestinazione. Dopo aver dimostrato che la Provvidenza non contrasta col libero arbitrio dell’uomo, non possiamo fare a meno di domandarci: ma in che modo si avvera in ciascuno di noi il fine ultimo inteso dalla divina Provvidenza, il disegno contemplato fin dall’eternità dalla mente divina? In che modo Iddio ci conduce a questo termine, senza rinunziare al Suo supremo ed inviolabile dominio sulla creatura umana e senza menomare d’altra parte quelle che sono le prerogative della libera volontà umana? Problema molto arduo, ma che diventa ancora più arduo, se consideriamo che il fine, al quale Iddio ci destina e ci conduce, è un fine soprannaturale. Giacché, come attesta la fede, Iddio, nella Sua infinita bontà, creando l’uomo l’ha innalzato all’ordine soprannaturale, e l’ha destinato, dopo la breve vita terrena, alla visione intuitiva ed al possesso della Sua essenza infinita: fine che trascende ogni capacità, ogni esigenza di qualsiasi natura creata o creabile. Ora un fine soprannaturale richiede mezzi soprannaturali; un fine che qualsiasi creatura, lasciata alle sue forze, sarebbe impotente a raggiungere, si può raggiungere soltanto con uno speciale aiuto divino. Dunque Dio per avverare in ciascuno di noi il Suo disegno contemplato sino dall’eternità, fin dall’eternità e con piena ed assoluta certezza deve vedere questo fine al quale ci destina, deve conoscere il mezzo soprannaturale proporzionato a questo fine, deve preparare questo mezzo che infallibilmente ci condurrà al conseguimento dei fine ; e questo appunto è ciò che chiamiamo predestinazione. E perciò se interroghiamo i due sommi geni della teologia, Sant’Agostino e San Tommaso, noi avremo che Agostino definisce la predestinazione: «La prescienza e la preparazione dei benefizi divini, pei quali certamente si salvano quelli che si salvano». («De dono perseverantiae», cap. XIV); e San Tommaso la definisce: «Un certo ordine di cose, pel quale alcuni sono condotti all’eterna salute: ordine che esiste nella mente divina» («Somma Theol.», I, q. 23 a. 2). In queste definizioni vi sono due parole che ci lasciano perplessi. Sant’Agostino parla di «benefizi divini, pei quali certamente si salvano quelli che si salvano», e San Tommaso parla di un «ordine di cose pel quale alcuni sono condotti all’eterna salute». Dunque non tutti si salveranno, non tutti saranno condotti alla eterna salute; non tutti sono predestinati. E perché mai? Da chi dipende questa diversa sorte, che deciderà irreparabilmente l’eterno destino dell’uomo? Se dipendesse unicamente da Dio, nel senso inteso da Calvino e da altri eretici, che Dio cioè — prescindendo da qualsiasi ragione di merito o demerito da parte degli uomini ed unicamente perché Egli ha così voluto — crea gli uni per salvarli e crea gli altri per dannarli: allora avremmo la più nefanda bestemmia, contro la giustizia, la santità e la bontà infinita. Se invece la predestinazione dipendesse unicamente dall’uomo, allora dovremmo ammettere un intollerabile assurdo, che cioè la creatura, con le sue forze naturali, possa raggiungere un fine che supera e trascende ogni esigenza, ogni capacità di una natura creata. Se finalmente la predestinazione risultasse dall’incontro tra Dio e la creatura umana, tra il dono divino assolutamente gratuito e la libera cooperazione dell’uomo, allora resterebbe da determinare in che modo questo incontro si effettua, in che modo l’assoluta gratuità del dono non include alcuna ingiustizia da parte di Dio, in che modo i buoni meriti acquistati dall’uomo con la libera cooperazione della sua volontà non attentano alla gratuità del dono. È questo nei veri termini, il problema della predestinazione. Nel trattare questo problema, interrogheremo la divina rivelazione, e così vedremo risplendere una luce rasserenante sulle fitte ombre del mistero. Perciò stabiliremo prima tre grandi verità; poi stenderemo lo sguardo sulla zona oscura del mistero.
• Iddio crea l’uomo per salvarlo. Iddio nel creare l’uomo non è mosso da alcuna necessità o indigenza, ma unicamente da una sapientissima ed amorosissima volontà di comunicare alla Sua creatura qualche cosa della Sua infinita bontà e perfezione, e così manifestare qualche cosa della Sua gloria. E perché questa comunicazione del dono divino, questa manifestazione della gloria divina sia ancora più piena, Iddio innalza l’uomo allo stato soprannaturale, lo rende Suo figlio adottivo, partecipe della divina natura, erede del cielo, cioè della beatitudine incommensurabile, eterna, soprannaturale. Ecco il fine, che Dio intende nel creare ogni uomo: creare un essere, che coscientemente, liberamente, operosamente glorifichi Dio, e glorificando Dio raggiunga la pienezza della felicità nella vita ultraterrena. E quando poi l’uomo prevarica e le porte del cielo gli si chiudono e la sua salvezza è resa impossibile, Iddio ci dà il Suo Figlio unigenito, il quale s’immola per la salvezza di tutti e singoli gli uomini. E perciò Gesù vuole che il Suo Vangelo, cioè la buona, la lieta novella della redenzione sia annunziata ad ogni creatura. Perciò l’apostolo San Giovanni scriveva: «Figliolini miei vi scrivo queste cose, affinché non pecchiate. Che se alcuno avrà peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre, Gesù Cristo giusto. Ed Egli è propiziazione per i nostri peccati, né solo per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo» (I Giov. 2, 1-2). E San Paolo senza esitazione annunzierà: «Il Salvatore Dio nostro vuole che tutti gli uomini si salvino ed arrivino al conoscimento della verità, perché non vi ha che un solo Dio, un solo mediatore tra Dio e gli uomini: Cristo Gesù; il quale ha dato se stesso in redenzione per tutti» (I Tim. 2, 4-5). Iddio dunque, con una volontà sincera ed operosa vuole che tutti si salvino. E dire che Dio crea gli uni per salvarli e crea gli altri per dannarli, è nefanda bestemmia; dire che Gesù si è immolato per i soli predestinati, è eresia condannata dalla Chiesa. E i grandi Padri e i Dottori, rappresentanti legittimi della fede cattolica, non si stancano d’insegnare e predicare, che Dio vuole la salvezza di tutte e singole le creature umane. Iddio, essi dicono, a quel modo che di tutti e di ciascun uomo è creatore, di tutti e di ciascun uomo è altresì il salvatore. Dunque tanto si estende la volontà divina in salvare gli uomini quanto in crearli. Iddio, essi insegnano, vuole salvi tutti quelli che vengono da Adamo e che in Adamo e per Adamo furono involti nel peccato originale; dunque, come il peccato originale è comune a tutti gli uomini ed è proprio di ciascuno, così Iddio offre la salvezza a tutti ed a ciascuno. E tra le tante comparazioni ed analogie per esprimere la volontà salvifica di Dio, i Padri preferiscono spesso quella tratta dal sole: come il sole, in quanto da esso dipende, illumina e riscalda le cose tutte, così la volontà divina abbraccia gli uomini tutti, e con la Sua grazia tutti illumina e tutti riscalda. L’aiuto della grazia. La salvezza dono soprannaturale, non può conseguirsi senza la grazia, dono divino, che sovviene alla impotenza della creatura umana, e la illumina, la conforta, la divinizza, la rende capace di meritare la vita eterna. Ed ecco la genuina dottrina cattolica, che viene a spandere un secondo raggio di luce sulla verità della predestinazione, assicurandoci che Dio concede ad ogni uomo gli aiuti necessari sufficienti per salvarsi. Ad ogni uomo: e non solo ai giusti perché perseverino nel bene, ma a tutti, anche agli infedeli ed idolatri, anche ai peccatori accecati ed induriti. Gli eretici calvinisti e giansenisti avevano asserito che: «I pagani, i giudei, gli eretici ed altri dello stesso genere non ricevono nessun influsso da Cristo, e quindi la loro volontà è nuda e inerme senza alcuna grazia sufficiente per salvarsi». Ma il Papa Alessandro VIII, col decreto del Santo Ufficio del 7 dicembre 1690, condannò solennemente questa asserzione. E con questa condanna fu sancito l’insegnamento della Sacra Scrittura e dei Padri. Infatti, la parola di Dio nel Vecchio Testamento proclama: «Io vivo, dice il Signore Iddio, io non voglio la morte dell’empio, ma che l’empio si converta dalla sua via e viva» (Ezech. 33); e la parola di Dio nel Nuovo Testamento fa dire a San Paolo (Rom. 2): «O uomo disprezzi tu forse le ricchezze della bontà e pazienza e tolleranza divina? Non sai tu che la bontà di Dio ti conduce a penitenza?». Ed ammaestrato e confortato dall’insegnamento divino, il sommo Sant’Agostino scriveva l’aurea sentenza: «Non vi è nessuna anima, per quanto perversa ma che ritenga ancora qualche uso di ragione, nella cui coscienza Iddio non faccia risonare la sua voce» («De sermone Dom. in monte», 1. II, cap. 9). Quali siano gli accenti di questa voce, quale sia l’infinita varietà dei suoi toni, secondo le diverse esigenze, o di un anima infedele che non ha ancora ricevuto la luce del Vangelo, o di un’anima cristiana che calpesti la legge divina e la verità evangelica; quali siano le vie di penetrazione, di cui Iddio si avvale per far risonare la Sua voce nell’anima di ogni uomo, in ogni ora, in ogni circostanza della vita: tutti questi quesiti fanno parte del mistero dell’azione divina sulla creatura umana. Mistero che talora ci è svelato dalla vita dei Santi, dalla storia delle conversioni, dagli annali delle missioni tra gli infedeli, dalle bestemmie stesse degli empi, che cercano di soffocare la voce di Dio. Mistero che altre volte resta sepolto nel segreto della coscienza. Ma in ogni caso, appoggiandoci all’insegnamento divino, noi possiamo e dobbiamo affermare, che Iddio concede ad ogni uomo gli aiuti necessari e sufficienti per salvarsi.
• La parte di Dio e quella dell’uomo. Resta da considerare il punto culminante del problema. Giacché, se Dio vuole sinceramente che tutti gli uomini si salvino, se Dio concede ad ogni uomo gli aiuti necessari e sufficienti per salvarsi, perché mai non tutti si salvano? E qui la rivelazione divina ci mette dinanzi a due grandi verità, le quali armoniosamente associate formano il terzo raggio di luce sul problema della predestinazione. La rivelazione ci dice che la predestinazione alla vita eterna soprannaturale, avendo per causa e per effetto ciò che non è dovuto alla nostra natura, ciò che non può essere frutto dei nostri puri meriti, la predestinazione è un dono gratuito. Ma da altra parte la rivelazione soggiunge che Dio è la stessa giustizia, e quindi Dio non rimunera che il merito, non punisce che il demerito. Dunque la rivelazione ci assicura che l’uomo, con la cooperazione del suo libero arbitrio alla grazia, può meritare da Dio la vita eterna; ed al contrario, col rifiuto della sua cooperazione alla grazia, si rende degno della riprovazione. Noi quindi possiamo concludere con una sentenza, che sembrerebbe ardita, se non fosse stata scritta da San Giovanni Crisostomo nel suo commento alla Lettera agli Efesini, e cioè: «Se la nostra salvezza dipendesse solamente da noi uomini, neppure uno si salverebbe; se dipendesse solamente da Dio, neppure uno si perderebbe; ma perché dipende ad un tempo dalla volontà di Dio e dalla nostra, ne consegue che alcuni si salvano e altri si perdono». Ed è proprio questo il significato della celeberrima sentenza di Sant’Agostino: «Chi ti ha creato senza di te, non ti salverà senza di te». La predestinazione è un dono gratuito, perché non si può conseguire senza la grazia, e noi non abbiamo nessun diritto alla grazia, altrimenti non sarebbe più grazia. Ma noi, sostenuti dalla grazia che Dio concede ad ogni uomo, possiamo e dobbiamo cooperare col nostro libero arbitrio, e così meritiamo la vita eterna. Tale è il consolante insegnamento delle Sacre Scritture, nelle quali le due grandi verità — la gratuità della predestinazione da una parte, e dall’altra la capacità dell’uomo di meritare, con l’aiuto della grazia, la vita eterna — sono costantemente ed armoniosamente associate. Il Maestro divino proclama che: «I benedetti dal Padre celeste (cioè i predestinati) saranno chiamati a possedere il regno che loro è preparato dal principio del mondo, perché adempirono in vita le opere di carità» (Matt. 25). San Paolo ci avverte che: «Quel cielo misterioso, che l’occhio non ha veduto, l’orecchio non ha udito, la mente umana non può concepire, è preparato (quindi è predestinato) a quelli che amano Dio» (I Cor. 2). San Pietro ci esorta: «Noi dobbiamo studiarci con le nostre buone opere di rendere certa la nostra vocazione e la nostra elezione» (cioè di rendere certa la nostra predestinazione) (II Petr. 1.). E così in tante altre pagine dei libri santi, le quali ci esortano a convertirci, ad operare il bene, a corrispondere alla grazia, ad operare la nostra salvezza, ad assicurarci l’eterna ricompensa: esortazioni, che suppongono il solenne principio fondato nell’insegnamento divino: «Non sarà coronato se non chi avrà legittimamente combattuto» (II Tim. 2). E perciò San Paolo (I Cor. 9), scrivendo ai fedeli di Corinto, dove erano in onore i giochi atletici e podistici, e nelle cui vicinanze si celebravano i famosi giochi istmici, diceva: «Non sapete che nelle corse dello stadio tutti bensì corrono, ma uno solo riporta il premio? Ma i lottatori lo fanno per conseguire una corona corruttibile, noi una corona incorruttibile. Correte in modo da riportare il premio». E appressandosi al termine del suo faticosissimo apostolato, scriveva a Timoteo (II Tim. 4): «Ho combattuto la buona battaglia, sono giunto al termine della corsa, ho serbato la fede. E ormai mi sta preparata la corona di giustizia, che mi darà in premio il Signore in quel giorno, il Giudice giusto, e non soltanto a me, ma anche a quanti hanno atteso con amore la Sua venuta gloriosa». Dunque la predestinazione è al tempo stesso opera della bontà e generosità divina ed opera della giustizia divina. Dunque la gloria eterna soprannaturale, che Iddio prepara ai predestinati, è al tempo stesso un dono divino, ed è la giusta ricompensa ai meriti acquistati dall’uomo nel corrispondere alla grazia di Dio, come diceva splendidamente San Prospero Aquitano: «La predestinazione divina non è mai senza bontà, non è mai senza giustizia» («Respons. ad Cap. obiect. Vincent.», 10). Ma come si conciliano questi due termini apparentemente antitetici: predestinazione assolutamente gratuita, e predestinazione giusta ricompensa dei meriti acquistati dall’uomo? Rispondiamo valendoci d’una distinzione, frequente nelle scuole di teologia (Cfr. Bonomelli, «Il giovane studente istruito nella dottrina cristiana», Parte II, Tratten. VI). Altra è la predestinazione alla grazia, altra quella alla gloria. La prima è il decreto divino, col quale il sommo perfettissimo Bene stabilisce di dare la grazia alla creatura umana, quella grazia che è un dono assolutamente gratuito, ma che è pure un mezzo indispensabile per conseguire la vita eterna soprannaturale. La seconda è il decreto divino, col quale il sommo perfettissimo Bene stabilisce di dare la vita eterna soprannaturale alla creatura umana. Ciò premesso: Iddio predestina tutti alla grazia, perché Egli vuole sinceramente che tutti si salvino ed a tutti concede la grazia necessaria e sufficiente per salvarsi. Ma Dio predestina alla gloria solo quelli che cooperano al dono divino, che saranno fedeli alla Sua grazia, che persevereranno nel bene. Dunque la predestinazione alla grazia è assolutamente gratuita, antecedente ad ogni merito dell’uomo; ma nessun uomo è escluso da essa, da quel Dio che vuole che tutti si salvino. La predestinazione alla gloria invece è, al tempo stesso, opera della bontà divina, che ci mette in condizione di meritare la vita eterna, ed opera della giustizia divina, la quale premia l’uomo che corrisponde alla grazia.
• La zona d’ombra. Abbiamo esaminato tre raggi di luce; ma quanti dubbi, quante obbiezioni ci costringono ad arrestarci dinanzi alla zona oscura del mistero della predestinazione. Se Iddio vuole sinceramente che tutti gli uomini si salvino, perché mai crea quegli uomini che nella Sua prescienza conosce che certamente si danneranno? Inoltre Iddio concede ad ogni uomo la grazia necessaria e sufficiente per salvarsi; ma quanti uomini resistono a questa grazia, mentre una nuova grazia, un maggior numero di grazie avrebbe forse riportato la vittoria su quelle volontà ribelli al dono divino. E poi quanti uomini, dopo aver per qualche tempo corrisposto alla grazia, s’intiepidiscono, si raffreddano, prevaricano, si perdono; ma perché mai Iddio non tronca il filo della vita nel momento buono, quando sono ancora fedeli alla grazia? E si potrebbero moltiplicare interminabilmente i perché, come interminabile è la varietà dei casi, che presenta la diversa distribuzione della grazia divina. Ma a fiaccare la nostra temeraria arroganza, interviene l’Apostolo Paolo (Rom. cc. 9 e 11): «O uomo, chi sei tu da entrare in discussione con Dio?... O profondità delle ricchezze della sapienza e della scienza di Dio, quanto incomprensibili sono i Suoi giudizi ed imperscrutabili le Sue vie». Tuttavia, dopo aver umilmente accolto il giusto rimprovero dell’Apostolo Paolo, ascoltiamo ora Sant’Agostino, il quale — a confortarci nello sgomento che c’investe sotto il peso degli imperscrutabili giudizi divini — ci ammonisce sapientemente e paternamente, che «se i giudizi di Dio sono occulti, non perciò sono ingiusti». Se noi siamo impotenti a rimuovere il velo, che nella presente vita ci nasconde il mistero della predestinazione, noi possiamo e dobbiamo confortarci al pensiero, che Dio è infinitamente giusto, che Dio non crea nessun uomo per dannarlo, che nessun uomo è dannato se non per sua vera e propria colpa. Questa verità è costantemente insegnata nelle Sacre Scritture: «Io vivo, dice il Signore Iddio, io non voglio la morte dell’empio, ma che l’empio si converta dalla sua via e viva» (Ezech. 33) ; e San Pietro nella sua seconda lettera (c. III): «Il Signore usa pazienza riguardo a voi; non volendo che alcuno perisca, ma che tutti ritornino a penitenza». E quando l’uomo ostinatamente resiste con la perversa volontà, il Signore, quasi a spiegarci il Suo giudizio infinitamente giusto: «Or dunque — ci invita — voi uomini giudicate tra me e la mia vigna. Che dovevo far di più per la mia vigna che non l’abbia fatto?» (Isaia 5). Nessuno è dannato al supplizio eterno che non sia per sua colpa. «Quelli che periscono — esclama Sant’Ambrogio — periscono per la loro colpa» («De Cain et Abel», 1, II, c. 3), e quindi «giustamente è abbandonato da Dio chi abbandona Dio» (San Fulgenzio, «Ad mon.», 1. I, c. 13): chi abbandona Dio coscientemente, costantemente, ostinatamente, respingendo le Sue grazie, fino a quell’ultima grazia che è l’estremo invito del Padre la cui misericordia non ha limiti. Verrà un giorno in cui leggeremo nel libro divino, e sapremo il perché della diversa distribuzione delle grazie divine, e vedremo tante cose che oggi ci sono nascoste; ma una cosa certamente leggeremo in quel libro, una cosa che già sappiamo con infallibile certezza: Iddio è bontà e giustizia infinita. Egli crea l’uomo per salvarlo, Egli dà ad ogni uomo i mezzi per salvarsi; e se l’uomo si perde è per sua propria colpa: quelli che si dannano «potrebbero salvarsi se volessero» ha scritto Sant’Agostino («Enchir.», c: 94).
• Fatalismo e predestinazione. E così abbiamo pure la risposta al famoso dilemma: o sono predestinato o non sono predestinato; se sono predestinato, qualunque cosa io faccia certamente mi salverò; se non sono predestinato, qualsiasi sforzo io compia, certamente mi perderò. Questo dilemma per gli uni è pretesto della più sfacciata depravazione, per gli altri è motivo della più soffocante angoscia. È pretesto di depravazione per quelli che ragionano in questo modo: a che prò affaticarmi a vivere onestamente, ad osservare la legge divina, a privarmi dei godimenti leciti o illeciti della vita ; tanto qualunque cosa io faccia, se io sono predestinato certamente mi salverò, se non sono predestinato certamente mi perderò. È motivo di angoscia per quelli che ragionano in questo modo: io voglio praticare il bene per salvarmi, io abbraccio con rassegnazione i mille sacrifici che s’impone una vita virtuosa, io mi sforzo con immense privazioni di perseverare nel bene; ma se non sono predestinato a che gioverà tutto questo? Ebbene se esaminiamo il dilemma proposto, noi troviamo che esso non giustifica in nessun modo né l’uno nè l’altro ragionamento; perché nel ragionamento dei primi, oltre la più sfacciata depravazione, vi è un’immensa stoltezza; in quello dei secondi vi è una falsa supposizione. Per dimostrare quanta sia la stoltezza del ragionamento dei primi, possiamo valerci di ragionamenti analoghi applicati ai casi comuni e volgari ma efficacissimi. Così se uno ragionasse in questo modo: Iddio fin dalla eternità nella Sua prescienza e nei Suoi decreti ha stabilito se guarirò o soccomberò; dunque è inutile che io sprechi denaro in medici e medicine... Se un altro ragionasse così: Iddio fin dall’eternità ha stabilito se vincerò o perderò questa lite: dunque qualsiasi cosa io faccia certamente vincerò o perderò: dunque è inutile che io ricorra ad un avvocato per far valere i miei veri o presunti diritti... Ma costoro sono stolti, voi direte e non avrete torto; ed avete pieno diritto di definire stoltezza l’analogo ragionamento applicato alla predestinazione. Ma vi è qualche cosa di più specifico ancora, ed è che il ragionamento di questi depravati, i quali dal famoso dilemma vorrebbero concludere ad una vita gaia e spensierata; come pure il ragionamento di quelle anime timorate, le quali dalla incertezza della predestinazione traggono motivo per la più soffocante angoscia: tutti questi ragionamenti si fondano in una falsa supposizione, che cioè la predestinazione alla gloria sia decretata da Dio senza tener conto dei meriti e dei demeriti degli uomini. Supposizione falsa, perché contraddetta dall’insegnamento della rivelazione divina, il quale, come abbiamo veduto, ci assicura che la predestinazione è decretata con immensa bontà ed infinita giustizia: è un dono divino, il massimo dono divino; ma è al tempo stesso la corona di giustizia, il premio dei buoni meriti acquistati dall’uomo nel corrispondere alla grazia divina. E quindi non è vera la supposizione del dilemma, che qualsiasi cosa io faccia certamente mi salverò o mi perderò. Ma la verità è questa: se io coopererò sinceramente, attuosamente, alla grazia divina, che il Signore infinitamente buono e giusto mi offre, io conseguirò l’eterna salvezza. Iddio, infatti, non si stanca d’illuminarci, d’invitarci, di sostenerci, perché noi siamo costanti nell’operare il bene, siamo vigilanti nello sfuggire alle insidie del male, siamo forti nel resistere alla tentazione, siamo pronti nel risorgere dalla colpa, siamo perseveranti nel quotidiano combattimento. Iddio ci dà l’aiuto per riuscire vittoriosi, dunque se noi cooperiamo alla grazia divina, noi ci assicuriamo l’eterna salvezza. Si aggiunga che ogni nuova vittoria da noi riportata non è soltanto un nuovo titolo per meritare la vita eterna, ma è pure un nuovo tenero potente invito, che noi rivolgiamo al Padre nostro, perché ci accordi nuove grazie; grazie che ci santificano e ci rendono sempre più forti e costanti nel bene. Al Padre nostro — ho detto — perché queste anime, che dal pensiero della predestinazione traggono motivo di angoscia, che confina con la disperazione, dimenticano purtroppo l’insegnamento di Gesù, il quale ci ha dato il dolce diritto di vedere in Dio il Padre nostro: Padre amorosissimo, perché ci vuol salvi e per questo ci ha dato il suo Figlio Unigenito; Padre sapientissimo, che conosce quello che noi siamo e pensiamo ed operiamo nei singoli istanti della nostra esistenza terrena, vede le nostre intenzioni, i nostri desideri, i nostri sforzi; Padre santissimo, che nei Suoi divini decreti opera nel modo più perfetto; Padre giustissimo, che non può non premiare fino al più piccolo atto di virtù, compiuto per la vita eterna, sotto l’influsso della grazia che Egli stesso ci offre.
Per il P. Francesco M. Gaetani e per gli onesti autori menzionati: + Réquiem aetérnam dona eis, Dómine, et lux perpétua lúceat eis. Requiéscant in pace. Amen. +
A cura di CdP
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Stimati Associati e gentili Sostenitori, il Protestantesimo - dicono i moderni - ebbe il grande merito di reagire vittoriosamente contro l’enorme corruzione dilagante nel secolo XVI, ed i suoi fondatori furono animati dalle migliori intenzioni di giungere ad una sana riforma. I modernisti vanno oltre: mediante l’eresia dell’ecumenismo, essi non cessano di lodare le massime autorità dei Protestanti, celebrano con loro, pregano con loro, ne ospitano statue e cimelii, emettono francobolli con i fondatori del Protestantesimo, finalmente sostengono - apostaticamente - che le sette dei Protestanti siano vie di salvezza. Rimandiamo i nostri Lettori alla «Mortalium animos» di Papa Pio XI per le ragioni della condanna all’ecumenismo. Purtroppo lo spazio a disposizione non è molto, quindi cercheremo di sintetizzare utilizzando l’opuscolo «I fondatori del Protestantesimo», Carlo Bozzola, S.O.S., Serie I, n° 7, 3a edizione, imprimatur 1944.
• La Chiesa nel secolo XVI. Sì, nel secolo XVI era necessaria una riforma nella Chiesa. 1. - Però conviene subito notare che assieme a molto male c’era ancora molto bene e non mancavano gli uomini Santi. È vero, gli studi sacri erano allora generalmente scaduti nella ansiosa ricerca di vane sottigliezze e di vuote astrazioni, ma gli splendori della filosofia e della teologia cristiana non erano affatto spenti. Il secolo che vide nascere l’eresiarca Lutero aveva assistito meravigliato alle nobili lotte dei più eletti ingegni dell’occidente e dell’oriente, provvidenzialmente incontratisi nel Concilio di Firenze (1438-1445) : e il secolo che assistette ai traviamenti e all’infausta lotta di Lutero potè giustamente vantarsi del più grande, del più efficace, del più benefico dei Concili, quello di Trento (1545-1563). Uomini veramente e profondamente dotti non erano sconosciuti anche al riformatore di Germania. Il grande Cardinal Gaetano fu tra i primi a tentare colla sua autorità, colla sua dottrina ed anche più colle sue benigne maniere, di arrestare la pazza corsa dell’eresiarca. È vero: il movimento umanistico aveva suscitato quasi ovunque un cieco entusiasmo per le bellezze non sempre caste dell’arte antica e pagana, ma pure i secoli XV e XVI videro i più grandi geni della pittura, della scultura, dell’architettura, consacrarsi interamente al servizio e al trionfo della fede. Nessuno ignora, né osa negare i grandi mali che allora affliggevano la cristianità. La corruzione dilagante, in alto e in basso, non aveva risparmiato lo stesso ceto ecclesiastico, non si era arrestata dinanzi alle sacre mura dei chiostri, anzi neppure ai piedi del trono più augusto. Ma pure non era tutto perduto: non si erano affatto inaridite le fonti della santità, e la vitalità meravigliosa della Chiesa non aveva cessato di produrre i frutti più belli e profumati, presagio felice di tempi migliori. Quanti Santi avevano preceduto di poco la comparsa di Lutero! Bernardino da Siena (+1444), Lorenzo Giustiniani (+1455), Giovanni da Capi-strano (+1456), Antonino di Firenze (+1459), Diego di Spagna (+1463), Caterina di Bologna (+1463), Caterina di Genova (+1474). San Francesco da Paola, contemporaneo di Lutero (1407-1507) aveva messo a disposizione della Chiesa le balde e generose schiere dei suoi umili frati: altri pii religiosi avevano tentato con successo di riformare qua e là gli ordini antichi, come accadde precisamente nello stesso ordine del riformatore, per opera della corrente più rigorosa degli osservanti. Anche il sangue glorioso dei Martiri purificava e santificava il secolo di Lutero. L’anno 1535 vedeva due incliti e generosi atleti ascendere il patibolo e lasciare il capo venerando sotto la mano del carnefice: Tommaso Moro e Giovanni Fischer; ai quali la Chiesa nel 1936 decretò gli onori supremi degli altari. Quando poi il Protestantesimo incominciava appena a levare furibondo la fronte contro la corruzione della Chiesa Romana, avevano già aperto gli occhi alla vita quegli uomini veramente grandi per santità ed ardire che dovevano diventare i generosi campioni di Roma, i veri riformatori del popolo cristiano: Gaetano Tiene, Antonio Maria Zaccaria, Pio V, Ignazio di Lojola, Francesco Saverio, Teresa di Gesù, Pietro d’Alcantara, eccetera, eccetera... Nella stessa Germania non mancavano anche in quegli anni uomini pii, sacerdoti zelanti, pastori interamente consacrati alla gloria di Dio, come Giovanni di Dalberg vescovo di Vormazia (1482-1503), Giovanni Rhode, vescovo di Brema (1497-1511), e Lorenzo di Bibra, vescovo di Wurzburgo (1495-1519).
• 2. - Tuttavia, torniamo a confermare, il bisogno di una saggia riforma era evidente: gli, stessi capi responsabili ne erano consci e desiderosi, benché non avessero sempre né la attitudine né l’energia sufficiente per attuarla. Questo non vuol dire che la Chiesa fosse fondamentalmente mutata da quella che era stata da Gesù N. Signore voluta e istituita; o che la verità evangelica fosse rimasta completamente offuscata. No: la verità tuttora splendeva, tuttora era riconosciuta ed ammessa; ma non sempre era la regola pratica della vita ed i costumi pubblici e privati non corrispondevano sempre all’ideale cristiano. Non si richiedeva quindi che una riforma morale, quale fu splendidamente attuata più tardi dalle meravigliose forze del Cattolicismo.
• 3. - Ma non fu tale la riforma vagheggiata ed attuata dai riformatori del Nord. Essi vollero sconvolgere e rovesciare tutto quanto fino allora era stato pacificamente ammesso e come cosa sacra venerato. Trasformata l’organizzazione ecclesiastica, aboliti i riti più augusti ed essenziali, radicalmente rinnovata la dottrina dogmatica.
• 4. - Era mai possibile, poteva mai essere ammessa una tale riforma? Non era piuttosto una distruzione completa dell’antica religione; una fondazione di una religione totalmente nuova? E in questo caso non appare come un’opera dell’uomo in contrapposizione a quella di Dio? Se fosse altrimenti vorrebbe dire che la Chiesa, che ormai da secoli così si governava e così credeva, non era più la Chiesa di Gesù Cristo. Lo so: precisamente questo affermava audacemente Lutero; per lui la Chiesa di Roma, che fino allora aveva universalmente e pacificamente dominato, era la Chiesa dell’Anticristo, la Chiesa di Satana. Ma allora che cosa bisognerebbe dire della prescienza e della infallibilità di Gesù? Era Egli veramente Dio? Dinanzi a Pietro ed a tutto il collegio apostolico Egli aveva pur solennemente dichiarato: «Contro di essa (la sua Chiesa) le porte dell’inferno non prevarranno». Se Lutero avesse avuto ragione nell’opera sua di riforma, le forze infernali già da parecchi secoli prima avrebbero riportato completo trionfo sulla Chiesa di Gesù. Ma supponiamo pure che Lutero e gli altri capi del Protestantesimo non siano fondatori di una nuova religione, ma abbiano soltanto lavorato ad una riforma della religione preesistente, ci potremo però domandare: Erano essi autorizzati da Dio a questa grandiosa impresa? Erano essi persone adatte?
• I capi del Protestantesimo. Dio suole porre il sigillo alla missione dei suoi inviati con la santità e coi miracoli. Con questi segni della divinità si presentarono al mondo gli antichi profeti, con tali caratteristiche soprannaturali si presentano continuamente nella nuova legge di grazia i grandi animatori della virtù cristiana. Furono tali i fondatori della riforma protestantica Lutero e Calvino? Fu tale Enrico VIII? Ebbero essi lo zelo puro e ardente di Elia, di Isaia, di Geremia e la loro costanza e pazienza indomite? O lo spirito di penitente austerità, di purezza illibata, di disinteresse generoso di Giovanni il Battista? O il distacco assoluto dalle comodità terrene, l’umiltà sincera e profonda, la soprannaturalità di intenzione, la dedizione piena ed eroica, lo spirito di estatica contemplazione delle realtà eterne dei grandi Santi del cattolicismo? Furono essi ripieni dello spinto di Gesù? A chi voglia interrogare la storia con mente tranquilla e scevra di pregiudizi, la risposta non tarderà a presentarsi evidente e non potrà esser che negativa. Non potevano essi, dunque, presentarsi in nome di Dio. Anche se udremo Lutero dichiarare apertamente e spesso di sentirsi guidato ed ispirato dallo Spirito Santo, non si può, non si deve credergli. Nella migliore delle ipotesi, se egli non fu un impostore, fu per lo meno un illuso. Lo Spinto Santo ovunque spira, fa germogliare i fiori profumati delle più belle virtù. Questo non avvenne; dunque, torniamo a ripeterlo, il Protestantesimo non germogliò sotto il soffio dello Spinto di Dio. Facciamoci a considerare ciò più di proposito e più in particolare.
• Lutero. 1. - Non è nostro scopo esaminare partitamente tutte le vicende della vita agitata del riformatore; basterà qui accennare ai fatti principali. Lutero nacque ad Eisleben in Sassonia il 10 novembre 1483 da una famiglia agiata. Mentre studiava all’università di Erfurt, inopinatamente e sotto l’impulso di improvviso fervore a cui non fu estraneo, a quanto pare, qualche avvenimento doloroso, si decise a farsi monaco ed entrò fra gli Agostiniani. [Secondo gravi autori la sua fu una falsa vocazione: per evitare di restituire al padre molti danari anticipati per i suoi interrotti studi, ndr.]. Dopo una vita tranquilla ed operosa nella quiete del chiostro, chiamato alla cattedra di Sacra Scrittura dell’Università di Wittemberg, attraversò un periodo di crisi pericolosa che incominciò ad allontanarlo dalla verità cattolica. Più tardi l’aspra lotta contro la dottrina delle indulgenze, suscitata da alcuni abusi di qualche predicatore troppo zelante [ma poco ferrato nella teologia, ndr.], gli presentò l’occasione di erigersi a riformatore e di separarsi dall’antica Chiesa. L’apostasia divenne definitiva e completa l’anno 1520, quando in pubblica piazza con gesto sacrilego gettava tra le fiamme la bolla pontificia che lo condannava. La morte [una brutta morte, ndr.] lo coglieva di notte, quasi improvvisamente, nella città natale il 18 febbraio 1546. Dietro di sé lasciava la divisione disgraziata della cristianità in due campi avversi.
• 2. - L’apostasia di Lutero ebbe origine da un ripicco fratesco. Gradito è ai protestanti presentare Lutero infiammato di sdegnoso zelo contro la bassezza dei venditori di indulgenze, ma in realtà la lotta ebbe un’origine più remota e meno gloriosa. La battaglia contro gli abusi delle indulgenze, abusi del resto di proposito esagerati e non universali, fu un comodo pretesto per la ribellione, ma non fu la causa. E facile ne è la prova. Dopo le prime scaramucce, la questione delle indulgenze passa in seconda linea e viene dimenticata; la lotta tra Lutero e la Chiesa si ingaggia tosto furiosa ed ostinata su un altro punto ben più importante, fondamentale anzi: la giustificazione senza le opere, per la sola fede nell’imputazione infallibile dei meriti di Cristo. Ora quale fu l’origine di questa teoria da Lutero elaborata attraverso lo studio e l’esperienza di lunghi anni? Noi la scopriamo dai suoi scritti che precedettero l’apostasia, specie dai suoi commentari sui salmi e sulla lettera di San Paolo ai Romani. Essa originò da un puntiglio fratesco e dal bisogno di giustificare la propria condotta non del tutto regolare. L’affermazione parrà forse irriverente alla grandezza del Riformatore che si diceva ispirato immediatamente da Dio stesso? Non ci possiamo nulla: i documenti sono troppo precisi e significativi; basta esaminarli per convincersi. Gli Agostiniani in Germania erano allora divisi in due congregazioni, una più antica quella, dei Conventuali; l’altra più recente, più regolare e più rigorosa, la Riforma degli Osservanti. Lutero era entrato in un monastero di questi ultimi. Tra le due correnti le animosità erano inevitabili e si manifestarono clamorosamente, quando nell’animo di Staupitz, che radunava nelle sue mani il governo di entrambi, Provinciale dei Conventuali e commissario degli Osservanti, sorse il progetto dell’unione. Un decreto ottenuto dal Generale dell’ordine in questo senso fece scatenare la lotta. Lutero fu scelto dagli Osservanti come loro rappresentante e inviato a Roma presso il governo centrale per ottenere la separazione. Disgraziatamente la missione del messaggero falli , anzi Lutero stesso a poco a poco passò a simpatizzare per l’unione vagheggiata dai Superiori. L’umiliazione dello scacco subito, i frizzi mordaci dei confratelli, la resistenza in essi trovata all’opera dell’unione finirono per rendergli antipatica l’osservanza e tutte le sue pratiche. Ai frizzi degli osservanti sapeva rispondere con moneta eguale, con motti non meno sarcastici e mordaci. Diventò per lui fin dal 1513 un’abitudine, un bisogno, uno sfogo all’umore nero il mettere il ridicolo sopra la vita degli avversarii, sulle loro pratiche, sui loro usi, sulle osservanze a loro tanto care ed a cui erano tanto legati. Infiniti sono gli accenni pungenti sfuggitigli dalle labbra nelle lezioni dinanzi ai giovani suoi confratelli e ch’egli diligentemente riferisce nei suoi scritti tra le righe dei commenti alla Sacra Scrittura. Per lui gli osservanti sono «come i Giudei ed i Farisei»; la loro esterna santità è un puro formalismo ipocrita; «come gli ebrei ed i farisei anch’essi corrono pazzamente dietro alle vane pratiche esterne inutili e dannose». Scegliamo così, a caso, qualche tratto dal Commentario sopra i Salmi: Gli osservanti sono «uomini pieni di se stessi e delle proprie idee» (Weimar III p. 19); «gli statuti e i privilegi che hanno ottenuto non valgono meglio che le tradizioni giudee dei rabbini» (ib. p. 21); «Gli osservanti si gloriano di esser figli di illustri e santi personaggi di cui esaltano le virtù eroiche. Questa iattanza che oggi trionfa è veramente simile all’orgoglio degli ebrei e degli eretici» (ib. p. 332); «Essi resistono a Cristo, alla Chiesa, alla verità; ignorano dunque che essi non differiscono punto dai giudei, anzi li superano in ipocrisia?» (ib. p. 568). Da questo punto di vista, per combattere meglio gli avversari, era facile passare all’affermazione che le opere esteriori in generale sono inutili, supererogatorie, anzi dannose. Così egli scrive: «L’osservanza non procura la vera giustizia» (ib. p. 454); «Da mattina a sera (gli osservanti) sono occupati nei loro esercizi e nelle loro cerimonie. La verità non è sulla loro bocca. Tutta la loro condotta non è che ombra e vanità» (ib. p. 333). Quale sarà dunque la via della giustizia e della santità? Lutero incomincia già qua e là ad affermarlo: la fede. «Questi uomini superstiziosi e singolari rigettano l’obbedienza e la fede e si creano una loro giustizia» (ib. p. 172). «Essi ignorano la vera giustizia, la giustizia della fede pura. Essi si formano una loro giustizia, un idolo spirituale e non vogliono punto la giustizia di Dio» (ib. p. 154). Questa idea che la giustizia si ha per la fede e per essa sola senza le opere, è poi quella che più di frequente torna sotto la penna di Lutero nel Commentario alla lettera di San Paolo ai Romani e che egli si sforza di provare coll’autorità stessa dell Apostolo. (1515-1516). Questo scopo è chiaramente indicato fin dall’introduzione: «Sradicare ogni giustizia personale»: la giustizia di quegli «uomini ignoranti (che) credono di esser giusti per le loro opere» (p. 123 ed. Ficker). L’«Arbitramur justificari hominem per fidem sine operibus legis» dell’Apostolo (Rom. III, 28) svisato dal suo vero senso, diventa per Lutero il principio fondamentale delle sue teorie sulla giustificazione.
• 3. - A queste affermazioni e a questa conclusione, del resto, Lutero era facilmente indotto oltre che dall’animosità contro gli osservanti, anche dal bisogno di spiegare la sua disgraziata esperienza personale e di giustificare la sua condotta. È certo infatti che egli verso l’anno 1513 risentiva di un notevole rilassamento morale e non solo per reazione contro la presupposta esagerazione degli osservanti in mezzo ai quali viveva. Nei primi anni della sua vita religiosa anch’egli si era messo alacremente alla conquista della buona vita, ma non con lo spirito umile del vero cristiano che, conscio di non poter nulla da sé, attende fiducioso dalla grazia divina la pioggia fecondatrice sopra i suoi tentativi, e dalle stesse inevitabili miserie prende motivo per diffidare maggiormente di sé e per rialzarsi con maggior fiducia nella misericordia divina. Egli troppo si attende dalle sue forze e dai suoi sforzi, troppo presume di sé e della sua capacità. Le sue miserie, le sue sconfitte quotidiane umiliano troppo la sua superbia, lo muovono a sdegno contro se stesso, lo abbattono, lo scoraggiano. Gli cominciano allora a balenare nella mente certi pensieri, che a poco a poco vi si stabiliscono, vi si radicano: Ma è proprio possibile la santità all’uomo? Non è egli tutto guasto e corruzione? È veramente egli libero di fuggire il male e di fare il bene? Sono veramente utili i suoi sforzi per sollevarsi dalle sue miserie? Lo scoraggiamento lo porta a trascurare i mezzi tradizionali (preghiera, etc...): tale negligenza è causa di maggiori miserie; le tristi conseguenze che ne derivano, a poco a poco lo convincono sempre più che non v’è altra salvezza che rifugiarsi nella sola fede nei meriti di Cristo. Che veramente Lutero in quegli anni si fosse rilassato, anche sotto l’assillo delle molte occupazioni, lo abbiamo dalla sua stessa penna. Scrivendo al Priore Lang di Erfurt ammette «che raramente trova il tempo per recitare le ore e per celebrare». Più tardi spesso adduce la sua personale esperienza a provare che l’uomo non è libero di fuggire il male. Spesso pure nelle sue lettere di quel tempo accenna alle sue agitazioni di coscienza, alle sue incertezze, alle continue ed assillanti tentazioni, specialmente carnali, da cui è oppresso. Vi fu anche in quel tempo qualche cosa di più che il solo turbamento della tentazione? Non è possibile affermarlo con certezza, ma in un’anima che trascura l’orazione, che già comincia a fluttuare ed a persuadersi della corruzione essenziale e necessaria dell’uomo, che altro v’è da aspettarsi? [D’altronde l’albero si riconosce dai frutti e, come insegnano i Padri di Trento: le cause del progresso dell’eresia sono nella corruzione dei costumi e nella crassa ignoranza, ndr.].
• 4. - La defezione così maturata nel segreto della coscienza, si manifestò poi in occasione del contrasto delle indulgenze e fu condotta a compimento per effetto dell’odio antiromano forte in Lutero e radicato e diffuso nella nazione tedesca. L’odio contro Roma era nel sangue della razza germanica fin dai primi tempi lontani nei quali le orde nordiche, dopo aver lungamente lottato contro la supremazia latina, s’erano rovesciate sull’impero e l’avevano sommerso; era poi cresciuto orgoglioso dacché la Germania era diventata la sede stabile del capo civile della cristianità. L’orgoglio tedesco mal sopportava la supremazia religiosa di Roma, la sua sorveglianza, la sua direzione, la sua ingerenza autoritaria; mal volentieri ed a forza concorreva alle filiali contribuzioni finanziarie per i bisogni e per il decoro del Padre comune e dei santuari centrali della cristianità. Violenti quanto mai sono gli attacchi di Lutero contro lo sfruttamento degli ultramontani, accese di odio e di livore le denunzie ai suoi tedeschi «dell’insaziabile ingordigia romana». Se quest’odio non avesse covato nel cuore di Lutero, se non fosse serpeggiato nella gran massa del popolo germanico, gli errori di frate Martino sarebbero forse rimasti celati nel segreto della sua cella, o nella piccola cerchia dei suoi scolari; al più avrebbero avuto una verbale ripercussione nelle scuole teologiche. Esso diede invece al frate agostiniano la sensazione di essere il difensore di un ideale patrio conculcato, e diffuse nel popolo la persuasione di avere in lui il campione lungamente atteso della più pura germanicità. Attorno al frate audace che levava, in principio velatamente, la voce contro Roma, si strinsero subito compatti gli umanisti tedeschi, gente senza fede e religione, accorsero entusiasti tutti i fanatici delle glorie patrie, primo fra tutti il selvaggio Ulrico von Hutten, si rivolsero benigni e invitanti tutti quei prìncipi e signori che già vagheggiavano di inalzare la loro potenza sopra le spoglie della Chiesa. Lutero, sentendosi appoggiato validamente dall’odio tedesco, non indugiò più oltre e gettò risoluto il guanto di sfida all’antica Chiesa di Roma. Lo scisma di metà Europa dal centro della cristianità si compiva! Tale, secondo la storia, è l’origine dell’opera di Lutero. Pare che sia stata essa ispirata e mossa dallo Spinto di Dio? La risposta è ovvia per ogni mente non travolta da pregiudizi. Ma possiamo anche procedere oltre e considerare un altro aspetto dell’impresa luterana.
• 5. - Dimostrò Lutero colla sua condotta di essere lo strumento scelto da Dio? Non abbiamo nessuna intenzione di esagerare: anche qui lasceremo parlare i fatti. a) Lutero non procedette lealmente ma ipocritamente. Chi è persuaso intimamente della santità della sua causa potrà bene, per illuminata prudenza, attendere il momento opportuno per la manifestazione e l’attuazione dei suoi disegni, potrà giustamente proporre la sua idea per gradi a poco a poco, e talvolta velatamente, ma non mai gli sarà lecito dire o sostenere il contrario di ciò che pensa e che vuole. Ora, proprio così operò Lutero? Quando già in cuore covava la ribellione e aveva insegnato apertamente proposizioni che conducevano all’annientamento di ogni autorità ecclesiastica, rispondeva al Prierias - che aveva confutato i suoi errori - ammettendo che «la Chiesa Romana ha sempre insegnato la vera fede e che a tutti i cristiani è necessario concordare con lei» (v. Löscher II 407, Köhler 54). Riguardo poi ai punti controversi si rimetteva ad una decisione della Chiesa o di un Concilio: ma si capisce dalle sue parole che dice ciò nella persuasione che la Chiesa, o il Concilio debbano ratificare le sue dottrine. Gli stessi sentimenti di deferenza verso la Chiesa, di ammissione della sua autorità, si riscontrano pure nella dichiarazione fatta leggere in suo nome e in sua presenza dinanzi al Card. Legato Gaetano. «A quanto sa ricordarsi, egli non ha mai insegnato cosa alcuna contro la Sacra Scrittura, la dottrina della Chiesa, i decreti del Papa e la sana ragione, ma poiché è uomo soggetto all’errore, così si assoggetta al giudizio della Santa Chiesa, e di tutti coloro che meglio sanno». La stessa risoluzione di sottomettersi alle decisioni della Chiesa manifesta pure nelle lettere indirizzate il 17 e 18 ottobre dello stesso anno 1518 al Card. Legato. (De Wette I, 163-165: Enders I, 266). Le stesse cose dichiara in un abbozzo di lettera preparata per il Papa il 5-6 gennaio 1519 e di cui si conserva la minuta originale. Vi dichiara «che mai ha avuto in mente di assalire comunque sia l’autorità della Chiesa Romana e del Papa»; confessa anzi «che il potere della Chiesa Romana sta sopra tutto e che nulla va preferito in cielo e in terra, salvo Gesù Cristo» (Enders I, 442-445). Eppure già l’11 dicembre 1518 scriveva a Wenzel Link che alla Corte Romana dominava l’Anticristo, (Enders I, 317) e poco più tardi, il 13 marzo 1519, in una lettera allo Spalatino afferma di non sapere se il Papa fosse lo stesso Anticristo, o il suo apostolo (Enders I, 450). Esternamente affettava ancora riconoscimento dell’autorità papale, internamente non riconosceva che la propria autorità e infallibilità. Quando si accorge che il Papa vivente Leone X finirà con condannarlo, egli audacemente appella dal «Papa mal e informato» al «Papa meglio informato» (ottobre 1518): più tardi (28 Novembre 1518) appella al futuro Concilio, poi finalmente getta risoluto la maschera. Sopra di lui non v’è autorità alcuna. «Non si riesce a prenderlo né colla persuasione né colla discussione - scriveva a Roma il legato Aleandro - poiché non riconosce alcun giudice, e senza ritegno rigetta anche i Concili e null’altro ammette fuorché le parole della Bibbia che vuole poi interpretare di sua testa, mentre deride spiegazioni diverse e le rifiuta come inadeguate».
• b) La morale di Lutero NON fu la morale del Vangelo. Non ci vogliamo dilungare sopra la violenza verbale con cui senza ritegno e misura aggredisce gli avversari, allontanandosi evidentemente dalla longanime pazienza e dolcezza del Salvatore. «Porci, asini, canaglia» sono gli epiteti ordinari che fioriscono sulle sua labbra. All’amico Giovanni Lang dichiara: «Contro la slealtà e la perversità del Papa, io credo che in vista della salute delle anime ci sia permessa qualunque cosa» (Enders II, p. 461). Il fine giustifica i mezzi! Proprio il principio dai protestanti appioppato agli odiati Gesuiti! Lutero stesso riconosce questo suo debole. Nel 1520 scrive: «Non posso negare di esser troppo violento. Ma poiché i miei avversari lo sanno, non avrebbero dovuto eccitare il cane» (Enders, II p. 329). Nel 1521 ammette di non essere padrone di sé, di non sapere quale spinto lo costringa ad aggredire (Enders, III p. 93). È lo stesso Lutero che più tardi, durante la guerra dei contadini, già da lui aizzati e poi abbandonati quando li vide più deboli dei signori, scrive «che era ormai tempo di sgozzare i contadini come cani rabbiosi». (Erl., IlI p. 306). Non intendiamo insistere troppo sui rimpianti dei frequenti digiuni del chiostro, e sulla voluttà con cui Lutero volentieri si abbandonava ai piaceri della mensa.
• c) Vogliamo piuttosto trattare di proposito della sua condotta di fronte alle basse passioni [il sesso etc..., ndr.]. Chi vuole farsi un’idea del come percepisse Lutero il dovere di resistere agli incentivi della carne, si faccia coraggio e legga le parole che ai suoi invitati diceva nel 1540. «II diavolo getta nell’anima dei pensieri odiosi, odio contro Dio, bestemmie, disperazioni. Ecco le grandi tentazioni e nessun papista le ha comprese. Questi idioti di asini non conoscono che le tentazioni della carne. Sono queste le sole sulle quali essi e i loro santi hanno scritto. Un giorno, tormentato da tali tentazioni, Benedetto si gettò nudo tra le spine e si lacerò coscienziosamente... In realtà a questa tentazione il rimedio è facile: vi sono ancora donne e giovinette» (Tischreden IV, n. 5097). San Paolo aveva ammonito: «Neppure si nomini tra voi, come si conviene a persone sante, la fornicazione e ogni immondezza e neppure le turpitudini... le scurrilità» (Eph. V, 3-4). Ma chi vuole farsi un concetto della delicatezza di Lutero nel parlare, legga il suo «Papato fondato dal diavolo»: o più ancora i suoi «Discorsi conviviali» (Tischreden). Rimarrà stupito e nauseato della frequenza e della trivialità con cui il riformatore accenna alle più basse funzioni del corpo. San Paolo, adducendo anche il suo esempio, aveva consigliato la castità perfetta e la verginità come perfezione sublime: «bonum est illis si sic permaneant, sicut et ego» (I Cor. VII, 8 ss.): ma Lutero fu di parer contrario, fu tra quelli di cui parla N. S. là dove anche Egli esalta la verginità. «Non omnes capiunt verbum istud» (Matt. XIX, 11). Lutero, che solennemente dinanzi al cielo e alla terra aveva giurato perpetua castità, dopo aver stentatamente trascinato come una catena opprimente l’obbligo sacro impostosi, non teme di rendersi spergiuro e sacrilego passando ad indegne nozze con una ex monaca anch’essa spergiura e sacrilega, Caterina Bora. Lo sappiamo: egli tentava di legittimare il suo audace passo col proposito di farla a Satana, secondo lui autore del sacro celibato, ma sappiamo pure dal suo amico Bugenhagen che di fatto vi si era deciso, oltre che per soddisfare alle sue passioni, anche «per far tacere le insinuazioni delle male lingue» che trovavano da dire alle sue frequenti relazioni con Caterina e colle altre ex monache sue compagne. Del resto Lutero stesso scriveva allo Spalatino: « Ho chiuso la bocca a tutti quelli che mi diffamavano per riguardo a Caterina Bora» (Enders V, 197). Più tardi per non scontentare Filippo d’Assia, suo potente protettore, lo autorizza a prendersi una seconda moglie oltre la legittima ancor vivente: «Per la sua pace e la salute dell’anima sua». [Notare le tante affinità con il pensiero modernista, ndr.]. Sapendo, però, che avrebbe suscitato con tale licenza troppa meraviglia e scandalo, lo supplica di tener la cosa celata; e quando ciò nonostante la cosa viene a trapelare, non ha alcuno scrupolo a smentirla con una palese bugia, come se con ciò avesse potuto distruggere il documento scritto e da lui firmato, e il fatto che il suo amico Melantone, in nome suo, aveva presieduto alla celebrazione del secondo matrimonio. Oh, come San Giovanni Battista avrebbe sfolgorato il falso riformatore col suo risoluto: «Non licet!». Grosse debolezze queste, è evidente; debolezze che sono certamente incompatibili col carattere di inviato del cielo; debolezze che non vengono compensate dalle altre qualità anche buone di Lutero, buone qualità che certo non saremo noi a nascondere o negare. (...) Può anche darsi che, accecato dal suo orgoglio e dalle passioni, abbia potuto illudersi e lusingarsi di esser sulla retta via, ma non può ammettersi che sia riuscito a persuadersene. Sono note infatti le tristezze interne da cui era tormentato, i sentimenti violenti di disperazione da cui era spesso assalito così fortemente da non sapere egli stesso in quei momenti «se fosse morto, o vivo» (T. R. n. 1059 ecc.). La coscienza non gli dava pace!
• Ci siamo fermati forse troppo a lungo sulla persona di Lutero, ma era necessario. Lutero è la persona più eminente nel campo protestantico, l’iniziatore e l’ispiratore del movimento, il fondatore, il capo. II Protestantesimo sta a Lutero come effetto a causa. Il giudizio che si porta su Lutero si deve estendere necessariamente anche alla sua riforma. Questa è l’opera non di Dio, ma di un uomo passionale e violento. Sarà bene però rivolgere almeno uno sguardo anche agli altri due principali corifei: Calvino, fondatore dell’altro ramo del Protestantesimo, ed Enrico VIII, istigatore dello scisma inglese. I riformatori più recenti e fondatori di nuove sette non fecero che camminare nel solco tracciato da Lutero, Calvino ed Enrico VIII.
• Calvino. È vero: tra i riformatori egli è la figura moralmente meno peggiore: dotto, energicamente volitivo, straordinariamente attivo e laborioso, disinteressato, severo. Eppure dell’esame della sua vita e dell’opera sua si ritrae la sensazione di trovarsi dinanzi a un uomo non simpatico. Egli è un fanatico esaltato, non di una esaltazione sentimentale e mistica, ma di una esaltazione intellettuale. È un uomo che freddamente ha concepito un piano, se ne è penetrato intimamente, e con una logica serrata e inesorabile, con un calcolo freddo e intransigente, senza tentennamenti, senza debolezze, senza riguardi passa ad attuarlo pienamente. Ma il piano concepito è ragionevole e giusto? I mezzi adoperati sono onesti? Queste considerazioni non hanno importanza per la mente di Calvino! I suoi ammiratori non approveranno questo ritratto, ma chi non è accecato dall’amore per lui non avrà alcuna difficoltà ad ammetterlo, (v. non solo gli storici cattolici, ma anche Renan in Etudes religieuses, M. Faguet in Etudes sur le XVI siècle, M. Brunetière in Conférence de Genève, ecc.) La vita di Calvino è presto e con poche parole narrata. Nacque a Noyon il 10 luglio 1509 e morì a Ginevra al vertice della gloria e della potenza il 27 maggio 1564. A 12 anni riceve la tonsura per poter godere del provento di alcuni benefìci ecclesiastici e così mantenersi agli studi: non riceve però altri ordini sacri. Verso il 1526 comincia a subire l’influsso della corrente protestantica che andava penetrando in tutte le regioni d’Europa. Specialmente le teorie sulla grazia, somministrategli dal professore luterano Melchiorre Wolmar gli fanno impressione e lo attraggano. Però per allora rimane aderente alla vecchia Chiesa, anche quando nel 1531 gli muore il padre scomunicato per i suoi contrasti finanziari col capitolo di Noyon. Solo verso il 1533 i princìpi protestantici gli penetrano profondamente nell’animo e lo conquidono. Nell’antica Chiesa non vede più che corruzione ed inganno, e sogna di essere destinato alla grande impresa della riforma. In quell’anno, in seguito ad un discorso violento da lui composto e recitato da un amico è costretto ad allontanarsi da Parigi dove si trovava per ragioni di studio. Nel partire, ad un canonico in cui si imbatte confessa: «Poiché mi ci sono messo, andrò fino al fondo. Però se dovessi ricominciare non mi ci metterei più». Accolto nel 1536 a Ginevra, che si era data al Protestantesimo per poter più facilmente scuotere il giogo dei duchi di Savoia, fa di questa città il centro del suo ministero e della sua attività, ordinata ad attuare una riforma totalitaria ed un regime teocratico di governo. Dopo mille lotte e peripezie riesce ad attuare pienamente il suo sogno nella stessa città di Ginevra durante gli ultimi anni di sua vita. (1555 -1564).
• Quali furono le caratteristiche della sua opera? a) Essa è fondata sull’orgoglio. Calvino calpesta ogni autorità: Chiesa, Papa, Padri, Concili, tradizioni secolari, non contano per lui. Una sola autorità egli riconosce infallibile: la propria testa. Dinanzi a questa suprema autorità tutti devono cedere e piegarsi, nemici ed anche amici. In Ginevra non tollera, non sopporta, non permette alcuna opinione, che anche di un pollice si differenzi dalla sua.
• b) L’opera di Calvino si regge e si dilata cogli intrighi politici, colle ribellioni, colle armi. Gesù aveva inviato i suoi discepoli e i suoi apostoli senza forza e senza appoggi umani, solo armati della verità evangelica e della protezione divina. Calvino si sostiene a Ginevra col terrore, coi processi, e colle esecuzioni inesorabili. Stende le sue fila sull’Italia, e più ancora sulla Francia, coll’istigazione alle congiure, e cogli attentati contro le legittime autorità. Coligny e Condè sono i suoi uomini di fiducia: le ribellioni degli Ugonotti e le guerre religiose in Francia, sono il frutto dei suoi intrighi.
• c) L’opera religiosa di Calvino è tutta pervasa di gelido rigorismo. Non un palpito che dilati il cuore, non il soffio dell’amore di Dio vi si nota, ma il freddo formalismo del servo verso il padrone. Dov’è nel Calvinismo il Dio del Vangelo, quel Dio che per amore dell’uomo invia il suo Figlio Unigenito al sacrificio della Croce, quel Dio umanato che non vuole la morte del peccatore, che cerca la pecorella smarrita, che sospira per il figliuol prodigo, che desidera la salute di tutti, che forma le sue delizie intrattenersi cogli uomini? Dov’è la coscienza nell’uomo, di potersi redimere dalle sue miserie e salvarsi ? L’uomo, secondo Calvino, necessariamente e ineluttabilmente, è trascinato alla colpa e alla rovina. È Dio stesso che a ciò lo muove per mostrare la sua giustizia. Solo pochi Dio crea e avvia alla salvezza. Che gelo orribile! Tanto orribile che i suoi discepoli si videro costretti a recedere in parte dalle dottrine più rigorose del maestro.
• Enrico VIII. La sua storia è tristamente famosa e non è necessario insistervi. È chiaro che Enrico non ebbe di mira né una riforma morale religiosa, né un’adesione al Protestantesimo, ma soltanto volle sottrarsi all’autorità papale. Nel 1521 contro l’opera di Lutero «Cattività di Babilonia» scrisse il libro: «Assertio septem Sacramentorum» in cui così validamente difese la dottrina cattolica, da meritarsi da Leone X il titolo di: «Difensore della fede» e da Clemente VII la rosa d’oro; da Lutero invece una risposta indicibilmente sconcia e villana. Enrico allora fece comporre da Tommaso Moro e da Giovanni Fischer una nuova confutazione contro l’eresiarca. Soltanto più tardi si rivolse a Lutero, ma per ottenere un parere favorevole al suo divorzio. Del resto anche dopo, sotto il regno di Enrico, il Protestantesimo non si sovrappose allo scisma dalla Chiesa Cattolica: solo si diffuse e trionfò più tardi sotto il regno di Elisabetta, e sotto la dittatura di Cromwel. Enrico VIII volle sottrarsi alla potestà papale non per un pretesto appariscente, per un motivo religioso, per un desiderio di riforma, ma per soddisfare alle sue basse voglie. Si era pazzamente invaghito di una giovane dama di corte, Anna Boleyn e la voleva sposare ad ogni costo, nonostante fosse già legittimamente legato in matrimonio con Caterina d’Aragona. Ecco il nobile motivo della lotta di Enrico VIII contro la Chiesa Cattolica! Il Papa non volle, né poteva accondiscendere alla conferma del divorzio regale: ebbene il Papa non sarà più riconosciuto. Se Clemente VII, calpestando la coscienza e l’onore, lacerando le pagine più belle del Santo Vangelo, avesse ceduto dinanzi a Enrico, l’Inghilterra non si sarebbe separata da Roma. Può esser giudicata impresa di Dio quella che è determinata da motivi così indegni? Può esser stimato strumento di Dio un re che ripudia la sua legittima moglie dopo vent’anni di matrimonio e dopo averne avuti parecchi figli, per congiungersi con un’altra donna? Un re che per raggiungere il suo sozzo scopo non esita a ricorrere alla corruzione più sfacciata, per ottenere dai grandi e dai potenti del regno l’approvazione del suo passo fatale? Che per questo non dubita di suscitare uno scisma e di spargere a torrenti tanto sangue innocente? Che passa con una facilità sorprendente e disinvolta da una donna all’altra? Dopo il divorzio da Caterina di Aragona, si congiunge in matrimonio nel 1533 con Anna Boleyn, ma, invaghitosi di Jane Seymour, fa dichiarare nullo il matrimonio con Anna che viene decapitata nel maggio 1536 per supposto adulterio. Morta poi anche la Seymour poco tempo appresso, egli si unisce nel gennaio 1540 con Anna di Clèves: abbandonata presto costei sposa nel luglio 1540 Caterina Howard che pure finisce sul patibolo nel 1542. Finalmente il 1542 vede il sesto ed ultimo “matrimonio” di Enrico con Caterina Parr.
• Ecco quale fu il fondatore della “chiesa” Anglicana! È vero: egli riesce a realizzare il sogno di sottrarre sé e l’Inghilterra dalla supremazia papale: ma per imporre con raggiri, promesse, minacce e violenze senza numero la supremazia sua sopra la Chiesa. Quando mai Gesù affidò l’incarico di reggere la sua Chiesa a re ed a potenti della terra? Enrico stesso si rese conto che la sua supremazia sulla Chiesa era in contrasto colla volontà di Dio, colle tradizioni millenarie della Chiesa, col sentimento del clero e popolo d’Inghilterra e non si fondava che sul suo solo arbitrio regale. L’«Atto di supremazia», ratificato dal Parlamento nel novembre 1534, mentre solennemente proclama la supremazia ecclesiastica del re e la impone con pene severe contro tutti gli oppositori senza addurne ragione alcuna, è chiaro ed eloquente indizio della novità e dell’arbitrarietà della cosa. Tali essendo i fondatori, non è meraviglia che anche al Protestantesimo sia riuscito una impresa disgraziata e disastrosa. Sì; il Protestantesimo non fu una riforma ma una distruzione. Ciò è quanto abbiamo brevemente indicato fin dal principio del nostro opuscoletto; ora cercheremo di mostrarlo.
• Il Protestantesimo fu distruzione della morale. Lo si era inaugurato come una reazione alla corruzione dilagante, e invece non fece che aggiungere corruzione a corruzione. Non c è bisogno per persuadercene che impieghiamo molto tempo a compulsare i documenti dell epoca. Ci basti ricordare il furto con dilapidamento sacrilego dei beni della Chiesa, per impinguare i già grassi signori, senza che il popolo ne ricevesse il più piccolo vantaggio: ci basti accennare agli orrori inauditi e selvaggi della ribellione dei contadini e della sua feroce repressione. Del resto Lutero lo ammette esplicitamente. Egli stesso depreca con frasi forti e sdegnose la corruzione senza pari del centro della riforma di Wittemberg, che gli fa quasi rimpiangere, sotto questo aspetto, l’epoca del Papismo. I capi della città danno esempi scandalosi di lussuria e di avarizia insaziabile, (v. Tischreden IV n.n. 4073-4381). L’anno 1539 scrivendo a Giovanni Mantel si lamenta: «Come Loth soffro il martirio in questa abominevole Sodoma » (Erl. LV, p. 250). Non aspetta che la fine del mondo che ponga termine a tanti mali. Finalmente nel luglio 1545, stomacato di tanto fango, si allontana da Wittemberg, e da Feitz scrive alla moglie: « Il mio più grande desiderio sarebbe di non più tornare a Wittemberg. Vendi tutto, giardino, campo e casa... Il meglio per te sarà di partire prima della mia morte e di stabilirti a Fulsdorff... Vattene dunque: abbandona questa Sodoma» (Enders XVI, p. 270). Né poteva essere diversamente! Non vogliamo con ciò affermare che i Protestanti siano tutti perversi, e che solo i Cattolici siano moralmente buoni. No! Ma mentre il male è contrario ai princìpi cattolici ed esplicitamente e vigorosamente da essi condannato, non si può purtroppo affermare lo stesso del Protestantesimo. Se l’uomo non è libero di evitare il male, come si può ragionevolmente insistere perché lo fugga? Quale forte pretesto non è mai questo per chi è tentato ad abbandonarsi senza resistenza alle perverse inclinazioni! La fede nei meriti di Cristo supplirà alle umane debolezze! [: quanta utopia, quanta ignoranza, quanta eresia, ndr.]. Dunque quel tanto di moralità e di virtù che ancora si può ammirare presso singoli Protestanti, si dovrà ascrivere non alla loro religione, ma ad altre cause, al lume del buon senso non ancora spento, alla forza delle esigenze sociali, alla coercizione delle leggi umane.
• Il Protestantesimo fu distruzione delle verità dogmatiche. La cosa è tanto manifesta che non ha bisogno di lunga dimostrazione. Quot capita tot sententiae! è la conseguenza logica e necessaria del principio del libero esame, e della follia di interpretare individualmente, e contro la Chiesa, la Bibbia. Già lo rilevava anche Lutero ai suoi tempi: «Nella riforma quasi tante sette, quante teste» (Weimar XVIII, p. 547). Si tentò allora di sopprimere la pluralità di opinioni con la violenza o col progettare adunanze di Concili: ma a che prò, se non esiste sulla terra alcuna autorità religiosa infallibile? La dissoluzione dogmatica del Protestantesimo è diventata ormai una cosa spaventosa. Quale verità, quale dogma è rimasto incolume? Non si è messa in dubbio la stessa divinità di Gesù Cristo? Non vediamo noi oggi la corrente cristiano-tedesca sotto la guida del cosiddetto vescovo del Reich tentare di interpretare la persona e l’opera di N. Signore secondo il mito ariano?
• Il Protestantesimo fu distruzione dell’organizzazione ecclesiastica. In luogo della gerarchia fornita di potere di ordine e di giurisdizione, e connessa agli Apostoli attraverso una lunga serie ininterrotta di Vescovi, non abbiamo che dei pastori senza poteri e senza vero prestigio, regolati e governati essi stessi dalla comunità dei fedeli. In luogo dell autorità di coloro che Gesù stesso pose a reggere la Chiesa sua, abbiamo lo strapotere dello stato. Si è abbattuta l’autorità legittima del Papa, e si è caduti sotto l’imperiosa schiavitù dei prìncipi! «Cuius regio, eius religio!»: Ecco la massima vigente nella riforma. Quale stato umiliante per la fede di Cristo! Caso tipico accaduto ai nostri giorni. I cosiddetti ecclesiastici ed i sedicenti vescovi della “chiesa” Anglicana stabiliscono di portare alcune riforme al libro liturgico di preghiera (Prayer Book): ma il Parlamento britannico non è dello stesso parere, e la riforma inesorabilmente cade. (Anno Domini 1927)! Le questioni della liturgia e del dogma soggette ad un profano parlamento in cui siede anche gente di religione diversa, o anche senza alcuna religione! Si può dare assurdità maggiore?
• II Protestantesimo non solo ha portato la distruzione nel campo ecclesiastico, ma pure in quello scientifico, sociale e civile. Interessante sarebbe seguire gli influssi deleteri del Protestantesimo in tutti questi campi; ma la tirannia dello spazio non ci permette che di accennarvi di sfuggita. Il principio del libero esame ha portato nel campo scientifico e sociale a quasi tutti gli errori moderni, segnatamente al razionalismo, all’idealismo, al materialismo con tutte le sue propaggini di ateismo, socialismo, bolscevismo. Nel campo strettamente civile, oltre alle conseguenze sopra accennate, è da riconoscere l’infaustissimo liberalismo come figlio genuino del Protestantesimo, e la statolatria come derivazione della totalità di poteri conferiti ai governanti. Sommo danno al vivere civile fu poi la disgraziatissima separazione dell’Europa in due campi. Chi può immaginare gli sviluppi meravigliosi che la causa della civiltà e della pace avrebbe avuto se l’Europa fosse rimasta unita e compatta anche nei campo religioso? Chi stenterà ad ammettere che l’evangelizzazione e la civilizzazione dei popoli barbari sarebbe ormai di molto assai progredita se non del tutto compiuta? Se l’Inghilterra [che ha colonizzato mezzo mondo, ndr.], per esempio, fosse rimasta cattolica, non è evidente che ora la vera Chiesa di Cristo già si assiderebbe trionfante su tutti i continenti?
• Oh sì, concludiamo: il Protestantesimo non fu un'opera di riforma, ma di rovina; non fu un progresso nel bene, ma un regresso verso il caos del male: Per causa sua l’Europa, la Civiltà, il Cristianesimo rimasero gravemente feriti!
Per il P. Carlo Bozzola e per gli onesti autori menzionati: + Réquiem aetérnam dona eis, Dómine, et lux perpétua lúceat eis. Requiéscant in pace. Amen. +
A cura di CdP
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[In alto lo stemma della teosofia]. Stimati Associati e gentili Sostenitori, purtroppo con il cosiddetto illuminismo abbiamo assistito alla vastissima diffusione di ogni superstizione, della stregoneria e, soprattutto, dello spiritismo. Spiritismo, sedute medianiche, tavola Ouija, interrogazione dei defunti, prodigi!!! Parole udite spesso, parole che gettano nell’animo talora un senso di sgomento e di paura; talora una forte curiosità di conoscere più in particolare quanto contengano in sé. Questo vago sgomento, questa forte curiosità passano, ma lasciano sempre in noi un punto interrogativo: «Quale è l’atteggiamento della Chiesa e dei cattolici di fronte allo spiritismo?». Affrontiamo prudentemente l’argomento con l’aiuto del volumetto SOS «La Chiesa e lo Spiritismo», Ferdinando M. Palmés, Serie V, n° 89, imprimatur 1943.
• Spesso gli spiritisti hanno tentato di sfigurare, falsificandolo, l’atteggiamento della Chiesa, non favorevole alle loro dottrine; e d’altra parte vi sono molti i quali, sebbene non professino lo spiritismo, sanno confusamente che la Chiesa Cattolica, sin dal primo apparire dello spiritismo, ha assunto un atteggiamento di aperta opposizione, ma ne ignorano i limiti, la portata e i motivi. Per procedere ordinatamente ed evitare confusioni, dobbiamo tener presente che altro è l’insegnamento ufficiale del Magistero ecclesiastico, insegnamento accettato unanimemente da tutti i cattolici, altro sono le opinioni di alcuni cattolici, che riguardo qualche punto particolare possono essere e di fatto sono tra di loro discrepanti, pur mantenendosi nei limiti della ortodossia. Dobbiamo inoltre distinguere due ordini generali di questioni, che, pur avendo relazioni vicendevoli, sono però completamente indipendenti per quanto riguarda l’atteggiamento della Chiesa di fronte allo spiritismo: 1° Al primo ordine appartengono questioni che riguardano le dottrine e le pratiche superstiziose degli spiritisti; 2° Al secondo si riducono tutte le questioni che si propongono o che possono proporsi sulla natura dei fatti addotti dagli spiritisti come fondamento delle loro pratiche e dottrine.
• La Chiesa contro le dottrine e la pratica dello spiritismo. Quanto alle dottrine e pratiche dello spiritismo la Chiesa sin dal principio si è dimostrata evidentemente contraria, ha continuato ad esserlo, e lo sarà sempre. Se si può notare qualche cambiamento nell’atteggiamento della Chiesa riguardo alla pratica, è soltanto un senso di maggior severità nella proibizione fatta ai cattolici di prender parte, sotto qualunque pretesto, alle sessioni spiritiche. I documenti ufficiali, con cui la Chiesa ha condannato lo spiritismo, sono per lo più lettere pastorali di vescovi, o decreti di concilii diocesani o provinciali (Notevole specialmente il decreto del Secondo Concilio di Baltimora, Stati Uniti, nel 1866) e pochissime decisioni della Santa Sede. E queste decisioni della Santa Sede non sono solenni definizioni ex cathedra; non ne valeva la pena, perché lo spiritismo non ha dottrina sua propria e ben definita, ma soltanto un cumulo indigesto di un gran numero di errori mille volte confutati ed infallibilmente condannati dalla Chiesa; mentre le sue pratiche non differiscono sostanzialmente da quelle di molte altre sette ed eresie che sono andate comparendo di tempo in tempo. Perciò le decisioni della Santa Sede si riducono a pochi documenti del Santo Uffizio. Di questi il più ampio e nello stesso tempo il più antico, è la lettera enciclica che il Santo Uffizio diresse a tutti i Vescovi dell’Orbe cattolico il 4 Agosto 1856 sulla liceità o illiceità del cosiddetto magnetismo, incaricandoli di vigilare sugli abusi e sulle superstizioni che vi si mescolavano, tra le quali deve segnalarsi la pretesa evocazione delle anime dei defunti, pratica propria dello spiritismo. Ecco tradotte dal testo latino le parole che più c’interessano: «Quindi (derivano) i prestigi del cosiddetto sonnambulismo e chiaroveggenza, prestigi ai quali donne senza decoro s’abbandonano sotto l’azione di passi, dove non sempre è rispettato il buon costume. In questo stato esse van dicendo che vedono cose occulte d’ogni genere, e con temeraria audacia presumono tener discorsi di religione, evocare le anime dei defunti, ricevere da loro risposte, svelare cose ignote e lontane, con il che certamente procurano grandi guadagni a sé e ai loro impresari. In tutto ciò, qualunque sia la parte che vi abbiano l’artifizio e la prestidigitazione, poiché si ricorre a mezzi naturali per ottenerci effetti che eccedono l’ordine della natura, vi si trova una pratica del tutto condannabile, infetta d’eresia e di scandalo contro i buoni costumi». (D.B., Enchiridion, n. 1654). L’ultima risposta data in questa materia è quella della Congregazione del Santo Uffizio, in data 27 Aprile 1917 (Acta Apostolicae Sedis, 1° Giugno 1917, pag. 268): «Al dubbio se sia lecito, o col cosiddetto medium o senza di esso, impiegando o no l’ipnotismo, assistere a locuzioni o a manifestazioni spiritistiche di qualsivoglia specie - anche sotto colore d’intenti onesti e pii - sia interrogando le anime e gli spiriti, sia ascoltando i responsi, sia assistendo come semplici spettatori, anche con la dichiarazione tacita od espressa di respingere qualsiasi solidarietà con gli spiriti maligni»; gli Eminentissimi Cardinali della Congregazione risposero: «Negativamente in tutto». Oltre a questi due documenti, vi sono poche altre risposte del Santo Uffizio a casi particolari, .’in cui si ripete sempre la formula: «Prout exponitur, non licere». Nella forma con cui si espone il caso, non è lecito. È quindi fuor di dubbio che la Chiesa si oppone alle dottrine e alla pratica dello spiritismo.
• I motivi della proibizione della Chiesa. II motivo di questo atteggiamento della Chiesa si è che le dottrine sostenute dagli spiritisti sono apertamente false e opposte al Dogma cattolico, almeno in gran parte delle loro asserzioni; e la pratica è superstiziosa e moralmente deleteria. Anzitutto le pratiche dello spiritismo, in qualunque modo esso venga esercitato, sono sempre superstiziose; è superstizione infatti pretendere di comunicare sperimentalmente con le anime dei defunti o degli spiriti dell’aldilà, e con queste comunicazioni cercare di ottenere delle conoscenze di ordine naturale o soprannaturale, che sorpassano il campo della scienza raggiungibile dall’intelletto umano con le sue forze naturali. E poiché la superstizione è sempre intrinsecamente illecita, basterebbe questo solo motivo per dichiarare che lo spiritismo è proibito dalla legge naturale, anche senza un intervento positivo (ossia dichiaratorio, ndr.) della Chiesa. Ma per questo solo motivo non sarebbe proibita la semplice assistenza passiva alle sedute spiritiche senza intenzione di prendervi parte e solo per curiosità o per rendersi conto di quanto vi si compie. Se dunque la Chiesa proibisce anche la semplice assistenza (decreto del 1917) ciò vuol dire che vi sono anche altri motivi; e questi sono il pericolo di perversione morale e religiosa, e lo scandalo. Infatti, anche prescindendo dal comportamento morale di quelli che partecipano alle sedute, e che non sempre è quale dovrebbe essere, (sarebbero necessarie non poche pagine per esporre le immoralità a cui dan luogo bene spesso quella sedute, tenute in un ambiente semi-oscuro con la promiscuità dei due sessi), non si può dubitare che le dottrine riferite dai medium, come ricevute dall’aldilà, sono non di rado contrarie ai dettami della morale cristiana e sempre opposte, almeno implicitamente, alle verità rivelate. L’opposizione dello spiritismo alla verità rivelata è evidente, poiché le sue dottrine, sebbene talora si presentino esposte con formule analoghe a quelle del cristianesimo, sono in gran parte, se non del tutto, contrarie a quelle del Dogma cattolico. False sono le opinioni degli spiritisti intorno a Dio, agli spiriti, all’anima dell’uomo; false e contro la fede le sue asserzioni sul fine dell’uomo e sulle pene e i premi dell’altra vita, sulla divin tà di Gesù Cristo, sulla Ss.ma Vergine, sui santi e su tutto l’ordine soprannaturale. Di conseguenza è chiaro che quanti assistono alle sedute spiritiche, anche solo per semplice curiosità, corrono un grave pericolo di perversione, sia per la fede che per la morale, e tale pericolo a causa delle circostanze è maggiore di quello che si dia nella lettura di opere empie od immorali. E portiamo qui la testimonianza di uno che per lunghi anni credette di trovare nello spiritismo la soluzione di tutti i suoi dubbi (Costantino De Simone Minaci, «I limiti dello spiritismo» in FIDES, Settembre 1942 pag. 425). «Nelle sedute medianiche, nelle retrostanze delle massonerie del tempo, (al principio del secolo) nelle famiglie degli adepti si rifaceva la carta teologica dell’universo spirituale, e dalle relazioni degli spiriti sorgevano questi dogmi: eternità della materia, pluralità dei mondi, reincarnazione delle anime, Gesù Cristo gran Maestro della verità che si rivelava non Dio, non Figlio unigenito del Padre, non seconda persona della SS.ma Trinità, ma, annunciatore come lo erano stati Budda, Confucio, Maometto... Il risultato più vicino era che coloro che erano presi in questo creolo magico di esperimenti si allontanavano dalle verità cristiane, e i cattolici tiepidi ... finivano per dubitare della Bibbia. Conosco io persone che, pur ritenendosi ancora cristiane, non si recavano più alla Messa o ai culti, e meno alla comunione. Esse si convincevano di aver conosciuto il nucleo di tutte le religioni, con stupido orgoglio si credevano superiori ai loro fratelli che consideravano catecumeni ...». Finalmente ultimo motivo della proibizione della Chiesa è lo scandalo che darebbe agli altri chi, anche senza correre pericolo di pervertirsi, o di essere ingannato dai medium e dagli spiritisti, si permettesse di partecipare alle loro sedute. La sua partecipatone infatti, specialmente se si trattasse di persone di una certa autorità, indurrebbe molti altri a seguire il suo esempio, con tutto il seguito d’inconvenienti già considerati prima. Orbene la Chiesa cattolica, che in tutti i tempi è stata fedele al suo divino mandato di conservare integro il deposito della fede e di preservare i fedeli da tutto ciò che può nuocere alla loro salute eterna, non poteva venir meno al suo dovere anche nella presente questione. E perciò non ha mancato di avvertire i fedeli, e continuerà ad avvertirli, dei gravi pericoli che le dottrine e la pratica dello spiritismo presentano per la fede, i buoni costumi e la religione. E ne viene di conseguenza la proibizione di prender parte, in qualsiasi modo, alle sedute spiritiche.
• La Chiesa contro la scienza. Vi è chi nella proibizione della Chiesa ha voluto vedere un attentato alla libertà della scienza. Nulla di più falso. Infatti le pretese ricerche psicologiche degli’ spiritisti (e anche dei metapsichici) non sono che una parodia delle ricerche ed investigazioni scientifiche, e perciò la Chiesa, nel proibire alle persone incolte la partecipazione alle sedute spiritiche, non solo non compie nulla contro la libertà della scienza, ma anzi allontana quegli elementi che sono evidentemente inetti a far progredire d’un sol passo la vera scienza e ne garantisce la serietà. Del resto quando le folle si entusiasmano per lo spiritismo, e improvvisano esperienze spiritiche, organizzano gabinetti oscuri, consultano le tavole giranti o i medium, non sono mosse dall’amore disinteressato della vera scienza e del vero progresso (da non confondere col diabolico progressismo, ndr.). Quello che si cerca e si desidera - anche a costo d’una perturbazione cerebrale - è di entrare in comunicazione con l’aldilà, di svelare il mistero d’oltretomba e giungere ad incontrare quelli che la morte strappò ai nostri occhi e al nostro affetto. Questa non è scienza, è superstizione.
• I limiti della proibizione della Chiesa. Si replicherà che la Chiesa, con la sua proibizione, pone nella impossibilità morale di studiare i fenomeni spiritici non solo il volgo, ma anche gli specialisti e gli scienziati, specialmente i cattolici, i quali non potranno esaminare e decidere per propria esperienza quanto di vero o di falso vi sia nelle asserzioni degli spiritisti. Questa difficoltà si fonda sopra un falso presupposto. I moralisti e i canonisti interpretano in due modi diversi i limiti del decreto del Santo Uffizio del 1917; ma in entrambi i casi non è precluso agli scienziati cattolici lo studio immediato dei fenomeni spiritici. Alcuni seguono l’interpretazione del P. Vermeersch (Theol. Mor. Principia, Reponsa, Consilia, Roma, 1924, Tom. II, n. 248), secondo il quale non si può dire che assista come semplice spettatore l’uomo di scienza che voglia intervenire alle sedute medianiche, per scoprire e denunciare le frodi, per screditare questa pratica superstiziosa e per prevenire l’errore di molti. Sicché nel caso che sia rimosso lo scandalo altrui, e specialmente se i superiori ecclesiastici giudichino opportuna la sua partecipazione, questa, secondo il Vermeersch, non sarebbe inclusa nella proibizione del Santo Uffizio. Altri moralisti ritengono che il medesimo decreto non ammetta eccezioni, ma tutti convengono che la Chiesa, quando non si tratta di cooperazione formale alla superstizione, e rimosso il pericolo di perversione e di scandalo, può dispensare dalla legge generale, dando licenza di assistere alle sedute spiritiche, per studiare in modo veramente scientifico la vera natura dei fenomeni che vi si svolgono. Che se le ricerche seriamente scientifiche da parte di cattolici sinora sono state scarse, la colpa non è della Chiesa, bensì proprio degli spiritisti, i quali esigono da chi assiste delle condizioni assurde, che una scienza imparziale non può accettare se non vuol restare vittima delle frode e della superstizione.
• I fatti. Non è così facile rispondere al secondo ordine di questioni riguardanti la natura dei fatti addotti dagli spiritisti, perché troppe sono le domande che si fanno e si devono fare. Dobbiamo enumerarle ? Eccole: 1° I fatti allegati dagli spiritisti sono autentici, almeno alcuni, o sono tutti veramente apparenti o illusori, dovuti al trucco e alla prestidigitazione ? 2° Ammesso che alcuni di questi fatti siano autentici, quale è la loro natura in relazione alla scienza naturale? 3° Data la necessità di ammettere, almeno in alcuni casi più notevoli, l’intervento di uno spirito, quale è to spirito che si comunica: Anime di defunti? Spiriti buoni? Spiriti cattivi? Come si vede sono molte e diverse le questioni. Qualcuno vorrebbe sentire qui più a lungo la parola della scienza; ma questa trattazione esamina l’atteggiamento della Chiesa. Perciò per una più esauriente risposta scientifica alle prime due domande, rimandiamo il lettore all’approfondito libro sullo spiritismo di Fernando Palmés: «Metapsiquica y espiritismo», Razon y fè, Madrid, 1932.
• Che dice la Chiesa? Vedremo più avanti la risposta alla terza domanda sulla natura dello spirito che si comunica. Per ora fermiamoci a considerare che dice la Chiesa a proposito delle prime due domande. L’atteggiamento ufficiale della Chiesa è stato finora, salvo errore, quello di una completa astensione: essa ciò non ha studiato e giudicato i singoli fatti, né ha proibito agli scienziati cattolici di trattarne. E ne trattarono teologi, filosofi, psicologi, moralisti cattolici: scrissero e dedussero molto sull’autenticità, natura ed interpretazione della fenomenologia propria dello spiritismo; ma la Chiesa non si è pronunciata per nessuna delle molteplici e contrarie loro opinioni. Non già che la Chiesa non abbia il potere di dichiarare quale sia la verità anche in questa materia quando lo credesse opportuno; né la trattiene l’aspetto straordinario dei fatti spiritici; né molto meno li giudica impossibili. Infatti sono senza numero i fatti meravigliosi e straordinari attorno ai quali la Chiesa si pronuncia ufficialmente, principalmente nelle cause di beatificazione e di canonizzazione dei Santi; ora rifiutandoli, perché non sono provati a sufficienza o perché li giudica illusori; ora approvandoli come autentici, e anche come preternaturali o soprannaturali dando ai fedeli la sicurezza che non cadranno in errore ammettendoli come tali. Lungi da noi dunque l’affermare che la Chiesa non abbia mai detto nulla riguardo a fatti meravigliosi e straordinari; ma affermiamo che finora la Chiesa nei suoi documenti ufficiali non ha deciso nulla sulla natura dei fatti spiritici.
• I cattolici che ne dicono? Dalla libertà di discussione lasciata dalla Chiesa col non pronunciarsi su questo punto, nacquero tra i cattolici molte diverse opinioni: alcune appena divergenti tra loro, altre proprio contrarie, tutte però dentro la più pura ortodossia, e senza opporsi in nulla all’atteggiamento della Chiesa.
• Intendiamoci sui termini. Siccome i fatti studiati, presi in considerazione e a lungo discussi, sono fatti meravigliosi, premettiamo una breve delucidazione sul termine meraviglioso. C’è il meraviglioso antiscientifico, scientifico, prescientifico, estrascientifico. Il meraviglioso antiscientifico è il meraviglioso apparente, ottenuto per trucco o per arte di prestigiatore. Anche i ciarlatani e i saltimbanchi sono maestri in quesito. Meraviglioso scientifico è ciò che è realmente meraviglioso, e che è nondimeno realmente conosciuto dalla scienza attuale nella sua natura, cause e leggi, così ad esempio il telegrafo, la radiotelefonia, l’aviazione. Meraviglioso prescientifico è ciò che, essendo rigorosamente autentico, non trova ancora nella scienza attuale la sua spiegazione, che tuttavia si spera di trovare in un prossimo o lontano futuro, quando la scienza abbia progredito di più. Ad esempio si possono mentovare i fenomeni di telepatia, e forse anche quelli di telecinesi. Col nome di telepatia s’indica l’intercomunicazione d’individui, posti anche a molta distanza, ottenuta con mezzi diversi dall’ordinario, e che si esplica in particolari sensazioni. Oggi da molti ogni trasmissione di pensiero, ottenuta indipendentemente dai sensi, dicesi telepatia, anche se si ottiene tra persone vicine. La parola telecinesi è un neologismo introdotto recentemente per indicare una serie di fenomeni in cui degli oggetti si muovono senza alcun contatto con la persona che si ritiene sia la causa del movimento. Alla telecinesi appartengono le tavole giranti ed i vari fenomeni di levitazione. Il meraviglioso prescientifico, col progresso della scienza passa ad essere meraviglioso scientifico: così la radiotelefonia è oggi meraviglioso scientifico, mentre un tempo forse sarebbe stata classificata meraviglioso prescientifico. Meraviglioso estrascientifico è quello che non solo non trova spiegazione nella scienza attuale, ma che inoltre presenta tali caratteri di opposizione alle leggi della natura, che la scienza, per quanto possa progredire in futuro, non potrà mai spiegarlo, salvo che ammetta come false le certissime leggi di natura che ora conosce. Esempio del meraviglioso estrascientifico è la risurrezione d’un morto.
• I fatti spiritici sono autentici? Dicendo fatti intendiamo fatti meravigliosi; per questo abbiamo premesso il precedente paragrafo. Autentico per noi equivale a non finto, non fraudolento o non illusorio. La opinione unanime di tutti, senza eccettuare gli stessi spiritisti (che non siano giunti ancora al grado supremo del loro fanatismo), è che non tutti i fatti spiritici sono autentici: si riconosce che non mancò né la frode né l’illusione. Solo qualche volta, o molto spesso o sempre? Non mancano coloro che stanno per quest’estremo, mostrandosi assolutamente scettici su quanto riguarda lo spiritismo. Molti invece preferiscono affermare che nello spiritismo vi sono fatti autentici, in maggiore o in minore numero. La prima opinione, che nega l’autenticità a tutti i fatti spiritici, non può essere ragionevolmente sostenuta. Così ad esempio sembra che non si possa proprio negare che i medium nelle loro estasi cadano nella- ipnosi, non in un modo finto ma in un modo reale; infatti allora accadono in essi i fenomeni propri di questo stato di mente. Nemmeno possono dirsi una finzione la scrittura automatica - che consiste nel fatto che il medium si ponga a scrivere sotto un impulso apparentemente esteriore e senza aver coscienza di quello che scrive - o i moti delle tavole, potendo intervenire il contatto in modo incosciente e non per trucco, da parte del medium e dei circostanti, né si possono mettere in dubbio altri fenomeni psicologici reali. Tutti fatti però, che, per un erudito psicologo, cadono nel meraviglioso scientifico.
• Natura dei fenomeni spiritici. Risolto il primo interrogativo sulla autenticità dei fenomeni in questione, eccoci al secondo: qual è la natura del meraviglioso di questi fatti? Si riducono tutti al meraviglioso scientifico o prescientifico, ovvero appartengono anche all’estrascientifico? I cattolici, sebbene, conseguentemente alla dottrina cattolica, non possano accettare certe spiegazioni superstiziose, tuttavia non convengono in una sola interpretazione: varie sono le loro opinioni. Le diverse soluzioni della questione si possono ridurre a tre.
• Soluzione positivista. I fautori di questa soluzione dicono: il meraviglioso spiritico non è e non può essere che un meraviglioso scientifico o prescientifico: quindi ogni fatto autentico deve avere una spiegazione nella scienza attuale o nella futura. (Notiamo che questo modo di ragionare è applicato dai positivisti anche ai fatti meravigliosi dei Santi). Sostengono quest’opinione un gran numero di studiosi delle scienze positive; costoro, a cagione di una formazione filosofica deficiente o per essere abituati a non trattare che di fenomeni concreti e sensibili, negano ogni valore alle conclusioni filosofiche e non ammettono altro sapere che quello chiamato positivo e sperimentale. Tutti stono in grado di capire che quest’opinione non risolve la questione, per ciò stesso che nega a priori i fatti preternaturali. Ordinariamente i positivisti non sono veri cattolici.
• Soluzione metapsichica. I metapsichici sono convinti d’essere arrivati, con i loro procedimenti, alla constatazione sperimentale dell’autenticità di non pochi fatti o conoscenze nuove, inesplicabili per le facoltà normali. Questi fatti - dicono - sarebbero così incompatibili con la scienza attuale, che il loro studio e sistemazione darà vita a una nuova scienza naturale, la metapsichica, scienza rivoluzionaria che sconvolgerà la scienza attuale fino a distruggerla e sostituirla completamente. La natura pertanto dei fatti spiritici va cercata - secondo loro - negli esistenti fenomeni occulti o metapsichici, opposti alla scienza, attuale. Staremo a vedere che cosa ne salterà fuori! Anche questo non è vero cattolicesimo.
• Soluzione Integrale. Soluzione integrale chiamiamo quella che ammette non soltanto il meraviglioso antiscientifico, prescientifico, scientifico, ma anche, nei casi in cui c’è ragione di farlo, quello estrascientifico, e l’intervento di fattori preternaturali o soprannaturali. Solo questa soluzione è d’accordo con la filosofia cristiana ed il dogma cattolico; è la più completa, la più ragionevole e l’unica che sia libera da apriorismi e da pregiudizi, e che ammette tutto quello che di vero c’è negli altri atteggiamenti, rifiutando tutto il falso e il contrario alla vera scienza. Essa ammette il meraviglioso estrascientifico, provato dalla filosofia cristiana e dalla Sacra Scrittura. D’altra parte accetta quanto vi è di affermativo e di costruttivo nell’atteggiamento positivista: la Chiesa nell’esame dei miracoli non ha forse un atteggiamento simile? Quanti esami e verifiche prima di dichiarare un fatto preternaturale o miracoloso ! Quanto ai fatti spiritici, come già accennammo, l’atteggiamento della Chiesa è di una totale astensione: non ci consta infatti l’esistenza di un solo documento ufficiale in cui la Chiesa dica d’aver istituito qualche processo e d’aver dato una decisione circa la natura estrascientifica di questi fatti. Dal punto di vista cattolico, quindi, nulla si può opporre a coloro che, con maggiore o minore facilità, ammettono l’esistenza di fatti extrascientifici o preternaturali nello spiritismo. Tuttavia affermiamo che gli argomenti e i modi di procedere di coloro che difendono la preternaturalità di questi fenomeni sono deficienti dal punto di vista critico e scientifico; di più costoro, troppo facili a credere, non seguono l’esempio della Chiesa Cattolica, così lenta e prudente nel dare un giudizio su fatti meravigliosi. Il contegno di questi cattolici rasenta, (se pure non vi incappa), la leggerezza e l’imprudenza Se la soluzione integrale accetta quanto v’è di buono nella soluzione positivista, non accetta però nulla dai matapsichici: le loro dottrine sono in evidente opposizione agli insegnamenti della Chiesa; volere spiegare fatti che, se sono autentici, devono essere tenuti come extrascientifici, e quindi suscettibili solo d’una spiegazione preternaturale, con una scienza naturale futura, completamente opposta alla presente, questo è oltrepassare i limiti.
• La questione dell’intervento diabolico. Eccoci finalmente alla terza domanda: « Data la necessità d’ammettere, almeno in alcuni casi più, notevoli l’intervento di uno spirito, qual è lo spirito che si comunica? Anime di defunti, spiriti buoni, spiriti cattivi?». Inutile dire che su questo punto c’è una grande diversità di opinioni tra gli stessi cattolici nominali. Ecco i due estremi: 1° Negare l’intervento preternaturale diabolico in tutti i fatti di spiritismo; 2° Affermare che quest’intervento è cosa poco meno che ordinaria. Fra le diverse opinioni la più diffusa tra i filosofi, teologi, moralisti, è la seguente: Molti fatti appartengono al meraviglioso antiscientifico; altri, pure molti, a quello scientifico o prescientifico, qualcuno si deve ritenere extrascientifico preternaturale, e deve attribuirsi non ad anime di defunti, non a spariti buoni, ma al demonio. Questa era pure la nostra opinione - aggiunge il Palmés - prima che intraprendessimo il nostro lungo studio, durato più anni, sullo spiritismo e la metapsichica. Ecco ora a quali conclusioni ci ha portato questo studio.
• Intervento diabolico indiretto. Chiamiamo intervento diabolico indiretto quello che non ha nulla di preternaturale, come per esempio l’intervento del demonio nelle ordinarie tentazioni. È di fede che il demonio - come dice l’Apostolo San Pietro (I Petri, V, 8-9) - va in giro come un leone ruggente in cerca di chi divorare; e perciò l’Apostolo inculca ai cristiani la necessità di vigilare e di resistere forti nella fede, certi che per vincere non mancherà la grazia di Dio, se la si chiede con la preghiera. Ora questi attacchi dello spirito maligno non richiedono un suo intervento diretto, poiché gli basta servirsi delle cause molteplici con le quali l’uomo può essere indotto al peccato e alla prevaricazione: tali sono i libri cattivi, la stampa empia e oscena, le cattive compagnie, i balli impudici, gli spettacoli immorali, le case di perdizione e innumerevoli altri mezzi. Tra questi, oggidì, bisogna annoverare - e tutti i cattolici lo ammettono - anche le pratiche e le dottrine spiritiche, le quali, anche se si fondano su fenomeni illusori, esercitano una tale attrattiva su molti individui di scarsa fede o di vacillanti costumi, da allontanarli dalla vera religione ed avviarli per la via della perdizione. (Anche il modernismo, che è «sintesi di tutte le eresie», fa precipitare nel naturalismo massonico, nel fideismo cieco, nel positivismo fanatico, quindi nell’ateismo e sovente nella superstizione. Provo tanta pena per quei cattolici - spesso inconsapevoli - che cercano riparo e redenzione contro lo spiritismo, tuttavia nelle chiese occupate dai modernisti a seguito del Vaticano Secondo. Ordinariamente la toppa è peggiore del buco, ndr.). Quest’intervento diabolico indiretto nello spiritismo, basterebbe da sé solo a legittimare le espressioni di molti autori ascetici, predicatori e moralisti, che, per allontanare i fedeli dalla superstizione dello spiritismo, la qualificano come diabolica.
• Intervento diabolico diretto in fatti non spiritici. Noi cattolici non esitiamo per nulla ad ammettere fatti straordinari ed extrascientifici, preternaturali e soprannaturali. Quanti fatti di questo genere ci attestano la Sacra Scrittura, e le testimonianze storiche! Ora tra questi fatti si riferiscono non pochi casi di possessione diabolica, e apparizioni di ogni genere, di anime di defunti, come di angeli buoni e cattivi. Di qui dobbiamo dedurre che qualche cosa del genere avvenga nei fenomeni spiritici? Adagio, un passo alla volta: noi non dobbiamo ammettere l’intervento diabolico diretto, finché non si adducano le prove che abbiamo il diritto di esigere.
• Possibilità di un intervento diabolico diretto nei fenomeni spiritici. Noi ammettiamo e tutti ammettono tale possibilità, e per conseguenza ammettiamo che questi strani e meravigliosi effetti possano essere prodotti dagli spiriti cattivi. Quello però che, alla luce della filosofia e della teologia cattolica, non sembra possibile, è che Dio permetta che questi fenomeni preternaturali siano tanto frequenti ed ordinari, come pretendono gli spiritisti, e tanto meno che si possano ottenere a piacere dai medium o da chi assiste alle sedute spiritiche. Infatti i fenomeni preternaturali sono sempre un’eccezione rara, che non pregiudica la costanza delle leggi della natura, come sono dirette dai piani della Divina, Provvidenza. Quindi tutt’al più saranno pochissimi i fatti in cui ci sia l’intervento diabolico diretto. Orbene se in qualche caso particolare si fosse giunti alla verifica certa e incontrovertibile di non pochi fatti allegati dagli spiritisti, tali fatti dovrebbero tenersi con certezza come extrascientifici; e la causa che li produce non sarebbero le anime dei trapassati, come vogliono gli spiritisti, e neppure gli spiriti buoni, bensì gli spiriti cattivi. Infatti se fosse scientificamente provata la formazione istantanea di un essere vivente, che respira, parla e agisce come gli altri esseri viventi, per scomparire in seguito senza lasciare traccia di sé, come sarebbe avvenuto della Katie King di William Crookes, o coi fantasmi di Bien-Boa visti da Richet; o se una persona qualsiasi parlasse correntemente una lingua molto difficile, come il sanscrito, senza averla mai imparata, né udito, né letto alcunché come sarebbe avvenuto alla medium Elena Smith; o se alcuno avesse manifestato una cosa completamente occulta, che si provasse essere impossibile conoscere coi mezzi naturali, tutti questi casi dovrebbero ritenersi come estrascentifici. Ma allora, tenuto conto delle circostanze in cui tali fenomeni avvengono, dell’ambiente delle sedute spiritiche, del fine a cui tendono, e delle conseguenze che necessariamente ne seguono nell’ordine religioso e morale, non dubiteremmo un istante ad attribuirle all’intervento diretto dello spirito maligno. (Parimenti accade nei “miracoli”nelle false religioni, ndr.).
• Finora nessun fatto extrascientifico provato. Nel paragrafo precedente abbiamo fatto la ipotesi «se ci sono fatti estrascentifici autentici». Ora ci domandiamo: Si sono già dati fatti che, verificati scrupolosamente ed adeguatamente sono risultati estrascentifici o preternaturali? Dopo i nostri lunghi studi e le nostre ricerche - riferisce Palmés - siamo giunti ad una conclusione negativa: finora non si è mai provato con certezza che qualche fatto spiritico estrascientifico sia autentico e perciò non si può presentare nemmeno un caso in cui consti l’intervento diabolico diretto. In questo ci scostiamo dall’opinione di molti, che forse non hanno esaminato a fondo i fatti citati dagli spiritisti. Noi non affermiamo che non ci sia mai stato nessun fatto spiritico preternaturale; ma di tutti quelli da noi esaminati (ed abbiamo scelto proprio quelli che dagli spiritisti venivano citati come i più autentici e i meglio provati) non ne abbiamo trovato uno che non si riducesse alla sfera dell’antiscientifico, illusorio e fraudolento, o che non si potesse spiegare con le conoscenze della moderna psicologia sperimentale. Se si danno degli altri casi veramente preternaturali, se ne portino le prove, e nessuno può ragionevolmente pretendere che noi gli crediamo semplicemente sulla sua parola.
• Obiezioni. Se è vero che non si è mai verificato, nei fatti in questione, l’intervento diabolico diretto, come si spiega la grande quantità dagli spiritisti? Com’è possibile che dopo tanti insuccessi non abbiano ancora abbandonato le loro pratiche infruttuose? Rispondiamo, e tutti devono convenire, che è molto possibile, purtroppo, che sussistano per molto tempo superstizioni senza fondamento; i prodigi delle streghe e le fattucchiere, creduti numerosissimi in altre epoche dal volgo e anche da uomini di grande cultura, che fondamento avevano? Lo stesso può accadere per lo spiritismo. Ma la Chiesa ha proibito d’intervenire alle sedute spiritiche. Ora con ciò ha il suo giudizio sulla realtà dell’intervento diabolico; se no, bisogna dire che ha proibito innocenti giuochi di prestigio. La ragione non ha forza; anche concesso che siano semplici giochi di prestigio, gli effetti sono empi ed immorali, e gli atti stessi con cui si compiono, sono superstiziosi, e ciò è più che sufficiente per condannarli, come abbiamo visto più sopra.
• L’intervento diabolico in apologetica. Constatato il fatto che parecchi sostengono l’intervento diretto del demonio nei fenomeni dello spiritismo, per le conseguenze pratiche che ne derivano nel campo dell’apologetica e della morale, vogliamo citare in breve il frutto del nostro studio anche su questo punto. Ci fermiamo al campo apologetico: parecchi cattolici ammettono facilmente l’intervento diabolico diretto per avere così in mano un argomento efficace per combattere i nefasti errori dello spiritismo, e anche per ottenere che i fedeli cattolici si astengano da qualsiasi seduta spiritica. Non neghiamo che questo si possa ottenere riguardo a coloro che hanno idee chiare ed esatte su che cosa sa il demonio, come di fatto l’hanno i cattolici ferventi ed illuminati dei quali non si illanguidita la fede. Sì, a costoro basta accertare l’intervento diabolico nelle sedute spiritiche, perché se ne astengano e le condannino pur essi. Ma non tutti sono cattolici ferventi. Quindi se con questo argomento si vogliono convincere gli spiritisti o coloro che, allontanatisi più o meno dalla Chiesa, simpatizzano per lo spiritismo, si sbaglia strada. Ne abbiamo esperienza: con costoro l’argomento non solo non è efficace, ma produce talora l’effetto contrario. Coloro infatti che simpatizzano per lo spiritismo o che si sono già famigliarizzati con le sue pratiche e dottrine, son ben lungi dall’avere verso il diavolo quell’orrore ragionevole che ne ha un credente cattolico. Gli spiritisti, poi, che non si spaventano dell’intervento diabolico indiretto, neppure temono quello diretto, anzi lo ammettono volentieri, senza temere d’incorrere in alcun pericolo. Si comprende quindi che addurre loro l’intervento diabolico come motivo per cui debbano lasciare le pratiche spiritiche, è puerile e di nessun effetto. Anzi con gli spiritisti si ottiene l’effetto contrario: essi vengono confermati di essere giunti a comunicare con gli spiriti dell’aldilà. E questo è ciò che a loro più interessa, per non dire unicamente. A loro poco importa quali siano i pretesi spiriti che si comunicano, buoni o cattivi, angeli o demoni; si neghi pure tutto il resto della loro dottrina, essi saranno sempre soddisfatti, se si ammette che riescono a comunicare con gli spiriti, siano pure cattivi. L’apologetica quindi su questo punto deve cambiare indirizzo. Resta però fermo che se si dà un fatto extrascientifico autentico bisogna, qualunque sia la nostra mentalità, riconoscervi l’intervento diabolico diretto. Nei casi dubbi, nonostante tutta la buona volontà e tutti i desideri di apologetica, si deve imitare il contegno della Chiesa, che non dichiara mai la preternaturalità di un fatto senza prima prendere tutte le precauzioni possibili e senza servirsi di tutti i mezzi che per la verifica hanno diritto di esigere la scienza più rigorosa, e la più esigente critica.
• I fatti spiritici e la scienza futura in apologetica. Se l’indirizzo apologetico esaminato or ora non è raccomandato per gli inconvenienti che ha in sé, a più forte ragione è da riprovarsi il secondo indirizzo, contrario al primo. Il primo dimostra l’empietà dei fenomeni spiritici con l’intervento diabolico diretto; questo secondo vuol dimostrare che le affermazioni degli spiritisti, d’essere in comunicazione con spiriti dell’aldilà, sono false; ammette pertanto con somma leggerezza, purtroppo, la autenticità dei fatti spiritici meravigliosi, ma cerca di darne una spiegazione naturale per mezzo di una scienza futura contraria all attuale (proprio come i metapsichici). Così questi autori cattolici, apologeti, pretendono spiegare con la scienza futura non soltanto i fenomeni di telecinesia e di telepatia ma anche quelli di ectoplasma, la cui realtà ammettono con grande leggerezza. Così, ad esempio, il P. Mainage nel suo libro «La réligìon spirite», nel quale propone una spiegazione naturale della ectoplasmia. [Si dice ectoplasmia la produzione di ectoplasma. Ectoplasma, poi, sarebbe una sostanza misteriosa (un fluido?) che sembra uscire dal corpo del medium, prendendo vari aspetti, fino a rappresentare degl’interi esseri viventi; in seguito l’ectoplasma viene riassorbito dal medium. In molti casi apparve chiara la frode; così il P. Heredia scopri che là famosa medium Eva Carrière si serviva abilissimamente d’un pezzo di mussolina per dare lo spettacolo di materializzazioni. Anche la fotografia rivelò la realtà del preteso ectoplasma: certi volti comparsi nella semi-oscurità erano fotografie o disegni ritagliati]. Torniamo al punto. Questo atteggiamento da parte di autori cattolici ha lo stesso inconveniente del primo. Esso ammette facilmente come reali ed autentici ogni classe di fatti e considera come scettici coloro che davanti ad essi preferiscono una posizione critico-filosofica. Inoltre, ammettendo l’autenticità dei fatti e volendo spiegarli con la scienza futura, dimostrano la possibilità di uno spiritismo senza spiriti. Perché allora i supposti autentici fenomeni meravigliosi non si ottengono che nelle sedute medianiche da individui che agiscono con mentalità superstiziosa? Si aggiunga che fantastiche e insussistenti sono le spiegazioni che se ne danno, e quanto mai oscure in confronto delle spiegazioni che ne danno gli spiritisti stessi. Il loro valore apologetico quindi sfuma, senza alcun vantaggio, e con lo svantaggio d’aver approvato e confermato il meraviglioso spiritico.
• La vera posizione davanti al meraviglioso spiritico. È facile comprendere che, chi desidera studiare per qualunque motivo il meraviglioso spiritico, deve prendere davanti ai fatti allegati quella posizione criticamente serena che è la posizione oggettiva propria della scienza. Nessuna prevenzione, nessun pregiudizio deve preoccupare l’intelletto, neppure il pensiero di ottenere la benevolenza degli spiritisti. La scienza non si decide ad ammettere la autenticità o la preternaturalità dei fenomeni solo perché mossa dallo schiamazzo dei «Si» dello spiritismo, o dalle pseudoscientifiche esperienze dei metapsichici! [Purtroppo oggi, nel 2020, la cosiddetta scienza sempre più spesso si dimostra, al contrario, parimenti ancella e dominatrice della pubblica opinione, quest’ultima già manipolata ad hoc attraverso indottrinamento mediatico e pseudoscolastico, ndr.].
• Gli spiritisti e l’apologetica. È interessante vedere il diverso contegno che tengono gli spiritisti davanti agli apologeti che seguono le suesposte condotte diverse. Le prime due: si possono ridurre ad una che chiameremo la “condotta dei credenti”; la terza la chiamiamo “condotta dei critici”. Davanti ai “credenti” essi si rallegrano come trionfatori, bandiscono, strombazzano ai quattro venti le testimonianze di tutti coloro che in qualche modo ammettono l’autenticità di almeno qualcuno dei loro fenomeni; lodano la loro gran sapienza e perspicacia, fanno conoscere e propagano i loro libri, ancorché libri di autori cattolici scritti con lo scopo di confutare lo Spiritismo.
[Nota di redazione, Carlo Di Pietro: Anni fa pubblicai dei libri in cui criticavo lo spiritismo, le stregonerie, eccetera ... Sbagliai grossolanamente adottando, appunto, il metodo dei creduloni, condito di altri numerosi errori blu ereditati dai cosiddetti “carismatici”. Faccio pubblica ammenda e spero, per ciò che mi resta della vita, di poter rimediare con l’aiuto della grazia di Dio. Miei libri, a riguardo, da usare per alimentare il caminetto od il barbecue: «Il Burattinaio», «Diavoli, come riconoscerli e proteggersi», «Tutto sui diavoli», «Preghiere di guarigione psico-fisica e di liberazione dal demonio», «Esorcismi, benedizioni, imposizioni delle mani ... chi può farli?». Qualcosa può essere salvato, tuttavia è preferibile che seguano la medesima sorte dei primi: «I Santi e il Demonio» e «I Diavoli - Guida essenziale. Compendio di demonologia». Non si può pretendere di insegnare ciò che non si conosce: Dio mi perdoni per aver giocato con la Religione!].
Torniamo al tema. Se al massimo gli spiritisti si lagnano che questi autori non giungano ad ammettere la verità dello spiritismo, si sentono però soddisfatti che almeno ammettano i fenomeni. E in ciò giungono a vedere un cambiamento d’indirizzo della Chiesa cattolica, la quale lasciando, secondo loro, la sua posizione intransigente e severa, andrebbe avvicinandosi allo Spiritismo; esprimono persino la speranza che un giorno finirà per ammetterlo. Una speranza, si capisce! ma molto eloquente a conferma di quanto abbiamo detto! Davanti ai veri critici, [ai sapienti, ndr.], gli spiritisti non mostrano altro che la più profonda avversione; s’arrabbiano, s’infuriano, passano alle ingiurie, li chiamano oscurantisti, ignoranti; ben lungi dal propagare i loro libri ed esaminare i loro argomenti con serietà, mostrano verso di loro disprezzo e sarcasmo, pari al disprezzo e sarcasmo con cui parlano di quella che essi chiamano la scienza attuale. A qualcuno, anzi a più d’uno, parranno esagerate queste affermazioni, ma noi siamo consci a noi stessi che esse rispondono alla verità. Basta leggere le riviste di spiritismo per convincersene.
• Un caso eloquente. Ci troviamo davanti al Padre Lucien Roure, e al Padre Mainage. Tutti e due hanno scritto nello stesso tempo parecchi libri sullo spiritismo; tutti e due sono uomini di scienza e scrittori molto accreditati; tutti e due lavorano da molti anni nella confutazione degli errori spiritistici nella capitale della Francia; tutti e due periti nelle vicende dello spiritismo; ma il primo è critico, il secondo è credente. Orbene nella «Révue spirite», organo dello spiritismo francese, si possono leggere le grandi lodi tributate dagli spiritisti al P. Mainage, mentre per il P. Roure si tiene un contegno ben diverso. Citiamo soltanto alcune parole d’un articolo:«Ho fatto - dice l’autore - una conferenza in Annecy, il 9 Giugno, pregato dal Dott. Gustavo Geley. Ero stato avvertito che in città dominava l’influenza cattolica che sarebbe stata preponderante nel mio uditorio. La mia prima precauzione fu quella di leggere all’uditorio queste parole del P. Mainage: “Io confesso molto candidamente e senza aspettare il giudizio definitivo della scienza, di credere all’oggettività dei fenomeni spiritici”, e lo scetticismo confessionale non potè più obbiettare nulla» (Novembre 1928). Non deve dunque fare meraviglia se le case editrici e propagatrici di tutte le opere dello spiritismo e delle sette anticattoliche, raccomandino con encomi le opere degli autori cattolici cosiddetti «credenti», e si astengano invece dal nominare i libri dei critici. Così, ad esempio, in un catalogo di opere della casa Maucci di Barcellona, intitolato«Indice bibliografico di opere di Spiritismo, Metapsichica, Occultismo, Orientalismo, Teosofia, Magia, Scienze occulte, Massoneria, Naturalismo, Vegetarianesimo, e altra letteratura stimolante» [dottrine di padrone comune: Satana, ndr.), la opera sullo spiritismo del P. Mainage, ora accennata, è raccomandata con queste parole: «Descrizione curiosissima dei meravigliosi fenomeni dello spiritismo. Analisi della sua dottrina. Utilissima ai credenti; interessantissima agl’increduli. Amena come un romanzo». Gesù ci allertava sulla massima astuzia dei figli delle tenebre.
• Alcune note e conclusione. Negli ultimi 25 anni non pochi studiosi cattolici concordano con le conclusioni esposte in quest’opuscolo [che noi abbiamo digitalizzato, studiato, trascritto e qui commentato, ndr.]. Così quasi con le stesse parole scriveva il chiarissimo P. Gemelli: «Vi sono dei fatti, dei quali è certo che debbano essere attribuiti al diavolo? Evidentemente non spetta a noi deciderlo. Coloro che lo affermano debbono portarci le prove, escludendo in modo assoluto ogni spiegazione naturale» (A. Gemelli- «Religione e scienza» - Milano, Vita e Pensiero, 1922, pag. 182). Lo stesso affermano in sostanza il P. Patrick J. Gearon O. C. C. («Lo spiritismo e il suo fallimento», Torino, Marietti, 1934), E. Ugarte de Ercilla (in «Razon y Fé», Sett. 1923, p. 105-108) e più recentemente il P. Petazzi S. J. («Spiritismo moderno», Trieste, 1934, p. 154). Alcuni attenuano l’espressione, come Luciano Roure, il quale, pure appartenendo ai critici, a pag. 359 del suo libro «Lo spiritismo davanti alta scienza e alla religione» (Milano, 1921) scrive: «È bene ricordare che certi fatti veramente straordinari e addirittura inesplicabili, che la storia dello spiritismo registra, paiono dimostrare che tale intervento di esseri intelligenti ed incorporei, vi fu qualche volta realmente». Più apertamente il P. Angelo Zacchi O. P. a pag. 233 di «Lo spiritismo e la sopravvivenza dell’anima» (Roma Ferrari, 1922) ritiene che «la fenomenologia straordinaria, per quanto ridotta ai minimi termini, non potrà scomparire completamente». Questa è ancora l’opinione di molti, opinione rispettabilissima e che pare appoggiarsi al decreto del II Concilio di Baltimora (a. 1866): «Sembra un fatto ben determinato che un gran numero dei fenomeni meravigliosi che si dice abbiano luogo negli ambienti spiritici, sono finzioni, o prodotti da una cospirazione fraudolenta tra gli operatori, oppure devono essere attribuiti alla immaginazione di persone chiamate medium, o alla credulità degli spettatori, o finalmente a certi giuochi di mano come usano fare i prestigiatori. Tuttavia sembra non sia luogo a dubitare che almeno certe cose (sono) dovute ad intervento satanico, poiché sarebbe difficile lo spiegarle in altro modo soddisfacente».
Per il P. Ferdinando M. Palmés D. C. D. G. e per gli onesti autori menzionati: + Réquiem aetérnam dona eis, Dómine, et lux perpétua lúceat eis. Requiéscant in pace. Amen. +
A cura di CdP
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Stimati Associati e gentili Sostenitori, che cos’è la Bibbia? Intendiamo fornire una rapida risposta tratta dal «Dizionario di teologia dommatica» (Piolanti - Parente - Garofalo), cui seguiranno numerose sentenze del Santo Uffizio, della Commissione Biblica e del Pontefice San Pio X. Il sostantivo italiano Bibbia riproduce il plurale neutro greco βιβλία ( = i libri) che passò nel latino medievale e nelle lingue moderne come singolare femminile per indicare il complesso dei libri ispirati da Dio altrimenti detti Sacra Scrittura o Sacre Scritture. Mentre il greco metteva in luce il carattere composito del libro divino: la molteplicità dei libri da esso contenuti; il latino ne mise in evidenza l’autore e lo spirito unico. I 74 libri che compongono la Bibbia sono distribuiti in due grandi sezioni: il Vecchio ed il Nuovo Testamento (seguiranno le due voci). Il termine Testamento secondo il valore del vocabolo ebraico originale (berith) e del greco che fin dall’inizio lo tradusse, può indicare o che quei libri contengono le disposizioni con le quali Dio prometteva (Vecchio Testamento) e concedeva (Nuovo Testamento) ai suoi fedeli i beni culminanti nel possesso della eterna felicità, o può designare la serie dei patti (si usa perciò parlare di Antico e Nuovo Patto) e delle alleanze con le quali, nel corso dei secoli, Dio legò a sé gli uomini in vista della loro redenzione. II Vecchio Testamento, inizialmente patrimonio sacro del popolo ebraico che Dio elesse come depositario delle sue promesse di redenzione, passò poi, completato dal Nuovo Testamento, in legittima eredità alla Chiesa, che è il vero Israele, l’autentico popolo eletto, a favore del quale si realizzarono le antiche promesse divine. L’attuale legislazione ecclesiastica (Codex Iuris Canonici 1917, cc. 1391, 1399, 1400) proibisce ai fedeli le versioni in lingua volgare che non abbiano l’approvazione della Sede Apostolica e che non siano pubblicate sotto la vigilanza dei Vescovi, e corredate di note estratte dai Padri e dagl’interpreti cattolici. Le edizioni dei testi originali e delle antiche versioni e le traduzioni curate da acattolici sono permesse (esclusivamente) agli studiosi.
• Il Canone della Bibbia. Designa la collezione o il catalogo di quei libri che, per essere ispirati da Dio, sono la «regola» della verità e della vita. Canonico è, perciò, un libro che si trova nel canone, in quanto è ispirato da Dio e come tale è stato dalla Chiesa riconosciuto. Dal secolo XVI in poi si usa chiamare protocanonici i libri sulla cui origine divina fin dall’inizio si ebbe il consenso unanime di tutta la Chiesa, e deuterocanonici quei libri della cui ispirazione si ebbero dei dubbi fino al secolo V circa. Il termine deuterocanonico non ha un valore assoluto in quanto esso non indica un libro che in un secondo momento è stato introdotto nel Canone; anche i libri di cui si discuteva erano fin dall’inizio ricevuti nel Canone della Chiesa. Attualmente gli Ebrei (il falso Israele, ndr.), seguiti dai Protestanti (i falsi cristiani, ndr.) che hanno influito anche sulle cristianità dissidenti, ripudiano i seguenti libri deuterocanonici del Vecchio Testamento: Tobia, Giuditta, Sapienza, Ecclesiastico, Baruc, I e II dei Maccabei, brani di Ester e Daniele, libri e testi tutti scritti e conservati in greco. I deuterocanonici del Nuovo Testamento sono: le Lettere agli Ebrei di Giacomo, la II di Pietro, la II e la III di Giovanni, di Giuda alle quali va aggiunta l’Apocalisse. Apocrifi sono libri di titolo e contenuto affine a quelli del Vecchio o al Nuovo Testamento, ma non riconosciuti dalla Chiesa come ispirati ed esclusi dal Canone. I Protestanti chiamano apocrifi i libri deuterocanonici riservando a quelli che noi chiamiamo apocrifi il termine pseudepigrafo ( = con falso titolo).
• Inerranza della Scrittura. L’inerranza è l’immunità da ogni possibilità di errore e da ogni errore di fatto che compete alla Sacra Scrittura in virtù della sua ispirazione divina. Già San Giovanni afferma che «la Scrittura non può smentirsi» (X, 35) e l’antichità cristiana, nonostante le varie tendenze esegetiche, è stata sempre unanime nel ritenere l’inerranza dei Sacri Testi. Papa Leone XIII nella Enciclica «Providentissimus Deus» afferma: «Tanto non può sotto l’ispirazione covare alcun errore, che essa non solo esclude ogni errore ma è necessario che lo escluda e lo respinga quanto è necessario che Dio, somma verità, non sia autore d’alcun errore» (EB, 109). L’inerranza della Sacra Scrittura è un domma di fede (cfr. EB, 433). EB abbreviazione di «Enchiridion biblicum».
• Ispirazione della Sacra Scrittura. Dal latino inspirare = soffiar dentro, e, in senso traslato, infondere, detto in modo speciale di sentimento: nel senso ecclesiastico ispirazione è, in genere, un influsso o mozione di Dio nell’anima e più propriamente nella volontà, ma i Teologi sono soliti indicare con questo termine un impulso carismatico che muove l’uomo a comunicare agli altri quanto Iddio vuole sia comunicato. Quando la comunicazione è orale si ha l’ispirazione profetica, quando è scritta l’ispirazione agiografica biblica. San Paolo (II Tim. III, 16-17) afferma che «tutta la Scrittura è ispirata da Dio» e San Pietro (II Petr. I, 2) dà la ragione di questa ispirazione: «Gli uomini di Dio hanno parlato mossi dallo Spirito Santo». Papa Leone XIII, nella grande Enciclica dedicata agli studi biblici, la «Providentissimus Deus» del 18 novembre 1893, così definiva la ispirazione: «È una azione soprannaturale per mezzo della quale Dio eccitò e mosse gli scrittori sacri a scrivere, li assistette nello scrivere di modo che essi concepissero rettamente col pensiero, volessero fedelmente scrivere ed esprimessero acconciamente con infallibile verità tutto quello che Egli voleva che esprimessero» (EB, n. 110). Secondo l’affermazione costante ed esplicita delle fonti della Rivelazione, Dio è autore delle Sacre Scritture. Egli non è però autore diretto ed unico in quanto ha creato così come sono i Libri Sacri, ma autore principale, al quale risale tutta la responsabilità dei Libri, che però si è servito per la loro compilazione e redazione degli uomini che sono autori secondari e strumentali. Essendo tuttavia l’uomo non uno strumento cieco ma cosciente e libero, ha un’azione sua propria che si manifesta nella forma esterna del libro. In tal senso si può parlare di uno stile di Isaia, di Geremia, di San Matteo, di San Paolo ecc. L’azione ispirativa di Dio nell’uomo importa: a) una illustrazione della mente per cui l’autore sacro percepisce rettamente quel che deve scrivere e ne giudica infallibilmente la verità o falsità; b) una mozione della volontà per cui Dio influisce nell’agiografo perché egli si decida a scrivere quel che ha concepito e giudicato; c) una assistenza alle facoltà esecutive perché, nella scelta delle parole e delle espressioni, siano premunite da errori o deviazioni che potrebbero compromettere la manifestazione del pensiero divino. Si noti che l’azione di Dio sulla mente dell’agiografo non è una rivelazione propriamente detta, perché l’agiografo può avere delle conoscenze sue, derivategli, per esempio, da una partecipazione diretta agli avvenimenti che narra, o acquisite precedentemente per intervento divino. La rivelazione è necessaria quando l’uomo deve comunicare da parte di Dio verità di ordine soprannaturale la cui conoscenza sfugge alle sue umane possibilità intellettuali. L’influsso ispirativo di Dio non è necessariamente avvertito dall’uomo, perché Dio agisce nelle creature ragionevoli senza violentarne la natura. Il Magistero solenne della Chiesa nei Concili Fiorentino, Tridentino e Vaticano ha definito che la ispirazione della Bibbia è un dogma di fede.
• Il Vecchio Testamento. È l’insieme dei 46 libri che costituiscono la prima parte della Bibbia, contenente la storia dell’antica Rivelazione e della preparazione degli uomini alla venuta del Messia, per mezzo del popolo d’Israele. Ecco l’elenco dei libri secondo la enumerazione e l’ordine consacrato dal Concilio di Trento nel 1546 (v. Canone): LIBRI STORICI: 1. Genesi (50 capitoli). 2. Esodo (40 cc.). 3. Levitico (37 cc.). 4. Numeri (36 cc.). 5. Deuteronomio (34 cc.). Libri di Mosè detti complessivamente Pentateuco (= cinque parti) e dagli Ebrei: Legge. Proseguiamo: 6. Giosuè (24 cc.). 7. Giudici (21 cc.). 8. Ruth (24 cc.). 9. I di Samuele o I dei Re (31 cc.). 10. II di Samuele o II dei Re (24 cc.). 11. I dei Re o III dei Re (22 cc.). 12. II dei Re o IV dei Re (25 cc.). 13. I dei Paralipomeni o delle Cronache (29 cc.). 14. II dei Paralipomeni o delle Cronache (36 cc.). 15. I di Esdra (10 cc.). 16. II di Esdra o Neemia (13 cc.). 17. Tobia (14 cc.). 18. Giuditta (16 cc.). 19. Ester (16 cc.). LIBRI DIDATTICI O SAPIENZIALI O POETICI: 20. Giobbe (42 cc.). 21. Salterio o Libro dei Salmi (150 Salmi). 22. Proverbi (31 cc.). 23. Ecclesiaste (12 cc.). 24. Cantico dei Cantici (8 cc.). 25. Sapienza (19 cc.). 26. Ecclesiastico (51 cc.). LIBRI PROFETICI: a) Profeti maggiori: 27. Isaia (66 cc.). 28. Geremia (52 cc.). 29. Lamentazioni (5 cc.). 30. Baruc (6 cc.). 31. Ezechiele (48 cc.). 32. Daniele (14 cc.). b) Profeti minori: 33. Osea (14 cc.). 34. Joele (3 cc.). 35. Amos (9 cc.). 36. Abdia (1 c.). 37. Giona (4 cc.). 38. Michea (7 cc.). 39. Nahum (3 cc.). 40. Abacuc (3 cc.). 41. Sofonia (3 cc.). 42. Aggeo (2 cc.). 43. Zaccaria (14 cc.). 44. Malachia (4 cc.). SEGUITO DEI LIBRI STORICI: 45. I dei Maccabei (16 cc.). 46. II dei Maccabei (15 cc.). Si tratta di un complesso armonioso di libri di vari autori e varie epoche, scaglionati in un periodo di tempo che va dal secolo XVI avanti Cristo al secolo II avanti Cristo. I libri storici iniziano la narrazione dalle origini dell’universo e dell’uomo e si concentrano sui fatti relativi al popolo d’Israele, dalle sue origini come nazione fino alla sua catastrofe ed ai tentativi di restaurazione (175-135 avanti Cristo). Il racconto non è né continuo né omogeneo e presenta sensibili lacune. I libri detti didattici, perché dedicati alla istruzione del lettore, sono chiamati anche sapienziali dal loro tema precipuo — la sapienza concepita come la perfetta conoscenza e la fedele pratica religiosa — o poetici per la loro forma letteraria. I libri profetici raccolgono memorie biografiche e sunti di discorsi dei profeti che Iddio inviò ad Israele tra il secolo VIII ed il V avanti Cristo, per preservarlo nella fede e rinfocolare le speranze messianiche. I libri del Vecchio Testamento sono scritti e conservati nella quasi totalità nella lingua ebraica; alcuni brani di Daniele e di Esdra e qualche sporadico versetto di altri libri sono scritti in lingua aramaica. Alcuni libri furono scritti originariamente in greco (Sapienza e II dei Maccabei), mentre di altri si è perduto l’originale e si conserva la sola versione greca (I dei Maccabei, Baruc, Giuditta, Tobia, Ecclesiastico, di cui furono ritrovati i due terzi del testo originale negli ultimi anni dello scorso secolo - diciannovesimo, ndr.). I libri del Vecchio Testamento furono scritti su papiro, o, per ottenere maggiore durata e resistenza, sulla pergamena ridotta in forma di striscia avvolta intorno a un’asta. Si conoscono circa 3000 manoscritti del testo ebraico; recentemente (1947) sono stati trovati in Palestina un manoscritto con l’intero libro di Isaia e altri frammenti biblici che risalgono all’epoca precristiana. Il testo che oggi leggiamo fu fissato nel I secolo dell’E. V. e corrisponde soddisfacentemente al-l’originale (v. Masoretico). L’attuale divisione in capitoli è del 1214 ed è dovuta a Stefano Langton; la divisione in versetti risale al 1528 ed è del lucchese Sante Pagnino. (Sull’elenco dei libri v. Canone). Il Vecchio Testamento forma una inscindibile unità con il Nuovo di cui fu «la figura» (I Cor. X, 6-11). Esso fu il «pedagogo» che condusse Israele al Cristo (Gal. III, 24) che era il fine del Vecchio Testamento (Rom. X, 4). Contenendo le comunicazioni multiple e frammentarie dell’antica Rivelazione divina, il Vecchio Testamento postula necessariamente il Nuovo che lo illumina e lo compie con la piena Rivelazione del Figlio di Dio (Ebr. I, 1-2). «Nel Vecchio Testamento — diceva Sant’Agostino (Quaest. in Hept. 2, 73) — si nasconde il Nuovo e nel Nuovo si manifesta il Vecchio».
• Il Nuovo Testamento. È il complesso dei 27 libri relativi alla storia di Gesù e della sua Rivelazione e dei primi tempi della Chiesa. Per analogia con i libri del Vecchio Testamento vengono divisi in tre categorie: LIBRI STORICI: 1. Vangelo secondo San Matteo (28 cc.). 2. Vangelo secondo San Marco (16 cc.). 3. Vangelo secondo San Luca (24 cc.). 4. Vangelo secondo San Giovanni (21 cc.). 5. Atti degli Apostoli (28 cc.). LIBRI DIDATTICI: a) Epistole di San Paolo: 6. Ai Romani (16 cc.). 7. I ai Corinti (16 cc.). 8. II ai Corinti (13 cc.). 9. Ai Galati (6 cc.). 10. Agli Efesini (6 cc.). 11. Ai Filippesi (4 cc.). 12. Ai Colossesi (4 cc.). 13. I ai Tessalonicesi (5 cc.). 14. II ai Tessalonicesi (3 cc.). 15. I a Timoteo (6 cc.). 16. II a Timoteo (4 cc.). 17. A Tito (3 cc.). 18. A Filemone (1 c.). 19. Agli Ebrei (13 cc.). b)Epistole di altri Apostoli o Cattoliche: 20. Di San Giacomo (5 cc.). 21. I di San Pietro (5 cc.). 22. II di San Pietro (3 cc.). 23. I di San Giovanni (5 cc.). 24. II di San Giovanni (1 c.). 25. III di San Giovanni (1 c.). 26. Di San Giuda (1 c.). LIBRO PROFETICO: 27. Apocalisse (22 cc.). Sono tutti scritti occasionali, ma hanno un tema unico: la storia della redenzione umana nella sua realizzazione e nei suoi sviluppi immediati e futuri. Per gli Evangeli vedere questa voce. Il libro degli Atti, scritto dall’autore del III Evangelo, offre a grandi linee la storia della fondazione e della diffusione della Chiesa prima nell’ambiente giudaico e poi nell’ambiente pagano, accentrando la narrazione intorno alle due grandi figure di Pietro e Paolo. La parte più considerevole dell’epistolario apostolico è dovuta a San Paolo, lo scrittore più vario, più potente e profondo del Nuovo Testamento. Tredici lettere portano, secondo l’uso greco-romano, il nome dell’autore nel saluto iniziale, ed una quattordicesima (agli Ebrei) gli è attribuita dalla Tradizione. La serie va dal trattato teologico al biglietto di raccomandazione, e, pur avendo avuto origine da circostanze particolari di comunità e di singoli, sono pervase da tale un’onda di divina eloquenza, da una tale pienezza di verità e di insegnamenti morali da farne un pascolo sempre attuale di vita. Le epistole degli altri Apostoli, dette cattoliche perché con destinazioni meno particolari, presentano gli stessi caratteri di occasionalità e di ricchezza teologica. L’Apocalisse di San Giovanni è l’unico libro profetico del Nuovo Testamento. Si apre con sette messaggi a sette Chiese dell’Asia minore e si diffonde a presentare, sotto forma di complicate e fantasmagoriche visioni, proprie del genere letterario apocalittico, le vicende della lotta tra il paganesimo e la verità cristiana che alla fine trionfa. Tutti i libri del Nuovo Testamento furono scritti e conservati in greco. Soltanto il Vangelo di San Matteo fu originariamente redatto in aramaico, la lingua parlata dai Giudei di Palestina, ma ben presto fu tradotto in greco, mentre dell’originale aramaico si è perduta ogni traccia. Finora si conoscono più di 4000 codici del testo greco del Nuovo Testamento. I più antichi frammenti, scritti su papiro, risalgono ai primi decenni del II secolo. La pergamena per la trascrizione del Sacro Testo venne in uso a partire dal IV secolo e la carta dal X secolo. L’attuale divisione del Nuovo Testamento in capitoli è, come quella del Vecchio Testamento, del 1214; la divisione in versetti è del 1555 ed è dovuta a Roberto Stefano.
• Gli Evangeli. Dal greco buona notizia, lieto messaggio: al tempo di Gesù e degli Apostoli l’Evangelo è la buona notizia della redenzione universale contenuta nella predicazione di Gesù, ma ben presto, durante la prima generazione cristiana, il termine indica i quattro libretti dei Santi Matteo, Marco, Luca e Giovanni, che contengono la storia dell’annunzio. San Matteo, chiamato all’apostolato dalla dogana di Cafarnao, scrisse il suo Evangelo con l’intento di dimostrare ai Giudei di Palestina che Gesù era l’atteso Messia perché in lui si compivano tutte le profezie antiche. San Marco, discepolo affezionato di San Pietro, conservò nel suo libretto il ricordo della predicazione viva dell’Apostolo ai Romani, nella quale la figura di Gesù Uomo-Dio era presentata con incantevole freschezza di particolari. San Luca, medico antiocheno e discepolo di San Paolo, raccolse con cura scrupolosa il materiale di detti e di fatti della vita del Signore più adatto alla istruzione ed edificazione delle comunità di fedeli venuti dal paganesimo. Questi tre primi Evangeli si assomigliano sostanzialmente nella trama generale della vita di Gesù ed anche nel modo di trattare la materia. Questa proprietà, che permette di disporre i tre racconti in colonne parallele in modo da abbracciare con un solo sguardo le narrazioni, li fa denominare sinottici, cioè «visibili insieme». L’Evangelo di San Giovanni, discepolo prediletto di Cristo, si distacca sensibilmente e dalla trama e dal modo di presentare i discorsi e i fatti di Gesù comune ai tre Sinottici. Egli dà massimo sviluppo al ministero gerosolimitano (di Gerusalemme, ndr.) che dai primi tre viene lasciato quasi in ombra, e durante il quale Gesù più spesso e con maggiore chiarezza parlò della sua divinità. L’autenticità dei quattro Evangeli è messa al sicuro da una ininterrotta serie di testimonianze storiche circostanziate e precise che si iniziano con Papia, vescovo di Gerapoli in Frigia e discepolo degli Apostoli (primi decenni del II secolo) e continuano di secolo in secolo senza contraddirsi o smentirsi. Oltre alle affermazioni degli scrittori che godono particolare autorità, come Sant’Ireneo (c. 140-202) vescovo di Lione e tramite tra l’Oriente e l’Occidente, si hanno anche documenti ufficiali come l’elenco dei libri del Nuovo Testamento chiamato, dal suo scopritore, Canone di Muratori e che fu scritto a Roma verso il 185. Autori e documenti sono echi di una tradizione che risale evidentemente ai primi anni della Chiesa e che è stata vagliata dal contrasto con gli eretici. Negli scrittori del II-III secolo si trova un così grande numero di citazioni del testo dei quattro Evangeli che essi potrebbero quasi integralmente essere ricostruiti. Un implacabile avversario del Cristianesimo primitivo, il filosofo epicureo Celso, che scriveva verso il 178, riconosce nei quattro Evangeli un’opera dei discepoli di Gesù e ricorda che gli eretici avevano tentato di piegarli alle loro dottrine per avvalersi di così autorevoli scritti. L’esame interno degli Evangeli, cioè della lingua, della mentalità ivi riflessa, dei costumi menzionati, dei riferimenti storici e geografici, confrontati con le più recenti e sicure scoperte, conferma l’autenticità dei quattro libretti affermata concordemente dalla tradizione cristiana. Quanto alla data degli Evangeli, consta che essi nel II secolo sono diffusi e riconosciuti in tutte le comunità cristiane di Oriente e di Occidente; devono, quindi, essere stati scritti nel I secolo. Le testimonianze storiche, convalidate dall’esame interno dei testi, permettono di concludere che i Santi Matteo, Marco e Luca scrivevano prima della distruzione di Gerusalemme (anno 70). Più precisamente San Matteo e San Marco pubblicarono i loro libretti prima della morte di San Pietro e San Paolo (a. 64 o 67); San Luca conclude bruscamente la narrazione degli Atti all’anno 62, e dichiara che il suo Evangeli ha preceduto questo secondo libro (Atti I, 1). Poiché le antiche testimonianze sono quasi concordi sulla priorità di San Matteo e di San Marco nei confronti di San Luca, i primi due Evangeli dovevano essere stati pubblicati prima del 60. Secondo alcuni studiosi l’Evangelo scritto da San Matteo risale al 42-50. Che l’opera dei quattro biografi di Gesù sia stata trasmessa integra fino a noi, risulta dalla eccezionale condizione di privilegio in cui viene a trovarsi il testo degli Evangeli. Sono ben 1500 i codici manoscritti del testo greco degli Evangeli; due di essi furono copiati nel IV secolo, mentre alcuni frammenti di papiri risalgono al III-II secolo. Molte antiche versioni in lingue occidentali ed orientali fanno da efficace controllo al testo greco trasmesso dai codici attuali. Molte migliaia di varianti del testo, delle quali nessuna ne compromette il senso in materia di dottrina e di morale, permettono di affermare che il testo greco degli Evangeli che noi oggi leggiamo è sostanzialmente identico a quello uscito dalle mani dei loro autori. Si noti che dei classici greci e latini non esiste nessun manoscritto anteriore al IX secolo dopo Cristo e rarissimi sono quelli più antichi del secolo XII. La storicità degli Evangeli, cioè l’aderenza dei loro racconti alla realtà dei fatti, è dichiarata dagli stessi autori (Lc. I, 1-4; Giov. XX, 30 s.; XXI, 24) ed era un postulato essenziale perché essi potessero essere accettati dalla Chiesa. D’altra parte nessuno avrebbe osato raccontare cose non vere od alterare fatti di cui esistevano testimoni gelosi come gli Apostoli e nemici accaniti come gli Ebrei i quali erano stati attori di primo piano nella vita di Gesù ed avrebbero avuto buon gioco nella loro polemica se avessero potuto trovare in fallo gli storici del Nazareno. Tutto ciò che di meglio può fare la tradizione letteraria ebraica è tacere della vita e dell’insegnamento del Maestro Galileo. La critica non cattolica contesta il valore storico di una parte considerevole degli Evangeli unicamente perché essa contiene fatti soprannaturali. Gli sforzi di questa critica che, dal secolo XVIII in poi, si condanna all’assurdo compito di spiegare la vita di Gesù escludendone ogni elemento soprannaturale, hanno avuto come risultato una «torre di Babele» (Loisy) di opinioni che polverizzano i testi senza uscire a cavarne un possibile costrutto. L’esegeta e biblista eretico Loisy è il capostipite dei moderni interpreti della Sacra Scrittura. Parte del complesso della predicazione moderna poggia verosimilmente su queste false interpretazioni della Scrittura e su questa critica tanto dissennata quanto assurda ed inconcludente. Il modernismo, e con essi i modernisti che infettano la Chiesa dall’interno, furono condannati a perenne infamia a partire da Papa San Pio X (Pascendi) e fino a Papa Pio XII (Humani generis). Al contrario, a partire da Roncalli (Giovanni XXIII) tutti questi infami ed eresiarchi fulminati dai Romani Pontefici, piano piano vennero riabilitati, fino a diventare «padri, esperti e periti del Concilio Vaticano II». Le loro esegesi ed i loro studi biblici, come del resto il complesso dello loro dottrine, sono ordinariamente peste per le anime e «sintesi di tutte le eresie», ndr..
• Autenticità di Libri Sacri. (... nel significato posteriore di autorità o autore di un libro): in senso giuridico indica che un libro fa autorità, ha un valore indiscusso e definitivo. Tertulliano (De praescr. haer. 16) sembra essere stato il primo ad applicare questo aggettivo ai Libri Sacri. Per opposizione ai libri apocrifi (v. Canone) scritti per iniziativa umana, le Sacre Scritture sono autentiche nel senso giuridico in quanto godono di autorità infallibile, perché ispirate da Dio, verità per essenza. Esse sono perciò documenti autentici della divina Rivelazione. Sono autentici nel senso pieno della parola gli autografi degli scritti ispirati e, in mancanza di questi, le copie in quanto riproducono fedelmente l’originale. Il testo ebraico del Vecchio Testamento e il testo greco del Nuovo Testamento sono, quindi, da ritenersi autentici. Una versione può dirsi autentica quando dall’autorità competente, cioè dalla Chiesa, venga dichiarata tale. Il Concilio Tridentino (EB, 41) dichiarò autentica la versione latina detta Volgata perché in uso già da molti secoli nella Chiesa, in quanto essa fa autorità, ha valore probativo in materia di fede e di morale. L’intensificarsi del metodo scientifico negli studi biblici diffuse molto il termine «autenticità» dandogli un senso che si può dire critico, in quanto si dice autentico un libro che è realmente dell’autore o del tempo al quale viene attribuito o la cui origine è legittima, non viziata da frode. Si tratta quindi della origine umana della Sacra Scrittura, della ricerca degli autori umani dei Libri Sacri, ricerca che, tranne i casi in cui si hanno delle affermazioni esplicite della Scrittura stessa o del Magistero della Chiesa, è condotta con l’ausilio dei mezzi d’indagine razionale.
• La Volgata. Volgata (= comune): è la traduzione latina della Bibbia, che la Chiesa usa e prescrive ufficialmente nel l’insegnamento, nella predicazione e nella liturgia. Il suo nome è derivato dalla larga diffusione che ebbe in tutto l’Occidente dal secolo VI in poi. Essa è dovuta a San Girolamo (+ 420) — Dottore massimo nella interpretazione della Sacra Scrittura —, ma non tutto, nella Volgata, è opera sua; alcuni libri sono ancora riprodotti secondo l’antica versione latina precedente a San Girolamo e condotta, per il Vecchio Testamento, sulla versione greca (Sapienza, Ecclesiastico, Baruch, I e II Maccabei), altri sono rivisti sul greco (Nuovo Testamento e Salmi); il resto è traduzione diretta dagli originali e opera personale del grande Dottore. Nel 1546 il Concilio di Trento definì la Volgata autentica, cioè immune da ogni errore in materia di fede e di morale, genuina fonte della Rivelazione, espressione fedele della parola di Dio scritta. Il Concilio non intese pregiudicare, con questo decreto, l’autorità dei testi originali della Bibbia e delle antiche versioni. Il Decreto fu provocato dalle incertezze sorte nelle controversie religiose del secolo XVI, quando i dotti, nel fiorire degli studi linguistici, vollero sostituire l’antica versione ecclesiastica con altre versioni frutto di privata fatica ed espressione di pensiero e di tendenze proprie dei singoli autori. Nello stesso tempo il Concilio ordinava la preparazione di una edizione corretta della Volgata che vide la luce dopo 50 anni di lavoro sotto il Pontificato di Sisto V nel 1590, e poi, in una successiva revisione, nel 1592, sotto Clemente VIII; perciò l’attuale edizione della Volgata è detta Sistino-Clementina. Nel 1907 Papa San Pio X affidava ai Benedettini l’incarico di preparare una edizione critica della Volgata (Libreria Editrice Vaticana) per eliminare le imperfezioni accumulatesi nel corso di lunghi secoli di continue trascrizioni. Fino al 1951 sono stati pubblicati 9 volumi, (fino a Giobbe).
• Gli Apocrifi. Per gli antichi, «apocrifo» era un libro che conteneva dottrine religiose riservate ad iniziati; nel linguaggio ecclesiastico, invece, era un libro non ammesso alla lettura pubblica nella comunità nonostante la somiglianza che esso presentava, per il nome del presunto autore e per il contenuto, con i libri ispirati della Bibbia. Apocrifo, quindi, è un libro da escludersi perché non canonico (v. Canone). Tali libri erano di provenienza sospetta e messi in circolazione da sètte che volevano dare autorevole fondamento alla loro dottrina. Alcuni, però, sono frutto della pia curiosità di lettori che non trovavano nei Libri Sacri tante minute notizie su persone e periodi della storia sacra e vollero completarle con informazioni qualche rara volta di buona fonte ma nella maggioranza dei casi frutto di fantasia. Alcuni di questi scritti in buona fede trovarono credito tra i fedeli e gli scrittori ecclesiastici. Nell’attuale edizione ufficiale latina della Bibbia sono riportati in appendice gli apocrifi libri III e IV di Esdra, e la preghiera del re Manasse: ispirati a testi canonici. Alcuni testi liturgici furono derivati dai suddetti due libri, per esempio il Requiem (IV Esd. II, 34 s.). Gli studiosi moderni dedicano particolare attenzione a questa considerevole produzione letteraria interessante per la conoscenza delle idee religiose e morali vigenti al tempo di Cristo. La vasta letteratura apocrifa, difficilmente accessibile ai lettori comuni, segue le grandi e minori divisioni dei due Testamenti. Gli Apocrifi del Vecchio Testamento, quasi sempre di autori giudei, sono di argomento messianico ed hanno talvolta subito interpolazioni cristiane. Qualcuno, come le Odi di Salomone, sembra di totale provenienza cristiana. Essi si possono distinguere, non certo adeguatamente, in libri storici, dedicati alle grandi figure del Vecchio Testamento, didattici, cioè di contenuto morale, e profetici o apocalittici, che riferiscono presunte rivelazioni sul mondo degli angeli, sui misteri della natura, sulla futura sorte d’Israele, sulla persona ed il regno del Messia. Tra gli apocrifi della prima classe è degno di nota il libro dei Giubilei o Piccola Genesi, scritto da un fariseo moderato verso la fine del II secolo avanti Cristo, in cui Mosè narra la storia del mondo dalla creazione fino all’esodo dall’Egitto, distribuendola in periodi giubilari di 49 anni. Altri libri: il III di Esdra, III dei Maccabei, l’Ascensione di Isaia, il Testamento di Salomone. Tra i libri didattici, sono notevoli: il Testamento dei Patriarchi, in cui i figli di Giacobbe profetizzano l’avvenire delle dodici Tribù da essi discendenti; i Salmi di Salomone e di David; le Odi di Salomone, il IV libro dei Maccabei. Dei libri profetici molto noto è il libro di Henoch, al quale probabilmente si riferisce l’apostolo Giuda nella sua lettera (v. 14 s.), che consta di vari scritti giudaici del II-I secolo avanti Cristo ed è importante per la conoscenza delle idee religiose dei Giudei del tempo di Gesù. Tra l’altro il Messia è detto «Figlio dell’Uomo». Altri libri: l’Assunzione di Mosè, il IV di Esdra, l’Apocalisse di Baruch, gli Oracoli sibillini, libro di propaganda giudaica tra i pagani. Gli Apocrifi del Nuovo Testamento rimontano ai secoli II-III dopo Cristo e vengono distinti in Evangeli, Atti, Epistole e Apocalissi. Il più diffuso evangelo apocrifo fu il Protoevangelo di Giacomo dedicato alla vita della Madonna e di San Giuseppe ed alla infanzia di Gesù. Ha avuto larghissima influenza sull’arte cristiana e la liturgia ne ha ricavato la festa della Presentazione di Maria al Tempio; altri evangeli portano i seguenti titoli: secondo gli Ebrei, degli Ebioniti, secondo gli Egiziani, di Pietro, di Tommaso, di Nicodemo. Degli Atti vanno ricordati quelli di Pietro, di Paolo, di Giovanni, di Andrea, di Tommaso. Anche l’epistolario apocrifo è molto ricco; ricordiamo: la lettera di Abgaro re di Edessa a Gesù e la risposta del Redentore, l’epistola degli Apostoli; la epistola di San Paolo ai Laodicesi, e la sua III lettera ai Corinti; le lettere scambiate tra Paolo e il filosofo Seneca. Delle Apocalissi si possono citare: l’Apocalisse di Paolo, di Pietro, di Tommaso. Si tratta, in generale, di una letteratura mediocre e farraginosa che tradisce l’imitazione dei modelli ispirati senza però avvicinarsi alla loro spontaneità ed equilibrio.
• L’esegesi. È l’arte di trovare e proporre il vero senso di un testo e, nel campo teologico, di un testo della Sacra Scrittura. È arte in quanto applica le norme di ordine razionale e di ordine teologico che la scienza ermeneutica stabilisce. Il processo di interpretazione di un testo biblico parte dalla fissazione del testo stesso mediante i princìpi della critica testuale e, per mezzo delle regole dettate dalla ermeneutica, ne dà la esatta esegesi, ricorrendo eventualmente alla critica letteraria per accertare il genere letterario del libro in cui è contenuto il testo in esame ed alla critica storica per ambientarlo nel suo tempo. Scopo supremo della esegesi è far brillare attraverso le parole umane la pienezza della luce e del pensiero divino.
• L’ermeneutica. È l’arte di interpretare i testi, e, in specie, i testi sacri della Bibbia. L’ermeneutica sta all’esegesi come la logica sta alla filosofia, in quanto l’arte ermeneutica stabilisce le leggi che la scienza esegetica applica per trovare il vero senso dei testi, come la logica stabilisce le leggi del retto ragionare. Le regole in uso per la interpretazione di testi profani antichi non sono del tutto adeguate ai testi biblici che presentano particolari difficoltà inerenti alla loro origine divina ed al loro aspetto religioso-dommatico, per cui essi sono fonte di rivelazione; il loro aspetto umano li sottopone alle comuni regole di interpretazione, ma la loro natura di testi ispirati esige un complesso di norme particolari (v. Ispirazione). Tre sono i compiti dell’ermeneutica: 1) ricercare che cosa sia e di quante specie possa essere il senso biblico, cioè la verità che Dio, autore principale della Bibbia, intende esprimere per mezzo delle parole scritte dall’agiografo, autore secondario; 2) stabilire i princìpi che regolano l’interpretazione della Bibbia; 3) studiare il modo più opportuno per proporre, secondo le varie esigenze dei lettori, il senso vero dei testi. Ognuna di queste parti ha un nome proprio: 1) noematica (... senso); 2) euristica (... trovo); 3) proforistica, (... propongo). I recenti documenti ecclesiastici in materia biblica, e specialmente le encicliche «Divino afflante Spiritu» (30 settembre 1943) e «Humani generis» (12 agosto 1950) di Papa Pio XII, hanno adeguato l’ermeneutica sacra al progresso delle scienze profane tutelando la perfetta armonia fra i diritti della ragione e i diritti della fede.
• Interpretazione della Sacra Scrittura. Rimandiamo al principio si Convergenza dei Padri menzionando alcune sentenze della Chiesa: già pubblicate su Sursum Corda. Papa regnante è Martino I. Leggiamo subito enunciato ed infine autoritativamente difeso il principio di convergenza dei Padri: «Se qualcuno non professa secondo i santi Padri […]. Se qualcuno […] empi eretici […] escogita temerariamente innovazioni e diverse esposizioni della fede (contro i santi Padri della Chiesa cattolica, cioè i cinque santi ed ecumenici Concilii), e, in breve, fa qualcos’altro che gli empi eretici sono soliti, per operare diabolico, compiere tortuosamente e con astuzia contro i pii e ortodossi annunci della Chiesa cattolica, cioè quelli dei suoi Padri e Sinodi, per sconvolgere la pura professione di fede […] e persevera fino alla fine, senza conversione, nel compiere empiamente queste cose, un tale sia condannato per i secoli dei secoli; “e tutto il popolo dirà: Sia, sia!”(Sal. 106, 48)» (Denzinger, 501-522). Papa regnante è Onorio I. Leggiamo il Simbolo trinitario-cristologico del Sinodo 4° di Toledo. Ritroviamo subito il principio di convergenza dei Padri: «In conformità con le Scritture divine e la dottrina che abbiamo ricevuto dai santi Padri, professiamo [.. segue il Simbolo trinitario-cristologico …]. Questa è la fede della Chiesa cattolica, questa professione di fede conserviamo e manteniamo; chi l’avrà custodita con grande fermezza, avrà la salvezza perpetua» (Denzinger, 486). Facciamo menzione a Papa Bonifacio II, Lettera «Per filium nostrum» al Vescovo Cesario di Arles, 25 gennaio 531. Conferma del 2° Sinodo di Orange (Denzinger, 399-400). Per avvalorare con l’autorità del Papa la sua dottrina della grazia, contro gli oppositori riuniti nel sinodo di Valenza, l’Arcivescovo Cesario di Arles richiese alcuni «pochi capitoli» al Pontefice. Il Sinodo provinciale d’Orange ebbe inizio il 3 luglio 529. Regnante era Papa Felice III. Tale Sinodo fu confermato da Papa Bonifacio II (Denzinger, 398-400). Leggiamo subito enunciato il principio di convergenza dei Padri: «[…] Ci è pervenuta (la notizia), che ci sono alcuni che circa la grazia e il libero arbitrio per semplicità vogliono giudicare con minore cautela e non secondo la regola della fede cattolica. Per cui ci è sembrato giusto e ragionevole, seguendo l’ammonizione e l’autorità della Sede apostolica, di dover proporre, affinché da tutti siano osservati, pochi capitoli trasmessici dall’apostolica Sede, che per opera degli antichi Padri sono stati raccolti dai libri delle sante Scritture, per il motivo soprattutto di ammaestrare coloro che giudicano diversamente di come è doveroso, e di dover sottoscriverli con le nostre mani [...]» (Denzinger», 370). In seguito viene confermato ancora il medesimo principio, infine viene esposta la dottrina da tenere. Papa regnante è San Leone I. Padri di Calcedonia, quarto Concilio ecumenico, Simbolo di fede del 22 ottobre 451, Sessione V. Impariamo sia la dottrina da tenere sulle due nature in Cristo, che il principio di convergenza dei Padri: «Di fronte a tutto questo, volendo impedire ad essi ogni raggiro contro la verità, l’attuale santo e grande concilio ecumenico che insegna l’immutabile dottrina predicata sin dall’inizio, stabilisce prima di tutto che la fede dei 318 santi padri dev’essere intangibile. E conferma la dottrina sulla natura dello Spirito Santo, trasmessa in tempi posteriori dai 150 padri raccolti nella città imperiale a causa di quelli che combattevano lo Spirito Santo [pneumatomachi]; i padri conciliari dichiarano a tutti di non voler aggiungere nulla all’insegnamento dei loro predecessori, come se vi mancasse qualche cosa, ma di voler solo esporre chiaramente, secondo le testimonianze della Scrittura, il loro pensiero sullo Spirito Santo, contro coloro che tentavano di negarne la signoria. Etc...». Con l’uso di questi santi documenti, stiamo dimostrando che la Chiesa insegna e difende costantemente, senza alcuna eccezione, la stessa immutata fede e dottrina cattolica sin dal primo e fino all’ultimo giorno. Stiamo altresì dimostrando che la Chiesa NON ammette che qualcuno ardisca interpretare la Sacra Scrittura secondo la propria fregola, discostandosi da quella convergente parola dei santi Padri e della stessa Chiesa. Chi si discosta da questo principio, generalmente, si caratterizza quale empio ed eretico. Sotto Papa Sisto III si attesta la «Formula d’unione» tra San Cirillo d’Alessandria ed i vescovi delle chiese d’Antiochia, nella primavera del 433. Questa Formula fu proposta dal Vescovo Giovanni d’Antiochia per accomodare alcune contese cristologiche perduranti dopo il Concilio di Efeso. Il Papa si congratulò con ambedue per l’unione. Leggiamo subito enunciato il principio di convergenza dei Padri: «Esporremo brevemente ciò che pensiamo e affermiamo della Vergine madre di Dio e dell’Incarnazione dell’unigenito Figlio di Dio non per aggiungere qualche cosa ma per confermarvi la dottrina che fin dall’inizio abbiamo appresa dalle Sacre Scritture e dai santi Padri, non aggiungendo assolutamente nulla alla fede esposta dai Padri a Nicea. Come infatti abbiamo premesso, essa è sufficiente alla conoscenza della fede ed a respingere ogni eresia. E parliamo non con la presunzione di comprendere ciò che è inaccessibile, ma riconoscendo la nostra debolezza ed opponendoci a coloro che ci assalgono quando consideriamo le verità che sono al di sopra dell’uomo» (Denzinger, 271, 272 e 273).
• Approfondimento. A cosa serve, pertanto, l’esegesi? A far brillare la pienezza della luce e del pensiero divino. L’esegesi di coloro i quali pretendono di dare lustro alle proprie opinioni, oscurando il pensiero divino, è, in realtà, una falsificazione tipicamente protestante o moderna. La Chiesa comanda di leggere la Scrittura attraverso la sapienza del Magistero (cf. Denzinger, 325, 3792s, 3826, 3828, 3888s, ecc…). Definisce solennemente che «l’estensione dell’ispirazione (divina) si estende a tutti i Libri riconosciuti dalla Chiesa con tutte le loro parti» (Op. cit., 1504, 3006, 3029). Poiché «il Canone, comprese le Lettere di San Paolo, fu stabilito dalla Chiesa» (Op. cit., 179s, 186, 213, 1335, 1520s) e «questo Canone deve essere riconosciuto esclusivamente e con tutte le sue parti» (Op. cit., 202, 213, 354, 1504, 1863, 2538, 3006, 3029). Senza l’intervento della Chiesa docente è impossibile riuscire a «decifrare l’ispirazione» e quindi anche a «comprendere correttamente la Scrittura», tanto che il dotto Sant’Agostino scriveva ai Manichei: «Non crederei al Vangelo se non mi ci inducesse l’autorità della Chiesa cattolica»(Contra ep. man., 5, 6; cf. Contra Faustum, 28, 2); ai Donatisti ricordava «l’universalità» e «l’antichità» della «Tradizione apostolica» (De bapt., 4, 24, 31); ai Pelagiani insegnava che «deve ritenersi per vero ciò che la Tradizione ha tramandato» (Contra Iul., 6, 5, 11), poiché i Padri «hanno insegnato alla Chiesa ciò che hanno imparato nella Chiesa» (Opus imp. c. Iul., 1, 117; cf. Contra Iul., 2, 10, 34), dimostrato che fuori dalla Chiesa non si imparano le cose sante. Contro gli oppositori, si può presentare anche l’inoppugnabile verità storica. Purtroppo, oggigiorno, molti «[…] modernisti sostengono e quasi compendiano in sé molteplici personaggi: quelli cioè di filosofo, di credente, di teologo, di storico, di critico, di apologista, di riformatore […]» («Pascendi Dominici gregis», San Pio X). Dunque, anche nelle loro esegesi, evidentemente violentano il pensiero divino, magnificando le loro falsificazioni. Di essi ci avverte il Signore: «Sinite illos: caeci sunt, duces caecorum. Caecus autem si caeco ducatum praestet, ambo in foveam cadent» (Mt., XV, 14). Afferma Papa Pio XII: «Reca dispiacere il fatto che non pochi di essi (autori moderni o novatori), [...] quanto più volentieri innalzano l’autorità di Dio Rivelatore, tanto più aspramente disprezzano il Magistero della Chiesa, istituito da Cristo Signore per custodire e interpretare le verità rivelate da Dio. […] E perciò taluni, più audaci, sostengono che ciò possa, anzi debba farsi, perché i misteri della fede, essi affermano, non possono mai esprimersi con concetti adeguatamente veri, ma solo con concetti approssimativi e sempre mutevoli» (Humani generis). Proviamo a ragionare con logica semplicità usando il pensiero del Pontefice. La Chiesa, attraverso la sua esegesi, NON attraverso quella di terzi, fa brillare e ci comunica la pienezza della luce e del pensiero divino. Il pensiero divino è immutabile ed esclude l’errore (difatti «è luce»), dunque è inammissibile e falsa l’esegesi che pretenda di far cadere Dio in contraddizione sui medesimi argomenti. Il principio di non contraddizione è proprio di Dio, dunque della Chiesa, cosicché Papa Pio XII conclude contro questi moderni sapientoni: «I Pontefici infatti – essi vanno dicendo – non intendono dare un giudizio sulle questioni che sono oggetto di disputa tra i teologi; è quindi necessario ritornare alle fonti primitive, e con gli scritti degli antichi si devono spiegare le costituzioni e i decreti del Magistero. Queste affermazioni vengono fatte forse con eleganza di stile; però esse non mancano di falsità. Infatti è vero che generalmente i Pontefici lasciano liberi i teologi in quelle questioni che, in vario senso, sono soggette a discussioni fra i dotti di miglior fama; però la storia insegna che parecchie questioni, che prima erano oggetto di libera disputa, in seguito non potevano più essere discusse». Quando accade che tali questioni non possono più essere discusse? Quando la Chiesa, negli specifici argomenti, grazie ad una sua espressione, fa brillare e ci comunica la pienezza della luce e del pensiero divino. Contro i falsari dell’esegesi biblica e contro le loro pestilenziali conclusioni, che abitualmente si contrappongono alle definizioni di Magistero, la Chiesa si è sempre scagliata con grande risolutezza. La «Traditi Humilitati» (24 maggio 1829) di Pio VII condanna le nuove traduzioni della Bibbia diffuse senza imprimatur; la «Qui Pluribus» (9 novembre 1846) di Pio IX condanna le società bibliche; la «Quanta Cura» (8 dicembre 1864) di Pio IX condanna la libertà di coscienza e di culto e nuovamente le società bibliche; la «Nobilissima Gallorum Gens» (8 febbraio 1884) di Leone XIII condanna i sacerdoti che vanno a ruota libera, la «Pascendi Dominici gregis» (8 settembre 1907) di San Pio X condanna «quanto sa di modernismo, di presbiterianismo, di laicismo», eccetera. Conclude Papa Leone XIII nella Providentissimus Deus: «Con questa legge piena di sapienza la Chiesa non intende in alcun modo ritardare o proibire l’investigazione della scienza biblica, anzi la preserva immune da errore [...]. Nei passi della divina Scrittura, ove si desidera ancora una interpretazione certa e definitiva, può in tal modo avvenire che, per un soave disegno del provvidente Dio, data la piena preparazione nel diligente studio, maturi il giudizio della Chiesa. Nei passi poi già definiti il maestro privato può egualmente dare un contributo esponendoli più dettagliatamente al popolo fedele e più altamente ai dotti, o confutando brillantemente gli avversari. Per la qual cosa, sia principale e sacrosanto dovere dell’interprete cattolico, trattandosi di passi scritturali il cui senso è autenticamente dichiarato o per mezzo dei sacri autori, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, come in molti luoghi del Nuovo Testamento, o per mezzo della Chiesa, assistita dal medesimo Spirito Santo, “sia con solenne giudizio, o per il Magistero ordinario e universale”, di interpretarli allo stesso modo e di cercare di convincere, mediante gli aiuti della propria dottrina, che secondo le leggi di una sana ermeneutica si può rettamente approvare soltanto quella interpretazione. Negli altri casi si deve seguire l’analogia della fede e attenersi, come a norma suprema, alla dottrina cattolica, quale la si riceve dall’autorità della Chiesa. Essendo infatti lo stesso Dio autore dei sacri Libri come della dottrina, la cui depositaria è la Chiesa, non è certamente possibile che provenga da legittima interpretazione il senso di un qualche passo scritturale che sia in qualche modo discordante dalla Chiesa. Ne segue che è da rigettarsi come inetta e falsa quella interpretazione che faccia apparire gli autori ispirati in qualche modo in opposizione tra loro, o sia contraria alla dottrina della Chiesa, etc». Prosegue ...
A cura di CdP
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Stimati Associati e gentili Sostenitori, la Chiesa ha ordinariamente sconsigliato - talvolta si è reso necessario vietare con sanzioni - al profano la lettura della Bibbia, soprattutto dell’Antico Testamento. All’uomo moderno, anche al nominalmente cattolico, ciò potrà sembrare strano o addirittura nozione sconosciuta. Non c’è da stupirsi, poiché il moderno “cattolico”, il modernista, è del tutto equivalente, nella sua mentalità, al protestante medio e mediocre. Le cronache attestano, difatti, che il Vaticano Secondo ha tentato di protestantizzare la Chiesa dall’interno, ed in parte ha raggiunto il suo scopo a discapito dell’intera collettività. D’altronde l’ecumenismo - per sua stessa natura - sforna eserciti di protestanti già prossimi all’ateismo. Al vero Cattolico, lo scrivo sbrigativamente, basta ed avanza un buona Catechismo di san Pio X per apprendere il necessario ed il sovrabbondante alla salvezza. La Sacra Scrittura non è per tutti, come non è per tutti la medicina. Tuttavia mentre per l’improvvisato medico è molto difficile praticare, per esempio, la chirurgia; il profano che pretende di studiare la Bibbia, con troppa facilità si ergerà a predicatore e spargerà i suoi veleni al bar, a scuola, in ufficio, in chiesa, ovunque vi sia occasione di cianciare. Basti pensare a Bergoglio ed a quelli prima di lui per cinquant’anni, al mostruoso uso che fanno della Scrittura, a come la manipolano e la amputano, a quante eresie divulgano in nome della Scrittura, e quante anime trascinano inesorabilmente all’Inferno: «Numquid potest caecus caecum ducere? Nonne ambo in foveam cadent?». Nessuno, sentenzia il Maestro, può pretendere di insegnare ciò che non conosce o ciò che rifiuta di correttamente conoscere; così come il cieco, che pretende di guidare un altro cieco, finirà col far precipitare entrambi nel burrone.
• I principali documenti che è necessario studiare prima di accingersi alla lettura non improvvisata della Sacra Scrittura sono: 1° Lettera enciclica Providentissimus Deus di Papa Leone XIII, sullo studio della Sacra Scrittura, 18 novembre 1893; 2° Lettera enciclica Spiritus Paraclitus di Papa Benedetto XV, 15 settembre 1920, scritta in occasione del quindicesimo centenario della morte di San Gerolamo; 3° Lettera enciclica Divino Afflante Spiritu di Papa Pio XII, 30 settembre 1943, contro i moderni studi biblici. Tre documenti ricchi di infallibili sentenze e di dottrina tanto necessaria quanto inequivocabile per iniziare il corretto approccio al Testo Sacro. Un ottimo Dizionario biblico è quello di Mons. Francesco Spadafora. Già la protestantica Dei Verbum del Vaticano Secondo, pretesa Costituzione dogmatica sulla Divina Rivelazione, mescolando verità con menzogne in classico stile modernista, è un documento pericoloso e charta capostipite delle moderne “bibbie” ecumeniche ed interconfessionali: dei moncherini di Bibbia con amputazioni, aggiunte, false traduzioni e note intrise di eresie. Per lo studio odierno ci faremo aiutare dal dotto Alberto Vaccari con il suo «Bibbia e bibbie», S.O.S., imprimatur 1944. Il P. Vaccari è stato per molti anni Vice-Rettore e Professore dell’Istituto Biblico di Roma.
• Ne «La Civiltà Cattolica» del 1° maggio 1937 (Quod. 2085, p. 231) si affermava, che tra i rimproveri mossi dai protestanti alla Chiesa Cattolica «non è raro intendere, specialmente in discorsi e scritti di propaganda, la grossa accusa che la Chiesa romana ha messo la Bibbia all’indice». Di ripicco un tal Manfredi Ronchi, sul periodico protestante «II Testimonio», del giugno seguente, sfidava l’autore di quell’articolo a citare « scritti, sia pure di propaganda, dove gli evangelici (con questo titolo amano inorpellarsi i protestanti, ndr.) abbiano affermato che la Chiesa Romana abbia messo all’Indice... tutta la Bibbia» così nella sua generalità. Par di sognare. O che il Signor Manfredi Ronchi non legge libri e giornali di protestanti ? Dio volesse! Ma a farlo apposta (tanto per citare un esempio) proprio nell’aprile di quello stesso anno 1937 il valoroso periodico romano «Fides» doveva ribattere (e non era la prima volta) gli attacchi del protestantico fiorentino «Ebenez», che nel marzo ripeteva, per l’ennesima volta, testualmente: «Che cosa ne ha fatto di essa (la Bibbia) per secoli la Chiesa Romana ? L’ha messa all’Indice» («Fides», anno 37, p. 170). Ma v’è di più. Lo stesso Manfredi Ronchi scrive un po’ più sotto: «Ho davanti a me due di questi scritti (protestanti) uno del 1866: Si può leggere la Bibbia ?..... ed in nessuno di essi si afferma la grossa accusa intesa in senso assoluto» («Testimonio», pagina citata). Davvero ? Ho pur io davanti lo scritto «Si può leggere la Bibbia?» dell’infelice apostata Luigi Desanctis (Edizione II, Torino 1860). Il primo capo s’intitola: «È vero che i preti proibiscono la lettura della Bibbia?». La risposta affermativa in senso «assoluto», che balza chiara e sovente esplicita (p. 20, 29, 31, 33, ecc.) da tutta la cicalata, è spiattellata nella conclusione: «Sembra dunque evidente che esista per parte di Roma una proibizione assoluta di leggere la Bibbia» (p. 26). E tanto basti, per non portar acqua al mare. È dunque certo e formale il fatto de la «grossa accusa, che la Chiesa romana ha messo la Bibbia all’Indice». E la nostra risposta ? Semplice e breve: La Bibbia no, ma certe edizioni della Bibbia si; sono due cose ben diverse. Nel 1631 usciva a Londra dalla Ditta Barker e Bill un’edizione della Bibbia ufficiale inglese (authorized version) nella quale, fosse pura svista o tiro maligno di qualche mariolo della tipografia, al sesto (settimo secondo i protestanti) comandamento del Decalogo (Esodo 20, 14) era omessa la negazione; l’adulterio anziché proibito veniva comandato. Scandalo enorme (Nella storia letteraria passò col marchio di «wicked Bible», la cattiva Bibbia). Deferita la cosa al Re, l’edizione fu sequestrata e l’editore condannato alla multa di trecento sterline. Nessuno sognerà di dire che il governo inglese abbia soppresso la Bibbia o impeditone la lettura. (Sì la multa; no la censura del libro, ndr.). Con tutta la diversità di motivi e di estensione, il caso della legislazione cattolica in questa materia non è di natura diversa. Per giustificarla bastano due cose: legittimo potere nell’autorità ecclesiastica e sufficienti ragioni per diffidare delle edizioni protestanti, sopratutto in lingua volgare o moderna. Né l’uno né le altre mancano.
• Il Sacro Deposito. Non si può negare (in ciò convengono tutti i Cristiani - anche i sedicenti tali, ndr. - ed è chiaro insegnamento del Vangelo) che Gesù Cristo fondò la Chiesa come una società religiosa allo scopo di diffonderne la dottrina e attuarne il programma di vita religiosa e morale. La Bibbia è come la carta di fondazione di tale società, o se meglio vi piace, è il registro che contiene, insieme con la carta fondamentale della sua costituzione, i documenti dei fatti che ne prepararono e accompagnarono lo stabilimento. Ma è pur ovvio, che una società non può rimaner indifferente a quanto riguarda la sua carta di fondazione; essa anzi ne è per istinto e per dovere la naturale custode, la gelosa tutrice, che si opporrà ad ogni attentato contro l’integrità o la genuina interpretazione di quel documento per lei vitale. Non altrimenti la Chiesa, e dentro essa per ufficio organico l’autorità ecclesiastica, rispetto alla Bibbia. La Bibbia è il libro della fede e solo per la fede assurge a quella dignità incomparabile, unica al mondo, di essere il libro ispirato da Dio e perciò, come dice il suo nome stesso, il libro per eccellenza. Come tale, appartiene quant’altro mai a quel «deposito» della fede, che alla Chiesa fu affidato e che l’Apostolo San Paolo al vescovo Timoteo raccomanda ripetutamente di gelosamente «custodire» (I Tim. VI, 20 ; II Tim. I, 14). Perciò la Chiesa ha il diritto e il dovere d’invigilare che quel sacro deposito non venga menomato o corrotto. I protestanti negano alla Chiesa diritti e doveri sulla Bibbia; ma vedete in quale contraddizione si cacciano. Per giustificare la loro adesione ai giudei contro i cattolici sul numero dei libri del Vecchio Testamento, come spiegheremo più sotto, fanno appello a quel detto di San Paolo, che tra le prerogative degli ebrei pone in primo luogo «che a loro vennero affidati gli oracoli di Dio» (Romani III, 2) cioè le divine Scritture. E il già nominato apostata Desanctis scrive in proposito: «Se gli erano (ai giudei) stati fidati (gli oracoli di Dio), i giudei certamente dovevano conoscerli per custodirli; dovevano essergli (sic !) stati confidati come tali, come tali han dovuto custodirli, e li hanno custoditi di fatto» (in «La parola di Dio», Firenze 1870, p. 103). Quando poi si viene a parlare della lettura e dell’interpretazione della Bibbia, allora nessuna custodia, nessuna riserva; la Bibbia è di tutti e per tutti, è l’unica chiave della salute e nessuna autorità al mondo ne può regolare il funzionamento. Così i protestanti negano alla Chiesa cristiana ciò che concedono alla sinagoga ebraica. Fa bisogno mostrare quanto le istituzioni di Gesù Cristo siano superiori a quelle di Mosè? Ce ne dà la misura l’Apostolo (tanto per citare a questi fanatici della Bibbia un testo biblico) là dove scrive agli Ebrei (III, 3-6): «Di tanto maggior gloria sopra Mosè fu Gesù tenuto degno, quanto più della casa si stima il costruttore e padrone della casa, quanto il figlio più del servo». Fondata su questi inconcussi principii, la Chiesa cattolica, con più ragione e fermezza che non l’antica Sinagoga tiene in consegna il sacro deposito delle divine Scritture, e sente il dovere di vegliare alla sua custodia. In adempimento di tale dovere la Chiesa emanò leggi che regolano la pubblicazione e la lettura della Bibbia, espresse con tutta brevità e chiarezza nel vigente Codice di diritto canonico (del 1917, ultimo Codex pubblicato da un Pontefice tale anche formalmente, dunque ultimo Codex autorevole e vincolante, ndr.), e riportate nella novissima edizione dell’«Indice dei libri proibiti», ove possono leggersi anche tradotte un italiano («Indice dei libri proibiti riveduto e pubblicato per ordine di S.S. Pio Papa XI», Città del Vaticano 1929, p. XVI-XVII). Il modernista Montini, che ha materialmente occupato la Cattedra di Pietro negli anni ’60/70, ha preteso di abolire sia l’Indice che lo stesso Sant’Uffizio per ragioni ecumeniche. D’altronde il Sant’Uffizio metteva all’Indice gli errori e le eresie, mentre l’ecumenismo di Montini approva e diffonde errori ed eresie, ndr.
• Leggi preventive e repressive. I provvedimenti sono di due specie: preventivi e repressivi. Preventivamente, qualunque pubblicazione di testi, traduzioni o commenti dei Sacri Libri, prima che si stampi, deve essere sottoposta a revisione ecclesiastica, per accertare se tutto abbia le condizioni richieste alla conservazione del sacro deposito della fede (Canoni 1385 e 1391). Mancando tale cautela o garanzia nelle edizioni, sia del testo sia delle versioni, pubblicate da non cattolici, che alle leggi della Chiesa non obbediscono, subentra l’ordine repressivo, che tali edizioni non si possono leggere, né ritenere, né vendere (Canoni 1398, 1399). La condotta della Chiesa, in queste disposizioni, è rettilinea; non potendo essa in quelle pubblicazioni, che sfuggono alla sua vigilanza, garantire immunità di errore o di guasto qualsiasi, non le permette ai suoi fedeli perché non n’abbiano a ricevere danno. La più colpita da questo divieto, perché la più attiva propagatrice di “bibbie” sottratte alla revisione ecclesiastica, è la «Società biblica britannica e forestiera» (l’Autore scrive negli anni ’40, ndr.), impresa collettiva di privati, sorta a Londra nel 1804 «per la diffusione della Bibbia a poco prezzo fra il popolo». Ma proprio essa tanto meno può contrastare alla Chiesa cattolica il diritto di regolare la lettura della Bibbia, in quanto essa medesima si arroga un simile diritto e impone restrizioni nella stampa delle sue “bibbie”. Mi aprirò la strada a spiegarmi con un esempio, un fatto. Mi stanno sott’occhio due copie della medesima edizione originaria della «Bibbia sacra contenente il Vecchio e Nuovo Testamento secondo la Volgata, tradotta in lingua italiana da Monsignor Antonio Martini, Arcivescovo di Firenze», Londra, dai Torchi di Beniamino Bensley, 1821 (così esattamente il frontespizio), certo per conto della detta «Società biblico britannica e forestiera», come attesta il grande «Catalogo delle Bibbie stampate» della medesima Società («Historical Catalogue of the printed editions of Holy Scripture in the Library of the British and Foreign Bible Society compiled by T. H. Darlow and. H. F. Moule». Londra 1903, vol. II, p. 818. Vi si dice inoltre che questa edizione del Martini fu fatta a richiesta della Società biblica di Malta.). Una delle due copie riproduce con tipi uniformi dal principio alla fine il puro testo biblico (senza le note) della edizione originale del Martini in tutta la sua integrità e col medesimo ordine piuttosto singolare. Nell’altra, dopo la pagina 432, in mezzo al capo 6.o del secondo libro di Esdra, si nota improvvisamente cambiare carattere, rimpicciolito, per un intero foglio di stampa, sino alla pagina che porta la numerazione 448... 526. Infatti la pagina seguente, dove col libro di Giobbe ritorna il primo carattere, porta il numero 527 e così continua. Di nuovo simile cambiamento di stampa per un foglio (p. 625-640) fra il Salmo 140 e il capo 8 d’Isaia, e poi ancora per otto pagine in fine di Geremia, e finalmente per altre dodici dal capo 3 al termine di Daniele, dove la pagina ha i numeri 812... 816 per raggiungere la seguente 817, che ripiglia il tipo ordinario sino alla fine.
• Che ci cova sotto? Poco dopo la fondazione della «Società biblica», e occasionata appunto dal moltiplicarsi e diffondersi delle sue “bibbie” in molte lingue e paesi, scoppiò fra i protestanti la cosidetta «controversia degli apocrifi». Alcuni libri (sette interi e parti di due altri), che si trovavano in tutte le Bibbie latine e greche del Medioevo, e dalle Chiese cristiane in Oriente e in Occidente erano venerati come sacri e ispirati al pari degli altri, dai fondatori della sedicente riforma protestante furono bensì ritenuti nelle loro Bibbie tradotte in lingua moderna, ma riuniti insieme in appendice al Vecchio Testamento e distinti dagli altri col titolo di «apocrifi», come (a loro credere) non ispirati, non canonici. Così si leggono tradotti da Giovanni Diodati nelle due edizioni (Ginevra 1607 e 1642), ch’egli stesso in vita sua diede alla luce, della sua “bibbia” italiana. Ma ai puritani del secolo XIX quegli «apocrifi» in mezzo ai libri sacri erano come il fumo negli occhi, e così aspra campagna menarono contro l’ammissione, sino allora praticata, di quei libri nelle “bibbie” complete, che nel 1826 la «Società biblica britannica e forestiera», in solenne risoluzione societaria, dichiarò «incompatibile con la legge fondamentale della Società lo stampare Bibbie con gli apocrifi e il concedere sussidi a quelle società o individui, che diffondessero gli apocrifi» (cfr. «A history of the British and Foreign Bible Society by W. Canton», vol. I, Londra 1901, p. 341 segg.). D’allora in poi questo fu legge nella Società, e, per un effetto retroattivo, dalle copie ancora giacenti in deposito delle precedenti edizioni con gli apocrifi (almeno da molte, se non tutte) furono stralciati quei libri proscritti e il volume racconciato come s’è visto in quell’altra copia del Martini che dicevo. Quella è proprio (non si può negare) materialmente una «Bibbia mutilata» in ossequio ai decreti della «Società biblica britannica e forestiera». Altra legge fondamentale della Società, ma questa sancita sin dal principio, è che tutte le sue edizioni della “bibbia”, o di qualunque parte di essa, diano il puro testo senza alcuna sorta di note o schiarimenti o tavole illustrative; legge, come si vede, quasi diametralmente opposta (per quanto riguarda le versioni in lingua moderna) a quella della Chiesa cattolica. Di qui è che anche la “bibbia” del Diodati, il quale munì la sua versione di copiose note, specialmente nella seconda edizione, ne uscì del tutto spogliata nelle numerose ristampe della «Società biblica britannica e forestiera». Non saprei quanto garberebbe a quegli stessi campioni del protestantesimo, se potessero levare il capo dal sepolcro, il vedere così mutilata dai loro successori la propria opera; certo il Martini sarebbe il primo a condannare la soppressione di tutte le note da lui apposte alla sua traduzione.
• Le note. Può anche farsi questione, se sia semplicemente onesto mozzare così l’opera di un privato, dove spesso traduzione e note formano un tutto inscindibile. Infatti chi correda di note la sua versione (e qui lo scrivente può parlare per esperienza, appartenendo egli pure, per quanto modestamente, alla categoria dei traduttori) nei luoghi suscettibili di più d’un senso (e sono tanti nei libri antichi) o per coscienza di fedeltà riproduce nel testo l’ambiguità dell’originale, riservandosi di precisare in nota; o viceversa dà chiara nel testo un’interpretazione, avvertendo in nota dell’incertezza. Ma ciò che certamente va bollato d’oltraggio alla pubblica autorità, e alla verità insieme, è presentare col titolo consueto delle edizioni cattoliche, «Sixti V et Clementis VIII iussu recognita atque edita», una Volgata latina dove mancano per deliberata soppressione, tanti libri, che dalla Santa Sede in esecuzione dei decreti del Concilio di Trento, formano parte integrante. Di tal fatta è appunto la «Bibbia Latina Volgata» messa in vendita nei depositi della «Società biblica ...». E con ciò siamo di nuovo al punto di grave differenza fra le “bibbie” protestanti e la cattolica, sul quale occorre fermarci alquanto.
• Bibbia mutilata. Nel recentissimo «Dictionnaire encyclopédique de la Bible», edito dai protestanti di lingua francese, sotto la direzione di Alessandro Westphal (Il I volume A-K è uscito a Parigi, Editions «Je sers», nel 1932; il secondo L-Z nel 1935), il prof. Louis Randon, già agente generale della «Società biblica di Parigi», ora defunto, alla voce «Apocryphes» scrive testualmente: «I cristiani fin dall’origine adottarono non la Bibbia ebraica, ma la Bibbia greca, con l’ordine e il contenuto suo proprio. Si capirebbe che la Riforma (sic!), volendo ritornare alle fonti più antiche (con questo pretesto - del ritorno alle origini o archeologismo - i modernisti hanno devastato ogni cosa, dalla liturgia ... alla morale, ndr.), abbandonasse la Bibbia dei Settanta per sostituirle quella degli Ebrei. Ma non fu questo il partito che si prese. Si conservò la Bibbia greca nella sua speciale disposizione di materie, ma tagliandone via i libri non compresi nel canone ebraico; con che si diede alla Bibbia protestante un certo sembiante di Bibbia espurgata» (Opera citata, 1, p. 71, col. 2). Espurgata io non direi, perché quel termine suona macchia alla parte recisa, che si rifonde sul tutto; ma mutilata sì, e non solo in sembiante, ma in realtà. Ognuna delle tre parti in che dividesi (oltre il Pentateuco) il Vecchio Testamento, nella Bibbia greca — ch’era la Bibbia degli Ebrei fuori di Palestina e fu poi quella dei primi cristiani — è notevolmente più ricca che non la Bibbia dei rabbini. Tra i libri storici, ha di più Tobia, Giuditta, i due libri dei Maccabei, due opere completamente distinte (In altro senso cioè da quel che si usa parlando di I e II dei Re, I e II dei Paralipomeni o Cronache, arbitraria divisione di un tutto letterariamente uno), e alcuni capi di Ester; tra i didattici, le due Sapienze, dette di Sirac o Ecclesiastico, e di Salomone; tra i profetici Baruc e alcuni capi di Daniele (Susanna, Belo e il cantico dei tre fanciulli). Sono questi i libri che mancano nelle “bibbie” protestanti, e stanno invece nelle Bibbie cattoliche, nell’ordine e al posto più o meno esattamente, che tengono ne le Bibbie greche; e siccome vi stanno a buon diritto, in buona armonia organica coi vicini e col corpo intero, il levarneli si chiama giustamente mutilazione. Non è qui il luogo di spiegare tutte le ragioni di quel buon diritto; toccheremo solo due punti e ci serviremo delle parole stesse del già citato L. Randon nel «Dizionario enciclopedico protestante». Quali ragioni accampano i protestanti per escludere dal novero dei libri sacri quelli ch’essi perciò chiamano apocrifi? «La più grave (sono parole del Randon) — tanto che senza di essa non sarebbe venuta l’idea di cercarne altre — è l’assenza di quei libri dalla Bibbia ebraica. Ma perché i giudei di lingua greca non avrebbero avuto il diritto al pari dei loro correligionari di Palestina d’avere i loro libri sacri?»; cioè perché l’ispirazione divina si sarebbe ristretta nei confini di Palestina, negandosi ai giudei d’altri paesi? Ma nella stessa Palestina il canone delle divine Scritture non fu fissato e chiuso che alla fine del primo secolo di Cristo; è la conclusione della moderna scienza storica, ammessa oggi dai protestanti stessi, e francamente registrata da altri collaboratori nel medesimo «Dizionario enciclopedico della Bibbia» (Vol. I pag. 159, col. I J. E. Mc. Fadyen, e col. II (J. Breitenstein). Quel canone ebraico più ristretto, al quale si aggrapparono i seguaci della sedicente Riforma, fu dunque fissato quando già la sinagoga per la predicazione di Gesù e degli Apostoli era esautorata, e se ne ha questo bel risultato, ch’essi, negando fede alla Chiesa cristiana in questo punto capitale della religione e per loro più che mai fondamentale, si assoggettarono al giudizio dei rabbini della fine del primo secolo, vale a dire dei nemici di Cristo! Di coloro che lo hanno messo in croce, ndr..«A rinforzo della loro posizione (continua il Randon) i partigiani dell’esclusione degli Apocrifi (Nel senso, s’intende, dello scrittore protestante, che qui andiamo traducendo, come si è sopra spiegato) affacciarono altri argomenti. Questi libri, dicevano, non furono accettati da tutti; e naturalmente citavano l’opinione di San Girolamo. Ma intanto dimenticavano volentieri due fatti essenziali: 1° La tesi dell’autore della Volgata (San Girolamo suole dirsi autore della Volgata in quanto tradusse il più e il meglio dei libri che la compongono. Nella questione del canone si lasciò trasportare dal suo studio dell’ebraico. Il suo grande contemporaneo, e migliore teologo, Sant’Agostino, sostenne energicamente il canone integrale e ne provocò il definitivo trionfo) non fu ammessa che da una esigua minoranza e fu condannata dalla Chiesa (L’opinione di qualsiasi Dottore, Santo o eminente teologo rimane, appunto, un’opinione. Solo la sentenza definitoria della Chiesa ha la verità da credersi e tenersi, ndr.); 2° Molti altri libri del Vecchio e del Nuovo Testamento, oltre gli Apocrifi, furono più o meno controversi; per esempio fra i giudei Ezechiele, Ester, il Cantico dei Cantici, e l’Ecclesiaste; fra i cristiani l’Apocalisse, l’Epistola agli Ebrei, le Lettere pastorali e, (per alcuni), persino il Vangelo di San Giovanni. Si dovrebbe impoverire seriamente la Bibbia, se non si volessero mantenere che gli scritti accettati da tutti e dappertutto». Fin qui il dotto e leale scrittore protestante. Noi aggiungiamo che s’impoverirebbe la nostra letteratura e la nostra arte, se ne togliessimo via le opere ispirate all’uno o all’altro dei libri esclusi dal canone ebraico-protestantico. Le soavi scene famigliari di Tobia, gli eroismi di Giuditta e dei Maccabei, il dramma della casta Susanna sono nella memoria di tutti, abbelliti in tele e poemi. Ma anche la sostanza storica e didattica della Bibbia è notevolmente sminuita dalla esclusione di quei libri dal canone. Fra le storie del canone ebraico e il Nuovo Testamento, senza i Maccabei c’è un vuoto di mezzo millennio; senza il libro della Sapienza (e il secondo dei Maccabei) c’è un brusco salto ancor più sensibile sul tema, così fondamentale, della vita futura e della finale retribuzione. Senza quei libri intermedi (anche in questo convengono ora i dotti protestanti) non si comprendono gli scritti del Nuovo Testamento; e perciò la Chiesa cattolica, col mantenerli nel suo canone, ha conservato alla Bibbia cristiana la sua naturale pienezza e integrità. Ascoltiamo qui, a prova, la voce non sospetta del pastore valdese Giovanni Luzzi, che nella introduzione agli «Apocrifi dell’Antico Testamento» (com’egli alla protestante si esprime) scrive testualmente: «Un terzo fatto dimostra l’importanza di questi libri; ed è che la conoscenza loro è in modo assoluto necessaria a chi voglia fare uno studio veramente scientifico del Nuovo Testamento... perciò se finora si è detto, e molto giustamente, che nessuno può intendere a fondo il Nuovo Testamento se a fondo non conosce il Testamento Antico, oggi siam giunti alla convinzione che la conoscenza della letteratura apocrifa (i libri di che stiamo trattando) è, se non più, almeno tanto necessaria allo studioso del Nuovo Testamento, quanto la conoscenza della letteratura dell’Antico» (Op. cit. p. 9). Come avrete notato, il P. Vaccari utilizza un metodo apologetico, molto in voga ai suoi tempi, di citare, per affermare il vero, alcuni degli stessi fra i protestanti. Questo per due ragioni: 1° Per affermare, come è giusto e doveroso, il vero (talvolta persino i protestanti scrivono cose esatte); 2° Per attestare lo spirito di contraddizione che c’è fra i protestanti stessi. D’altronde è certo che senza l’autorità del Romano Pontefice il gregge si disperde in mille e mille rivoli di dottrine, e finalmente ognuno diventa «papa di se medesimo». Questo è lo spirito del demonio, questo è lo spirito del protestantesimo, questa è la principale causa delle guerre di religione, questo ha contribuito a frazionare e distruggere l’unità almeno in Europa. All’interno della Chiesa queste sono le conseguenze del modernismo vaticanosecondista: in ogni parrocchia, anzi in ogni cosiddetto fedele, ci sono convinzioni, teorie ed elucubrazioni differenti. Ordinariamente ognuno fa ciò che vuole, ndr.. Torniamo al nostro Autore. Non è questo un riconoscere che la Bibbia senza quei libri intermedi è monca? E qual più eloquente, per quanto implicito attestato alla saggezza della Chiesa cattolica? Essa, nel conservare quei libri al pari degli altri del Vecchio e del Nuovo Testamento, non solo dà la sua interezza a tutto il corpo della Bibbia, ma apre la via alla sua piena conoscenza, e promuove lo studio scientifico del divin libro!
• Una precisazione. Qui, a proposito, una piccola questione di parole, ma non di sole parole. Nel linguaggio ufficiale della Chiesa cattolica, appunto perché essa mette sullo stesso piede tutti i libri del suo canone biblico, non esiste un termine che dagli altri distingua quei libri che da giudei e da protestanti sono compresi sotto l’appellativo ereticale di «apocrifi». La nostra teologia, come scienza distinta dal domma, introdusse in quella vece, dopo il Concilio di Trento, il termine di «deuterocanonici», chiamando «protocanonici» gli altri, come dire del primo e del secondo canone. Ma questi termini non importano nulla, né da sé né nel pensiero di chi li ha creati, un diverso grado di autorità o di valore fra i due gruppi di libri così distinti, come maliziosamente insinua ancora il Luzzi nella Introduzione citata. Quei termini hanno un puro valore storico, nato dal fatto a noi ben noto che giudei e protestanti, ed anche alcuni cattolici nell’antichità, non ammisero alcuni dei nostri libri sacri; sono, quei termini, una comoda convenzione per chiarezza e brevità nelle trattazioni scientifiche.
• Traduttori traditori. Ma in quegli stessi libri, che i protestanti ammettono nel loro canone, ci danno essi poi sempre una traduzione fedele ed esatta della parola di Dio? La Chiesa cattolica ha le loro versioni in sospetto di tendenziose e, in passi decisi, erronee. Sono fondati i sospetti? Lutero, che diede la stura e l’esempio alle moderne traduzioni della Bibbia per i seguaci della cosiddetta Riforma, (lo diremo con le parole di un erudito protestante nella grande e reputata «Enciclopedia tedesca per la teologia e la Chiesa protestantica», nel tradurre «voleva essere esatto; ma perché insomma quello che a lui importava era la sostanza, non si peritò qua e là di sciogliere una metafora (Salmo 36, 6), aggiungere una parola (Romani 3, 28 SOLTANTO per la fede) ovvero ometterla, trasporre un versetto» (Per questioni di spazio ometteremo le note da questo punto in avanti, ndr.). Celebre sopratutto l’aggiunta della particella «soltanto» alla frase «giustificarsi uomo per la fede» nella lettera ai Romani. Perché i cattolici n’erano indegnati ed anche alcuni seguaci del novatore ne pigliavano scandalo, Lutero stende in sua difesa la famosa «Lettera sul tradurre»: «Quella paroletta (scrive in quel suo stile altezzoso) ce l’ha messa il Dottore Martin Lutero e ci deve restare. Sic volo sic iubeo»: e dopo una lunghetta dissertazione sul bel parlare in schietta lingua tedesca: «...mi pento (conchiude) di non averci aggiunto dell’altro, così : senza qualsiasi opera di qualsiasi legge» (Lutero così inventa l’eresia della salvezza per sola fede e senza la necessità delle buone opere. Eresia adottata anche dalla maggior parte dei moderni occupanti le nostre chiese, ndr.). A buon intenditor poche parole. I cattolici hanno intesa l’antifona e si mettono in guardia. Vogliam supporre che dall’altra sponda i protestanti non siano buoni intenditori? Certo i posteriori «traduttori della Bibbia in volgare» non emularono la balda sfrontatezza di Lutero; ma di traduzioni tendenziose, volte a sostegno del loro sistema teologico ed ecclesiastico, non si ha pena a trovarne in quelle numerose versioni pullulate dalla protestantica Riforma. Lo toccheremo con mano in alcuni esempi tolti dalle versioni italiane più diffuse dalla propaganda protestante in Italia, cioè del Diodati e del Luzzi.
• Due punti cardinali di divergenza fra la dottrina cattolica e la protestantica sono il valore delle tradizioni religiose e l’ordine sacerdotale gerarchico. Quanto al primo, San Paolo nelle sue Lettere più volte professa di trasmettere ai suoi fedeli le verità della fede, che egli stesso aveva ricevute o apprese (I Corinti XI, 23; XV, 3) e raccomanda di ritenere e conservare le tradizioni tramandate (I Corinti XI, 2; II Tess. II, 15). Il Diodati invece di «trasmettere», come esattamente tradussero in italiano di recente tre laici — e citiamo questi perché non sospetti d’influenze di scuole teologiche — usa il vago termine «dare» e invece di tradizioni parla di «ordinamenti», che sono altra cosa. Così scompare ogni vestigio di quella «tradizione» orale, nella quale la Chiesa cattolica, con tutta l’antichità cristiana, riconosce una fonte, a fianco della parola scritta nella Bibbia, della verità religiosa. La gerarchia ecclesiastica è ancora più malmenata nella traduzione del medesimo professore ginevrino. Il termine «presbyteri» (donde il nostro «preti») è sempre da lui tradotto «anziani», anche quando evidentemente significa (come in Atti XV, 23 e XVI, 4 etc.) ministri dell’Evangelo, ossia sacerdoti cristiani. Il «presbyterion», o corpo di essi «presbyteri», nel Diodati diviene «concistoro degli anziani» (Atti XXII, 5) o «il collegio degli anziani» (I Timoteo IV, 14) insinuando così l’ordinamento delle comunità protestantiche. Il conferimento del loro grado (di presbyteri) da parte degli Apostoli (Atti XIV, 23) nel testo greco viene espresso col verbo cheirotonèo, che propriamente significa «stendere le mani»; il passo parallelo (I Timoteo, IV, 14), che parla espressamente di «imposizione delle mani», mostra con quanta ragione quel verbo cheirotonèo sia divenuto nel linguaggio ecclesiastico il termine tecnico per indicare l’ordinazione sacerdotale conferita dal Vescovo col noto rito dell’imposizione delle mani. Ma nella traduzione del Diodati quegli «anziani» sono «ordinati per voti comuni». Questa dei «voti comuni», che sostituisce al rito sacerdotale la elezione popolare, è una pura aggiunta del traduttore, ancor più arbitraria che il «soltanto» di Lutero. Peggio sta la versione del Luzzi: «fatti eleggere degli anziani». Anche dove la versione protestante non è cosi palpabilmente ingannatrice riflette però concetti e abitudini diverse dalle nostre, e il lettore cattolico non ci trova il linguaggio religioso a lui famigliare, sicché si sente come sperduto in altro paese. Sia esempio il modo col quale i due traduttori su citati rendono le prime parole della salutazione angelica, volgarmente detta «Ave Maria». Sconveniente è addirittura la versione del Diodati: «Ben ti sia, o favorita». Meno male il Luzzi: «Salute, o tu che sei ricolma di grazia», ma non parlerà ancora al cuore del cattolico, il quale forse neanche avvertirebbe che il saluto ch’egli tante volte rivolge alla sua cara Madonna è tolto di peso dal Vangelo. Ancora: traduzioni come: «si sarebbero pentite prendendo il cilicio e la cenere» (Luzzi) in San Matteo XI, 21 velano il concetto cattolico della penitenza. E così in tali traduzioni dei libri sacri il cattolico non trova un nutrimento adatto alla sua pietà; buona ragione perché l’autorità ecclesiastica le rimuova dalle mani dei fedeli. Quando pure la traduzione fosse sempre fedele ed esatta, non si è ancora in porto. San Pietro nella sua seconda Lettera canonica avverte tutti i fedeli, che nelle lettere di San Paolo «ci sono certi punti difficili a capire, che persone male istruite e poco stabili stravolgono (e fanno lo stesso anche quando si tratta delle altre Scritture) a loro perdizione» (Così II Pietro III, 6 nella traduzione del Luzzi, che citiamo qui per maggior efficacia ad hominem). «Non si capisce davvero, come davanti a queste formali parole, scritte a sì chiari caratteri in quella Bibbia, ch’essi ritengono come unica e infallibile norma della verità religiosa, i protestanti osino poi dare tutta la Bibbia in pasto a qualsivoglia ceto di persone, senza spiegazioni, senza note, pretendendo che la Bibbia è fatta per tutti ed è chiara da sé per tutti» (Ottimo testuale del Vaccari). Quanto più saggia, per ogni persona di senno, quanto più conforme al pensiero del principe degli Apostoli, la legge della Chiesa cattolica, la quale, sottomettendo alla vigilanza dei Vescovi la stampa delle versioni delle Sacre Scritture in lingua volgare, esige che «vengano pubblicate con annotazioni tolte sopratutto dai santi Padri della Chiesa e da scrittori dotti e cattolici» (Codice di diritto canonico, Canone 1391). S’intuisce subito la ragione di questa restrizione a note d’autore cattolico. Quando non fosse evidente, ce la mostrerebbe, senza volerlo, il Luzzi la cui “bibbia” (e “nuovo testamento” a parte), diversamente dalle ristampe del Diodati, è corredata di note. Infatti, sebbene dopo le critiche mosse alla prima edizione del suo “nuovo testamento” anche sulla «Civiltà Cattolica» (Quaderno 1471, 7 ottobre 1911) , nelle posteriori abbia soppresse o smussate parecchie di quelle note che troppo apertamente tradivano l’autore protestante, tuttavia ce ne rimangono ancora molte di contrarie alla dottrina cattolica; per esempio al già citato luogo della lettera ai Romani sulla giustificazione per la fede: «Per il fatto cioè (commenta il teologo valdese) che Dio non dice al peccatore che vuol essere giustificato: Fa’ questo o quest’altro; ma: Abbi fede nella mia grazia». È questa non la fede cattolica, ma la fiducia o meglio la presunzione protestantica, è la negazione del valore delle opere buone, radicale novità introdotta dalla pretesa riforma del secolo XVI. Nelle introduzioni poi, o generali o a libri singoli, il Luzzi ricopia sovente d’oltr’Alpe una critica demolitrice, che eccitò gli sdegni persino dei suoi correligionari d’Italia, come già si osservò sulla «Civiltà Cattolica» (Quaderno 1744, 17 febbraio 1923, p. 345); molto più si trova in disaccordo coi dettami della Santa Sede e della Pontificia Commissione, che per gli studi biblici ne è l’organo. Sicché anche per questo lato la “bibbia” del Luzzi non può permettersi ai cattolici.
• Conclusione. Da quanto siamo venuti dicendo (e dimostrando, ndr.) si fa manifesto quanta diversità può correre da Bibbia a “bibbie”. A primo aspetto potrebbe parere, che una essendo la Bibbia, tra le varie edizioni non ci possono essere differenze se non accidentali. Ciò dovrebbe essere vero se la Bibbia fosse un solo libro, e si trattasse del testo originale o una sua riproduzione stereotipa. Ma la Bibbia non è un libro solo, è una raccolta di più libri, come dice il suo nome stesso, che viene da un plurale greco; e una raccolta può variare per numero ed ordine delle cose messe insieme. Anche i giudei chiamano Bibbia i libri sacri del canone ebraico, certo per influenza del linguaggio cristiano, ma con pieno diritto, poiché troviamo quel vocabolo già adoperato nel primo libro dei Maccabei (XII, 9 tà biblìa tà hágia = i libri santi); eppure ne escludono tutto il Nuovo Testamento, che per tutti i cristiani (anche per i sedicenti cristiani come i protestanti, ndr.) è il più e il meglio. Una prima differenza è dunque data dal diverso ambito della Bibbia presso i cattolici e presso i protestanti. Quando poi trattasi di una traduzione dal testo originale in altra lingua, vi si aggiungono molte diversità d’interpretazione, dipendenti da varie cause, non ultima delle quali è la diversa dottrina filosofica e teologica, che si apporta, quale disposizione preambola all’opera da tradurre. Il cattolico, che a questa nobile impresa si accinge munito e diretto dalla fede della sua Chiesa, può vantare priorità e superiorità di titoli; poiché la Chiesa cattolica può ripetere ancor oggi, come sempre, ai cristiani da lei separati, quello che già alle sette eretiche del suo tempo diceva in nome della Chiesa l’antichissimo apologeta Tertulliano: «Le Scritture sono mie, a me ne compete il possesso; voi da me le avete prese, ma a voi non spettano di diritto, e perciò stesso non dovete essere ammessi al loro uso: ne is admittatur ad eas (Scripturas), cui nullo modo competit».
• Fine. Fin qui il P. Vaccari nel suo prezioso opuscolo «Bibbia e bibbie», S.O.S., imprimatur 1944. Consentitemi l’abituale personale aggiunta alla conclusione: 1° Il modernismo ha introdotto, fra le altre mostruosità, anche un morboso attaccamento alla Scrittura. Tutti, oramai, pretendono di leggere e commentare la Scrittura. Tutti si fanno maestri e nessuno più vuole ascoltare, apprendere, obbedire. Questo è lo spirito di Lucifero; 2° Anche nella pseudo-messa voluta da Montini (Paolo VI) la Scrittura - quello che rimane della Scrittura nel modernismo - ha un ruolo determinante, centrale, quasi fosse Dio stesso. Il cattolico nominale, tante volte animato da buone intenzioni ma con una fede solo naturale e certamente non soprannaturale, spesso crede che la “messa” (uso la minuscola perché mi riferisco al simulacro montiniano) sia innanzitutto erudizione, istruzione. Ha quasi perduto il senso del sacro e non distingue più ciò che è essenziale (il Sacrificio) da ciò che è, diciamo, accessorio; 3° Spesso i moderni obiettano che è necessario il volgare per capire. Così per la Liturgia, come per la Scrittura. Questa falsa obiezione è sepolta dalla storia stessa. Milioni di bravi cattolici sono certamente in Paradiso, ed essi non ricevevano Messa e Bibbia in volgare. Tante volte gli ignoranti non capivano, tuttavia sapevano distinguere ciò che è bene da ciò che è male. Pregavano, facevano penitenza, conoscevano i Comandamenti e li praticavano. Ricevevano le nozioni di Dottrina all’ora di catechismo, il resto lo adempiva (ovviamente) alla perfezione nella loro anima la grazia sacramentale. Quanti fra i sedicenti ascoltatori della “messa” in volgare, pur capendo, oggi conoscono il Catechismo? Un buon Catechismo? Un vero Catechismo? E quanti ancora lo praticano? E quanti altri almeno ricordano Comandamenti e Precetti?; 4° La Chiesa sin dal principio ha condannato l’uso improprio della Scrittura. Lo ha fatto sin dall’epoca Apostolica contro gli gnostici e - sto parlando di Chiesa e non di modernisti che occupano abusivamente la Chiesa - continuerà a farlo fino alla consumazione dei secoli. La Scrittura, difatti, è della Chiesa. Alla Chiesa ne spetta l’autentica infallibile interpretazione. È la Chiesa che, con la proclamazione delle verità eterne, definisce e tramanda ciò che Dio ci ha rivelato mediante la Scrittura; 5° Le Società cosiddette «bibliche» nascono in ambienti torbidi, intrisi di lussuria e superstizione, cripto-giudaismo e massonismo. I principali sedicenti illuminati, pur glorificando la «dea ragione», si sono prodigati nella sponsorizzazione e diffusione di tante “bibbie”, tutte false e con finalità ben precisa: combattere la Chiesa e rovesciare il Papato diffondendo le pestilenze dottrinali e morali. Ci basti il Catechismo, ci basti ed avanzi la privata lettura della Bibbia cattolica con un buon commento preconciliare. Consiglio la Bibbia del P. Marco Sales (versione originale e non le ristampe moderne); la Bibbia dell’Abate Ricciotti (idem); la Bibbia del P. Eusebio Tintori (idem.); la Bibbia di Mons. Garofalo. Consiglio principalmente di chiedere al confessore (ad un vero confessore) se sia opportuno iniziare a leggere la Bibbia; 6° Chiudo con un episodio realmente accaduto. Un uomo, molto interessato agli argomenti spirituali ma tanto smarrito nel marasma della modernità, parlò anni fa con me. Mi disse: «C’è un tale ... su Youtube che pubblica degli ottimi video sulla Scrittura... Quanti inganni ha fatto la Chiesa... Quante traduzioni della Scrittura sbagliate... Questo tale conosce l’ebraico e fornisce tutte le traduzioni corrette... Etc...». Gli risposi così: «Tu conosci l’ebraico?». Il mio interlocutore ovviamente rispose: «No!». Chiusi il discorso più o meno in questi termini: «Ti fidi di un tizio su Youtube e non ti fidi della Chiesa, dei suoi Martiri, etc...?». Per curiosità, tempo dopo, cercai il tale su Youtube: si presenta bene, ostenta cultura e tante citazioni, è un abile oratore e pratico conferenziere, infine crede che l’uomo sia stato creato (così mi sembra di aver capito) dagli alieni.
Un + Requiem per l'autore Alberto Vaccari. Pubblicazione a cura di CdP
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Stimati Associati e gentili Sostenitori, quando i problemi dell’umanità aumentano esponenzialmente, quando lo sconforto pervade gli animi, quando tutto sembra ai più perduto, allora proliferano i “profeti”. Ma quali sono veri profeti e quali sono falsi profeti? Quali sono le vere profezie e quali le false profezie? Proveremo ad imparare i principali criteri di discernimento con l’aiuto dell’ottimo «Vere e false profezie», imprimatur 2 gennaio 1943, S.O.S., di Enrico Tabucchi.
• Uno sguardo nel futuro. «Un monaco d’un convento, morto da duecentocinquant’anni, aveva predetto uno spaventoso flagello per un tempo che, più o meno, corrispondeva al presente (il Trabucchi scrive sui primi degli anni ’40): «Sette regni combatteranno contro un’aquila con una testa e un altro uccello bicipite: seguirà la morte a innumerevoli genti. Carri d’acciaio senza cavalli stritoleranno sotto le ruote i raccolti e le messi; da mostri volanti che vomitano fiamme e fosforo, saranno annientate città e villaggi. In bare d’acciaio nel fondo dei mari trascorrerà la giovinezza di molti; il pane contato si distribuirà a briciole, i muri delle case si tingeranno di sangue. Tre anni e cinque mesi di distruzione e di morte; giorni in cui più nessuno potrà vendere o comprare; sino a che, finalmente, il melograno fiorirà per la terza volta. Il Natale seguente alla fioritura, sarà ancora pace in terra». Questa profezia apparsa in un romanzo di Angelo Gatti («Il mercante di sole») e riprodotta da vari giornali, ha avuto il suo quarto d’ora di celebrità. E l’interesse destato nel pubblico trova una facile spiegazione, sia nella rappresentazione suggestiva e immaginosa della guerra moderna, con i suoi mezzi di distruzione e con i suoi effetti di miseria, sia per la predizione della pace alla terza fioritura del melograno. Ma è una profezia autentica ? È stata veramente scritta 250 anni fa, o è il frutto recente d’una vivace fantasia? Non possiamo rispondere perché non abbiamo fatto ricerche in proposito; al nostro fine interessava solo riportare un esempio delle molte profezie che sono andate pullulando col prolungarsi della guerra. Fenomeno che si rinnova in tutti i tempi di pubbliche calamità. L’uomo non vive soltanto nel presente; con le sue facoltà intellettive si estende nel passato e nel futuro. Il primo può rievocarlo, ma non può modificarlo; sul secondo invece può influire e in certi limiti prepararselo. Ma c’è sempre qualche cosa che non dipende dall’individuo, e gli elementi d’incertezza appaiono più numerosi in periodi di generale sconvolgimento, quale il tempo di guerra (o di epidemia, eccetera ...). E si vorrebbe, se fosse possibile, anticipare il futuro, e sapere come andrà a finire. Terreno adatto al fiorire di profezie! Ma si danno delle vere profezie? Anche ai giorni nostri? C’è qualche criterio per ammetterle o per rifiutarle? Ecco alcune domande a cui cerchiamo di rispondere, incominciando a chiarire il concetto di profezia.
• Il concetto di profezia. In forza dell’etimologia della parola, profezia (da profemì parlo a nome d’un altro) significa l’ufficio dell’interprete; e precisamente interprete significa la parola profetes presso gli autori classici greci, come Pindaro, Euripide, Platone. Lo stesso significato si trova nell’uso costante della Bibbia; così nell’Esodo. Iddio dichiara Aronne «prophetam Moysis» (VII, 1-2) perché Mosè si sarebbe servito di Aronne, suo fratello, per comunicare al Faraone quanto Dio gli avrebbe manifestato. E il profeta biblico non è solo un uomo ispirato che riceve una rivelazione, ma è il portavoce di Dio, un rappresentante ufficiale, incaricato di parlare in nome e al posto di Dio, un oratore, un predicatore che dice agli uomini ciò che Dio vuol far sapere loro («Introduzione generale ai profeti» in «La Sacra Bibbia» commentata da M. Sales e G. Girotti, Vol. III, Torino 1942, pag. 11). Però in senso stretto profezia significa la cognizione e l’enunciazione di cose future, contingenti, libere e sconosciute all’uomo, e si può definire: la predizione certa e non equivoca di un qualsiasi avvenimento futuro dipendente da cause libere e che non può essere conosciuto mediante l’analisi delle cause naturali. Da questa definizione appare che il concetto di profezia comporta due elementi: l’uno riguarda l’oggetto, l’altro il modo della conoscenza. L’oggetto della profezia è un avvenimento futuro che non è legato in modo necessario e determinato con le sue cause prossime; per esempio gli occulti disegni di Dio, o gli eventi che dipendono dalla molteplice e libera cooperazione delle creature. Nessuno invece dirà che si tratta di profezia quando un astronomo predice con tutti i particolari un’eclissi di sole che avrà luogo tra 50 anni. Il secondo elemento della profezia è il modo con cui vien conosciuto il futuro: dev’essere cioè una conoscenza infallibile, senz’alcuna incertezza. Quando manchi quest’elemento non si avrà più una profezia, ma tutt’al più un pronostico, una congettura. Così il commerciante pronostica buoni affari dall’andamento dei prezzi del mercato, ma, e il commerciante e chiunque per qualsiasi ragione scruti ansioso l’avvenire per vedere come sarà, non potrà mai prevederlo con assoluta certezza, quando questo dipenda da cause libere.
• L’elemento divino nella profezia. Una vera profezia è un miracolo d’ordine intellettuale, che esige una luce divina, nella quale soltanto è possibile prevedere con certezza ciò che la contingenza e la libertà lasciano necessariamente indeterminato e inconoscibile. Infatti soltanto Iddio, la cui scienza non ha limiti, e che con un unico sguardo abbraccia il passato, il presente ed il futuro, soltanto Iddio conosce in se stesse, e non solo nelle loro cause, le cose che accadranno. Invece un’intelligenza creata, sia pure quella d’un angelo, con le sole sue forze, potrà conoscere un evento futuro solo quando è lo sviluppo d’un effetto contenuto in modo determinato in una causa già conosciuta; non potrà quindi conoscere con certezza infallibile quello che dipende da una libera volontà, poiché questa prima d’agire non è determinata al suo effetto. Un’intelligenza creata potrà conoscere con certezza un futuro libero, solo in quanto tale notizia gli venga comunicata da Dio. E Dio che è l’autore della loquela, può benissimo manifestare altrui la propria conoscenza. Questa comunicazione può avvenire in diversi modi. Nella Sacra Scrittura si parla spesso della parola di Dio rivolta ai profeti. Così per esempio, Mosè udì dal roveto ardente le parole di Dio che gli annunziava i suoi voleri (Esodo III, 4-22). La storia di Giona (Giona IV, 1-11) ci riferisce addirittura un dialogo tra lui e Dio. Tuttavia non si tratta necessariamente di una voce esterna; potrebbe anche essere una locuzione divina interna (Girotti, Op. cit., pag. 47). Il mezzo ordinario con cui Dio soleva fare le sue comunicazioni ai profeti d’Israele erano le visioni. Talvolta visioni esterne, nelle quali un oggetto è offerto ai sensi esterni: così Daniele vide la mano misteriosa che scriveva sul muro (Daniele V, 25). Altre volte è una visione immaginativa, quando l’oggetto non colpisce che i sensi interni, sotto forma d’immagini o simboli: Così Isaia vide sul suo trono il Re della gloria, circondato dai serafini, e udì l’eco del cantico eterno: «Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti» (Isaia VI, 1-3). Altre volte ancora il profeta riceve le comunicazioni divine in una rappresentazione puramente intellettuale.
• L’oscurità delle profezie. La manifestazione del futuro fatta da Dio al profeta può avere diversi gradi. Il più perfetto si ha quando il profeta si rende perfettamente conto del fatto lontano, del suo profondo significato, del tempo determinato, e dell’origine divina della sua predizione. Un esempio chiarissimo l’abbiamo nelle parole rivolte da Gesù a Pietro dopo l’ultima cena: «Questa notte prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte». Il grado più imperfetto si ha quando si annunzia con certezza la cosa futura senza discernere altro. Così quando Caifa nel Sinedrio annunziò che era necessario che un uomo morisse per il popolo, non disse ciò da se stesso — ci avverte San Giovanni (XI, 51) — ma mosso da un’illustrazione profetica, di cui però non si rendeva conto. Quando la manifestazione profetica non è nel grado più perfetto, si trova normalmente accompagnata da qualche oscurità. Però, come osserva Sant’Ireneo (Adv. h. IV. 43), ogni ombra deve svanire quando la profezia si verifica. Sarebbe una povera profezia quella che avesse bisogno di scontorcere pietosamente i fatti per ottenere qualche meschina verosimiglianza. Naturalmente si devono escludere dal novero delle profezie quelle espressioni ambigue che si possono tirare in qualunque senso come il famoso responso della Sibilla: «Ibis redibis non morieris in bello», sempre verificabile, sia che Cesare fosse tornato o no dalla guerra, a causa di quel «non» che si può congiungere col «redibis» o col «morieris»! [Responso, appunto, sibillino ovvero ambiguo: - Se si pone una virgola prima di «non» (ibis, redibis, non morieris in bello), il significato del responso è :«Andrai, ritornerai e non morirai in guerra», e prefigura un esito positivo della missione; - Se, invece, la virgola viene spostata dopo la negazione (ibis, redibis non, morieris in bello), il senso risulta essere sovvertito nel suo contrario: «Andrai, non ritornerai e morirai in guerra»]. Nelle profezie scritturali una causa d’oscurità è spesso il simbolismo, tanto caro agli orientali e destinato a rendere più espressivo l’insegnamento del profeta. Questi talvolta spiega il significato simbolico d’una sua visione o d’una sua azione, ma non sempre. Quando Salomone, sedotto dalle donne straniere, costruì templi a Molok e ad Astarte il profeta Ahia gli predisse la divisione del regno e, incontratosi con Geroboamo servo di Salomone, gli prese il mantello, lo stracciò in dodici pezzi e gettandoglieli ai piedi, gli disse: «Prendi! Dieci sono per te, perché, dice il Signore, dividerò il regno di Salomone e per te saranno dieci tribù». (3 Reg. XI, 29-31). Invece nell’Apocalisse la maggior parte dei simboli sono dati senz’alcuna spiegazione, e quante stranezze si dissero in proposito per interpretarli! Un’altra delle cause d’oscurità nelle profezie della Scrittura è la mancanza di determinazione cronologica. Il profeta è come un aviatore che dall’alto domina e percorre un esteso territorio, ma non distingue più il rilievo: monti, colline e pianura, tutto gli appare come se fosse allo stesso livello. In modo analogo, ai profeti avvenimenti lontani appaiono come vicini o in via di compimento; avvenimenti separati tra loro da lunghi intervalli di tempo (di cui però l’uno è considerato come pegno dell’altro) sono ravvicinati e bloccati nella visione profetica. Quest’assenza di prospettiva, così caratteristica degli scritti profetici, è una conseguenza diretta del modo con cui i profeti ricevevano le comunicazioni divine: infatti nella scienza divina non vi è differenza tra passato, presente, e futuro, (Girotti, Op. cit., pag. 67). Una ulteriore causa d’oscurità è dovuta allo stato frammentario delle profezie; riunendole tutte assieme ci troveremmo davanti ad un quadro relativamente perfetto nelle sue grandi linee, ma i particolari non furono forniti che poco a poco e successivamente: «Dio parlò in antico ai nostri Padri per mezzo dei profeti a più riprese ed in molte guise» (Ebr. I, 1).
• Le profezie riguardanti il Messia. Così, riunendo le diverse profezie riguardanti il Messia (ne citiamo qui solo alcune), possiamo ricostruirne tutti i tratti essenziali in uno splendido quadro: «Discenderà dalla stirpe di David» (Amos IX, 11-12...), «la sua madre sarà una vergine» (Isaia VII, 14) «nascerà in Betlemme» (Michea V, 1) «opererà prodigi strepitosi e senza numero, avrà un annuncio giocondo per i poveri» (Isaia XXXV, 5), «sarà venduto per trenta denari» (Zaccaria, XI, 12) «sarà crocifìsso e trafitto» (Isaia, LIII) «le sue vesti saranno spartite tra i soldati e gettata la sorte sulla sua tunica» (Ps. XXI, 19) «risorgerà dopo tre giorni che fu rinchiuso nel sepolcro» (Isaia, XI, 10; San Marco X, 33-34), «manderà dal cielo lo Spirito Santo» (Atti var.), «la Chiesa da lui fondata uscirà vincitrice da tutte le lotte» (San Matteo XVI, 16). Così al santo profeta Davide: «Hanno forato le mie mani e i miei piedi, hanno contato tutte le mie ossa». Eccetera...
• Il fine delle profezie. Se la fonte della cognizione profetica è Iddio, perché non ci dice le cose chiare e ha lasciato tanta oscurità ? Il motivo è che l’oscurità non nuoce al fine che Dio si propone nel comunicare agli uomini la notizia delle cose future, e anzi molte volte giova. Infatti la profezia, come il miracolo, è ordinata o a provare la verità d’una dottrina annunciata (Cfr. Conc. Vaticano, Denzinger al n° 1790), o la santità della vita del profeta, o l’una e l’altra cosa insieme. Così il fatto che le profezie messianiche si siano adempiute dimostra, anche a chi non voglia presupporre l’ispirazione divina della Scrittura, che tali vaticini sono d’origine divina, non essendo possibile umanamente spiegare come, almeno un secolo e mezzo prima della nascita di Gesù Cristo, fossero predetti tali e tanti particolari della sua vita. [Contro questa sentenza, contro la verità e contro la retta ragione si pone il giudaizzante J. Ratzinger (Benedetto XVI) dove scrive: «È ovviamente possibile leggere l’Antico Testamento così che non sia diretto verso Cristo; non punta abbastanza inequivocabilmente a Cristo. E se i Giudei non riescono a vedere le promesse come compiute in lui, non è assolutamente cattiva volontà da parte loro, ma genuinamente, a causa dell’oscurità dei testi e della tensione nelle relazioni tra questi testi e la figura di Gesù» (God and the World. A Conversation With Peter Seewald, anno 2000, in commercio l’edizione agosto 2002, alla pagina 209)]. Ora siccome tanti secoli dovevano trascorrere dalla prima promessa d’un redentore fatta ad Adamo, sino all’avverto di Gesù Cristo, non era necessario che sin dall’inizio fosse fatta piena luce sul lontano avvenire; che anzi Iddio, andando incontro ai bisogni speciali d’ogni epoca e d’ogni generazione, ha voluto distribuire la rivelazione attraverso i tempi, in modo da mantenere sempre desto e vigilante il popolo eletto ed acuire l’attesa del Messia promesso. Quando, poi, Egli venne su questa terra, l’adempirsi delle profezie accumulatesi nei secoli precedenti, servì, insieme coi miracoli, a confermare la sua missione divina. Dunque affinché la profezia valga come segno, non nuoce qualche oscurità al momento in cui viene enunciata, purché sia chiara e incontrovertibile nel tempo in cui si verifica. San Tommaso aggiunge che la profezia ci serve di guida nelle opere (Summa th. 2a 2ae, q. 174, a. 6). A questo riguardo, qualche volta un annuncio del futuro troppo chiaro e determinato potrebbe tornare a nostro discapito. Dio non ha nessun bisogno di fare sfoggio della sua prescienza, e tanto meno di assecondare la nostra malsana curiosità del futuro, perciò se una data, per esempio, potesse renderci indolenti nell’operare e nel risolverci al bene non sarebbe conveniente che ce le nascondesse? Non è questo il motivo principale per cui ci nasconde anche il giorno della nostra morte?
• Le profezie e la libertà umana. Abbiamo detto che una profezia troppo chiara potrebbe indurre l’interessato a starsene con le mani in mano ad attendere il verificarsi della profezia. Ma ecco qui sorgere una grave difficoltà : «L’uomo, conosciuta la profezia (supposto che riguardi il suo avvenire personale) può fare il contrario e impedire che la profezia s’avveri. Ma una profezia che non s’avvera è una profezia falsa, cioè non è una profezia. Dunque o le profezie non sono possibili, o l’uomo non è libero. Come si può conciliare la libertà umana con le profezie?». Tutto andrebbe bene se con si fosse dimenticato nel ragionamento precedeste di considerare un elemento di estrema importanza. Ed è che la profezia non toglie la libertà ma ne suppone, previsto infallibilmente, l’uso. In questo sta appunto il meraviglioso della profezia. Dio prevede come l’uomo liberamente agirà e predice proprio questo stesso che l’uomo farà di sua libera elezione. Quando Giuliano l’Apostata lesse nel Vangelo che del tempio di Gerusalemme non sarebbe rimasto pietra su pietra, volle dare una smentita a Dio facendolo riedificare. Invece fu proprio egli a compire alla lettera la profezia. Per suo comando furono demoliti gli ultimi ruderi rimasti per scavare le fondamenta, ma non potè riedificare il tempio per le fiamme che eruppero dagli scavi. Così realmente non rimase pietra su pietra del vecchio tempio giudaico (Socrate, Hist Eccl. III, 20, P. G. 67, 430; Sozomeno, V, 22, P. G. 67, 1286; P. Allard, Julien l’apostate, Paris 1910, Vol. II, p. 137-148). Un altro esempio ancor più caratteristico l’abbiamo nelle negazioni di San Pietro; Gesù gli aveva predetto chiaramente che in quella stessa notte l’avrebbe rinnegato tre volte. Ma Pietro non volle credere, e quando si trovò nell’atrio del Sommo Sacerdote, aveva completamente dimenticata la predizione fattagli poche ore prima; non se ne ricordò che all’udire il canto del gallo; ma ormai la triplice negazione era un fatto compiuto. Forse che Pietro non era libero?
• Le leggi psicologiche. I critici razionalisti, che vogliono ad ogni costo negare il soprannaturale, insistono con un’altra difficoltà: la volontà e libertà umana è regolata dalle sue leggi psicologiche e morali. Perciò se qualcuno così sagace le sapesse penetrare e conoscere, ecco possibile la predizione infallibile e certa di eventi liberi futuri anche senza alcun intervento divino. Si! Certamente un uomo di forte ingegno e che abbia cognizione delle leggi psicologico-morali che regolano la libertà umana, può congetturare il futuro, ma non può conoscerlo e preannunziarlo con assoluta ed infallibile certezza. Qualche volta — dice egregiamente il P. Girotti, Op. cit., p. 25 — il filosofo, il poeta, lo storico, lo statista, il diplomatico, possono dirsi in un certo senso profeti. «Essi infatti, come dotati di più profonda perspicacia e più attenti alla realtà fondamentale della vita, e più acuti osservatori delle leggi che comandano lo sviluppo storico, possono leggere nella causa presente l’ulteriore svolgimento dei suoi effetti; e vedere nel principio le conclusioni che ne derivano; e nel fatto fondamentale i conseguenti indirizzi storici. È il genio antiveggente dei grandi che imprimono nella storia la forte impronta della loro personalità. Si rimane però sempre, anche in queste sublimi vette spirituali, nell’ambito umano». Infatti le leggi psicologiche-morali non sono in rigore leggi che abbiano una fissità assoluta, ma piuttosto sono norme che designano ciò che probabilmente l’uomo in determinate circostanze farà; quindi la previsione del futuro che se ne può dedurre non gode di quella infallibilità che è propria delle profezie provenienti da Dio. E la storia ci ricorda che anche i grandi genii più d’una volta si sono ingannati nelle loro previsioni! [Nel libro edito da Sursum Corda sui «Racconti miracolosi», si è detto che anche il demonio è in grado di prevedere, scrutando gli atteggiamenti umani e conoscendone le principali fallacie, determinate conseguenze: ma questa non è profezia].
• Le profezie comminatorie. Ancora una difficoltà circa le profezie della Sacra Scrittura. È nota la profezia di Giona, che entra in Ninive gridando: «Ancora quaranta giorni e Ninive città grande e popolosa sarà distrutta». Intanto il Re e il popolo fanno penitenza e la città, invece di essere ridotta ad un cumulo di macerie, continua ad essere come prima fiorente e prosperosa. Come si salva qui la prescienza di Dio e la veridicità della profezia? O Iddio sapeva che i Niniviti avrebbero fatto penitenza, o sospettava che non l’avrebbero fatta. In ogni caso avrebbe dovuto tralasciare quel così determinato «ancora 40 giorni». No! Iddio fece benissimo ad usare quella espressione forte ed energica per scuotere i corrotti abitanti di Ninive. Egli sapeva benissimo che si sarebbero convertiti alla predicazione di Giona, eppure fa dire quel terribile «ancora 40 giorni». La spiegazione di questo modo di procedere di Dio sta nella natura stessa delle profezie comminatorie. Esse consistono per lo più in minacce di castighi e stabiliscono un termine per la penitenza. Passato quel termine c’è il castigo o il perdono secondo che si è fatta, o no, la conveniente penitenza. Perciò la profezia comminatoria è sempre condizionata. Sarebbe un non conoscere lo scopo di queste predizioni il volere che ad ogni modo si adempiano In questo sbaglio cadde anche lo stesso Giona quando, sotto la sua edera, mentre si riposava dopo la faticosa predicazione, si impazientiva con Dio che non mandava dal cielo il fuoco e non faceva traballare la terra per inghiottire Ninive. Eppure era evidente che, se Iddio avesse voluto assolutamente distruggere Ninive, non occorreva proprio che vi inviasse un profeta a predicarvi la penitenza. Con queste profezie Iddio vuole scuotere. Esse sono un tentativo ulteriore della sua misericordia. Non importa la forma esterna, rigida e spaventosa, con cui sono enunciate. Esse lasciano sempre aperta la porta alla salvezza perché per loro stessa natura sono condizionate.
• Le profezie private. Quanto abbiamo detto sin qui riguarda sopratutto le profezie della Sacra Scrittura, delle quali nessun cristiano può mettere in dubbio che siano vere e proprie profezie. Esse costituiscono una prova della verità della Fede e sono per tutti, come per tutti è la Sacra Scrittura. Ma la rivelazione pubblica si è chiusa con la morte dell’ultimo degli Apostoli. Dopo d’allora ci possono essere delle altre vere profezie? E se ne sono date e se ne danno di quelle che meritano fede? Di fronte a queste domande sono da evitarsi due estremi: di chi non vuol credere nulla e di chi crede troppo. Lasciando da parte i razionalisti e tutti coloro che negano a priori ogni intervento divino nelle faccende umane [per poi, però, credere nell’oroscopo e nella “dea bendata”], anche tra i cristiani vi sono di quelli che, per timore di far la figura dei creduloni, si trincerano in un’attitudine di costante scetticismo di fronte ad ogni fatto meraviglioso, ritenendo che siano tutte storie, frutto di cervelli caldi, illusi e creduli. In realtà non si può negare che anche adesso Iddio possa parlare a questa o a quella persona, e per mezzo loro a questa o a quella comunità o popolo; e di fatto sempre vi sono state nella Chiesa, vi sono e vi saranno persone alle quali Iddio rivela cose occulte o avvenimenti futuri, o per loro privata utilità o per altrui giovamento (Scaramelli, Direttorio Mistico, Napoli 1773, Tr IV, n. 214). Nelle vite dei santi non di rado si trovano riferite delle predizioni e, sebbene si debba procedete con cautela nel giudicarle, come vedremo in seguito, tuttavia non si possono rigettare in blocco, ed alcune di esse hanno tutti i caratteri di vere profezie. Per portare un esempio di attualità, a tutti sono note le apparizioni di Fatima: La Vergine SS.ma nel 1917 apparve a tre fanciulli. Lucia, Giacinta e Francesco; e per bocca dei veggenti il 13 luglio 1917, specificando con ogni precisione, annunziò che il 13 ottobre dello stesso anno, cioè tre mesi dopo sarebbe avvenuto uno strepitoso prodigio alla «Cova da Iria» (Conca d’Iria). Una folla immensa, 70.000 persone, curiose di vedere che cosa sarebbe avvenuto, accorse quel 13 ottobre alla santa grotta e fu testimone del pieno e grandioso verificarsi della predizione. Era un segno che doveva avvalorare le parole dei fanciulli e la manifestazione del segreto loro affidato. Non riportiamo qui, perché generalmente noto, quanto dalla Vergine fu manifestato circa la guerra; ma dopo che l’autorità ecclesiastica, appurata la verità dei fatti con un lungo processo, dichiarò degne di fede le apparizioni alla Cova da Iria, ci pare che sarebbe soverchio scetticismo il voler negare che ai tre fanciulli di Fatima sia stata fatta qualche rivelazione soprannaturale del futuro.
• Le contraffazioni. Dunque — direbbe qualcuno — dovremmo prestar fede a tante corbellerie che ogni giorno un esercito di strolaghe, di medium, di indovini, di bigotte vanno cavando fuori dai loro cervelli isterici, minacciando finimondi ad ogni momento e catastrofi senza fine? Per carità! In quale labirinto ci si metterebbe! Se abbiamo riprovato gli scettici per partito preso, ancor più dobbiamo riprovare quanti sono troppo facili a prestare orecchio a qualunque voce abbia qualche vaga apparenza di origine preternaturale. E non sono soltanto persone del volgo! Sir Oliver Lodge, che pure era uno scienziato di valore, nel 1899 credette alla medium Mrs. Piper, quando questa fece apparire lo spirito di Mosè, il quale preannunziò non lontana una grande guerra, nella quale la Russia e la Francia si sarebbero unite contro l’Inghilterra e l’America, mentre la Germania si sarebbe mantenuta neutrale! Sir Lodge si era lasciato irretire dalle pratiche spiritistiche, e noi possiamo sorridere della sua disavventura; ma non possiamo sorridere quando dei cattolici, con discapito della vera religione, danno credito alle prime fandonie udite in giro. Scriveva recentemente il P. Oddone (Le mistificazioni del soprannaturale ne la Civiltà Cattolica, 1 agosto 1942): «In questi giorni profondamente turbati, un po’ dappertutto sorgono profeti e visionari, che pretendono parlare e operare come ispirati da Dio. Narrazioni di avvenimenti soprannaturali inventati, annunzi di apparizioni celesti e di fenomeni singolari senza alcun serio fondamento, fantastiche predizioni di fatti futuri e di castighi divini, pretese rivelazioni sull’esito degli attuali sconvolgimenti, si diffondono oggi in mezzo al popolo; e gli animi, resi più creduli dalle sofferenze e dal desiderio di uscire dalla presente dolorosa situazione, non solo vi aderiscono facilmente e si esaltano in un morboso fanatismo, ma si indispongono anche contro chi dubita, e disapprovano, criticandole, le stesse disposizioni che vengano prese in qualche caso dall’autorità ecclesiastica. Bisogna richiamare i fedeli ad una maggiore prudenza, che è assolutamente richiesta dal buon senso, dalla pietà illuminata e dall’ubbidienza, che ogni vero cattolico deve alla Chiesa. Credere subito a tali rivelazioni senza alcuna riserva, è un operare con precipitazione; aderirvi senza prova, è irragionevole; propagarle e valorizzarle con l’autorità del proprio nome e della propria posizione, è farsi apostoli illusi d’un meraviglioso pieno di pericoli per le anime. Ogni avvenimento meraviglioso infatti, che non sia veramente divino, oltre gli altri inconvenienti e danni, distoglie gli animi dall’oggetto della vera fede; favorisce la falsa pietà e rende la religione ridicola presso gl’increduli. Coloro che credono troppo forniscono armi a quelli che non credono affatto (...) e quelle profezie che sono sempre seguite da delusioni e da disinganni, sconcertano gli spiriti, disseccano i cuori, e fanno perdere la confidenza in Dio».
• Il contegno della Chiesa. La Chiesa è molto cauta nel giudicare della natura d’un fatto meraviglioso, quale è la profezia; si oppone alle deviazioni; e mette in guardia i fedeli contro le facili illusioni. Ecco un esempio: al principio del secolo XVI in Italia vi fu una vera epidemia di profezie politico-religiose. Questa effervescenza era stata sollevata dalle predizioni fatte a Firenze dal Savonarola. Religiosi ed eremiti si spandevano da tutte le parti e, commentando l’Apocalisse, annunziavano dal pulpito e dalle pubbliche piazze rivolgimenti nel governo temporale e spirituale, e poi la fine del mondo (Pastor, Storia dei Papi, II Ed., Vol. III, Roma 1932, pag. 187-194). Contro questi eccessi insorsero Leone X e il Concilio Lateranese V, condannandoli e proibendo l’annunzio di future disgrazie, la diffusione di rivelazioni e ispirazioni particolari, la pubblicazione di libri che contenessero simili cose, e minacciando ai contravventori la scomunica e altre pene canoniche. Simili disposizioni rinnovava, in tempi più recenti, Leone XIII a riguardo dei libri che trattassero di avvenimenti soprannaturali, di apparizioni, di miracoli, di profezie e di nuove divozioni, emanando una costituzione nella quale condannava tali libri, qualora fossero stampati senza il regolare permesso dei Superiori ecclesiastici; proibizione che si ritrova nel Codice di Diritto Canonico (ovviamente il Pio-Benedettino del 1917) al can. 1399, 5.o. Qualche volta la Chiesa approva le rivelazioni particolari fatte ai santi, ma anche allora non si pronuncia sulla loro natura, e soltanto vuol dichiarare che in esse non si trova nulla di contrario alla fede e ai buoni costumi, di modo che i fedeli possono leggerle senza pericolo e anzi con profitto. E ciascuno è libero di prestarvi fede o no, secondo che gli detta la sua prudenza. Le profezie dei santi. Nelle profezie contenute nella Bibbia non vi può essere errore, perché Iddio guidava lo scrittore con un’assistenza tutta speciale. Ma lo stesso non può dirsi quando si tratta di rivelazioni private; può darsi che una persona santa abbia ricevuto una vera illustrazione da Dio, eppure nella manifestazione fatta agli altri può incorrere qualche errore. Gli scrittori che hanno studiato a fondo tali questioni, come il P. Scaramelli (Direttorio Mistico, Tratt. IV, cap. XVIII) e il P. Poulain (Delle grazie d’orazione, Torino, Marietti 1926, p. 339-369) enumerano parecchie cause d’errore. Vediamone qualcuna. La prima può essere una falsa interpretazione della rivelazione fatta da Dio. Abbiamo visto che non di rado le profezie sono oscure, e non hanno sempre quel significato che mostrano a primo aspetto; e perciò può avvenire che, non dando Iddio maggiore luce, l’anima stessa a cui Dio ha parlato, non comprenda il vero significato di quanto le è stato manifestato. Così Santa Giovanna D’Arco, interrogata in prigione su quello che le dicevano le sue voci, rispose: «Spessissimo le voci mi dicono che sarò liberata con una gran vittoria. E dopo mi dicono: non inquietarti del tuo martirio... tu verrai finalmente nel regno del Paradiso». Tali predizioni erano esattissime, ma Giovanna non ne vedeva il vero senso, credendo, come lo dice lei stessa, che la parola «martirio» significasse la gran pena ed avversità che soffriva in prigione; e la liberazione con una gran vittoria la faceva pensare a tutt’altra cosa che al suo supplizio. (Poulain, p. 343). Un’altra causa, e più frequente, di errori, è l’attività propria dello spirito dei veggenti, che si mescola coll’azione soprannaturale durante la rivelazione. Supponiamo un’anima che abbia avuto un’illustrazione soprannaturale; nulla vieta che con la sua mente ne deduca altri pensieri, o che nella sua fantasia si suscitino nuove immagini; in seguito, riflettendoci sopra e non discernendo più in qual momento preciso fosse finita l’influenza divina e fosse cominciata la propria attività mentale, può avvenire che finisca per attribuire a Dio quello che è frutto della propria immaginazione o memoria o intelligenza. Suor Maria Maddalena della Croce, fondatrice di un monastero a Macao, sin dal 1640 (Civiltà Cattolica S. 2, vol. 7, luglio 1854, p. 8) aveva predetto che l’immacolata Concezione della Vergine sarebbe stata definita come dogma di fede, e che la definizione sarebbe avvenuta in un venerdì, come di fatto avvenne l’8 dicembre 1854. Ma la veggente aggiungeva: «Nella quale occasione, al celebrarsi della Messa del Sommo Pontefice, tutti gl’idoli cadranno nella Cina, nel Giappone e nel mondo universo, e l’impero cinese sarà convertito e l’impero ottomano distrutto e la casa di Dio in Gerusalemme ricuperata per opera d’un eroe austriaco... » (e l’autore dell’articolo credeva riconoscere quest’eroe nell’allora giovane imperatore Francesco Giuseppe!!). Orbene, supposto che la religiosa avesse avuto una vera rivelazione circa il dogma dell’immacolata, per le altre predizioni c’è da temere che abbia scambiato per parola di Dio quello che era soltanto un desiderio della sua anima fervente di missionaria, che si trovava alle soglie della Cina. Infatti non di rado si è portati ad attribuire a un influsso divino quelle idee che lusingano i nostri desideri. (...) La terza causa d’errori può essere dovuta a coloro che hanno raccolto la profezia dalle labbra d’un santo. Può darsi che essi non ne abbiado compreso tutta la portata, può darsi che l’abbiano alterata, e può darsi che si attribuisca a un santo quello che non ha mai detto. Di San Giovanni Bosco non si può negare che fosse dotato di spirito profetico; non sono poche le sue predizioni pienamente accertate e verificate. Ma sono tutte genuine le profezie che si fanno passare sotto il nome di Don Bosco? Non c’è stata nessuna alterazione? Il Card. Cagliero parlava spesso, e con una certa soddisfazione, di un vaticinio di Don Bosco, secondo il quale egli avrebbe dovuto assistere alla ripresa e alla chiusura del Concilio Vaticano. E siccome egli, benché sia morto all’età di 88 anni, non ha potuto prendere parte al Concilio Vaticano, che dopo la interruzione del 1870 non è più stato ripreso, si è vociferato da taluni che il vaticinio di Don Bosco era fallito. Ma il Card. Salotti — come riferisce egli stesso (C. Salotti, Il beato Giovanni Bosco, S. E. I., Torino 1929, p. 631) — aveva chiesto al Card. Cagliero, prima che scendesse nella tomba, se quella profezia gli fosse stata fatta direttamente dal suo fondatore; e il buon vecchio, nella sua nota lealtà, dichiarò che tale predizione non era stata fatta a lui, ma ad altra persona. Questa persona era D. Viglietti. Ora risultò che Don Bosco, parlando un giorno delle ascensioni del suo caro Cagliero, vaticinò che avrebbe assistito ad un grande avvenimento in Vaticano, senza specificare quale sarebbe stato il grande avvenimento. D. Viglietti, che era allora chierico, interpretando a suo modo le parole del fondatore, disse e scrisse che il Cagliero avrebbe assistito alla chiusura del Concilio Vaticano. Si può, invece, spiegare la profezia di Don Bosco, ritenendo che il grande avvenimento fosse il conclave del 1922, al quale il Cagliero prese parte nella sua qualità di cardinale.
• Si possono discernere le profezie vere e false? Abbiamo visto come anche nelle profezie di santi e beati, innalzati dalla Chiesa agli onori degli altari, si possono riscontrare degli errori; e allora ci si può domandare: «È possibile discernere una profezia falsa da una vera? Si può avere la sicurezza che una predizione sia una vera profezia?». Sì, la cosa è possibile, e una conferma l’abbiamo nelle profezie della Scrittura, nelle quali si ritrovano tutti i caratteri d’una vera profezia. E i criteri fondamentali sono questi: 1) Deve constare che il fatto sia stato veramente predetto prima del suo compimento; 2) Deve constare che si tratti di cosa non conoscibile da mente creata, e che esula dal campo delle congetture; 3) Ciò che è stato predetto si sia verificato. È chiaro che quest’ultima condizione (intesa opportunamente, quando si tratta di profezie comminatorie), sebbene da sola non sufficiente, tuttavia è assolutamente necessaria, di modo che ogni qual volta l’evento non corrisponde alla predizione, anche se tutte le apparenze fossero per la veridicità della profezia, la smentita del fatto tronca ogni dubbio. Del resto questo è il segno che Iddio stesso diede al popolo di Israele affinché si guardasse dai falsi profeti: «Il profeta che pieno d’arroganza vorrà dire nel nome mio quel che io non gli comando di dire, o lo dirà nel nome di dèi stranieri, sarà messo a morte. Che se dentro di te dirai: come posso io conoscere essere quello un discorso che il Signore non ha pronunziato? — avrai questo segno: quello che quel tal profeta abbia predetto e non si sia avverato, non l’aveva già detto il Signore, ma se l’era inventato nella sua superbia quel profeta; perciò non n’avrai timore». (Deuteronomio XVIII, 20-22).
• Vana curiosità. Tuttavia qualcuno potrebbe non rimanere soddisfatto: se per sapere che una profezia è vera, bisogna attendere che si realizzi, a che serve ? Quando si tratta d’una profezia d’attualità ciò che interessa è proprio il sapere se si verificherà o no! Ci troviamo qui di fronte a una questione assai difficile da risolversi: sono chiari i criteri negativi, non altrettanto quelli positivi. Così si può giudicare con certezza che ci si trova dinnanzi a una falsificazione, se la predizione contraddice alla Scrittura o agli insegnamenti della Chiesa, o avvalora una prassi contraria alla morale, o non ha altro scopo che di soddisfare a una vana curiosità. Ricordiamo a tal proposito quanto abbiamo detto prima riguardo al fine delle profezie: «La profezia è una delle forme del miracolo. Ora non dobbiamo dimenticare essere norma provvidenziale di Dio non operare miracoli che non abbiano un senso prossimamente o remotamente teologico, una orientazione sempre esclusivamente religiosa. Mai Dio opererà un miracolo soltanto per soddisfare il capriccio erudito di uno scienziato curioso. Per questo medesimo motivo, quindi, una profezia che si proponesse di rivelare in antecedenza e senza un motivo di ordine superiore quale sia per essere — poniamo — il numero fortunato di una lotteria, potremmo senz’altro dire che è una profezia falsa, una pseudo profezia. Dio è troppo alto e troppo rispetta le leggi del mondo che Egli ha creato per rompere, senza ragioni di un ordine più elevato, l’economia ordinaria della sua Provvidenza». (Minerva, 15 settembre 1941, «Guerra e profezie», pag. 387). Questo criterio cerchiamo d’applicarlo a certe profezie politiche di cui è comprensibile che destino interesse; domandiamoci: che utilità vi troveremmo per il bene delle anime o per la gloria di Dio? Tali profezie, sotto un’apparenza di religiosità o di misticismo, si limitano ad annunciare che questa o quella nazione subirà una grande prova, e poi ne sarà liberata, o in modo ancor più generale preannunziano grandi disgrazie, seguite da soccorsi straordinari, senza che vi sia nulla che ecciti alla riforma dei costumi (al ritorno alla vera morale), o indichi qualche mezzo serio (per esempio il ricorso ai Sacramenti) per resistere alla marea del male. (...) Abbiamo così esaminato diversi criteri dai quali possiamo giudicare che una predizione non viene da Dio. Quando non ci sia nessuno di questi elementi negativi, e la predizione sia stata fatta da persona di conosciuta santità, prudenza, e sano giudizio, potremo ritenere con una buona probabilità che si tratti di vera profezia; ma anche in questo caso sarà più prudente attendere che l’avvenimento si sia verificato.
• Profezie che certamente si verificheranno. Sono le profezie del Vangelo che riguardano l’assistenza promessa alla Chiesa da N. Signore Gesù Cristo e quelle sulla fine del mondo. Le prime si possono compendiare nelle parole dette dal Salvatore agli Apostoli prima della sua ascensione al cielo: «Ecco io sono con voi tutti i giorni sino alla fine dei secoli». È una profezia in continuo avveramento: da 1900 anni la storia della Chiesa ci manifesta luminosamente l’opera di Dio in suo soccorso contro ogni genere di avversari, interni ed esterni. E questa profezia è di grande conforto ad ogni fedele, perché come alla Chiesa, così a chiunque crede in Gesù Cristo (come vuole la Chiesa) non mancherà il suo aiuto onnipotente. Le profezie sulla fine del mondo sono state ampiamente espresse da N. S. Gesù Cristo, il quale volle confermarle predicendo la distruzione di Gerusalemme, segno e simbolo della distruzione finale. Dall’unione delle due predizioni, che presentano molti punti di rassomiglianza, e che gli Evangelisti pongono quasi sullo stesso piano, nasce una certa oscurità che ha tratto in inganno più d’uno, e anche in tempi recenti, certi neo-critici, come il (modernista) Loisy, i quali anatomizzando la Scrittura con uno pseudo apparato scientifico, credettero trovarvi che Gesù riteneva imminente la fine del mondo, e che dello stesso parere erano gli Apostoli. Ne seguirebbe l’empia conclusione che Gesù era un falso profeta e gli Apostoli degli illusi; e vana sarebbe la nostra fede. (Sulla distinzione delle due profezie cfr. A. Vaccari, Il discorso escatologico nei Vangeli in La Scuola Cattolica, 1940, pp. 5-23). In realtà l’errore sta dalla parte di questi critici, che interpretarono falsamente i testi del Vangelo e delle Lettere degli Apostoli, confondendo quello che riguarda la caduta di Gerusalemme e quello che si riferisce alla venuta finale del Cristo. Forse al loro errore contribuì il fatto che in tutti i tempi fra i cristiani ci fu chi credette giunta l’ultima ora. Così alcuni dei primi fedeli di Tessalonica, che San Paolo dovette ammonire affinché non si lasciassero smuovere da «pretese rivelazioni.... come se il giorno del Signore fosse imminente». Dalle quali parole dell’Apostolo appare già come egli fosse di ben diverso parere da quello che gli attribuiscono i razionalisti! E l’Apostolo in ciò non fa che seguire l’insegnamento del Signore; questi, ai discepoli che gli domandavano quando sarebbe avvenuta la fine del mondo, rispondeva: «Quanto poi a quel giorno e a quell’ora, nessuno lo sa, neppure gli angeli del cielo ...» (San Matteo XXIV, 36). E subito dopo aggiunse che la sua venuta sarebbe stata subitanea e repentina: «Come avvenne al tempo di Noè, così sarà della venuta del Figlio dell’uomo. Poiché a quel modo che nei giorni avanti al diluvio la gente se ne stava mangiando e bevendo e si sposava e si dava a marito, sino a quel dì che Noè entrò nell’arca, e non si dava pensiero, finché non venne il diluvio e li portò via tutti, tale sarà la venuta del Figlio dell’uomo». (ivi. 37-39). Questo elemento d’incertezza dobbiamo tenerlo presente, da una parte per non fornire armi agl’increduli, dall’altra per non lasciarci trascinare alla loro incredulità. Chi si mostra troppo pronto a scorgere i segni precursori della fine, ed a voler determinare a breve scadenza la data della grande catastrofe, fornisce armi agl’increduli. Questi trovano buon gioco nel deridere la vana aspettativa dei cristiani dei tempi apostolici, o di quelli che nel Medioevo, all’avvicinarsi dell’anno mille, pensavano che non sarebbe più cominciato un altro millennio, o degli ascoltatori delle prediche di San Vincenzo Ferreri. È noto come questo santo dal 1398 cominciasse le sue missioni con le prediche formidabili sopra il tremendo giudizio di Dio, protestandosi ch’egli era l’angelo dell’Apocalisse spedito da Dio a denunziare prossima la fine del mondo. Eppure San Vincenzo Ferreri è morto nel 1419, e il giudizio universale non è ancora venuto. I biografi del santo lo giustificano dicendo che la sua predicazione della fine del mondo era veramente ispirata da Dio, ma aggiungono che quella profezia era condizionata: la Chiesa in quel tempo era dilacerata dallo scisma d’occidente, e i popoli immersi nei vizi, sicché Dio sdegnato era pronto a dar fine al mondo, se non fosse avvenuto un miglioramento, come di fatto avvenne. La spiegazione è plausibile, ma queste predizioni fallite devono renderci cauti nell’arrischiarne delle altre. Eppure queste non mancano e delle più stravaganti. Un eccesso in senso opposto sarebbe la conclusione degli scettici: «È inutile attendere un avvenimento che è stato sempre atteso e che non si è mai verificato». Un’obiezione somigliante veniva già fatta al tempo degli Apostoli: «Dov’è la promessa della sua venuta (del Cristo)? Dopo che i nostri padri sono morti, tutto continua come dopo la creazione » (2 Petr. III, 4). E San Pietro risponde: «Almeno non ignoriate questo, o carissimi, che un sol giorno per il Signore è come un migliaio d’anni, e mille anni come un giorno solo». Tenendo conto di questa considerazione, noi possiamo dire che non è vana l’attesa dei cristiani. (...) I diciannove secoli trascorsi dalla prima venuta di Gesù Cristo sulla terra, sono come un nulla davanti a Dio, e la seconda venuta è sempre ugualmente vicina diciannove secoli fa, come oggi, come il giorno che verrà.
• Conclusione. I cristiani illuminati non hanno mai detto che il Cristo era venuto, non hanno detto: «eccolo!», non si sono mossi ad incontrarlo, non hanno tentato di determinare il tempo e l’ora che sono in potere del Padre; si sono accontentati di aspettare. Ma essi sanno che il Cristo verrà improvviso «come un ladro di notte. Quando diranno: prosperità e sicurezza, allora appunto piomberà su di essi la catastrofe improvvisa» (1 Tess. V, 2-3). E ricordano l’avvertimento del Signore: «Vigilate dunque, perché non sapete quando verrà il padrone della casa, se di sera, ovvero a mezzanotte, o al canto del gallo, oppure di mattino; che venendo d’improvviso non vi trovi addormentati. E quanto dico a voi, lo dico a tutti: vigilate !» (San Marco XIII, 35-37). A proposito di questo testo Sant’Agostino osserva che Gesù «non parlò soltanto a coloro che lo ascoltavano allora, ma anche a quelli che vennero dopo di loro, e a noi, e a quelli che verranno dopo di noi sino alla sua venuta.... Perché dire “a tutti” ciò che spetta solo a quelli che allora saranno, se non perché intende quel modo che spetta a tutti ? Infatti per ciascuno verrà l’ultimo giorno, quando gli verrà il momento di uscire di questa vita; quale sarà in quell’istante, tale sarà giudicato nel giorno finale. E perciò ogni cristiano deve vegliare affinché non lo trovi impreparato la venuta del Signore» (Epist. 199 ad Esychium; Migne, P. L. 33, 906).
Un + Requiem per l'autore Enrico Trabucchi. Pubblicazione a cura di CdP
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Stimati Associati e gentili Sostenitori, «se ci fosse Dio — fin troppi ripetono — se Dio fosse provvido, non permetterebbe tanti mali, non ci lascerebbe soffrire così tanto». Oggi cercheremo di dimostrare la falsità di questa abusatissima proposizione e proveremo a spiegare la relazione che c’è fra la Divina Provvidenza e la presenza del male. La nostra principale fonte sarà l’opuscolo apologetico S.O.S. «La verità che più consola: la Provvidenza», a cura di Angelo Aramu, imprimatur 3 settembre 1944.
• Ecco un fatto che suole costantemente rinnovarsi nella storia delle contraddizioni umane: finché Dio se ne rimane nascosto nel Suo misterioso silenzio, e pur raggiunto da tutte le provocazioni degli uomini, trattiene con misericordia i rovesci della Sua giustizia, gli uomini o lo dimenticano, o orgogliosamente lo rinnegano, o apertamente lo provocano: «Abbiamo peccato — essi affermano — e che cosa ce n’è venuto di male?» (Eccli, V, 4). Appena però Dio li prende in parola, mentre i buoni si affrettano a invocarLo con più umile e fiducioso gemito di figli, i malvagi diventano i peggiori denigratori della Sua bontà. Essi mettono Dio in stato d’accusa per dichiararlo responsabile di quanto accade. Tra i buoni che glorificano Iddio nelle manifestazioni stesse della Sua giustizia, e i cattivi che ne prendono nuova occasione per offenderLo, ci sono quei cristiani meno fermi, i quali, pur credendo in Dio, ardiscono parlare della Sua Provvidenza come un cristiano non dovrebbe parlare. Siccome vedono che Dio non dispone le cose come essi vorrebbero, si credono quasi quasi nel diritto di dubitare se il Suo occhio giunga a vedere proprio tutto, o se per caso non s’inganni permettendo quel che in nessun modo dovrebbe permettere. Resta perciò necessario nel vortice dell’avversità acuire più la nostra mente e disperdere la nebbia che ostacola la nostra visione. La verità della Provvidenza divina non deve mai ottenebrarsi nella mente dell’uomo: Essa è l’unico faro che irradia di vera luce la vita; al Suo spegnersi non restano che tenebre ed il più disperato smarrimento.
• Vestigio della Provvidenza nelle creature. Come è mai possibile negare la Provvidenza di Dio? Se questa perfezione la riscontriamo, l’ammiriamo in noi, quando siamo spinti dal comando imperioso della nostra coscienza a provvedere, con generosa dedizione, con assidua diligenza alla vita dei nostri cari, alla conservazione e prosperità della nostra famiglia; se questa virtù e perfezione la scorgiamo con sorpresa negli stessi animali: la chioccia è provvida verso i pulcini, con amore li assiste, con avvedutezza li guida, con vigile occhio li segue e difende; è provvido l’uccellino, che prepara con finissima arte il nido per la nuova famiglia che aspetta; sono provvide le formiche, che si affaticano mirabilmente, unite nel comune intento di raccogliere a tempo opportuno le necessarie provviste per il futuro; e non avrà Iddio, l’Essere perfettissimo, questa perfezione, questa virtù? Non sono tutte le perfezioni delle creature uno scialbo raggio dell’infinita bontà di Dio?
• L’Ordine dell’Universo. Aggiungi un’altra evidente considerazione: l’ordine mirabile che si ammira in tutto il creato. «Vediamo nelle cose naturali tutto avvenire in modo ordinato e perfetto: ciò non potrebbe verificarsi, se tutto il creato non fosse spinto e regolato a buon fine, con provvida assistenza; perciò tutto quanto l’ordine dell’ universo è un attestato evidente di una provvida mano sapientemente regolatrice» (San Tommaso, Somma teologia, I, q. 103, a. I). Come spiegare l’armonia, il persistente ordine, con cui i miliardi di astri, i pianeti, le comete finora scoperte, continuano nel loro corso regolare, senza un provvido governo, che tutto l’universo sostenga, moderi e conservi? «Se una nave non può sulle onde del mare sostenersi a lungo senza il nocchiero, ma finisce presto col sommergersi, come potrebbe questo universo sussistere per tanto tempo senza una mente che lo governi?» (San Giovanni Crisostomo, Omelia X al pop. Antioch.). Aumenta di splendore questa visione del provvido governo di Dio sul mondo fisico, se riflettiamo sulle leggi senza numero, con cui costantemente si sorregge ed opera il mondo minerale, vegetale ed animale: tutte le scienze naturali sono un unico grandioso libro, sulle cui pagine stanno scritte, a caratteri indelebili, le prove irrefragabili della Provvidenza divina. E gli studi moderni non fanno che manifestare sempre più, a chi non sia accecato da pregiudizi, in che modo Iddio ha assegnato ad ogni essere il suo fine, come gli fornisce i mezzi per raggiungerlo, come dispone e dirige tutte le creature per farle concorrere all’ordine universale. Portiamo qualche esempio. A tutti è noto che generalmente i corpi riscaldati aumentano di volume, e viceversa si contraggono quando vengono raffreddati. L’acqua presenta al riguardo un’eccezione: il suo volume va diminuendo se la si raffredda sino alla temperatura di 4 gradi (supponiamo trattasi di acqua distillata, altrimenti la temperatura di massima densità è un poco più bassa), ma continuando il raffreddamento ritorna ad aumentare; il ghiaccio poi ha un volume notevolmente maggiore dell’acqua. Orbene questo semplice fenomeno fisico ha nell’economia della natura un’importanza veramente provvidenziale. Per esso infatti, durante l’inverno, l’acqua più fredda e il ghiaccio, più leggeri, rimangono alla superficie dei laghi e dei mari, mentre al disotto l’acqua si mantiene liquida e ad una temperatura sufficiente perché vi possano vivere i pesci e innumerevoli animaletti. Senza quella proprietà invece, molti laghi e mari finirebbero per trasformarsi in una massa ghiacciata onde ogni vita sarebbe spenta! È forse il caso che ha disposto tutto ciò? Iddio ha disposto per ogni essere vivente la struttura più adatta per vivere nell’ambiente che gli è destinato! Così per gli insetti, gli animali, le piante, l’uomo ...
• Non meno meravigliosi sono gli istinti con cui Dio provvede alla conservazione della vita e della specie degli animali. Ci limitiamo a due esempi. La femmina della vespa «Amillaria» punge alcune larve di farfalle in pochi punti corrispondenti ai gangli nervosi principali della vittima, introduce nella puntura un veleno che la paralizza, prende questa larva e la porta in vicinanza delle uova che depone in luogo nascosto : le larvette che nascono da queste uova trovano così nella larva paralizzata un cibo vivente e fresco, ma non pericoloso! Il ragno costruisce la tela, impiegando due sorta di fili di seta: una secca ed una vischiosa. Con quella secca costruisce il quadro principale, i raggi concentrici che sostengono i fili vischiosi, destinati ad impaniare gli insetti, e finalmente il suo nascondiglio nel centro. Per non rimanere egli pure impaniato nel vischio dei suoi fili, il ragno possiede delle ghiandole che secernono un liquido oleoso, neutralizzante l’azione del vischio: di tale liquido si spalma le estremità delle zampe, tanto quanto è necessario, senza sciuparne una goccia. «Questa mirabile attività non potrebbe svolgersi, se non soggetta ad una volontà superiore ordinatrice. Chi si rifiuta di ammettere ciò, non ha l’abitudine di pensare» (Anile, Le meraviglie del corpo umano, C. 3).
• Lo sguardo provvido di Dio è sopratutto rivolto all’uomo. Ma si potrebbe subito obbiettare: «Che m’importa, che Dio abbia cura continua degli astri del cielo e presieda costantemente alle vicende della natura, se poi ha dimenticato l’opera più grande delle Sue mani, l’uomo, lasciandolo in balia degli eventi, delle sue passioni, della sua libertà?». Difficoltà senza fondamento. La provvida cura manifestata da Dio nel mondo fisico non è altro che un indizio di una più vasta e mirabile Provvidenza, con cui regola le sorti dell’uomo in tutti i suoi giorni, in tutti gli istanti della sua esistenza. L’universo intero è per l’uomo, e l’uomo per Dio! Non avrebbe ragione alcuna il governo di Dio sul mondo materiale, se non avesse sopratutto il Suo sguardo fisso sull’uomo, costituito dalle Sue stesse mani re del creato. La stessa scienza che ci ha mostrato la Provvidenza nel mondo fisico, ci offre numerose prove di questa consolantissima verità. Eccone una. Allo spossato viaggiatore delle foreste o del deserto, si presenta una oasi o una capanna circondata da palme di cocco. Entra nella capanna, e l’ospite gli offre una bibita rinfrescante che infonde novello vigore. Invitato a partecipare al suo desco, il viaggiatore vede offrirsi alcuni cibi di verdure posti su piatti bruni, lucenti e tersi. Quindi gli si offre del vino veramente squisito. Verso la fine del pranzo: confetteria succulenta, e un bicchierino di generosa acquavite. Chi, in paese tanto sprovvisto e deserto, offre agli uomini tante dovizie? L’acqua estratta dal cocco prima che il frutto sia maturo. La mandorla così gustosa del frutto maturo. Il latte così gradevole contenuto all’interno della mandorla. La verdura così delicata, tenero germoglio dell’albero di cocco. Il vino ricavato incidendo il gambo del fiore di cocco. Vino che, esposto al sole, diventa anche un eccellente aceto. Lo stesso liquore che, bollito, dà lo zucchero per la confettura. Finalmente tutti questi vasellami e questi utensili di cui ci siamo serviti a tavola, sono tutti fatti del guscio di cocco. Il legno forte e durevole usato per costruire la struttura della capanna. Le foglie secche della medesima pianta di cocco, intrecciate, diventano il tetto. Più ancora: a pochi passi dalla capanna, sulla spiaggia sta quella barca a vela: anch’essa costruita coi cocchi. Così le funi e le reti per la pesca realizzate con la fibra di cocco... Questa è la provvida pianta per l’indigeno. Ma l’industria moderna ha trovato nel cocco altre meraviglie ancora. Ecco come la Divina Provvidenza ha fatto ricchi, con una pianta sola, i poveri indigeni. Potrebbero essi, ragionevolmente, pensare che Dio si prenda più cura delle piante che di loro?
• La scienza non è che l’eco della fede. Perché non avessimo mai a dubitare di questo continuo sguardo di Dio su di noi, Gesù ha trovato queste espressive immagini: «Non vi affannate troppo di quello onde alimentare la vostra vita, né di quello onde vestire il vostro corpo. Guardate gli uccelli dell’aria, i quali non seminano, non mietono, né riempiono i granai; cionostante il vostro Padre celeste li pasce ugualmente. Non siete voi più di essi? Considerate i gigli del campo, come essi crescono; eppure non lavorano, né filano. Ora Io vi dico, che nemmeno Salomone, in tutto il suo splendore, fu vestito come uno di essi. Se dunque Dio riveste in tal modo l’erba dei campi, che oggi è e domani vien gettata nel forno, quanto più non vestirà voi, uomini di poca fede?» (San Matteo, VI, 25-30). Ed ancora: «Non è forse vero che due passerotti si vendono per un soldo? Eppure uno solo di questi non cadrà a terra, senza il permesso del Padre vostro. Non temete dunque: voi valete ben di più di molti passeri» (San Matteo, X, 29). «Non cadrà capello dal vostro capo» (San Luca, XXI, 18). Linguaggio stupendo, parole mirabili, che da sé sole bastano ad orientare e sostenere l’uomo nel cammino della vita, a custodirgli nell’anima la gioiosa certezza di non essere mai solo nelle prove quotidiane, ma sempre assistito, confortato dall’occhio vigile, dalla mano provvida di Dio, Padre universale. Ma non possiamo tralasciare le parole con cui Gesù compendia il Suo insegnamento: «Cercate Prima di tutto il Regno e la sua giustizia, e tutto il resto vi sarà dato in soprappiù» (San Matteo, XVI, 32), ecco a quale condizione potremo sperimentare in nostro favore la Provvidenza di Dio: se avremo osservato la legge morale, quella legge che Iddio ha scolpito nel nostro cuore, e che ha più chiaramente confermato con la Sua parola. Poiché l’uomo, a differenza di tutte le altre creature terrene, ha un’anima, ha una libertà, e gli è assegnato un fine superiore ed ultraterreno, la partecipazione alla gloria stessa di Dio, a quello che Gesù Cristo chiama il Regno di Dio. Questo fine a cui l’uomo è destinato, è un bene che supera immensamente qualunque bene materiale, e perciò come l’uomo deve subordinare ogni altra cosa al raggiungimento del suo fine, così Iddio nel dirigere con la Sua Provvidenza gli avvenimenti umani, fa sì che tutto converga a guidare l’uomo alla salvezza della sua anima. Questo concetto ci deve rimanere costantemente dinnanzi agli occhi, se vogliamo comprendere qualche cosa della divina Provvidenza.
• Dio nella storia dell’umanità. A chi si limita a considerare gli avvenimenti della storia frammentariamente, uno separato dall’altro, potrà sembrare che in essi non intervengano che delle cause naturali: dei fattori economici o geopolitici, degli influssi fisici o fisiologici, delle passioni umane. Ma chi si solleva a considerare con uno sguardo sintetico tutta la storia dell’umanità, oltrepassando il velo dei fatti contingenti, potrà vedere, o almeno intravedere, un grande piano direttivo: il piano della Divina Provvidenza. Così finanche Gian Battista Vico, dopo i suoi lunghi e profondi studi sulla filosofia della storia, pronuncia una sentenza, che è sintesi della vita dei secoli: «La storia è la giustificazione della Provvidenza». «Le menti più elette, votatesi agli studi storici, nel movimento universale delle nazioni vedono un grande dramma, i cui innumerevoli attori, spesso inconsciamente, seguono un’alta ragione, secondo la frase felice: l’uomo si agita, Dio lo conduce» (Mons. Marini, Gli splendori del Credo, pagina 102, Amalfi 1939). E al centro della storia dell’umanità sta Gesù Cristo, il Redentore del mondo: i secoli che lo precedono tendono a Lui, quelli che lo seguono, vivono sotto le Sue irradiazioni. Diamone un breve cenno. Il popolo ebraico viveva sotto un assistenza tutta particolare: esso doveva conservare la promessa e l’aspettazione del Salvatore del mondo. Quattro imperi concorrono alla realizzazione dei disegni divini: l’impero babilonese fa schiavo il popolo ebreo e così viene in contatto con le sue credenze e tradizioni; l’impero persiano, mentre dapprima cerca di disperderlo, finisce col proteggerlo e favorirlo; l’impero greco ne facilita la diffusione e lo mette in valore, facendo tradurre dalla lingua ebraica i Libri santi, che vengono così universalmente conosciuti; l’impero di Roma stringe alleanza coi forti Maccabei e permette alla stirpe ebraica di diffondersi sempre più in tutte le contrade del mondo, portando ovunque la sua fede e la sua grande speranza. I secoli si succedono e il desiderio, l’aspettazione del Messia è oramai universale. E quando Gesù nasce nella grotta di Betlemme, la Sua nascita non è nota che a pochi pastori e ad alcuni dotti orientali, eppure tutto nel mondo è predisposto affinché la Sua parola, come una scintilla, si propaghi attraverso tutti i popoli.
• La Chiesa cattolica opera della Provvidenza. L’opera grandiosa di Cristo è la Chiesa cattolica: Essa si sviluppa in un modo prodigioso. È il granello di senapa che deve diventare un grande albero! È il fermento che deve lievitare tutta la massa. Difficoltà insormontabili si frappongono alla sua diffusione. Gli uomini a cui è affidata sì grande opera sono dodici pescatori, rozzi, timidi, poveri, ignoranti, odiati perché appartenenti ad un popolo, che secondo l’espressione di Cicerone «è nato per la schiavitù», e a dire di Seneca: «una razza scellerata fra tutte». Non importa! Questi uomini, nel piano provvidenziale di Dio, devono riformare il mondo, conquistarlo, plasmarlo di una nuova civiltà. Con quali mezzi? Praticando, diffondendo e predicando una dottrina, piena di misteri, una morale, la più austera, che muove guerra a tutti i vizi e propone l’osservanza di tutte le virtù. Quali gli obbiettivi? Abbattere la superstizione, l’idolatria, la mitologia; infrangere le catene della schiavitù; disperdere ogni tirannia, sopprimere ogni crudeltà. La lotta incomincia cruenta! Per tre secoli gli imperatori di Roma si affaticano invano, con le più inaudite persecuzioni, ad arrestarne il corso. Ma la Croce trionfa e Costantino Magno china la sua fronte al Cristianesimo e riconosce la sua vittoria. «O cosa nuova e stupenda! — esclama San Giovanni Crisostomo — I Romani hanno potuto soggiogare migliaia e migliaia di Giudei, e non hanno potuto vincere i dodici loro Pescatori che combattevano con essi, spogli di tutto, senza armi! Le pecore hanno vinto i lupi» (Hom. 75 in Matt.; Hom. in Isaiam, C. 2). Altre lotte si preparano : le eresie, che mirano a falsare la sua dottrina, le irruzioni dei barbari, che minacciano di rovinare tutte le conquiste fino allora raggiunte, le usurpazioni violente e subdole dei re e imperatori, che vogliono limitarne la libertà aggiogarne l’autorità, la corruzione morale, che infiltrandosi nel suo centrale organismo, attenta ad offuscarne e (se mai fosse possibile) distruggerne la santità. Il protestantesimo, il liberalismo, l’anticlericalismo, la massoneria, il bolscevismo, il neopaganesimo sono nuove correnti avverse che le contrastano la marcia trionfale! Ma essa tutto travolge! «Nei momenti culminanti sono apparsi grandi Papi, grandi Vescovi, grandi Missionari, grandi Fondatori, grandi Riformatori, grandi Santi di tutte le condizioni sociali. Essi entrano nella scena della vita, non a caso, ma con un ordine, per missioni proprie, con attitudini speciali. Per lo svolgimento di un piano Prestabilito, per attuare un grandioso disegno. Benché separati gli uni dagli altri per ragioni di nazionalità e di tempo, essi formano un magnifico coro, sotto una sola direzione e un’identica guida» (Mons. Marini, Op. cit., pag. 99). Nessuno può spiegare questa storia della Chiesa senza il particolare intervento della Provvidenza di Dio.
• Provvidenza per i singoli. E Iddio non solo dirige il corso degli eventi politici e sociali per il bene della Chiesa, ma inoltre si prende cura dei singoli per dirigerli al conseguimento della vita eterna. La Provvidenza di Dio non si esaurisce come quella degli uomini, che è limitata nella loro scienza e nel loro potere. No, Iddio è infinitamente perfetto: Egli tutto sa, non solo quello che è necessario o conviene alla massa, ma anche quello che è necessario e conviene a ciascuno di noi. Egli tutto può, e senza far violenza alla libertà umana, senza far miracoli ad ogni pie sospinto, può modificare il corso degli avvenimenti per porgere ad ogni uomo i mezzi con cui egli possa salvarsi.
• Il problema del male. Ma qui sorge spontanea un’obiezione: «Se in Dio ci sono tante perfezioni, se Iddio si prende tanta cura degli uomini, come mai nel mondo c’è tanto male?». «Problema oltremodo difficile, non già perché non abbia la sua soluzione, la sua vera soluzione convincente ed appagante, ma perché questa soluzione suppone e richiede tante cose; suppone quella serenità di riflessione, così difficile ad avere, quando siamo umiliati o irritati sotto la sferza del male; quella sincera, ma poco gradita umiltà, che ci addita in noi stessi, nel nostro orgoglio, nella nostra intemperanza, nelle nostre passioni, la causa più frequente dei nostri mali; quell’equilibrio di giudizio, che ci fa individuare accuratamente i vari aspetti dell’obbiezione che si esamina, non ci fa abbandonare la verità già conquistata dinanzi alla gravità dell’obbiezione, ma ci fa discernere ciò che possiamo spiegare e ciò che non possiamo» (Gaetani, La Provvidenza Divina, Conf. VI, D’Auria, Napoli 1941). Molte intelligenze per questa grave difficoltà, che si erge contro la Provvidenza divina, si disorientano: il problema del male li spinge a mormorare, a criticare il governo di Dio. «Non osano costoro — diremo con Sant’Agostino — criticare un fabbro, un artefice nella sua officina, alla vista di tanti arnesi e strumenti, ed hanno l’ardire superbo di riprendere e criticare Iddio nel governo del mondo, vedendo tanti mali, di cui ignorano affatto l’alta finalità» (Sant’Agostino, in Ps. 148. In Genesim c. Manich. I, 16). Il primo atto doveroso, che dinanzi a questo gravissimo problema ci suggerisce la retta ragione, dopo il sicuro possesso della verità, è l’adorazione degli imperscrutabili giudizi di Dio e delle Sue vie recondite nel governo di ogni singolo uomo e di tutta l’umanità. «O abisso della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono incomprensibili i Suoi giudizi, imperscrutabili le Sue vie! Chi ha conosciuto il Pensiero del Signore?» (San Paolo, Ai Romani, II, 33). «Con chi si è consigliato, e chi è, che l’abbia istruito, gli abbia mostrata la via della giustizia e insegnata la scienza e fatto conoscere la via della Prudenza?» (Isaia, XL, 14). Con questo previo atto di umile adorazione possiamo, adesso, fiduciosamente inoltrarci nella soluzione del problema, nell’indagine delle ragioni sapienti, per cui Dio vuole e/o permette tutti quanti i mali che affannano la breve esistenza umana.
• Se Dio è buono perché permette tanti mali? Chi pronunzia queste parole, forse dimentica che tra gli attributi divini c’è anche quello della giustizia, e che nel mondo troppe sono le ingiustizie che Lo provocano. Prima quindi di costituirci giudici di Dio, sarebbe necessario farci giudici di noi stessi (a tal proposito si legga l’esile e schietto approfondimento: «Non ho peccati ... che male faccio ... non rubo e non uccido» ---> https://bit.ly/3h94a5F). Prima di chiedere a Lui perché ci colpisce così duramente, dovremmo chiedere a noi stessi che cosa non abbiamo fatto per obbligarLo a colpirci. «Il peccato — dice il Santo Padre Pio XII — è nella vita degl’individui, nel santuario della famiglia, nell organismo sociale, non già soltanto per debolezza o impotenza tollerato, ma scusato, ma esaltato, ma entrato come da Padrone nelle manifestazioni più varie del vivere umano» (Radiomessaggio del 29 giugno 1941). Il peccato è entrato nella vita come un sistema. Ciò che il Vangelo ci mostra come il male sommo della vita, è stato invece convertito in un bene, è divenuto come concezione di vita, qualche cosa senza di cui la vita sarebbe impossibile. Un romanzo, uno spettacolo, un divertimento difficilmente oggi potrebbe dirsi interessante se non è condito dal peccato. E parlare di peccato a una gioventù che si abbandona a tutte le sfrenatezze, a coniugi dediti a ogni forma di frodi contro la santità dei loro obblighi, a uomini di più larga responsabilità, c’è solamente da sentirsi rispondere con un sorriso di compatimento. Iddio dovrebbe dunque esistere unicamente per tollerare sempre, e quasi quasi per rendersi col suo silenzio complice di tutte le loro lordure. Dire, pertanto, allo scoppiare di certi flagelli, che questi sono il frutto del peccato, è come parlare un linguaggio inintellegibile. Eppure bisogna riconoscere semplicemente che un Dio cosi buono permette tanti mali, perché l’umanità e cattiva (D. Mondrone, La divina Provvidenza negli enigmi dell ora presente, in Civiltà Cattolica, 1941, III, p. 91).
• Per la vita futura. Non vogliamo però dire che ogni male sia immediato castigo di un peccato, poiché molte volte le tribolazioni schiacciano gl’innocenti. È perciò necessario tener presente una delle leggi fondamentali che regolano l’esistenza umana: la destinazione a una vita futura. Certamente se tutto finisse con la vita presente, sarebbe impossibile giustificare la Divina Providenza nella distribuzione dei beni e dei mali; sarebbe impossibile comprendere perché tanto spesso le tribolazioni opprimano l’innocente (atteso che sia veramente innocente), mentre una quantità d’ingiustizia e di delitti rimangono impuniti. A quel modo che la conformazione dell’uccellino, racchiuso nell’uovo e pur dotato di becco per frugare i vermi nella terra, di ali per volare, di agili gambette per saltellare sui rami, sarebbe non un mistero ma un assurdo per chi si ostinasse a dire che esso è destinato da natura a morire nel guscio, e non sono per lui i campi spaziosi del cielo. Ma alla luce d’una vita futura tutto s’illumina, noi possiamo comprendere perché il giusto soffra in questa vita, perché Iddio permetta il trionfo momentaneo dell’ingiustizia e del male. Noi per ora non scorgiamo che il primo atto del dramma umano; il secondo o meglio lo scioglimento del dramma è la vita futura in cui ciascuno riceve la retribuzione delle sue opere. Iddio ora lascia impuniti tanti delitti, perché si riserva di giudicare i colpevoli al termine della loro vita: è paziente, perché è eterno. Questo è cosi vero, che filosofi cattolici e non cattolici, dall’evidente ingiustizia della vita presente, hanno dedotto con assoluta certezza l’esistenza di una vita futura (cfr. Opuscolo S.O.S., numero 58, Immortalità, pag. 23 seg.). Agli uomini di buona volontà impone invece spesso delle dure prove, prepara dei gravi dolori, affinché la loro vittoria sia più splendida, e il mezzo di acquistare una ricompensa eterna. Alla luce di questi principii sarà più facile comprendere la soluzione del problema del male.
• Principio generale della soluzione: Iddio dal male trae il bene. La chiave d’oro per aprire il difficile enigma ce la porge Sant’Agostino, enunciando in questi termini il principio generale: «Dio essendo il sommo bene non permetterebbe che esistesse il male nelle Sue opere, se non fosse così onnipotente e buono, da suscitare dal male il bene» (Ench., C. 11, M. 40 - 236). Secondo questo principio generale Dio non vuole mai direttamente il male, sia esso fisico (dolore o distruzione di una creatura) o morale (peccato), ma solo indirettamente; se fisico lo vuole in vista di un bene, se morale solamente lo permette, sempre in vista di un bene. Si noti l’importante distinzione: abbiamo detto che solo il male fisico può essere voluto da Dio, come mezzo per il raggiungimento di un bene: non il male morale. «Il male che proviene dalle cause naturali — osserva San Tommaso — o il male afflittivo in Pena di una colpa Dio lo vuole, ma sempre come congiunto ad un bene, cosicché volendo, che si osservi la giustizia, vuole anche la pena per i suoi trasgressori, e volendo la conservazione dell’ordine naturale, vuole anche insieme la corruzione e la morte di molte creature» (San Tommaso, Somma Teol., I, q. 19, a. 9). Il male morale, invece, Dio non può in alcun modo volerlo, neppure come un mezzo ordinano ad un fine buono (il male e l’errore non hanno diritto all’esistenza), ma solo permettterlo, sempre in vista di un bene, il quale in rapporto a questo male morale non avrà ragione di fine, ma semplicemente di necessaria condizione. La ragione è profonda: il male morale dice opposizione assoluta alla volontà di Dio e volerlo anche semplicemente come mezzo per il raggiungimento di un bene, implicherebbe in Dio una contraddittoria volontà. La massima: «il fine giustifica i mezzi», è difatti falsa e pervertitrice. «Il peccato in quanto è peccato consiste nell’avversione della volontà creata dall’ultimo fine. Ora è impossibile, che Dio voglia questa avversione. Questo unicamente si addice a Dio: attrarre tutto a sé e che nulla sia da sé deviato. Egli è il sommo bene e non può essere causa di nessuna avversione dal sommo bene» (San Tommaso, De malo, Q. III, a. I.). Al contrario, il male fisico, essendo necessaria conseguenza della limitazione delle creature, può essere voluto da Dio come mezzo per un bene superiore. Così, ad esempio, per mantenere gli uccelli, che ci colmano di gioia coi loro gorgheggi, Dio può volere, anzi vuole espressamente la morte di innumerevoli bruchi. Li ha creati anche per questo; poiché la specie inferiore è per la superiore e tutte per l’uomo: l’uomo solo per Dio.
• Le soluzioni particolareggiate e pratiche. E quali sono i vantaggi, i beni, che l’uomo nell’intenzione di Dio, può e deve ricavare da tutti i mali della vita? A questo interrogativo il Cristianesimo ha risposto e continua a rispondere con una triplice soluzione, che Sant’Agostino, col suo genio, ha saputo ridurre in questa mirabile formola, che si potrebbe chiamare: tutta la sintesi cristiana del dolore: «Giovano questi mali o per correggere i peccati, o per esercitare e provare la virtù o per dimostrare la miseria della presente vita, affinché più ardentemente e con più insistenza si desideri quella in cui è la vera e perpetua felicità» (Sant’Agostino, De Trinit., XIII, M. 42, 1030). Esaminiamone il profondo contenuto.
• Giovano i mali per correggere i peccati. La correzione dell’uomo: ecco la prima finalità del dolore e di tutti i mali della vita. Facilmente l’uomo, abusando della sua libertà - (e Dio ci vuole liberi, non schiavi. Fanno decisamente pena quei paladini delle libertà e dei “diritti civili”, ovvero dei peccati mortali e di ogni aberrazione contro natura e contro l’ordine sociale, attaccare l’esistenza stessa di Dio, asserendo che non può esistere un Dio che voglia il male. Indirettamente essi sostengono che non può esistere un Dio che ci voglia liberi. Vorrebbero, questi paladini delle libertà, forse un Dio che ci faccia tutti Suoi schiavi?) -, abbandona la legge divina, la strada che lo conduce al suo alto destino, e con questo deviamento, cade nella più grave sventura, nel peccato, che non è altro che sviamento dalla somma sostanza, separazione da Dio, suprema felicità dell’anima umana. Dinanzi a questa miseranda aberrazione. Iddio, infinitamente buono e misericordioso, non può rimanere indifferente, ma s’inchina, sollecito della salvezza dell’uomo, ed il mezzo efficace che Egli sceglie nella Sua sapienza è il dolore. Semina di spine le vie dell’uomo iniquo, sparge di amaro le sue peccaminose gioie, simile a Padre amoroso, che vedendo un suo figliuolo traviato, lo riprende e castiga; a coscienzioso medico, che per impedire la cancrena e la morte dell’infermo, non tralascia di somministrare con mano ferma, le più disgustose ed amare medicine, e di fare le più dolorose amputazioni. «Per questo Dio fa sorgere la tribolazione, affinché il vaso, che è pieno di nequizia si vuoti e si riempia di grazia» (Sant’Agostino, Enarrat. in Psalm., 55, 14). «Può Dio in questo stesso giorno far cessare le tribolazioni, ma finché non ci vede purificati, finché non scorge in noi avvenuta la conversione e la seria penitenza, non scioglie la tribolazione. Egli fa, come un orefice, che fonde il suo oro: fintantoché non lo vede nel crogiuolo purificato da ogni scoria, non lo estrae dal fuoco» (San Gio. Crisostomo, Omelia al popolo Antioch., IV - 2). «Mediante l’energica, ma salutare terapia del dolore, l’orgoglioso diventa umile, l’iracondo mite, l’egoista generoso, il sensuale temperante e casto. E certi pregiudizi, certi dubbi religiosi, che nei giorni di felicità terrena e di tripudio mondano cercavano di annebbiare i valori religiosi e morali, perché questi valori erano troppo contrastanti con la concezione edonistica della vita, alla scuola del dolore, questi pregiudizi, questi dubbi svaniscono. Per cedere il posto al più ardente bisogno di avvicinarci, di stringerci a Dio, per invocare da Lui quella felicità vera e saziante, che le creature non sono riuscite a darci» (Gaetani, La Provvidenza divina, Conf. XII). Per questa sublime finalità del dolore leggiamo nei Libri santi: «Figlio mio, non rigettare la correzione del Signore, e non scoraggiarti quando sei castigato, perché Dio castiga chi ama e si compiace in Lui, come un Padre nel figlio» (Proverbi, III, 2). La storia di tante anime attesta quanto sia efficace il dolore e la tribolazione per correggere ogni traviamento. Eloquentissima questa testimonianza di Giosuè Borsi, dopo che Iddio l’aveva percosso con l’improvvisa morte del padre, poi con quella della sorella, e la povertà che venne a battere alle porte di una casa prima ricca: «Quando hai veduto, o Signore, che stavo per rimanere per sempre schiavo del vizio, e che, abbandonato a me stesso, mi sarei perduto irresistibilmente, ecco i grandi colpi della sventura. Signore, ti sei degnato di ricordarti di me e mi hai colpito più volte con mano ferma terribilmente; mi hai fatto piangere, mi hai avvilito. Ogni volta che mi hai visto pronto a ricadere, anzi ricaduto, ecco allora i Tuoi nuovi colpi, i Tuoi strazi più terribili. Grazie, grazie, o Signore, ora vedo che così mi hai salvato. Dovevi parermi crudele, ma eri infinitamente buono. Così mi sono rammentato di Te, così ho sperato in Te, così ho potuto ravvicinarmi alla Tua grazia. Il dolore è veramente il Tuo alleato, o Signore» (dai Colloqui). Si potrebbe obbiettare, che talvolta la sofferenza di questi mali, invece di condurre a Dio, allontana da Lui. Non si può negare, ma sono casi di eccezione, in confronto delle innumerevoli anime, che nel dolore hanno trovato la via della resipiscenza e della risurrezione. «O cosa magnifica! — possiamo chiudere questa considerazione con San Giovanni Crisostomo. Quello che è un supplizio si tramuta in salvezza. Al peccato tiene dietro il dolore: il dolore consuma e distrugge il peccato. Come il verme, nato nel legno consuma lo stesso legno, così il dolore che consegue al peccato, lo consuma e distrugge» (De poenitent., Hom. VII). Ed i parenti di Giosuè Borsi deceduti? Si Potrebbe obiettare che, per indurre particolarmente il Borsi alla conversione, Dio lo ha colmato di tali e tanti dolori: come la morte del padre amato e della sorella. Questi ultimi due che colpe avevano? Una obiezione che muore in principio, se si è avuta la pazienza di leggere con attenzione, senza pregiudizio, le massime e le spiegazioni fin qui date. Quanti moderni blasfemano accusando Dio della morte di un piccolo, innocente bimbo? Ebbene: quel bimbo non è certo morto per castigo, poiché, battezzato ed incapace di peccare, è adesso in Paradiso. È un castigo o è piuttosto un premio per il bambino che Dio ha voluto presto con Sé? Solo la stoltezza degli empi e dei moderni può accanirsi con simili pensieri così bassi e rozzi. Pecchi pure l’uomo moderno quanto vuole, ma lasci stare questi argomenti che non sono degni di chi non vede bene in quanto accecato dalla lussuria, dall’avarizia, dalla mollezza, dalla maldicenza, dal tradimento, dall’adulterio, dalla sodomia, dalla droga, dalla pornografia e dalla cupidigia più in generale. Lo zotico - benché si dichiari illuminato e civile - pensi alla materie sozze e basse, sudice e sporche che gli si addicono: lasci stare i concetti elevati, sapienti e santi.
• Giovano i mali per provare la volontà umana. La prima soluzione del problema del male suppone nell’uomo il peccato; non è quindi applicabile all’uomo che si conserva fedele al dettame della retta coscienza (= osservanza della legge naturale + servizio di Dio). Ed ecco perciò l’altra sublime finalità di tutti i mali della vita: «Giovano questi mali per esercitare e provare la virtù». La vita è una prova, è un combattimento! «Dinanzi all’uomo sta la vita e la morte, il bene ed il male: quello che avrà preferito gli si darà» (Ecclesiastico, XV, 14). Ognuno è chiamato a pronunciarsi: o per la virtù — mèta la felicità eterna — o per il vizio — prospettiva un’eternità di dolore. — Questo è il vero concetto della vita umana! Concepirla diversamente è la più grande illusione; si voglia o non si voglia, la lotta resta e nessuno può sfuggirla. Ma se la virtù è una prova, un combattimento, ne consegue che devesi lottare contro difficoltà, che in essa ci devono essere ostacoli da superare, che abbiamo da affrontare nemici. Che prova sarebbe mai quella in cui non ci fossero sforzi e atti generosi da compiere? Ce lo attesta Gesù stesso: «Se amate (solo) quelli che vi amano, quale grazia ve ne viene?». Ora i mali della vita sono precisamente offerti a noi come occasione di combattimento, come esercizio di virtù. È nel furore della battaglia che risplende il valoroso soldato, che egli può compiere i più grandi eroismi, e guadagnare le decorazioni più invidiate; come pure si rivela il vile, abbandonando il suo posto di combattimento, fuggendo invece di fronteggiare il nemico, gettando a terra le armi invece di impugnarle per la salvezza propria e della Patria. «Come sotto uno stesso fuoco — rileva stupendamente Sant’Agostino — l’oro risplende e la paglia dà fumo, come in uno stesso setaccio passa il frumento e s’incaglia la pagliuzza, come sotto un medesimo torchio cola spremuto l’olio purissimo e la feccia, così una stessa tribolazione che sopraggiunge, prova, purifica, seleziona i buoni, mentre rovina e stermina i malvagi» (De Civ. Dei, Lib. I, C. 8, n. 2). Qui è anche tutta la sintesi del Vangelo: un invito al combattimento ed alla lotta continua; solamente a questa condizione si può divenire discepoli di Cristo. «Chi vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (San Matteo, XVI, 24). Per questo Gesù ha additato la vita presente come una via stretta ed una porta angusta: «Quanto è angusta la porta e stretta la via che mena alla vita !» (San Matteo, VII, 13). Immagine di quella che dev’essere sempre la vita del cristiano: costante esercizio di virtù, sacrificio e immolazione continui. Se tutti i mali presenti nell’intenzione di Dio sono ordinati alla prova e valorizzazione della vita, all’acquisto dei meriti per la gloria immortale, essi evidentemente non sono mali, se non apparentemente; in realtà sono anch’essi beni e beni di un valore incalcolabile, secondo la splendida affermazione paolina: «Tengo per certo che i patimenti del tempo presente non hanno alcuna proporzione con la gloria futura, che si manifesterà in noi (Ai Romani, VIII, 18). «Quello che al presente è una momentanea e leggiera tribolazione diviene per noi un peso eterno di una sublime ed incomparabile gloria» (II Ai Corinti, IV, 17).
• Giovano i mali per dimostrare la miseria della presente vita. Secondo la prima soluzione i mali della vita servono a ricondurci nel sentiero abbandonato della vera felicità; la seconda spiega i mali come mezzi validissimi per farci avanzare in questo retto sentiero; ora i mali si rivelano efficacissimi richiami a mirare al termine gioioso del sentiero della virtù. Mirabile crescente di luce nel problema del male! È una triste constatazione: tutte le creature, che dovrebbero essere lo strumento per il raggiungimento di Dio, fine ultimo dell’umana esistenza, si trasformano generalmente in una barriera d’arresto. Vivendo immersi nel mondo sensibile, finiamo col perdere di vista i valori spirituali; pur avendo rivolti gli occhi verso il cielo, li curviamo unicamente sulla terra. L’uomo scambia le creature con Dio: ecco l’abbaglio rovinoso! Da questo funesto scambio ogni rovina temporale ed eterna! I mali della vita provvidenzialmente ci ridanno la visione della realtà, ci scoprono la miseria della vita presente, ci ridestano nell’anima le aspirazioni verso una vita migliore, verso Dio. Così «il dolore è il braccio Paterno, che ci trattiene sull’orlo dell’abisso, dove canta la sirena che sta per soffocarci. Il dolore è un male, ma un male che ci assicura il trionfo del più Prezioso dei beni, il bene del nostro vero ed eterno destino. Perché il dolore, considerato con serenità, con umiltà, con ragionevole coerenza, con spirito cristiano, non ci riduce alla disperazione, ma ci stimola e ci costringe a ricordarci il supremo destino. Quando abbiamo assaporato le delusioni e i disinganni, quando siamo presi dalla stanchezza, dalla nausea delle piccole e misere cose terrene, sotto l’influsso della grazia divina, noi sentiamo più vivo ed assillante ed irresistibile il bisogno dell’infinito e dell’eterno. Ce lo attesta Sant’Agostino, che ne aveva fatto l’esperienza: “Amareggiando tutti i beni inferiori, Iddio c’insegna ad amare quelli migliori ed impedisce che l’uomo, in viaggio per la patria, consideri come sua casa l’albergo (In Ps., 40)”» (Gaetani, La Provvidenza Divina, Conf XI). Come detto, ciò si accetta «sotto l’influsso della grazia divina», ovvero vivendo nell’amicizia di Dio. Ma il peccato mortale ci priva della grazia e ci fa nemici acerrimi di Dio, dunque troppo spesso incapaci di ragionare rettamente e di distinguere ciò che è bene da ciò che è male; ciò che è giusto da ciò che mondanamente conviene, eccetera ... È il cane che si morde la coda o, per usare una pittoresca massima di San Pietro, è il cane che torna a rotolarsi nel suo vomito e nel brago. Il “femminiello” che bestemmia Dio per l’AIDS è causa del suo stesso male, allora ben venga il castigo fisico per emendarlo. Così il drogato o l’ubriacone che si ritrovano in miseria e con il fegato a pezzi. Perché bestemmiare Dio? Perché dubitare di Dio? Perché accusare Dio di volere il male? Chi è stupido che perisca sotto il peso della sua stessa stupidità, in alternativa che si converta e si faccia santo nelle tribolazioni. Il passato è passato, il presente è per Dio, il futuro è nell’eternità.
• Conclusione. Dopo tutte le riflessioni che abbiamo fatto, non è difficile comprendere le profonde cagioni della immani sciagure, che tutta l’umanità travolge in un cumulo di inaudite sventure. La retta ragione illuminata da questi fulgidi insegnamenti non si disorienta dinanzi a tante rovine, ma con chiaro intuito ravvisa la mano provvida di Dio, infinitamente buono e misericordioso, che tutto dispone per la salvezza eterna dell’umanità. La soluzione cristiana del problema del male, come ad ogni anima, così è applicabile ad ogni famiglia umana, ad ogni nazione, all’umanità intera. Quanti delitti non si erano accumulati sul mondo, quali rovinose deviazioni dalla legge naturale ed eterna non si erano pronunziate presso tutti i popoli, quale spaventosa marea di ateismo, d’irreligiosità, di immoralità non si era ovunque sollevata! Lo stesso Cristianesimo nelle sue massime fondamentali, che hanno creato la vera civiltà umana, osteggiato, negato, disvelto dalle menti e dai cuori degli uomini con insano furore, la Chiesa di Cristo assalita, conculcata, oppressa con sempre nuove e più ostinate persecuzioni. Poteva Iddio lasciare tanto disquilibrio tra le forze del male e quelle del bene? Poteva Iddio abbandonare tante anime in questo cammino di infelicità e di perdizione ? Ecco dunque le immani tribolazioni, da Dio soltanto permesse, in vista di una purificazione, di un arresto nell’aberrazione generale, di un futuro miglioramento. I buoni non sono sottratti ai mali comuni, perché con la loro rassegnata e generosa sofferenza concorrano a rimarginare tante piaghe, con un aumento di virtù riparino tanti delitti, ed ottengano con la loro volontaria espiazione un nuovo ordine di giustizia e di carità. Non dunque lamenti, critiche, bestemmie devono elevarsi contro la Provvidenza di Dio, ma una lode incessante: nelle sue mani sicure sta il timore regolatore di tutti gli avvenimenti; essa non è assente dal mondo, ma sempre vigile per custodire, dirigere, salvare eternamente l’umanità.
Da «La verità che più consola: la Provvidenza», S.O.S., di Angelo Aramu, imprimatur 3 settembre 1944. Sintesi e commenti a cura di CdP.
In foto G. Ratzinger (Benedetto XVI) rende omaggio ai Giudei del Talmud visitando la Sinagoga di Roma e partecipando ai loro riti il 17 gennaio 2010. Il 28 maggio 2006 G. Ratzinger già visitò il «campo di concentramento Auschwitz» e subito, falsificando la storia, dichiara: «È quasi impossibile parlare in questo luogo di orrore, di accumulo di crimini contro Dio e contro l’uomo che non ha confronti nella storia». Evidentemente dimentica, per esempio, i primi tre secoli dell’era cristiana e dei Martiri. Ha l’ardire di proseguire il suo salamelecco agli eredi di Caifa - che ancora oggi ritengono Gesù un falso profeta e stregone, figlio di una donna di pessima reputazione - commentando gli accadimenti di Auschwitz-Birkenau in questi termini: «Perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo?». Abbiamo risposto nel nostro semplice editoriale «La presenza del male e la Divina Provvidenza», tuttavia non ci stupiamo per le affermazioni di Ratzinger, noto modernista, divulgatore del dubbio e dell’apostasia ecumenica: ossia negatore dei dogmi. Prosegue: «Dove era Dio in quei giorni? Perché Egli ha taciuto? Come poté tollerare questo eccesso di distruzione, questo trionfo del male?». Chiude affermando che «hanno sofferto per amor di Dio, per amor della verità e del bene» (Fonte Vaticana). Quale dio? Quale verità? Quale bene?
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Stimati Associati e gentili Sostenitori, nel 1969 il teologo domenicano Michel Guérard des Lauriers redasse il «Breve Esame Critico al Novus Ordo Missae», un fondamentale studio dottrinale sul rito della cosiddetta «Messa riformata» - o «Novus Ordo Missae» - rito inventato dai modernisti e da alcuni pastori protestanti. Il «Breve Esame Critico al Novus Ordo Missae» fu sottoscritto dai Cardinali Alfredo Ottaviani (Capo del Sant’Uffizio ovvero dell’Inquisizione) ed Antonio Bacci - mentre non fu sottoscritto dal Vescovo scismatico Marcel Lefebvre, nonostante la sua millantata adesione al progetto - e venne presentato a Montini (Paolo VI) per dissuaderlo dall’intento di approvare e pretendere di imporre al mondo questa sottospecie di rito protestante in luogo della Santa Messa (vera Messa che oggi viene impropriamente chiamata Messa Tridentina o Messa di San Pio V). Montini ne fu adirato e certamente lo furono i modernisti che lo attorniavano, tanto che provarono goffamente a rimediare ma senza recedere dai loro intenti ecumenici: la toppa fu peggiore del buco.
• La Santa Messa è il sacrificio del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo offerto sui nostri altari sotto le specie del pane e del vino, in memoria del sacrificio della Croce. Il sacrificio della Messa è sostanzialmente il medesimo della Croce in quanto lo stesso Gesù Cristo, che si è offerto sopra la Croce, è quello che si offerisce per mano dei sacerdoti, suoi ministri, sui nostri altari; ma in quanto al modo con cui viene offerto il sacrificio della Messa differisce dal sacrificio della Croce, pur ritenendo con questo la più intima ed essenziale relazione. Tra il sacrificio della Messa e quello della Croce vi è questa differenza e relazione: che Gesù Cristo sulla Croce si offrì spargendo il suo sangue e meritando per noi; invece sugli altari Egli si sacrifica senza spargimento di sangue e ci applica i frutti della sua Passione e Morte. La dottrina cattolica sulla Santa Messa è mirabilmente espressa da Papa Pio XII nella sua Lettera enciclica «Mediator Dei» del 20 novembre 1947 (Invito alla lettura: https://bit.ly/2ZbB8vi).
• Fin qui la definizione cattolica della Santa Messa tratta dal «Catechismo» di Papa San Pio X, ovvero dalla Tradizione apostolica. Adesso leggiamo cosa pensa il modernista Montini (Paolo VI) della Santa Messa - pensiero o premessa da cui scaturisce, per conseguenza, la sua “messa” riformata o «Novus Ordo Missae»: «La cena del Signore, o messa, è la sacra sinassi o assemblea del popolo di Dio, presieduta dal sacerdote, per celebrare il memoriale del Signore. Vale perciò eminentemente per questa assemblea locale della Santa Chiesa, la promessa del Cristo: “Là dove due o tre sono radunati nel mio nome, io sono in mezzo a loro”» (Par. 7 dell’ «Institutio generalis Missalis Romani» nella versione del 1969). A seguito della clamorosa presentazione del «Breve Esame Critico ...», nel 1970 questa proposizione venne modificata, proprio come si fa con le previsioni del tempo o con l’oroscopo. Tuttavia la nuova definizione è peggiore della precedente: «Alla messa, o cena del Signore, il popolo di Dio si raduna sotto la presidenza del sacerdote che rappresenta il Cristo, per celebrare il memoriale del Signore o sacrificio eucaristico. Per conseguenza per questa assemblea locale della Santa Chiesa vale la promessa del Cristo: “Là dove due o tre sono radunati nel mio nome, io sono in mezzo a loro”. In effetti, alla celebrazione della messa, nella quale si perpetua il sacrificio della Croce, il Cristo è realmente presente nell’assemblea riunita in suo nome, nella persona del ministro, nella sua parola sostanzialmente e in maniera ininterrotta sotto le specie eucaristiche». Il classico connubio di sofismi in stile modernista. Per esigenze editoriali non posso dilungarmi più del dovuto, tuttavia permettetemi alcune confutazioni brevissime ma lapidarie: 1° Il Sacerdote non è presidente e non presiede, egli agisce e celebra «in persona Christi»; 2° Nella Messa la presenza di un’assemblea è ininfluente, la Messa è valida con o senza popolo; 3° Il Sacerdote celebra la Santa Messa «in persona Christi», non semplicemente «rappresentando il Cristo», la Messa non è un semplice «memoriale»; 4° La promessa di Cristo «Là dove due o tre sono radunati nel mio nome, io sono in mezzo a loro» viene citata fuori luogo e maldestramente strumentalizzata. Si tratta di una eretica falsificazione esegetica. Cristo è veramente presente in Corpo, Sangue, Anima e Divinità a seguito della Consacrazione: mentre è presente spiritualmente ovunque vi siano dei fedeli (veramente cattolici) radunati in preghiera. Cristo non è presente nelle preghiere cosiddette ecumeniche, ove è certamente presente Satana (Approfondimenti nella Lettera Enciclica «Mortalium Animos» di Papa Pio XI: https://bit.ly/364Gytw). Cristo è veramente presente nella Santa consacrata Particola anche nel tabernacolo di una chiesa deserta: la presenza dei fedeli è ininfluente, è superflua; sebbene l'adorazione eucaristica sia cosa santa e consigliata. Obiezione valida anche per il seguito della proposizione: «Il Cristo è realmente presente nell’assemblea ... eccetera».
• Nella lettera di presentazione del «Breve Esame Critico» a Montini (Paolo VI), i Cardinali Ottaviani e Bacci giustamente scrivono del nuovo rito: «Rappresenta, sia nel suo insieme, come nei particolari un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa». Fra i tanti sostenitori di questo nuovo rito vogliamo citare alcune significative dichiarazioni. Hans Ludvig Martensen (Vescovo modernista di Copenaghen): «Altre esigenze che Lutero aveva formulato a suo tempo, oggi possono essere considerate come soddisfatte nella teologia e nella pratica della Chiesa cattolica: l’uso della lingua volgare nella liturgia; la possibilità della comunione sotto le due specie; e il rinnovamento della teologia e della celebrazione dell’Eucarestia». Hans Küng (Teologo eretico ed animatore del “Vaticano II”): «Il rinnovamento liturgico del nostro secolo e del Vaticano II tiene conto delle richieste essenziali dei riformatori (ovvero dei Protestanti)». Gérard Siegwalt (Docente protestante di Strasburgo): «Non c’è nulla nella messa attuale rinnovata e riformata che potrebbe veramente disturbare il cristiano evangelico, o che potrebbe disturbarlo più di quanto possano infastidirlo certi elementi, reali o assenti, del culto protestante». Max Thurian (Teologo eretico di Taizé): «Il nuovo ordinario della messa, al di là delle sue relative imperfezioni, dovute al peso della collegialità e dell’universalità, è un esempio di quella ricerca feconda di unità aperta e di fedeltà dinamica, di vera cattolicità: uno dei suoi frutti sarà che forse le comunità non-cattoliche potranno celebrare la Santa Cena con le stesse preghiere che usa la Chiesa cattolica. Teologicamente, è possibile». Roger Adolphe Mehl (Teologo protestante): «Se si tiene conto dell’evoluzione decisiva della liturgia eucaristica cattolica, della possibilità di sostituire il Canone della messa con altre preghiere liturgiche, della cancellazione dell’idea secondo cui la messa costituirebbe un sacrificio, della possibilità di comunicarsi sotto le due specie, non ci sono più di ragioni per le Chiese della Riforma di vietare ai loro fedeli di prendere parte all’Eucarestia nella Chiesa romana». Jean Guitton [Filosofo e scrittore, amico intimo di Montini (Paolo VI)]: «L’intenzione di Paolo VI, a riguardo della liturgia, a proposito di ciò che si viene volgarmente detta “la messa”, era di riformare la liturgia cattolica in modo che essa coincidesse quasi con la liturgia protestante [...], con la Cena protestante [...]. Ripeto, Paolo VI ha fatto tutto ciò che era in suo potere per avvicinare la messa cattolica - al di là del Concilio di Trento alla Cena protestante [...]. La messa di Paolo VI si presenta per prima cosa come un banchetto - non è così? - e insiste molto sull’aspetto della partecipazione ad un banchetto, e molto meno sulla nozione di sacrificio, di sacrificio rituale, di fronte a Dio, con il sacerdote che dà le spalle al popolo. Dunque, non credo di ingannarmi dicendo che l’intenzione di Paolo VI e della nuova liturgia che porta il suo nome, è di chiedere ai fedeli una più grande partecipazione alla messa, è di dare più spazio alla Sacra Scrittura e meno spazio a tutto ciò che c’è - certi dicono “di magico”, altri “di consacrazione consustanziale”, transustanziale, e che è la fede cattolica. In altre parole, c’è in Paolo VI l’intenzione ecumenica di cancellare - o almeno di correggere, di attenuare - ciò che c’è di troppo “cattolico”, in senso tradizionale, nella messa, e di avvicinare la messa cattolica, lo ripeto, alla messa calvinista. Si tratta, evidentemente, di una rivoluzione». Qui l’ottima e rigorosa fonte: https://bit.ly/3bDscSd.
• Lo stesso Giuseppe Ratzinger (Benedetto XVI), fra i modernisti più scaltri ed attivi «nelle viscere della Chiesa» (cfr. «Pascendi Dominici gregis», Papa San Pio X) sin dagli anni ’50, nel suo «Summorum Pontificum» scrive: «Il Messale Romano promulgato da Paolo VI è la espressione ordinaria della “lex orandi” (“legge della preghiera”) della Chiesa cattolica di rito latino». Ed ancora: «Il Concilio Vaticano II espresse il desiderio che la dovuta rispettosa riverenza nei confronti del culto divino venisse ancora rinnovata e fosse adattata alle necessità della nostra età. Mosso da questo desiderio, il nostro Predecessore, il Sommo Pontefice Paolo VI, nel 1970 per la Chiesa latina approvò i libri liturgici riformati e in parte rinnovati. Essi, tradotti nelle varie lingue del mondo, di buon grado furono accolti da Vescovi, sacerdoti e fedeli. Giovanni Paolo II rivide la terza edizione tipica del Messale Romano. Così i Romani Pontefici hanno operato “perché questa sorta di edificio liturgico [...] apparisse nuovamente splendido per dignità e armonia”». Lo stesso si dica del modernista Karol Wojtyla (Giovanni Paolo II) con la sua commissione «Ecclesia Dei».
• È evidente che un rito del genere non può venire dalla Chiesa (Approfondimenti qui: https://bit.ly/2WZybLM) e, dunque, non può essere in alcun modo accettato: quantomeno se si vuol conservare la fede cattolica. Quanti battezzati sono diventati oramai protestanti a seguito di questo rito? Cosa è rimasto della fede cattolica nel vasto popolo che si dice membro della Chiesa? Chi, oramai, conosce anche solo i rudimenti della dottrina cattolica, ovvero la insindacabile volontà di Dio? Chi conosce e rispetta i Comandamenti ed i Precetti? Ognuno interroghi la propria coscienza, poi si guardi intorno. Seguono la traduzione italiana (del Centro Librario Sodalitium di Verrua Savoia) e la traduzione francese del «Breve Esame Critico».
Approfondimenti a cura di Carlo di Pietro
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La Lettura di oggi (Domenica V dopo Pasqua) ci dice: «Caríssimi: Estóte factóres verbi, et non auditóres tantum: falléntes vosmetípsos. Quia si quis audítor est verbi et non factor: hic comparábitur viro consideránti vultum nativitátis suæ in spéculo: considerávit enim se et ábiit, et statim oblítus est, qualis fúerit». Ovvero: «Caríssimi: Mettete in pratica la parola di Dio, non vi limitate ad ascoltarla, ingannando voi stessi. Perché chi ascolta la parola e non la mette in pratica è simile ad un uomo che guarda in uno specchio il suo volto e, dopo essersi mirato, se ne va e lo dimentica subito». Ebbene il regno di Dio NON è per gli avari, né per gli scrocconi (scroccone = Chi è solito profittare senza ritegno alcuno dell'altrui liberalità). Giuda è il padre degli avari. Una volta scaricato il libretto in italiano è cosa opportuna inviare adeguata donazione al Centro Librario Sodalitium cliccando qui. Chi, pur avendone la possibilità, preferisse optare per l'avarizia, ebbene questi dovrebbe interrogare se stesso e domandarsi: sono veramente cattolico o piuttosto sono un traditore al pari di Giuda? Perché, pur leggendo buona stampa, permango nel mio miserabile stato di avaro e scroccone?
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Stimati Associati e gentili Sostenitori, il Catechismo di Papa San Pio X, al numero 249, ci insegna come si dà prova di carità. L’uomo moderno, tutto contagiato di ideologia massonica, crede che «fare la carità» sia sinonimo di proclamarsi filantropo. Ordinariamente immagina di donare a qualcuno il superfluo del superfluo per poi vantarsi di essere filantropo e caritatevole. Vuole proclamare l’accoglienza imprudente per il “migrante”, per poi sbattere la porta in faccia al vicino bisognoso. Ecco a cosa si riduce, nella migliore delle ipotesi, la carità per l’uomo moderno. Ebbene è tutto falso e sbagliato: questo è diabolico massonismo, oltre che peccato mortale. Si dà prova di carità, insegna il Santo Pontefice Pio X, «osservando i Comandamenti ed esercitando le opere di misericordia e, se Dio chiama, seguendo i consigli evangelici». Ci faremo aiutare dal Padre Dragone (Catechismo commentato, editore CLS Verrua Savoia, n° 249 e successivi) per il commento.
• Si dà prova della carità osservando i Comandamenti. 1) Carità verso Dio. Chi ama Dio compie la Sua volontà espressa nei divini Comandamenti : « Se mi amate, osservate i miei Comandamenti... Chi accoglie i miei Comandamenti, e li osserva, è segno che mi ama davvero, e chi ama me sarà amato dal Padre mio e io pure lo amerò e gli manifesterò me stesso... Chi non mi ama, non osserva la mia Parola» (Gv. 14, 15.21.24).
• 2) Carità verso il prossimo. È volontà di Dio che noi amiamo il prossimo, compresi i nemici (Catechismo numeri 242-243). Gli ultimi sette Comandamenti del decalogo c’impongono l’amore del prossimo, che deve beneficare l’anima e il corpo dei fratelli e che si concreta nelle opere di misericordia corporale e spirituale.
• Ed esercitando le opere di misericordia. 1) Opere di misericordia spirituale. Sono le opere più meritorie perché si dirigono alla parte più nobile del nostro prossimo e procurano i beni migliori:
• Consigliare i dubbiosi. Il dubbio è un’incertezza che non lascia distinguere ciò che si deve fare o evitare. Nei tiepidi il dubbio genera l’indifferenza; nei fervorosi tormento e ansietà. A tutti impedisce di agire e di progredire nella virtù e nella carità. È opera di squisita carità e altamente meritoria illuminare i dubbiosi, liberandoli dal tormento che li opprime o preservandoli dall’indifferenza e dalle cadute, e spianando la via al progresso nell’amor di Dio. (I sapienti possono consigliare i dubbiosi. Altrimenti è meglio tacere, ndr.).
• Insegnare agl’ignoranti. Opera di carità molto meritoria è insegnare le verità necessarie alla salute eterna a chi le ignora con o senza colpa. Opera gradita a Dio è anche insegnare la scienza necessaria alla vita per mezzo della scuola, avviare a un mestiere, preparare i giovani ad affrontare la vita... Ai nostri giorni è più necessario istruire gl’ignoranti che dare il pane materiale ai poveri, pur tanto numerosi e bisognosi! (Vale la massima che chi non conosce sapientemente qualcosa non può pretendere di insegnarla a terzi. Chi non sa, è meglio che taccia, ndr.)
• Ammonire i peccatori. San Tommaso insegna che come siamo obbligati a dare l’elemosina ai poveri nelle necessità gravi e urgenti, così abbiamo il dovere di aiutare i peccatori con la correzione fraterna, per aiutarli a sfuggire il male supremo dell’eterna dannazione. Nessuno più del peccatore ha bisogno di essere corretto e ricondotto sulla buona strada con amore e carità fraterna. (Teniamo a mente la tremenda ed imprescindibile sentenza del Maestro: «Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello», ndr.).
• Consolare gli afflitti. L’afflitto privo di consolazione è in pericolo di cadere nella disperazione, o almeno nella malinconia, e di trovarsi come paralizzato nel fare il bene. La fede è il mezzo migliore e più efficace per consolare gli afflitti. (Una preghiera recitata con l’afflitto vale più di mille rassicurazioni mondane, ndr.).
• Perdonare le offese. Dobbiamo perdonare sempre, prontamente, generosamente, e facilitare così il pentimento e la riparazione di chi ci ha offesi, che non potrà ottenere perdono se prima non ripara i danni che ci ha fatto. È carità squisita andargli incontro fraternamente, senza rancori.
• Sopportare pazientemente le persone moleste. Sono molesti i chiacchieroni inconcludenti, i fanfaroni, i millantatori, i malinconici, i superbi, i caratteri spigolosi, permalosi, ombrosi, i malati impazienti, tutti coloro che non sanno raccontare altro che i loro guai. Il mondo è pieno di persone moleste! La carità ci comanda la pazienza, la dolcezza, l’affabilità anche con le persone moleste, verso le quali è così difficile non inquietarsi. Chi pratica quest’opera si santifica indubbiamente!
• Pregare per i vivi e per i defunti. San Giacomo a nome di Dio ci esorta: «Pregate l’un per l’altro, affinché siate salvi» (5, 16), e Gesù ci ha insegnato a pregare per tutti, anche per i nemici, specialmente nel «Pater». Tutti gli uomini hanno bisogno della carità delle nostre preghiere, specialmente i peccatori, gl’infermi, i bambini, gl’infedeli, i moribondi, gli erranti, i nemici... Speciale bisogno delle nostre preghiere e dei nostri suffragi hanno i defunti del Purgatorio. (Le preghiere interconfessionali o cosiddette ecumeniche sono peccato mortale e sono condannate dalla Chiesa, ndr.).
• Ed esercitando le opere di misericordia. Opere di misericordia corporale.
• Dar da mangiare agli affamati. Nostro Signore non esitò a compiere miracoli per saziare gli affamati. È certo molto meritorio dare da mangiare a chi ha fame, ma non meno gradito a Dio è procurare lavoro a chi è disoccupato. Da quest’opera di misericordia corporale dipende in gran parte la soluzione dell’annosa e immane questione sociale.
• Dar da bere agli assetati. La sete è uno dei maggiori tormenti che possano affliggere il prossimo. Dio per dissetare il popolo fece scaturire l’acqua dalla viva roccia nel deserto (Es. 17, 1-7), e Gesù Cristo promette di ricompensare anche un solo bicchiere d’acqua fresca dato a un povero per amor Suo. (N.B. Per amor Suo, per amore di Dio: non per vanagloria, ndr.).
• Vestire gl’ignudi. Degno di grande ricompensa in cielo è dare al prossimo bisognoso quanto gli occorre per coprirsi decentemente e ripararsi dal freddo. (Ai poveri si regalano vestiti decenti, onesti e puliti. Non stracci puzzolenti e poco onesti o poco decenti, ndr.).
• Albergare i pellegrini. Gesù Cristo per ricompensare la carità ospitale di Marta e Maria, che spesso lo accoglievano in casa loro, risuscitò il loro fratello Lazzaro, morto da quattro giorni. Dio ricompenserà abbondantemente coloro che ospitano i viandanti poveri, che non possono soggiornare all’albergo, dando loro ricovero per la notte e il cibo che permetta di ristorare le forze e di riprendere il viaggio. (L’ospitalità va data secondo il criterio della prudenza. Se manca la prudenza, mancano anche le altre virtù. Occhi aperti, ndr.).
• Visitare gli ammalati. Nostro Signore volle inculcare la carità e la cura degli ammalati raccontando la meravigliosa parabola del buon samaritano. Egli stesso volle visitare e guarire la suocera di Pietro. (Quando si visita un ammalato è buona cosa pregare insieme e leggere qualcosa di veramente cattolico. Casomai parlare con dolcezza dei Novissimi. Le parole vane, le letture indecenti, le opinioni non ortodosse vanno bandite, ndr.).
• Visitare i carcerati. I carcerati hanno bisogno di conforto per non avvilirsi, di incoraggiamento, di buoni consigli per ritornare sulla buona strada. Spesso abbisognano anche di cibo e di vestiti. Il visitarli spesso con spirito di carità fraterna è il mezzo più efficace per riabilitarli se sono colpevoli, per sostenerli se sono innocenti. (Come sopra, ndr.).
• Seppellire i morti. Dio per premiare la carità che Tobia esercitava nel seppellire i morti, gli mandò un arcangelo che si fece guida di suo figlio, lo salvò da pericoli mortali, lo fece ricco e sposo felice, ridiede la vista al vecchio Tobia e gli diede la certezza che le sue opere erano gradite a Dio. Seppellire i morti è un dovere per ciascuno quando chi ne ha l’incarico dalla pubblica autorità non possa o non voglia compiere il suo ufficio. Rientra in quest’opera di carità anche il partecipare ai funerali e alle altre opere di suffragio per i defunti, recando così conforto anche ai loro parenti. Rientra infine in quest’opera di misericordia visitare le tombe e onorarle. (La pratica massonica della cremazione è condannata dalla Chiesa, ndr.).
• E, se Dio chiama, seguendo i consigli evangelici. A tutti Dio impone l’obbligo di osservare i Comandamenti. Ad alcuni riserva grazie speciali e li chiama ad una vita più perfetta e di maggior carità, in cui all’osservanza dei voti si aggiunge quella dei consigli evangelici di vita perfetta nella povertà volontaria, nella castità perpetua, nell’obbedienza perfetta. Il seguire la chiamata di Dio alla vita dei consigli evangelici è una prova di carità più alta verso Dio e verso il prossimo.
• Tutta la morale cristiana si riassume nell’esercizio delle opere di carità spirituale e corporale, fatte per amor di Dio. (Non per vanagloria, per vanto, per mondanità, ndr.). Esempio. Il giudizio di Dio ci esaminerà sulle opere di carità. Quando poi il Figlio dell’uomo verrà nella Sua gloria e con lui tutti gli angeli, allora Egli si sederà sul trono della sua gloria; e tutte le nazioni si raduneranno dinanzi ai Lui e separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capretti, mettendo le pecore alla Sua destra e i capretti alla sinistra. Allora il Re dirà a quelli che saranno alla Sua destra: «Venite, benedetti dal Padre mio, e prendete possesso del Regno che vi è stato preparato fin dall’origine del mondo. Perché ebbi fame e mi deste da mangiare; ebbi sete e mi avete dato da bere; fui pellegrino e voi mi accoglieste; nudo e mi vestiste, malato e mi visitaste; prigioniero e veniste a trovarmi». Allora i giusti gli domanderanno: «Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo veduto pellegrino e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? O quando mai ti abbiamo veduto malato o prigioniero e siamo venuti a trovarti?». E il Re risponderà: «Vi dico in verità: ogni volta che avete fatto questo a uno di questi minimi fra i miei fratelli, lo avete fatto a me». A quelli invece che saranno alla sinistra dirà: «Via da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. Perché ebbi fame e non mi avete dato da mangiare; ebbi sete e non mi deste da bere; fui pellegrino e non mi ospitaste; nudo e non mi vestiste; infermo e prigioniero e non mi veniste a trovare». Allora anche questi gli domanderanno: «Ma quando, o Signore, ti abbiamo visto affamato o assetato o pellegrino o nudo, o infermo, o prigioniero e non ti abbiamo assistito?». E allora Egli risponderà: «Ogni qualvolta non avete fatto questo a uno di questi, non l’avete fatto a me». E questi andranno all’eterno supplizio, e i giusti alla vita eterna (Mt. 25, 31-46). (N.B. Chi vive in stato di peccato mortale è privato della grazia di Dio e va all’Inferno a prescindere dal millantato esercizio di alcune opere più o meno meritorie. Il vero amore, come insegna Gesù, è prima di dutto: Osservare i Comandamenti ed i Precetti, ndr.).
• Che cosa sono i consigli evangelici? I consigli evangelici sono esortazioni che Gesù Cristo fece nel Vangelo ad una vita più perfetta, mediante la pratica di virtù non comandate. Ed ecco avvicinarglisi uno che gli disse: «Maestro buono, che farò io di bene per ottenere la vita eterna?». Gesù gli rispose: «Perché m’interroghi di ciò che è buono? Uno solo è buono, Dio. Ora, se vuoi entrare nella vita, osserva i Comandamenti». «Quali?» domandò egli. E Gesù: «Non ucciderai, non commetterai adulterio; non ruberai; non dirai falsa testimonianza; onora tuo padre e tua madre (ovvero i superiori e la legittima autorità, ndr.); amerai il tuo prossimo come te stesso (non commettendo peccato e non trascinandolo teco al peccato, ndr.), eccetera...». Soggiunse allora il giovane: «Tutti questi Comandamenti io li ho già osservati fin dalla mia infanzia. Che cosa mi manca ancora?». E Gesù gli rispose: «Se vuoi essere perfetto, va, vendi quello che hai, dallo ai poveri, e ne avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi». Udite queste parole il giovane se ne andò via afflitto, perché aveva molti beni (Mt. 19, 16-22).
• Per salvarsi è necessario possedere almeno la perfezione essenziale, che impongono a tutti i divini Comandamenti e che consiste nella pratica della virtù della religione (primo, secondo e terzo Comandamento), dell’obbedienza (quarto Comandamento), dell’amor del prossimo (quinto Comandamento), della purezza (sesto e nono), della giustizia (settimo e decimo), della veracità (ottavo) e delle altre virtù comandate, che si compendiano tutte nelle quattro cardinali e si riducono alla carità.
• Oltre la perfezione essenziale, obbligatoria per tutti, vi è anche una perfezione integrale, che consiste nella pratica di alcune virtù non comandate, ma consigliate come una via migliore e più perfetta di quella dei Comandamenti.
• Il settimo Comandamento obbliga a rispettare la giustizia e proibisce di commettere ingiustizie per amore delle ricchezze; il sesto e nono Comandamento impongono la pratica essenziale della castità; il quarto Comandamento l’obbedienza ai genitori e superiori. Con l’esempio e con la parola Gesù consigliò un modo più perfetto di osservare queste virtù, esortando alcune anime (per esempio il giovane ricco) a praticare liberamente («se vuoi essere perfetto») la povertà volontaria dello spogliamento totale («va, vendi quello che hai, dallo ai poveri»), la castità perpetua («vieni» tu solo, rinunciando a tutti) e l’obbedienza perfetta («seguimi»). Non si tratta di un comando, ma di un’esortazione a una vita più perfetta, di maggior rinuncia e di maggior carità.
• Catechista, tra i tuoi fanciulli, non v’è n’è nessuno chiamato a seguire la via dei consigli evangelici nella vita religiosa? È dovere dei catechisti e degli educatori aiutare le vocazioni. Esempi. Il giovane ricco; vedi sopra. Un bell’esempio di distacco dal mondo e di generosità nel seguire la via dei consigli evangelici ce lo diede Carlomanno, figlio di Carlo Martello, signore della Francia orientale. Dopo aver dato grandi prove di valore sui campi di battaglia ed esser rimasto vedovo, si spogliò di tutti i suoi beni, venne in Italia e si fece monaco benedettino, prima al Soratte e poi a Monte Cassino. Non reputava nessun ufficio indegno di sé e fu visto, colui che un tempo sedeva sul trono e sterminava i nemici in battaglia, aiutare umilmente e serenamente il cuoco nei servizi più semplici e bassi della cucina.
(Preghiamo per l’anima del Padre Dragone e preghiamo per il Centro Librario Sodalitium che pubblica tanti bei libri di buona stampa, ndr.).
Approfondimenti a cura di Carlo di Pietro
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Stimati Associati e gentili Sostenitori, vi esortiamo ad inviare donazioni, secondo le vostre possibilità ma con generosità, all’Istituto Mater Boni Consilii (IT69S0335901600100000112352 - www.sodalitium.it) ed alla Casa San Pio X (IT38Y0200868021000000872821). Auguri di buona Pasqua 2020!
• Din... Don... Dan... È la voce della campana, è la voce di Dio che t’invita alla Chiesa. Essa grida le parole di Gesù: «Il banchetto è pronto! Venite voi tutti che siete stanchi e affaticati. E sarete ristorati». Perché esiti? Perché non ti decidi? Non dire quelle parole: «Non mi sento... Non posso... Non ne ho voglia...». Sei un uomo d’onore.. Sii dunque sincero e coerente con te stesso. Sei battezzato, hai fatto la prima Comunione, ti sei sposato in Chiesa. I tuoi figli vanno alla Dottrina (l’Autore scrive negli anni ’40), tua moglie frequenta i Sacramenti. Quando morrai non vorrai essere sotterrato come un cane... E allora: perché non farai Pasqua? Un giorno, che ti auguro molto lontano, ti troverai anche tu immobilizzato su di un letto, sul punto di iniziare un viaggio senza ritorno... E tu sai che in quell’ultima mezz’oretta anche i superuomini cessano di fare i gradassi: si sentono piccoli piccoli e cercano di mettersi in pace con la propria coscienza. Via, sono sicuro che anche tu ci tieni a morire da buon cristiano. Ma perché aspettare fino a quel momento per metterti a posto? E se la morte ti assalisse di sorpresa ... improvvisamente ... senza lasciarti neppur dire un «Gesù mio, misericordia?». Coraggio dunque: fa’ Pasqua! Potrebbe essere anche l’ultima per te. Essa sarebbe la tua tessera pel Cielo! Ti renderebbe eternamente felice! Ad ogni modo ti darà realmente quella pace e quella gioia che invano cercheresti fuori di te, lontano da Dio. Perché possa farla bene, permettimi che ti ricordi alcune consolanti verità della nostra Religione. Ti aiuteranno ad essere felice in terra e ancor più in Cielo. Quanto sto per dirti meditalo attentamente nel silenzio della tua anima. Ti renderà meno duro il viaggio attraverso questo mare tempestoso della vita e soprattutto ti assicurerà l’arrivo al porlo della celeste felicità. Accetta queste pagine come il dono di un fratello, che ti ama come se stesso e che ti augura di tutto cuore: Buona Pasqua! (Dall’opuscolo LUX «Buona Pasqua», imprimatur Coccolo V. G., 29 gennaio 1944).
• Tuo Padre. È Dio. Il tuo Creatore, è il tuo primo e più grande Benefattore. Egli solo è increato, eterno, perfettissimo. È infinitamente santo, infinitamente buono, infinitamente giusto. Non ha corpo come te, ma è purissimo spirito, presente sempre in ogni luogo: vede e conosce tutto, anche i tuoi più intimi pensieri. È onnipotente. Il cielo, la terra e tutto ciò che esiste fu creato da Lui. La sua amabile Provvidenza governa e ordina con sapienza infinita ogni essere al suo fine. In Dio vi sono tre Persone realmente distinte fra loro: il Padre, il Figliuolo e lo Spirito Santo. Ogni Persona è Dio. Ogni Persona è perfettamente uguale all’altra per sapienza, potenza e bontà. Non formano tre Dei, ma sono un solo e unico Dio. Inchinati davanti a questo altissimo mistero che Dio stesso ha rivelato e la Chiesa c’insegna. È Pasqua: mente e cuore in alto! Fino a Dio, tuo Padre!
• Tuo Fratello. È Gesù, il Figlio di Dio, la seconda Persona della Santissima Trinità. Si è fatto Uomo per salvarti, espiare i tuoi peccati e riaprirti le porte del Cielo. Come Dio non ha mai avuto principio. Come Uomo è nato venti (l’Autore scrive negli anni ’40) secoli fa: da Maria sempre Vergine, per opera dello Spirito Santo. Nell’unica sua Persona divina ha le due nature vere e distinte: quella divina, per cui è del tutto uguale al Padre e allo Spirito Santo, e quella umana, che lo rende uomo come te: tuo fratello. Fu povero artigiano fino a trent’anni. Dimostrò con miracoli la sua divinità, insegnò la sua dottrina tutta carità e finalmente morì sulla Croce per la salvezza di tutti gli uomini. Tre giorni dopo la morte, risuscitò per virtù propria. Rimase ancora quaranta giorni tra i suoi Apostoli e discepoli, con i quali ebbe principio la Chiesa da Lui fondata. Poi salì al Cielo, ove siede alla destra di Dio Padre Onnipotente. Egli tornerà ancora visibilmente su questa terra alla fine del mondo per giudicare tutti gli uomini e dare ai buoni il premio eterno e ai malvagi l’eterno castigo. Ricordalo! È Pasqua: confida nel tuo Redentore!
• Il Divino Consolatore. È lo Spirito Santo: la terza Persona della Santissima Trinità. Procede dal Padre e dal Figliuolo insieme, per ineffabile via d’amore. Gesù Cristo lo promise agli Apostoli. Discese su di essi raccolti in preghiera con Maria Santissima nel Cenacolo, sotto forma di lingue di fuoco. Egli assiste continuamente la Chiesa nella sua opera di santificazione dei cristiani e di diffusione del Vangelo. Il suo soffio potente raccoglie in una unica famiglia cattolica i popoli divisi in tante lingue e civiltà. La sua luce dirada le tenebre dell’errore. Il suo fuoco piega ciò che è duro, riscalda ciò che è gelido, raddrizza ciò che è storto, purifica ciò che è sordido. Senza il suo aiuto non avresti la vita dello spirito: saresti come un uomo morto. Aprigli dunque la porta del tuo cuore. Ricevi con frequenza i Sacramenti: sono i canali con cui il divino Consolatore riversa su di te la sua grazia, la sua santità e la pienezza dei suoi sette doni. È Pasqua: apri la tua anima alla grazia dello Spirito Santo! (Dal Catechismo di Papa San Pio X: 917. I doni dello Spirito Santo sono sette: il dono della Sapienza; dell’Intelletto; del Consiglio; della Fortezza; della Scienza; della Pietà; del Timor di Dio. 918. I doni dello Spirito Santo servono a stabilirci nella Fede, nella Speranza e nella Carità; e a renderci pronti agli atti delle virtù necessarie per conseguire la perfezione della vita cristiana).
• Tua Madre. È la Madre di Dio e Madre tua: Maria. Ti fu data ai piedi della Croce, quando Gesù disse a San Giovanni, il discepolo prediletto che rappresentava tutti noi: «Ecco la Madre tua!» È la più bella, la più santa di tutte le creature. Ama ciascuno di noi come ha amato il suo divin Figlio Gesù, che ci ha riscattati a prezzo del suo Sangue divino. Verso i più peccatori e bisognosi, che a Lei ricorrono per chiedere compassione e aiuto, ha una speciale tenerezza. È l’augusta dispensiera delle grazie di Dio. Nessuno è mai ricorso a Lei invano. Chi la ama, chi la onora (cattolicamente) può esser certo di salvarsi. Se vuoi dimostrarle il tuo amore, evita il peccato che le rinnova lo strazio della passione di Gesù. Onorala col difenderla contro chiunque osasse insultarla, vilipenderla: è tua Madre! Metti nella tua casa la sua immagine. Porta al collo la sua medaglia benedetta. Pregala con fiducia, confida a Lei le tue pene, i tuoi desideri: anche per te la Madonna saprà ottenere i miracoli. È Pasqua: abbandonati fra le braccia della tua Madre celeste!
• La tua grande Famiglia. È la Chiesa: mirabile società fondata da Gesù, perché ti fornisca tutti i mezzi necessari per salvarti. Non sei estraneo ad essa, ma ne sei parte viva (se sei in stato di grazia). È presente alla tua nascita per riscattarti dal peccato originale con il Santo Battesimo È presente nel cammino della tua esistenza per santificarlo con i suoi Sacramenti e le sue benedizioni. È presente alla tua morte per darti il Viatico per il Cielo e raccomandare l’anima tua all’Eterno Giudice. Nella Chiesa vi è un Capo visibile: il Papa, successore di Pietro a cui Gesù conferì il primato su tutta la famiglia cristiana. È il Pontefice di Roma. Egli (se è veramente Papa ---> https://bit.ly/3c8qVTR) governa con sapienza e fortezza, continuamente assistito dallo Spirito Santo che lo rende infallibile quando insegna ai fedeli le verità eterne. Ama e obbedisci la Chiesa e il suo Capo. Difendili con la preghiera, con l’azione, con il sacrificio. Ama, ascolta, aiuta tutti i ministri di Dio, specialmente il tuo Parroco, che è in modo particolare destinato ad aver cura dell’anima tua. Gesù disse di loro: «Chi ascolta voi, ascolta Me; e chi disprezza voi, disprezza Me». È Pasqua: oggi e sempre con la Chiesa e con il Papa!
• Due nomi sacri. La FAMIGLIA è il nido del tuo amore. Lavora e sacrificati per essa: gusterai gioie purissime. «Le mogli, dice San Paolo, siano soggette ai loro mariti, come al Signore... Mariti, amate le vostre mogli, così come Cristo amò la Chiesa». Vivi santamente con la tua sposa, sii a lei fedele: conservatevi nel timore di Dio. Accogliete i figli come il più bel dono del Signore: saranno il vostro conforto in vita, il vostro sostegno nella vecchiaia, la vostra corona in Cielo. Educateli cristianamente (o potrebbero diventare il vostro castigo). PATRIA è la terra che ti ha dato i natali: la terra di tuo padre, di tua madre: la terra più cara del mondo. Gesù Cristo l’ha scelta a sede del suo Vicario, il Vescovo di Roma. Gioisci della sua potenza spirituale, superiore ad ogni forza materiale. Come Gesù, ama la tua Patria e piangi sulle sue sventure. Contribuisci con tutte le tue forze a sanare le sue ferite, ad alleviare i suoi dolori, a mitigare le sue pene, a continuare nel mondo la sua missione di madre e maestra di civiltà (Civiltà cristiana che lo spirito satanico del Risorgimento, i potentati massonici ed il modernismo tentano incessantemente di distruggere mediante la peste della laicità, l’apostasia dell’ecumenismo e il delirio del libero pensiero). Tutti i suoi figli sono tuoi fratelli: non tradire, non maledire, non odiare mai alcuno. È Pasqua: pace sulla Famiglia e sulla Patria!
• Tutti fratelli. Perché figli dello stesso Padre celeste e creati a sua immagine. Perché chiamati alla gloria eterna del Paradiso. Ascolta il precetto nuovo: «Amatevi gli uni gli altri come Io ho amato voi». Lui (Gesù) ci ha amati fino al Calvario, fino alla Croce, fino alla morte. «Da questo tutti riconosceranno che siete miei discepoli: se vi amerete scambievolmente». Perdona sempre, perdona tutto, perdona tutti, fossero anche nemici. «Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano. Benedite coloro che vi maledicono e pregate per i vostri calunniatori». Potrai far valere i tuoi diritti e difenderti ricacciando anche la forza con la forza; ma vendicarti, no, mai! Se non perdoni, come potrai dire al Signore: «Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori»? Pronunzieresti la tua condanna. Consola chi piange, conforta chi soffre, soccorri chi è nel bisogno. Ti accumulerai tesori per il Cielo. «E se avrete dato anche un solo bicchiere d’acqua per amor mio, ne avrete ricompensa nel giorno del Giudizio». È Patini: irradia la gioia di Cristo risorto!
• Il Re del Credo. Sei tu, uomo: la creatura più perfetta che esista sulla terra. Dio ti ha creato a Sua stessa immagine e somiglianza, affinché ti ricordi sempre di Lui. Nel tuo essere vi sono due sostanze: una materiale che è il corpo, destinato a morire e corrompersi; l’altra spirituale che è l’anima, che continuerà a vivere per tutta l’eternità (poi unita al corpo glorioso od al corpo dannato dopo il Giudizio). A te il Signore ha assegnato un fine più alto e più nobile che a tutti gli altri esseri: conoscerLo, amarLo e servirLo qui in terra, per andarLo poi a godere per sempre in Paradiso. Ai nostri progenitori, Adamo ed Eva, Dio aveva fatto dei grandi doni, ponendoli in un giardino di delizie. Ma essi commisero una grave disubbidienza. Perdettero così l’innocenza e il diritto alla felicita eterna. Si resero schiavi del demonio e soggetti alle passioni, al dolore, alla morte... Noi tutti che discendiamo da loro, portiamo, nascendo, la dolorosa eredità del peccato originale, con tutte le altre tristi conseguenze. Nessuno di noi avrebbe più potuto salvarsi, se Gesù, non si fosse incarnato e col suo sacrificio non ci avesse riscattati, ridonandoci il diritto al Paradiso. È Pasqua: assicurati un trono nel regno eterno del Cielo!
• E poi? Pensa qualche volta al domani. C’è una realtà tremenda, a cui nessuno può sfuggire: la Morte! Arriva improvvisa in tutti i luoghi, in tutti i tempi, per tutte le età. La vita futura dipende da quell’ultimo momento. Cessata la vita ti troverai subito al tribunale di Dio. Il Suo Giudizio è inappellabile: o Paradiso eterno (oppure il temporaneo Purgatorio. Dal Catechismo di Papa San Pio X: 789. Quelli che muoiono dopo d’avere ricevuta l’assoluzione, ma prima d’avere pienamente soddisfatto alla giustizia di Dio, vanno subito in Paradiso? No; vanno in Purgatorio per ivi soddisfare alla giustizia di Dio, e purificarsi interamente), o Inferno eterno; o una felicità che supererà ogni tuo desiderio, o un dolore che ti strazierà senza misura (per l’eternità). La scelta dipende esclusivamente da te. La tua morte sarà buona o cattiva, secondo che sarai vissuto bene o male. Dio vuole tutti salvi e a tutti concede largamente il Suo aiuto. Si danna solo chi non vuole salvarsi (Sant’Alfonso: «Chi prega si salva, chi non prega si danna»). Fratello, forse il demonio ti vuole ingannare con la speranza di una vita lunga, di una conversione nella vecchiaia o in punto di morte: ma chi ti assicura di vivere fino a domani? Se qualche cosa ti rimorde nella coscienza, non tramandare, e non dire: «Più tardi...». Vita e morte sono nelle mani di Dio. Gesù ha detto: «Vigilate e state preparati, perché non sapete in quale ora il Signore vi chiamerà». È Pasqua: non attaccare il cuore ai beni incerti di quaggiù: cerca gli eterni.
• Il nemico. Il più grande, il più terribile, il più temibile. È il peccato: vero pugnale che trafigge l’anima per toglierle la vita, che è la grazia o amicizia di Dio. Pugnale vibrato da Satana che mai non dorme, ma sta sempre in agguato per trascinarti a soffrire con lui una eternità di tormenti. Peccato è una dissobedienza alla legge di Dio: mortale o veniale, secondo la gravità della mancanza commessa o del bene trascurato. Perché il peccato sia mortale sono necessarie tre cose: la materia gravemente contraria all’amor di Dio o del prossimo, la piena avvertenza dell’intelletto e la completa adesione della volontà. Ogni peccato mortale è un male infinito, perché offende l’infinita Maestà e Bontà divina. Il peccato veniale non dà morte all’anima, ma la rende debole e brutta. Basta anche un solo peccato grave per perderti eternamente. Temi il peccato, come il peggiore di tutti i mali, peggiore della morte stessa. Ma se per disgrazia fossi caduto, non disperare. C’è ancora una via di salvezza: il perdono di Gesù, mediante il tuo dolore (per aver offeso Dio infinitamente buono e degno di essere amato sopra ogni cosa = contrizione) e (appena possibile) la tua sincera Confessione. È Pasqua: strappa per sempre dal tuo cuore il pugnale del peccato!
• Non bestemmiare. Perché vilipendi ciò che vi è di più sacro nel mondo. Perché offendi i sentimenti di tutti i credenti. Perché disonori la Terra che ti diede i natali. Perché degradi la tua dignità di persona educata. Perché attiri sulla Patria e sul mondo i castighi di Dio. Come vuoi che il Signore ti benedica, se la bestemmia ti rende ai suoi occhi oggetto d’ira? La bestemmia è il delitto più orrendo e mostruoso che possa commettere un uomo contro Dio: Creatore, Padre, Salvatore, Giudice di tutte le creature. Chi bestemmia si rende più colpevole degli stessi crocifissori, i quali uccisero Gesù (incuranti di) chi fosse. Dio incenerirà un giorno quelle lingue d’inferno! Fratello, considera ogni bestemmia come un’offesa fatta a te: è un insulto diretto a Dio tuo Padre, o a Maria Santissima tua Madre, o ai Santi tuoi Fratelli. Combattila sempre, ovunque, con tutte le tue forze (secondo il criterio della prudenza)! Sii un Crociato in questa guerra santa e meritoria: per la gloria di Dio, per la salvezza delle anime, per l’onore del nostro Paese! È Pasqua: non insultare Chi per te morì ed è risorto!
• Riposati! Alla Domenica, perché è giorno del Signore! Iddio ti dà sei giorni per pensare alle necessità della vita del corpo, ma vuole che il settimo lo consacri al bene dell’anima tua. Questo giorno è per pensare a Lui, riposarti e provvedere al tuo bene spirituale. Non profanare il giorno del Signore. Il riposo festivo è un diritto del corpo, riconosciuto dalle leggi civili di tutto il mondo, ed è un diritto dell’anima sancito dalla legge divina. Violare questo diritto è recare un vero danno a te stesso e alla società. Diceva il santo Curato d’Ars: «Conosco due modi per andare in miseria: rubare e lavorare di festa». Ti è Comandato, sotto pena di peccato, di astenerti dal lavoro manuale, eccetto il caso di urgente necessità. Hai soprattutto l’obbligo di assistere (ove possibile) alla Santa Messa. Santifica la tua festa: assistendo alle funzioni parrocchiali, ascoltando la parola di Dio e facendo in quel giorno qualche opera di misericordia verso i fratelli sofferenti e bisognosi. Solo così attirerai su di te e sui tuoi cari l’aiuto e le benedizioni del Cielo. (Se non c’è la Messa ---> https://bit.ly/2K0WfYF). È Pasqua: ogni Domenica rinnovi in te la gioia di questo grande giorno!
• Guai! È il tremendo mònito di Gesù a chi dà scandalo, a chi con arte satanica cerca d indurre altri con la parola e con l’esempio a commettere il peccato. Ascolta la Sua parola: «Chi avrà scandalizzato uno di questi piccoli che credono in Me, sarebbe meglio per lui che, appesagli al collo una macina da mulino, fosse sommerso in mare». E soggiunge: «Guai all’uomo per colpa del quale avviene lo scandalo». Ricordati che una parola, una facezia, uno scherzo possono causare la rovina nell’anima di un fratello. Chi uccide l’anima è molto più colpevole di chi uccide il corpo! Temi che nel giorno del Giudizio si levi qualcuno per maledirti, per accusarti dicendo: «Fosti tu a perdermi per sempre!». Temi soprattutto le maledizioni di Dio, geloso che Gli si rubino le anime riscattate col Sangue di Gesù. Sii invece un salvatore di anime: in casa, per la strada, sul lavoro, ovunque: con le tue parole, con i tuoi esempi. Non farai nulla per Gesù che tanto fece per te? Aiutalo a salvare le anime! Dice Sant’Agostino: «Hai salvato un’anima? Hai predestinato la tua». È Pasqua: non uccidere con lo scandalo chi in Cristo è risorto!
• Perché. Perché Dio permette tante rovine? Perché il dolore e le sofferenze di tante creature innocenti? Fratello, ricorda che i mali non vengono da Dio, ma dall’uomo che abbandona Dio per seguire il demonio e vivere nel peccato. Ricorda che Dio rispetta ora la libertà umana, ma che a suo tempo giudicherà tutti con giustizia infinita. Ricorda che ognuno porta la sua croce quaggiù. Porta anche tu coraggiosamente la tua. Se (ti sembra) troppo pesante, guarda davanti a te: ti precede Gesù. «Beati, Egli dice, quelli che piangono, perché saranno consolati!». Attento. Attento a chi parla soltanto di diritti e non di doveri! Attento a certi discorsi, a certi scritti galeotti, senza Fede e senza Legge! Vogliono toglierti la tua libertà di cristiano, di figlio di Dio e renderti schiavo dell’odio, della materia e della forza bruta: come i pagani prima della venuta del divino Operaio di Nazaret. La Chiesa, tua madre, mentre ti ricorda i doveri della Fede e della Carità, proclama alto i tuoi sacrosanti diritti: «Diritto alla libertà personale. Diritto alla famiglia e alla proprietà. Diritto a un equo salario familiare» (Papa Pio XII).
• Il Sacramento del Perdono. Tra i sette Sacramenti istituiti da Gesù ve n’è uno che si chiama Penitenza o Confessione. [Dal Catechismo di Papa San Pio X: 518. Con la parola Sacramento s’intende un segno sensibile ed efficace della grazia, istituito da Gesù Cristo per santificare le anime nostre. 519. Chiamo i Sacramenti segni sensibili ed efficaci della grazia, perché tutti i Sacramenti significano, per mezzo di cose sensibili, la grazia divina che essi producono nell’anima nostra. 521. I Sacramenti sono sette, cioè: Battesimo, Cresima, Eucaristia, Penitenza, Estrema Unzione, Ordine Sacro, Matrimonio. 522. Per fare un Sacramento si richiedono la materia, la forma ed il ministro, il quale abbia l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa (ovvero fa ciò che fa la Chiesa)]. La Penitenza è il Sacramento della misericordia infinita di Dio. Con il Santo Battesimo Gesù ci ha riscattati dal peccato originale: con la Confessione ci libera dai peccati commessi dopo il Battesimo. Gesù benedetto istituì il Sacramento della Penitenza dopo la Sua Risurrezione, quando disse agli Apostoli e ai loro successori: «Saranno rimessi i peccati a chi li rimetterete, e saranno ritenuti a chi li riterrete». Le parole «rimettere» o «ritenere» significano dare o non dare l’assoluzione, secondo le disposizioni dei penitenti. Il Sacerdote, per giudicare rettamente deve conoscere tutti i peccati, non solo esterni, ma anche interni. Inoltre solo il penitente può notificare se ha la volontà fermamente risoluta di schivare il peccato e le occasioni di peccare, di usare i mezzi necessari per emendarsi, di riparare gli scandali o i danni materiali recati. Chi vuole dunque ottenere il perdono dei propri peccati deve manifestarli al Sacerdote confessore. È Pasqua: seppellisci nel cuore del Confessore le tue colpe: risorgerai con Cristo!
• Vieni anche tu! Fratello che senti il peso delle tue colpe, che provi il bisogno di liberartene, gettati pentito fra le braccia di Gesù. Perché temi? Ascolta la sua parola: «Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori...; non hanno bisogno del medico i sani, ma gli ammalati...; sono stato mandato a salvare coloro che erano perduti». Non temere per il numero o per la gravità delle tue colpe: a questo tribunale, unico al mondo, si può essere assolti sempre: basta volerlo. Dubiti ancora? Gesù va in cerca di te, povera pecorella smarrita! Perché ti ama, non ti darà pace finché non ti abbia trovato e riportato sulle sue spalle all’ovile. Vorrai ritardare ancora la festa che si prepara in Cielo per il tuo pentimento? L’ha detto Gesù: «Si farà più festa in Cielo per un peccatore pentito, che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di penitenza». Coraggio! Il peccato ti ha allontanato da Dio, la Confessione ti ridarà il perdono, la pace, la felicità. È Pasqua: fa’ che Gesù ripeta anche a te le consolanti parole: «Ti son perdonati i tuoi peccati, va’ in pace (e non peccare più)».
• Esame di coscienza. Verso Dio: Prego mattino e sera? Vado alla predica? Ho parlato male contro Dio e la Chiesa? Superstizione? Spiritismo? Bestemmio? In famiglia? Davanti a piccoli? Giuramenti falsi? Ascolto Messa tutte le domeniche e feste comandate? (La Messa in tv, su internet e alla radio non soddisfa il Precetto) Per intero? Con rispetto e attenzione? Lavoro di festa senza necessità?... Nella famiglia: Amo e rispetto i genitori? Li aiuto in caso di bisogno? Educo cristianamente i figli? Do loro buon esempio? Li allontano dalle compagnie e divertimenti cattivi? Spreco il denaro della famiglia? Eseguisco gli ordini dei Superiori? Sono giusto verso gl’inferiori? Verso il prossimo: Nutro odio o invidia verso qualcuno? Mi sono vendicato? Ho ingiuriato? Ho percosso, ferito, ucciso? Perdono le offese? Ho dato scandalo con parole? Con azioni? Ho pensato o augurato male ad altri? Calunnie? Accuse false? Lettere anonime? Bugie?,.. Purezza e castità: Pensieri o desideri cattivi? Parole o discorsi osceni? Ho letto libri o stampe cattive? Guardato figure (o foto, o video) indecenti? Ho commesso atti impuri? Da solo o con altri? Divertimenti immorali? Compagnie cattive? Ho ecceduto nel bere o nel mangiare? Nel Matrimonio nulla contro la Provvidenza (ovvero ho usato immondi contraccettivi, o praticato sesso ostacolando la naturale procreazione, o commesso altre sorte di peccati contro natura)? Contro la fedeltà?... Roba altrui: Ho rubato? Ingannato nei prezzi? Ho causato danno alla roba altrui? Ho eseguito bene i doveri d’impiego o di fabbrica? Ho aiutato a far del male? Ho riparato? Ho restituito? Altro: Ricordo ancora qualche altro peccato? Sono tranquillo anche sulle confessioni passate? Alto di dolore. + Mio Dio, mi pento con tutto il cuore dei miei peccati, e li odio e detesto, come offesa della vostra Maestà infinita, cagione della morte del vostro divin Figliuolo Gesù e mia spirituale rovina. Non voglio più commetterne in avvenire e propongo di fuggirne le occasioni. Signore, misericordia, perdonatemi. + (Altro ---> https://bit.ly/2Rx2irV).
• Dolore e proponimento. Ora che ti sei esaminato bene, procura di eccitare in te il dolore dei peccati commessi. Pensa che con essi hai offeso l’infinita bontà di Dio; hai perduto la Sua amicizia; ti sei privato del Paradiso; ti sei meritato le pene eterne dell’Inferno. Immagina di trovarti con la Madonna ai piedi della Croce: chiedi a Lei un vero dolore dei tuoi peccati: furono essi la causa della Passione e Morte di Gesù. Ed ora proponi fermamente di non ricadere più; di voler fuggire ogni occasione di peccato; di fare qualsiasi sacrificio per evitare l’offesa di Dio. Presentati con grande confidenza al Sacerdote. Manifestagli con sincerità tutte le tue colpe: egli ti darà il perdono di Gesù, la Sua pace, la gioia divina della Sua Grazia e della Sua amicizia. «Vi esorto a fare sovente durante la vita, anche fuori della Confessione, atti di dolore perfetto dei peccati commessi e atti di perfetto amore di Dio. Anche uno solo di tali atti, congiunto al desiderio di confessarsi (non appena possibile), può bastare, in ogni tempo e specialmente negli estremi momenti, a cancellare qualsiasi peccato e introdurvi in Paradiso» (San Giovanni Bosco).
• Al Confessionale. — In nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo. Così sia. — Non mi sono confessato da ..... (dirai da quanto tempo non ti sei confessato). — Mi accuso di questi peccati... (confessa con umiltà i peccati che ricordi. Puoi tenere davanti l’esame che trovi nelle pagine 18 e 19 (Scritto in precedenza). Se poi non sapessi come accusare qualche peccato, dirai così:) — Padre, ho un peccato che non so come confessare. Aiutatemi voi! (In fine aggiungerai:) — Mi pare di non avere altro. Mi accuso ancora di tutti i peccati della vita passata. (Ascolta con umiltà i consigli del confessore: è il medico, il padre dell’anima tua. Ti parlerà in nome di Gesù). Atto di dolore... (poi) Preghiera dopo la Confessione. Signore, Vi ringrazio della Vostra infinita bontà e misericordia. Datemi la grazia di non offendervi mai più per tutto il tempo della mia vita. Vergine santa, aiutatemi a non amareggiare più il Cuore del Vostro Divin Figliuolo Gesù. + (Fermati qualche minuto a pregare e fa’ subito, se puoi, la penitenza).
• Il Pane dei forti. È il Sacramento dell’Eucaristia: il miracolo più stupendo sgorgato dal Cuore di Gesù. Lo operò la sera prima di morire sulla Croce e diede ordine ai Suoi Apostoli di continuarlo sino alla fine del mondo. Gesù, scendendo ogni giorno sull’altare, nella Santa Messa (approfondimenti in italiano ---> https://bit.ly/3c9egzZ; in inglese ---> https://bit.ly/2RumCtW), si nasconde sotto le apparenze di una bianca ostia di pane per essere il cibo dell’anima tua. In ogni Ostia consacrata c’è tutto Gesù, vero Dio e vero uomo: col suo Corpo, col suo Sangue, la sua Anima, la sua Divinità. Nel suo grande amore per te, ti attende, t’invita, ti comanda di riceverlo nel tuo cuore. A chi lo riceve degnamente Egli ha promesso il Paradiso. A chi invece ricusa di riceverlo minaccia la dannazione eterna: «In verità vi dico, se voi non mangerete la Carne del Figliuolo dell’uomo e se non berrete il Suo Sangue, non avrete la vita in voi». [A chi lo riceve indegnamente, l’Apostolo insegna: «(Questi) mangia e beve la propria condanna»]. Coraggio, fratello! Non pensare solo al cibo del corpo, ma anche a quello dell’anima. Ricevi spesso la Santa Comunione: è il celeste alimento che ti darà la forza per vivere, lottare e vincere. È Pasqua: accogli l’invito di Gesù: «Prendete e mangiate: questo è il mio Corpo».
• Per fare una buona Comunione. È necessario essere in grazia di Dio (Esempi: Chi convive in unione civile, ovvero è come minimo concubino, può prendere la Comunione? No. Chi pratica la cosiddetta omosessualità femminile o maschile può prendere la Comunione? No. Chi è “divorziato e risposato”, ovvero è adultero, può prendere la Comunione? No. Chi ha rubato e, pur potendo, non restituisce il dovuto può prendere la Comunione? No. Chi è fidanzato e pratica e intende comunque praticare sesso prima del Matrimonio può prendere la Comunione? No. Eccetera ...) e restare digiuni dalla mezzanotte (o almeno dalle tre ore precedenti). Prima di accostarti alla Comunione raccogliti e pensa Chi stai per ricevere. Fa’ questa preghiera: + Signore, io Vi credo realmente presente nell’augusto Sacramento dell’altare. Io spero che dandoVi tutto a me, mi userete misericordia e mi concederete tutte le grazie necessarie per la mia eterna salute. Io Vi amo con tutto il cuore sopra ogni cosa, e per amor vostro amo il mio prossimo come me stesso e perdono di cuore a tutti quelli che mi hanno offeso. Detesto tutti i miei peccati e propongo con la Vostra grazia di non commetterne più per l’avvenire, di fuggirne le occasioni e di farne la penitenza. Desidero ardentemente che veniate nell’anima mia, affinché la santifichiate e la facciate vostra per sempre. Signore, io non son degno che Voi entriate nell’anima mia, ma dite solo una parola, e l’anima mia sarà salva. + (Ricevi l’Ostia Santa come se te la porgesse la Madonna. Attorno a Gesù stanno schiere di Cherubini e Serafini prostrati in adorazione).
• Ringraziamento alla Comunione. Fatta la santa Comunione, ringrazia il Signore: chiedi a Lui grazie e favori per te, per la tua famiglia, per le persone care, per i tuoi defunti. Chiedi senza timore: Gesù può e vuole darti tutto ciò che ti conviene (tutto ciò che conviene alla tua anima). Poi fa’ questa preghiera: + Mio Signore Gesù, io credo che Voi siete realmente presente nel mio cuore. Vi adoro e Vi amo sopra ogni cosa. Vi ringrazio di esserVi dato in cibo all’anima mia. Mi offro tutto a Voi: Vi dono il mio cuore, i miei affetti, la mia anima, tutto me stesso. Voglio essere Vostro per tutta l’eternità. Datemi la grazia di non allontanarmi mai più da Voi col peccato, e di meritare di venire un giorno a goderVi eternamente in Paradiso. Alla Madonna. — O Vergine Santissima, Madre, Ausiliatrice, Speranza mia, assistetemi affinché sia costante nei buoni propositi: concedetemi tutte le grazie spirituali e temporali necessarie alla mia eterna salute. Così sia. Gesù mio: misericordia! Dolce Cuor del mio Gesù, fa’ ch’io v’ami sempre più! Dolce Cuore di Maria, siate la salvezza mia! +
• Preghiamo. Le preghiere sono le ali per salire in alto, per accostarti a Dio, per ricevere la Sua grazia e i Suoi doni. La preghiera è come il respiro dell’anima: se glielo togli, morrà. Dice Gesù: «Domandate e vi sarà dato, bussate e vi sarà aperto, cercate e troverete». Tu hai bisogno di tante cose per te, per i tuoi cari. Accostati a questo scrigno inesauribile, affonda le tue mani nei tesori infiniti della divina misericordia. Iddio ti accorderà sempre tutto ciò che serve per il tuo bene. «Qualunque cosa (onesta e utile all’anima) chiederete al Padre in nome mio, state sicuri che ve la concederà». La preghiera ben fatta e perseverante è garanzia della tua salvezza eterna. Dice Sant’Alfonso: «Chi prega certamente si salva, chi non prega certamente si danna». Prega al mattino e alla sera. Prega prima e dopo i pasti. Prega durante la giornata, offrendo a Dio il tuo lavoro ben fatto e accettando dalle Sue mani gioie e dolori. Se vivi cristianamente, se domandi ciò che è vero bene per te, se preghi con perseveranza, sarai esaudito. È Pasqua: innalzati sulle ali della preghiera fino a Gesù risorto!
• Preghiere del Cristiano. Al mattino. + Vi adoro, mio Dio, e Vi amo con tutto il cuore. Vi ringrazio di avermi creato, fatto cristiano e Conservato in questa notte. Vi offro le azioni della giornata: fate che siano tutte secondo la vostra santa volontà per la maggior gloria vostra. Preservatemi dal peccato e da ogni male, la grazia Vostra sia sempre con me e con tutti i miei cari. Così sia. Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome: venga il tuo regno: sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano; e rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori; e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male. Così sia. Ave, o Maria, piena di grazia: il Signore è teco: tu sei benedetta fra le donne, e benedetto è il frutto del ventre tuo, Gesù. Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte. Così sia. Gloria al Padre e al Figliuolo e allo Spirito Santo, come era nel principio, e ora, e sempre, e nei secoli dei secoli. Così sia. Io credo in Dio Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra; e in Gesù Cristo, suo unico figliuolo, nostro Signore, il quale fu concepito di Spirito Santo, nacque da Maria Vergine, patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morto e seppellito, discese agli Inferi (al Limbo dei Padri ---> https://bit.ly/2yaLRe0), il terzo giorno risuscitò da morte, salì al Cielo, siede alla destra di Dio Padre onnipotente: di là ha da venire a giudicare i vivi e i morti. Credo nello Spirito Santo, la Santa Chiesa Cattolica, la Comunione dei Santi, la remissione dei peccati, la risurrezione della carne, la vita eterna. Così sia. Salve, o Regina, madre di misericordia; vita, dolcezza e speranza nostra, salve. A te ricorriamo esuli figli di Eva: gementi e piangenti in questa valle di lagrime a te sospiriamo. Orsù dunque, avvocata nostra, rivolgi a noi quegli occhi tuoi misericordiosi. E mostraci dopo questo esilio Gesù, il frutto benedetto del ventre tuo, o clemente, o pietosa, o dolce Vergine Maria. Così sia. Angelo di Dio, che sei il mio custode, illumina, custodisci, reggi e governa me, che ti fui affidato dalla pietà celeste. Così sia. (Altre preghiere. Qui la nostra raccolta ---> https://bit.ly/3b7HCP6). Alla sera. + Vi adoro, mio Dio e Vi amo con tutto il cuore. Vi ringrazio di avermi creato, fatto cristiano e conservato in questo giorno. Perdonatemi il male oggi commesso, e se qualche bene ho compiuto, accettatelo. Custoditemi nel riposo e liberatemi dai pericoli. La grazia Vostra sia sempre con me e con tutti i miei cari. Così sia... Si ripetono le altre preghiere del mattino ... L’eterno riposo dona loro, o Signore, e splenda ad essi la luce perpetua. Riposino in pace. Così sia. Anche il De Profundis ... Atto di dolore (vedi pagine precedenti). Giaculatorie: Gesù, Giuseppe e Maria, vi dono il cuore e l’anima mia. Gesù, Giuseppe e Maria, assistetemi ora e nell’ultima agonia. Gesù, Giuseppe e Maria, spiri in pace con Voi l’anima mia. (Altre preghiere ---> https://bit.ly/3b7HCP6).
• I dieci Comandamenti di Dio, o Decalogo: lo sono il Signore Dio tuo: 1° Non avrai altro Dio fuori che me (Esempio: l’ecumenismo è un gravissimo peccato di apostasia, un peccato immediatamente contrario al primo e ad altri Comandamenti. Approfondimenti ---> https://bit.ly/2V21iOR). 2° Non nominare il nome di Dio invano. 3° Ricordati di santificare le feste. 4° Onora il padre e la madre. 5° Non ammazzare (Dal Catechismo di Papa San Pio X: 413. Vi sono dei casi nei quali sia lecito uccidere il prossimo? È lecito uccidere il prossimo quando si combatte in una guerra giusta, quando si eseguisce per ordine dell’autorità suprema la condanna di morte in pena di qualche delitto; e finalmente quando trattasi di necessaria e legittima difesa della vita contro un ingiusto aggressore). 6° Non commettere atti impuri. 7° Non rubare. 8° Non dire falsa testimonianza. 9° Non desiderare la donna d’altri. 10° Non desiderare la roba d’altri.
• I cinque Precetti Generali della Chiesa: 1° Udire la Messa la domenica e le altre feste comandate. 2° Non mangiare carne nel venerdì e negli altri giorni proibiti, e digiunare nei giorni prescritti (Maggiori approfondimenti ---> https://bit.ly/39YUUfz). 3° Confessarsi almeno una volta l’anno, e comunicarsi almeno a Pasqua. 4° Sovvenire alle necessità della Chiesa, contribuendo secondo le leggi o le usanze (L’avarizia è un gravissimo peccato ---> https://bit.ly/2JUYsES). 5° Non celebrare solennemente le nozze nei tempi proibiti (Dal Catechismo di Papa San Pio X: 505. Che cosa ci proibisce la Chiesa nel quinto precetto. Non celebrare le nozze nei tempi proibiti? Nel quinto precetto la Chiesa non vieta la celebrazione del sacramento del Matrimonio; ma soltanto la solennità delle nozze dalla prima domenica dell’Avvento sino all’Epifania, e dal primo giorno di Quaresima sino all’ottava di Pasqua. 506. Quale è la solennità delle nozze proibita? La solennità proibita da questo precetto consiste nella Messa propria degli sposi, nella benedizione nuziale, e nella pompa straordinaria delle nozze. 507. Perché le dimostrazioni di pompa non convengono nell’Avvento e nella Quaresima? Le dimostrazioni di pompa non convengono nell’Avvento e nella Quaresima, perché questi sono tempi specialmente consacrati alla penitenza e all’orazione).
• Atto di fede: Mio Dio, credo fermamente, quanto Voi, infallibile Verità, avete rivelato e la santa Chiesa ci propone a credere (Qui approfondimenti sull’infallibilità ---> https://bit.ly/3elg2jB). Ed espressamente credo in Voi, unico vero Dio in tre Persone uguali e distinte, Padre, Figliuolo e Spirito Santo; e nel Figliuolo incarnato e morto per noi, Gesù Cristo, il quale darà a ciascuno, secondo i meriti, il premio o la pena eterna. Conforme a questa fede voglio sempre vivere. Signore, accrescete la mia fede. Così sia.
• Atto di speranza: Mio Dio, spero dalla bontà vostra, per le vostre promesse e per i meriti di Gesù Cristo, nostro Salvatore, la vita eterna e le grazie necessarie per meritarla con le buone opere, che io debbo e voglio fare. Signore, che io non resti confuso in eterno. Così sia. • Atto di carità: Mio Dio, amo con tutto il cuore sopra ogni cosa Voi, Bene infinito e nostra eterna felicità: e per amor vostro amo il prossimo mio come me stesso, e perdono le offese ricevute. Signore, fate che io Vi ami sempre più. Così sia. (Che cosa significa amare il prossimo nostro come noi stessi? ---> https://bit.ly/2y8vaA9).
• I due misteri principali della Fede: 1° Unità e Trinità di Dio; 2° Incarnazione, Passione e Morte del Nostro Signor Gesù Cristo.
Ecco cosa significa augurare buona Pasqua!
Approfondimenti a cura di Carlo di Pietro
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Il momento attuale è caratterizzato dal pericolo Covid-19. Tema che, per prudenza, preferisco non toccare direttamente: ho, difatti, poche certezze e molti dubbi. Tuttavia è certo che due persone che direttamente conoscevo, due concittadini pieni di vita e molto noti per le loro attività, sono stati lasciati morire in casa ed in meno di quindici giorni. A quanto pare, chi di dovere, privo degli adeguati dispositivi di protezione, non ha avuto il coraggio di prestare loro la doverosa assistenza sanitaria. Si tratta di casi isolati? Le risposte veraci probabilmente non arriveranno mai.
Per noi Cattolici vale sempre la massima del Maestro: «Estote ergo prudentes sicut serpentes et simplices sicut columbae» - «Siate sempre prudenti come i serpenti, e semplici come le colombe» (S. Matthaeum, X, 16). Sant’Agostino commenta: «Semplici come colombe per non nuocere a nessuno, astuti come serpenti per stare in guardia e non ricevere danno. Ma non potrai stare in guardia dal ricevere danno, se non comprenderai in che cosa puoi essere danneggiato».
Non ho mai usato Sursum Corda per parlare di questioni personali, ma oggi farò un’eccezione poiché ciò che ho fatto potrebbe interessare ad altri: 1° Ho scritto testamento; 2° Ho scritto le ultime volontà; 3° Ho scritto il D.A.T. o “testamento biologico” (D.A.T. è acronimo di Disposizioni Anticipate di Trattamento).
Testamento è quell’atto di ultima volontà (mortis causa) essenzialmente unilaterale e revocabile, con il quale la persona dispone del suo patrimonio o di parte di esso, per il tempo successivo alla morte. La capacità di disporre per testamento (capacità attiva) è propria di quanti, avendo l’uso di ragione (diritto naturale), possono disporre dei propri beni e non sono dichiarati incapaci dalla legge (diritto positivo). La disposizione testamentaria, come ogni altro negozio giuridico, può essere semplice o può essere anche modificata dalla apposizione di alcune lecite e legali condizioni, termini e modalità. Inoltre perché il testamento sia valido è necessario che la disposizione sia redatta nella forma corretta e che abbia un contenuto legale.
Dal punto di vista morale il testamento deve soddisfare intanto gli obblighi di giustizia (per esempio: la restituzione di quanto dovuto a qualcuno) e di pietà (per esempio: lascio i miei averi a tale Istituto religioso, a tale povero, al figlio naturale, eccetera ...). Anche in questo caso la legge divina e naturale prevale sulla legge squisitamente umana (per esempio: i legittimi eredi, con i loro avvocatucchi, che si fanno avanti con la pretesa di acciuffare la totalità del malloppo devono sottostare a leggi più grandi di loro ed invalicabili, se essi hanno il buon senso di conservare almeno la dignità umana e di non diventare peggiori delle iene).
Il testamento deve essere consegnato a persone di fiducia, delle quali si ha certezza che lo esibiranno al momento opportuno. È moralmente molto prudente fare testamento anche per evitare problemi di ordine morale e pratico agli eredi. Mi permetto di consigliare grande liberalità nella stesura del testamento, soprattutto lasciando disposizioni in favore di pie cause. I modernisti che occupano le nostre chiese NON sono una causa pia, ma sono l’opposto: «Il modernismo è sintesi di dutte le eresie e conduce all'ateismo e alla distruzione della Religione» (cfr. Pascendi, Papa San Pio X). Sempre mi permetto, nella mia miseria, di consigliare tanta prudenza: insomma bisogna essere lungimiranti affinché nessuno dei possibili aventi diritto - male intenzionato - abbia appigli per impugnare il testamento e per ostacolare l’esecuzione delle nostre oneste intenzioni.
Ultime volontà. Nel mio caso ho preferito unificare testamento ed ultime volontà, atteso che la mia famiglia è, grazie a Dio, nella totalità Cattolica integrale ed intransigente, dunque è veramente Cattolica e piamente rispettosa dei Sacerdoti che ci hanno in cura. In altri casi (per esempio: apostasie in famiglia, sventura di avere familiari comunisti, atei, modernisti, catto-comunisti o altre barbarie), è preferibile consegnare le ultime volontà, che riguardano quegli argomenti più spirituali, al Sacerdote.
Mi permetto di consigliare tanta prudenza anche in questa scelta: sappiamo difatti che molti, talvolta in buona fede, pur essendo vestiti da preti in verità non lo sono o non sono dei buoni Sacerdoti. Non ho autorità per sentenziare in materia né posso dilungarmi in tecnicismi, posso solo lasciare scritto, nella massima serenità, che è inverosimile considerare prete chi è stato ordinato col nuovo rito ed in ambienti oramai protestantizzati; è altresì inverosimile considerare un buon Sacerdote chi, pur ordinato col rito cattolico ed in circostanze “tradizionali”, considera Papa un pubblico apostata (difatti un anticristo non può essere uno con Cristo - Qui approfondimenti).
Dicevo che le ultime volontà sono delle disposizioni più immediate, soprattutto di carattere spirituale ma non solo, cui si richiede adempimento in caso di malattia grave ed invalidante, poi in prossimità della morte o, più in generale, quando c’è il rischio prossimo e concreto di morte. Possono essere anche volontà che fanno riferimento all’immediato: subito dopo la morte. È azione prudente scrivere - a prescindere dalle circostanze: «(...) ipsi enim diligenter scitis quia dies Domini, sicut fur in nocte, ita veniet» (I ad Thess., V, 2); poiché il Signore viene come ladro di notte - le proprie ultime volontà e consegnarle al Sacerdote come pure a persona, anch’essa cattolicssima, di cui si ha piena fiducia.
Avendo poco spazio a disposizione non mi è possibile trattare in maniera approfondita tutti gli argomenti dottrinali e morali alla base delle proposizioni che vado ad enunciare, mentre mi limiterò ad elencare alcune delle mie ultime volontà con brevi spiegazioni. Il grosso dell’esposizione verrà in seguito, quando parlerò del D.A.T. (o “testamento biologico”).
Purtroppo devo citare me stesso: «1° In caso di decesso ... NON avvisate nessuno ad eccezione dei soggetti che vado ad indicare al punto 2°. Lo stesso si faccia in caso di mia grave malattia (per l’amministrazione dei Sacramenti); 2° Avvisate solo i Sacerdoti dell’Istituto Mater Boni Consilii di Verrua Savoia TO. In caso di loro indisponibilità, ... per il tramite di ... (indico il nome della persona di fiducia: di provata fede, competente in materia e di specchiata moralità) ... individuate un qualsiasi vero Sacerdote (che sia validamente ordinato, ovvero ordinato con rito cattolico e da un vero e notoriamente stimato Vescovo: la cui linea episcopale sia evidente e cristallina) che vive e celebra “NON una cum … i modernisti occupanti (materialmente e non formalmente) la Sede apostolica e le Sedi episcopali”; 3° Assolutamente non permettete ad un non prete, (come pure) ad un (qualsiasi altro) modernista (di destra, centro o sinistra poco importa), di insozzare la mia salma e di celebrare un falso e/o sacrilego rito funebre; 4° Assolutamente non consentite che il mio corpo venga massonicamente cremato (elencherò l’unica eccezione possibile); 5° Il Sacerdote deciderà come e dove dovrà svolgersi il mio funerale (questo per ragioni pratiche); 6° Io preferirei un funerale anonimo ed in forma assolutamente riservata (con l’aiuto di Dio mi sforzo di vivere anonimo e tale vorrei fosse il mio funerale: «Non efficiamur inanis gloriae cupidi» insegna l’Apostolo ai Galati, V, 26); 7° Richiedo, se possibile, di essere sotterrato; 8° Non vorrei la lapide ma solo una Croce con la scritta: Dominus dedit, Dominus abstulit; sicut Domino placuit, ita factum est: sit nomen Domini benedictum (Iob, I, 21) ... eccetera ...».
Sono consapevole di non essere stato affatto esaustivo, tuttavia spero vivamente di aver dato degli spunti al lettore di buon senso. Probabilmente qualcuno, leggendo questo scritto, penserà di me che sono uno squilibrato, un eccessivo, un esaltato ... un estremista. Rispondo con la Scrittura: 1° «Fons vitae eruditio possidentis; poena stultorum stultitia» (Prov., XVI, 22); 2° «Beati estis cum maledixerint vobis ... propter Me» (S. Matthaeum, V, 11). E finalmente prego Dio, con l’intercessione della Beata Vergine Maria, dei Santi (in particolare di San Carlo Borromeo e di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori) e dei Martiri (in particolare di San Lorenzo e di San Giorgio), di poter rispondere con l’Apostolo: «Bonum certamen certavi, cursum consummavi, fidem servavi» - Ho combattuto la buona battaglia ... ho conservato la fede (II ad Tim., IV, 7).
Testamento biologico. Veniamo al D.A.T. o “testamento biologico”. La questione si fa più entusiasmante, considerando che si tratta di una attuale e prudente risposta ai potentati di Satana, i quali intendono ucciderci prima che vediamo la luce, pervertirci per asservirci qualora fossimo già nati, ucciderci quando diventiamo un problema, infine arricchirsi vendendo i nostri organi e cremando la nostra salma. È lo spirito della laicità, peste che pervade l’umana società («Pestem dicimus aetatis nostrae laicismum» Pius PP. XI, Quas Primas), funesta entità che domina la legislazione degli Stati cosiddetti laici, comunisti e/o aconfessionali. Unico rimedio alla peste dell’età nostra, prosegue il Pontefice, è riconoscere ed attuare nei singoli, nelle famiglie, nella scuola, nella società, nella legislazione ed ovunque il dogma della Regalità Sociale di Cristo. Lo Stato deve essere confessionale, deve veramente professare il Cattolicesimo romano, unica vera religione: «Et non est in alio aliquo salus, nec enim nomen aliud est sub caelo datum in hominibus, in quo oportet nos salvos fieri ...» (Actus, IV, 12).
D.A.T. significa “disposizioni anticipate di trattamento”, misura che ci è stata praticamente imposta da uno sparuto gruppo di appartenenti ai movimenti in difesa dei cosiddetti “diritti civili”, aggregazioni promotrici delle aberrazioni le più irragionevoli, contro natura, barbare, blasfeme ed anti-sociali. Non giudico le intezioni ma i fatti: «Omnis enim, qui mala agit, odit lucem et non venit ad lucem» (S. Ioannem, III, 20). Credo che il castigo maggiore che possa mandare Dio ad un genitore sia quello di dargli come erede uno di questi infami soggetti (infame = persona che pubblicamente ha una condotta contraria al diritto divino e/o naturale).
Il “testamento biologico” è entrato ufficialmente in vigore in Italia il 31 gennaio 2018, con una pseudo-legge a firma M5S ed approvata con i voti del tenebroso ed anticristico asse Partito Democratico, Liberi e Uguali e Movimento 5 Stelle. Chiudo la parentesi politica esprimendo, con don Margotti - Pio IX - Leone XIII, il mio fermo non expedit a qualsiasi fazione politica contemporanea. Qui gli appropriati approfondimenti.
Il D.A.T. esiste, è una realtà, è stata partorita da colui che è mentitore ed omicida sin dal principio - «homicida erat ab initio et in veritate non stabat» (S. Ioannem, VIII, 44) -, prendiamone atto ed utilizziamo questo “testamento biologico” alla maggior gloria di Dio ed a nostro giovamento.
Dottrina in sintesi. Vado ad elencare alcuni punti fermi di dottrina. 1° Riconosciamo l’esistenza di due ordini: il soprannaturale, poi il naturale; 2° Diamo la giusta importanza all’uno ed all’altro; 3° L’ordine naturale è sì importante, ma lo è di più l’ordine soprannaturale; 4° Il diritto alla vita è un diritto naturale che ogni uomo ha soltanto perché è uomo. Fondamento di questo diritto è la natura intellettuale dell’uomo, cioé la natura umana (brevemente = corpo + anima sin dal momento del concepimento e fino alla morte reale); 5° Il diritto alla vita è inalienabile ed è ordinariamente inviolabile (eccezioni = legittima difesa, sentenza della legittima autorità, guerra giusta - cfr. Catechismo del santo Pontefice Pio X al n° 413: «È lecito uccidere il prossimo quando si combatte in una guerra giusta, quando si eseguisce per ordine dell’autorità suprema la condanna di morte in pena di qualche delitto; e finalmente quando trattasi di necessaria e legittima difesa della vita contro un ingiusto aggressore»). D’altronde si tratta di affermazioni di retta ragione e precipuamente naturali, oltre che cattolicissime; 6° L’anima non è puro spirito (come lo sono gli angeli) ma è destinata a vivere nel corpo, mentre il corpo è un organo, uno strumento necessario all’anima, ma le è inferiore e va dominato; 7° La sofferenza è necessaria, anzi indispensabile. Molte volte è l’unico segno, per mezzo del dolore, che ci fa prendere consapevolezza dei nostri mali fisici e spirituali. Se non ci fossero dolore e sofferenza l’uomo potrebbe morire menomato senza neppure accorgersene. Nell’ordine soprannaturale ha una funzione espiativa ed è la pena terrena per soddisfare la giustizia di Dio, offeso dal peccato. Il diritto divino ci dice che le sofferenze sono il mezzo per riparare la colpa del peccato, sia originale che personale; 8° La morte dell’uomo è la separazione dell’anima dal corpo. L’anima, non essendo una creatura composta, non può morire. Ogni atto che di per sé priva l’unione dell’anima con il corpo causa direttamente la morte e si chiama uccisione. Distinguiamo la morte naturale dalla morte accidentale. La morte può essere causata volontariamente dall’uomo stesso ed è il caso dell’omicidio o del suicidio. L’aborto è un omicidio. L’eutanasia è un omicidio su commissione, talvolta anche omicidio suicidio (quando è direttamente la vittima a richiedere la sua uccisione); 9° L’uomo non può disporre della propria vita, sebbene non è moralmente obbligatorio desiderare di vivere. È dunque possibile desiderare la morte, come il cristiano brama la morte per poter finalmente vedere Dio, tuttavia la Chiesa ha sempre rigettato la ricerca diretta della morte, come ha rigettato la ricerca diretta del martirio. Quindi l’uomo ha il dovere di vivere; 10° Il pericolo di morte è quella circostanza da cui può venire la morte. Esiste nel momento in cui, date alcune particolari circostanze (malattia, epidemia, età avanzata, seri problemi di salute, eccetera), la morte si ritiene gravemente probabile. L’articolo di morte si ha invece quando la morte si ritiene certa ed inevitabile, non solamente una seria probabilità. Chi si vanta del proprio coraggio, chi vuole esibirsi, chi prova piacere compiendo atti pericolosi, si espone, peccando contro il quinto comandamento, al pericolo di morte.
Ciò premesso, vado ad elencare quanto ho di pugno scritto nel mio “testamento biologico”, poi scansionato, firmato digitalmente (*.p7m) ed inviato mezzo PEC (Posta Elettronica Certificata) al Sindaco del comune ove risiedo, all’Ufficio protocollo del medesimo Comune, al mio stimabile avvocato, infine ho consegnato l’originale alla famiglia. Seguirà un breve approfondimento.
Devo purtroppo citarmi per la seconda volta: «Con viva fede e profonda convinzione, di mio pugno scrivo e dichiaro quanto segue. Nell’ipotesi di non trovarmi nella condizione di poter decidere riguardo alle mie cure sanitarie, a causa di un deterioramento mentale e/o fisico, e/o di essere in un qualsiasi altro stato clinico esistente nella realtà e/o nella vigente legislazione ed in qualsivoglia altra condizione o presunta tale: 1° Voglio essere sempre informato sul mio stato di salute e sui farmaci somministratimi; 2° NON intendo in alcun modo donare gli organi. Nego qualsiasi donazione di organi.
(Donazione degli organi. Per primo, gli organi di un vero morto non interessano a nessuno, per conseguenza la scienza, secondo criteri legali che variano da paese a paese, decide quando dichiarare cerebralmente morto un individuo, dunque decide quando “staccare la spina” e procedere all’espianto. Traete voi le conclusioni. In ultimo, i miei organi potrebbero giovare alla vita di un reprobo satanasso, di un pervertito impenitente, eccetera ... L’idea non mi esalta!); 3° NON intendo che vengano interrotte le cure mediche, l’alimentazione, la respirazione ed altro utile a tenermi in vita. Nego l’interruzione delle cure lecite; 4° Rigetto assolutamente l’eutanasia, la cosiddetta sedazione profonda e qualsiasi altra forma di omicidio camuffato da pietà.
(Eutanasia e Sedazione profonda. Il cristianesimo fece sparire l’usanza inumana dell’eutanasia - o uccisione degli ammalati, dei vecchi decrepiti, dei bambini deformi, eccetera - ma la società laica, dunque atea e neo-pagana - l’ha riesumata dalle tenebre portandosi ad un livello più basso delle società squisitamente barbariche, dove alla vita pure veniva riconosciuto un rilevante valore. Anche la cosiddetta sedazione profonda, ovvero la somminiostrazione di sostanze che privano il paziente del normale uso di coscienza, permanentemente o temporaneamente, che accelerano la morte ed espongono il paziente ad una morte non riconciliato con Dio, sono assolutamente abominevoli ed illecite);
5° NON intendo rinunciare ad alcun tipo di cura medica (per la moralità e la liceità rimando unicamente alla decisione insindacabile di uno dei Sacerdoti dell’Istituto Mater Boni Consilii di Verrua Savoia TO ...). Che anzi pretendo le migliori cure mediche previste dal sevizio sanitario pubblico, per le quali ho regolarmente pagato le tasse senza mai usufruirne e/o abusarne; 6° Aborrisco la mostruosa pratica della moderna cremazione. NON intendo essere cremato per alcuna ragione, anche se dovessi morire di peste, ebola, Covid-19 e simili malattie contagiose.
[Cremazione. La Chiesa ammetteva straordinariamente la bruciatura del cadavere in caso di pestilenze ed epidemie, quando cioé non si poteva fare altrimenti per salvaguardare la salute pubblica e porre fine al contagio. Non è il caso della contemporaneità. 1° Ci sono tutte le circostanze, le tecnologie ed i mezzi per garantire a chiunque degna sepoltura. 2° Inoltre la moderna cremazione è un vero e proprio rito gestito da precise organizzazioni dichiaratamente settarie in odio a Cristo. La cremazione fu praticata in epoche remote presso alcune, benché rare, comunità pagane. È praticata in sporadiche false religioni particolarmente superstiziose. Durante la funesta Rivoluzione Francese si tentò di imporre la cremazione nella legislazione civile. In Italia ricomparve dopo il “Risorgimento (del paganesimo)” per mano delle società massoniche ed anticristiche (Approfondimenti qui). Furono costruiti i primi forni crematori dalla massoneria in Padova, poi in altre località europee, infine negli USA nell’ignorante intento di contrastare e ridicolizzare il dogma della Resurrezione dei corpi. L’autorità suprema della Chiesa cattolica - N.B. i modernisti che occupano la Chiesa dagli anni ’60 non fanno testo poiché le loro sentenze, prive di autorità e di autorevolezza, vanno ignorate - ha sempre condannato la cremazione, ha condannato chi formalmente coopera alla cremazione, ha condannato chi dà ordine di cremare il proprio corpo o di far cremare il corpo di qualcuno, ha condannato chi fa parte delle società di cremazione, ha negato l’assoluzione sacramentale a chi ha ordinato la propria cremazione e non vuol revocare tale proposito, ha negato allo stesso la sepoltura ecclesiastica. I massoni ed altri sedicenti illuminati sono i propagatori di questa funestissima pratica. Le società di cremazione sono ordinariamente gestite da pochi e settari potentati anticristiani. La Chiesa ha sempre condannato la cremazione poiché si oppone direttamente all’antichissima ed umana tradizione di riverenza per il corpo umano, organo dell’anima santificata dalla grazia e dalla vita divina, tempio dello Spirito Santo. Bruciare un corpo per uno stato di grave necessità - per esempio in caso di pestilenza - quando non ci sono altri rimedi possibili è dunque lecito. È sempre illecita la pratica della moderna cremazione. La Chiesa non cambierà mai la sua posizione in materia].
Seguono le disposizioni sul funerale ... eccetera ... eccetera ...».
Nel redigere questo mio breve “testamento biologico” ho astutamente seguito lo schema interattivo di cui fa propaganda una nota associazione per i “diritti civili”. Ordinariamente un'accozzaglia di debosciati e falsi intellettuali - «Et sicut non probaverunt Deum habere in notitia, tradidit eos Deus in reprobum sensum, ut faciant, quae non conveniunt etc ...» (ad Romanos, I, 28) - che propaganda aborto, meretricio, sodomia, narcotici, eutanasia, femminismo, contraccettivi, eugenetica, sindacalismo, indulti ed altre misure e posizioni parimenti efferate, selvagge, irragionevoli, ostili a Dio, alla vita ed alla legge di natura. Utilizzando il loro schema burocraticamente granitico, nella compilazione ho scritto l’esatto contrario delle volontà propagandate da questi loschi figuri, poi ho finalmente depositato l’atto. Spero di aver fato un lavoro, certamente non perfetto, quantomeno meritorio per la mia anima e gradito al buon Dio.
Per gli approfondimenti ho convenientemente utilizzato il manuale Roberti-Palazzini (De Profùndis)
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• Si tenga presente che: 1° Giuda tradì Gesù perché era un avaro, e pur amandolo lo tradì per avarizia fino a suicidarsi a causa della disperazione; 2° Aiutare i Sacerdoti è un dovere dei Cristiani, nonché Precetto che ci comanda di sovvenire alle necessità della Chiesa contribuendo secondo le leggi o le usanze (San Pio X); 3° L’avaro è, in realtà, un miserabile. Egli è povero pur avendo tutto o quanto basta. L’avaro è portato al furto ed alla frode negli affari. L’avaro si lamenta addirittura delle sue fortune, ritenendole poche od a rischio. L’avaro non può elevare la sua anima a Dio, poiché ella è prigioniera di questa infame passione. L’avaro ordinariamente va all’inferno “senza appello”. Tuttavia anche l’avaro può liberarsi da questo cancro, ma deve iniziare con una sincera richiesta di perdono a Dio e con slanci di generosità. L’avaro guardi alle odierne incerte circostanze come a un dono di Dio per la sua redenzione: dopo la morte l’avaro, come ogni disgraziato peccatore, non potrà avere alcuna altra possibilità, ma sarà eternamente dannato e odiato da Dio.
• Questo breve editoriale, in tempo di Corona Virus, è dedicato a Dio. Ci faremo aiutare dalle preziose indicazioni di teologia morale Roberti-Palazzini. Dio è il primo fondamento di ogni legge morale in quanto ne è la causa efficiente, esemplare e finale. Infatti, come Creatore e Governatore supremo di tutto l’universo, Egli ha concepito sin dall’eternità ed espresso nella creazione le leggi secondo le quali debbono svolgersi le azioni umane, esprimendo queste leggi sia nell’ordine obiettivo delle cose e nella loro natura (in quanto conosciuta dalla ragione umana) sia coi dettati positivi (v. anche Legge eterna, naturale, divino-positiva); cosicché ogni legge proviene da Dio, direttamente oppure indirettamente, per mezzo di un’Autorità che da Lui deriva la potestà di comandare. L’uomo, osservando questa legge morale, tende al suo ultimo fine, perché la propria perfezione morale che ne risulta lo rende simile alla perfezione del suo divino esemplare, e soprattutto perché essa lo conduce all’acquisto di Dio come soggetto di conoscenza e di amore soprannaturale nel Paradiso. Chi nega l’esistenza di Dio sottrae alla legge morale l’unico suo fondamento, che non può essere sostituito con criteri di utilità, di benessere o di imperativi categorici, né con un fatto compiuto per imposizione esterna da parte di altri uomini: Non c’è potestà se non da Dio (Rom., 13, 1).
• È evidente che ogni legge o comandamento si riferisce in ultima analisi sempre a Dio stesso, e che quindi ogni infrazione costituisce un reato contro di Lui. Mentre, però, questa opposizione a Dio per gran parte della legge morale si effettua in modo indiretto, essendo il suo oggetto diretto un bene creato (vita umana, beni temporali, onore, ecc.), per un’altra parte l’opposizione è diretta, e precisamente per quella parte di cui Dio o le cose di Dio sono l’oggetto immediato, che determina i nostri doveri verso di Lui: adorazione, culto, fede, speranza, carità, eccetera. Praticamente troviamo questi doveri espressi negli obblighi che ci impongono le tre virtù teologali e i tre primi comandamenti del decalogo (v. Adorazione, Bestemmia, Carità, Culto, Fede, Giuramento, Liturgia, Speranza, Tentazione di Dio, ecc.). Esempio: Il pensiero ecumenico è un’opposizione diretta a Dio. La frode negli affari è un’opposizione indiretta a Dio.
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Prima parte. §562. Potevano essere circa due ore dopo la mezzanotte. Il gruppo delle guardie, recando con sé l’arrestato, rifece in senso inverso la stessa strada fatta poche ore prima da Gesù con gli Apostoli, e attraversato il Cedron risalì sulla collina occidentale della città, ov’era la casa del sommo sacerdote Anna. Giunta ivi la scorta si divise; l’arrestato e le guardie del Sinedrio rimasero nella casa, mentre i soldati della coorte romana si ritirarono nel loro quartiere sulla fortezza Antonia. Quanto avvenne allora è narrato in maniera diversa dai quattro Evangelisti. Dei tre Sinottici, Matteo e Marco offrono una narrazione sostanzialmente uniforme; da essi però si discosta notevolmente Luca, il Sinottico che scrive dopo di loro; infine Giovanni, secondo il suo solito, fa precisazioni e integrazioni ai tre racconti precedenti presupponendoli già noti. Fra i Sinottici, Matteo e Marco parlano di una presentazione di Gesù avvenuta di notte, e di un’altra davanti al Sinedrio avvenuta di buon mattino; Luca invece parla soltanto della presentazione mattinale davanti al Sinedrio. Giovanni, per conto suo, distingue una presentazione davanti al sommo sacerdote non più in carica, Anna, della quale tacciono i Sinottici, e una successiva presentazione davanti al sommo sacerdote allora in carica, Caifa; egli invece non parla di una presentazione davanti al Sinedrio. Per concordare queste varie relazioni basta avere presente quanto rilevammo più volte nel passato: cioè che i Sinottici spesso non si preoccupano né dell’integrità della narrazione né della serie cronologica dei fatti, e che d’altra parte San Giovanni evita abitualmente di ripetere il racconto dei Sinottici, pur facendo un tacito assegnamento su di esso con la mira di integrarlo. Così ad esempio, poiché Anna non era stato neppur nominato dai Sinottici, Giovanni comincia la narrazione precisando che Gesù fu condotto dapprima presso Anna (§ 164), e solo in seguito segnala che fu condotto presso Caifa, che è il sommo sacerdote di cui parlano i Sinottici. Molto probabilmente, a cagione anche della loro parentela, Anna e Caifa abitavano ambedue nello stesso edificio in appartamenti differenti. Una tradizione assai antica, risalendo almeno al secolo IV, colloca la casa di Caifa sulla collina occidentale della città a poche decine di metri a settentrione del tradizionale cenacolo (§ 535). Se Gesù fu condotto dapprima presso Anna, la ragione fu probabilmente che costui, non più in carica ma sempre potentissimo (§ 52), aveva suggerito la maniera di catturare il Rabbi galileo; quasi in conseguenza di questa sua operosità e per deferenza al suo straordinario potere, il suo genero Caifa aveva dato ordine che l’arrestato fosse condotto direttamente presso Anna. A questo punto pertanto si inizia il processo di Gesù, che si svolse in due fasi differenti, presso due sedi differenti, e in forza di argomenti in parte differenti. La prima fase è religiosa: Gesù, imputato di delitto religioso, compare davanti al tribunale nazionale-religioso del Sinedrio e ivi è dichiarato degno di morte. Ma questa sentenza ha valore soltanto teoretico, perché, come già sappiamo (§ 59), il Sinedrio non poteva eseguire le sentenze capitali da esso pronunziate se non fossero state individualmente ed esplicitamente approvate dal rappresentante dell’autorità di Roma. Allora, per far sì che la propria sentenza non rimanga sterile e inefficace, il Sinedrio si rivolge al procuratore romano e qui si apre la seconda fase del processo: la quale si svolge, non più davanti ai giudici di prima, ma davanti al tribunale civile del procuratore; inoltre i giudici di prima compaiono nel nuovo tribunale in funzione di accusatori, e presentano accuse solo in minor parte religiose e in maggior parte politiche.
• § 563. Il processo religioso cominciò con un interrogatorio a cui Anna sottopose Gesù; ma esso non fu una vera inquisizione ufficiale, fu piuttosto un orientamento giuridico della questione o anche una soddisfazione personale che volle prendersi l’inquirente, in attesa che giudici e testimoni ufficiali fossero convocati in quell’ora notturna e intervenissero personalmente. Anna interrogò Gesù circa i suoi discepoli e il suo insegnamento. Gesù rispose: «Io palesemente ho parlato al mondo; io sempre insegnai in sinagoga e nel tempio dove tutti i Giudei s’adunano, e di nascosto non parlai (di) nulla. Perché interroghi me? Interroga quei che udirono che cosa parlai loro. Ecco: costoro sanno le cose che dissi io» (Giov., 18, 20-21). L’imputato rispondeva in maniera conforme al diritto delle genti: presso tutti i popoli, compreso l’ebraico, un accusato non rendeva testimonianza riguardo a se stesso; testimonianze valide erano soltanto quelle rese da testimoni alieni degni di fede, e Gesù con la sua risposta rinvia il giudice appunto a tali testimoni. Egli non è stato fondatore di società segrete o insegnante d’una sapienza arcana e gelosa: ha parlato in luoghi pubblici e a tutti quei che si presentavano; costoro perciò potranno render testimonianza del suo insegnamento. In maniera analoga si era difeso, cinque secoli prima, Socrate davanti ai giudici ateniesi; anch’egli aveva parlato sempre palesemente, e se qualche testimonio avesse affermato d’aver udito da lui cose che non tutti avevano potuto udire sarebbe stato un mentitore. L’inappuntabile risposta di Gesù dovette provocare in Anna un gesto di dispetto, perché l’inquirente certamente sperava che l’imputato con la sua risposta fornisse argomenti per la sua futura accusa ufficiale. Il gesto stizzoso di Anna fu notato da uno dei presenti, servitore assai zelante, il quale stimò giusto prendere le parti dell’inquirente e andare incontro al suo segreto desiderio; trovandosi perciò vicino a Gesù, gli dette uno schiaffo esclamando scandalizzato: «Così rispondi al sommo sacerdote?». Rispose a lui Gesù: «Se parlai male, rendi testimonianza circa il male; se invece bene, perché mi percuoti?» (Giov., 18, 22-23). Con questo schiaffo termina ciò che noi sappiamo dell’interrogatorio di Anna, il quale del resto non dovette esser lungo. Visto il contegno misuratissimo che l’imputato teneva e forse anche desiderando di non ingolfarsi nelle vicende del processo, Anna inviò senz’altro Gesù legato al sommo sacerdote in carica, il proprio genero Caifa. Il tragitto dall’una all’altra abitazione fu brevissimo, perché, come supponemmo (§ 562), consistette nell’attraversare un cortile o atrio a cui facevano capo i vari appartamenti.
• § 564. Nel frattempo in casa di Caifa si erano radunati vari membri del Sinedrio, e quando furono in numero bastevole sottoposero Gesù a un regolare interrogatorio, ove si raccolsero i primi elementi della procedura ufficiale riguardante l’imputato. Tuttavia la seduta del Sinedrio in vera funzione di tribunale fu tenuta soltanto più tardi, sul far del mattino, quasi per integrare ed applicare i risultati del primo saggio fatto durante la notte. Matteo e Marco sembrano attribuire l’interrogatorio di Gesù alla seduta notturna; Luca, cronologicamente più preciso, lo attribuisce alla seduta mattinale, e indubbiamente la sua attribuzione è da preferirsi. Riportammo altrove le prescrizioni minutissime ed accuratissime che si leggono nel Talmud riguardo ai processi, specialmente a quelli che potevano concludersi con una sentenza capitale (§ 60); ma accennammo anche che tutta quella legislazione, così ampia e sapiente, era anche troppo sapiente perché si potesse attuare nella pratica. Essa in realtà fu messa in iscritto soltanto dal secolo II dopo Cristo in poi, e agli storici imparziali appare oggi come una teoria astratta, come una visione ideale della perfetta amministrazione della giustizia, piuttosto che come un codice normativo da seguirsi nella pratica; senza ripensare alle Utopie di Platone e di Tommaso Moro e senza uscire dallo stesso Israele, l’ampia e minuziosa legislazione di Ezechiele (capp. 40-48) riguardo al futuro Tempio aveva già offerto un tipico saggio di siffatte teorie o visioni ideali. È stato osservato giustamente da studiosi moderni, anche Israeliti, che la legislazione talmudica dei processi sembra congegnata in maniera da rendere impossibile una sentenza capitale: è certo poi che essa, fissata in scritto quando la nazione giudaica aveva perduto ogni autonomia politica ed era rappresentata dai soli Farisei (§ 87), poté essere elaborata senza alcuna aderenza al presente e attribuita arbitrariamente al passato come un prodotto della “tradizione”. Che essa fosse totalmente inventata in occasione di questa sua codificazione, non è verosimile; ma le norme osservate per consuetudine ai tempi dell’autonomia e prima della codificazione dovevano essere rare e scarne e certamente ben lontane da quella precisione e minuziosità che ricevettero poi nello scritto. Ai tempi di Gesù, in mancanza della codificazione, vigevano soltanto norme consuetudinarie, di cui però non possiamo oggi stabilire il numero e l’indole: possiamo ritenere in genere che esse corrispondevano solo ad una minima parte di ciò che più tardi risultò codificato. Sarebbe quindi falso metodo confrontare - come si è fatto - le disposizioni processuali del Talmud con la pratica seguita nel processo di Gesù, per vedere se e fino a qual punto quelle disposizioni vi furono osservate: di molte di esse, infatti, non sappiamo neppure se allora esistessero. Esisteva certamente, ad esempio, la norma solenne e antica (Numeri, 35, 30; Deuteronomio, 17, 6; 19, 15) secondo cui nessuno poteva esser condannato se non in forza di testimonianze aliene, e non mai di una sola ma almeno di due o tre; al contrario non è sicuro che esistesse la norma codificata più tardi secondo cui in seduta notturna non potevano essere trattati processi criminali, e anche l’altra secondo cui una condanna a morte non poteva essere pronunziata nel giorno stesso della discussione del processo. Certo è che, nel processo di Gesù, tutte e tre queste norme non risultano osservate.
• § 565. Essendo pertanto stati preparati nella seduta notturna gli argomenti principali per la seduta mattinale, questa fu tenuta «appena si fece giorno» (Luca, 22, 66), cioè appena cominciarono a diradarsi le tenebre notturne, anche prima della piena alba (§ 576). Dovevano essere circa le nostre ore cinque antimeridiane. Alla seduta notturna saranno intervenuti o i più focosi avversari di Gesù oppure i frequentatori più assidui della casa del sommo sacerdote; a quella mattinale invece intervennero i membri di tutti e tre i gruppi del Sinedrio (Luca, ivi; cfr. § 58). In osservanza pertanto dell’antica e solenne norma suaccennata si cominciò con escutere «molti... testimoni», i quali però erano «falsi»; ma sia che la subornazione di tali testimoni fosse stata fatta in maniera affrettata e vaga, sia che essi riferendosi ad antichi fatti e discorsi di Gesù confondessero particolarità ben diverse, le loro «testimonianze non erano concordi» (Marco, 14, 56). Con tali deposizioni il processo non faceva un passo avanti e non si salvavano neppure le apparenze della legalità; giacché anche se a quei tempi non vigeva la norma, codificata più tardi, secondo cui il testimone doveva precisare esattamente il giorno, l’ora, il luogo, e tutte le altre minute circostanze del delitto attestato (§ 60), si richiedeva evidentemente che le deposizioni non si contraddicessero a vicenda. Qui invece si contraddicevano. Alla fine, tuttavia, si presentarono due testimoni che sembrarono concordi: il numero legale minimo, di due, c’era, e pareva esserci anche la concordia. Costoro deposero che Gesù aveva pronunziato le seguenti parole: «Posso demolire il santuario d’Iddio e in tre giorni edificar(lo)» (Matteo, 26, 61); ovvero secondo l’altra relazione: «Io demolirò questo santuario manufatto, e in tre giorni (ne) edificherò un altro non manufatto» (Marco, 14, 58). Ma anche questa doppia testimonianza, all’ulteriore inquisizione dei giudici, non risultò concorde nei suoi particolari: soprattutto, poi, essa non era vera né quanto allo spirito né quanto alla lettera. La testimonianza infatti si riferiva evidentemente alle parole pronunziate da Gesù più di due anni prima, in occasione della cacciata dei mercanti dal Tempio (§ 287); ma già vedemmo che quelle parole erano metaforiche e si riferivano, non già al Tempio di Gerusalemme, ma al corpo di Gesù stesso. Inoltre, anche volendo prendere quelle parole come dirette al Tempio di Gerusalemme, Gesù non aveva espresso il proposito di demolire egli stesso il Tempio, bensì aveva sfidato i suoi avversari a demolirlo (Demolite questo santuario, ecc.); dunque egli tutt’al più sarebbe stato il ricostruttore del Tempio, eventualmente demolito dai Giudei, non già il suo demolitore. Ma ricostruire il Tempio poteva esser titolo di encomio, non già argomento di accusa; una delle pochissime benemerenze che, mezzo secolo avanti, Erode il Grande si era procurato agli occhi dei Giudei osservanti era stata appunto quella di aver ricostruito più suntuosamente di prima il Tempio da lui stesso man mano demolito (§ 46). Certamente testimoni e giudici non credevano che Gesù potesse fare quanto Erode il Grande aveva fatto; ma essi in tal caso potevano concludere tutt’al più che l’imputato era un vanesio, un sognatore, un millantatore, non già un empio e un bestemmiatore.
• § 566. Senonché la doppia testimonianza riguardo al Tempio era troppo opportuna perché quei giudici, in difetto d’altri capi d’accusa, se la lasciassero sfuggire: essa poteva valere almeno come prova che Gesù aveva ritenuto possibile o aveva profetizzato la distruzione del Tempio. Ora, quando si trattava di quel cumulo di sassi e di travi che costituivano il Tempio materiale, i Giudei dei tempi di Gesù perdevano immediatamente il lume degli occhi, come l’avevano perso sei secoli prima i Giudei dei tempi di Geremia. L’antico profeta era stato giudicato degno di morte perché aveva predetto da parte di Dio che il Tempio sarebbe stato distrutto (Geremia, 7, 4 segg.; 26, 6 segg.); e le scritture di lui, nelle quali si narrava questa predizione insieme col suo puntuale avveramento e con l’empio trattamento fatto al profeta, erano tuttora venerate come sacre da coloro che stavano là assisi a giudicare Gesù: ma l’insegnamento che essi ne trassero fu di ripetere in maniera peggiorativa quanto i loro antenati avevano fatto al profeta del Dio d’Israele. Vedendo infatti che pure quest’ultima testimonianza stava per sfumare, il sommo sacerdote prese una risoluzione decisiva. Levatosi in piedi, Caifa tentò di ottenere da Gesù qualcosa che in apparenza fosse una sua giustificazione di fronte all’accusa dei testimoni, ma che in realtà avrebbe implicato l’imputato nella discussione inducendolo a confessioni; gli disse perciò: «Non rispondi nulla? Che cosa testificano costoro di te?». Ma la desiderata risposta non venne, e Gesù serbò un silenzio assoluto. Allora il sommo sacerdote, assumendo un atteggiamento ispirato e solenne, insistette: «Ti scongiuro per il Dio vivente affinché ci dica se tu sei il Cristo (Messia), il Figlio d’iddio». L’atteggiamento del sommo sacerdote sembrava quello di un uomo che, tutto preso dal desiderio della verità, aspettasse soltanto una parola d’assicurazione per affidarsi e rendersi totalmente ad essa; udendolo si sarebbe detto che, a una risposta affermativa di Gesù, egli si sarebbe prostrato riverente davanti a lui riconoscendolo come il Messia d’Israele. Si noti inoltre, accuratamente, che Caifa ha scongiurato Gesù a dichiarare se egli sia il Cristo, il Figlio d’iddio. Cosicché i termini dell’interrogazione sono due; Gesù potrà affermare o negare di essere il Cristo, ossia il Messia, e oltre a ciò di essere il Figlio d’Iddio. È probabile che Caifa, in questo scongiuro, usasse i due termini come praticamente sinonimi; tuttavia egli stesso e gli altri membri del Sinedrio mostreranno in seguito di saper ben distinguere il preciso significato dei due termini, e attribuiranno al termine «il Figlio d’Iddio» un significato distinto e assai più alto che quello di «Messia».
• § 567. Il momento era davvero solenne. Tutta l’operosità, tutta la missione di Gesù apparivano quasi riassunte nella risposta che egli avrebbe data allo scongiuro del sommo sacerdote. Chi interrogava era rivestito dell’autorità somma e ufficiale in Israele; chi rispondeva era colui che nella sua vita aveva serbato quasi costantemente occulta la sua qualità di Messia per ragioni d’oculata prudenza, confidandola soltanto negli ultimi tempi e soltanto a persone opportune e predisposte. Ma allora le ragioni di prudenza avevano cessato di esistere: pericoloso che fosse, era ben giunto il momento di dichiarare apertamente la propria qualità davanti all’intero Israele, rappresentato dal sommo sacerdote e dal Sinedrio. Tuttavia la risposta, che Gesù aveva già pronta, sarebbe stata certamente oggetto di scandalo per coloro a cui era diretta, a causa delle loro particolari condizioni di spirito: inoltre sarebbe stato necessario dapprima mettere bene in chiaro taluni principii sui quali essi potevano equivocare. Gesù quindi prudentemente ammonì: «Se io ve (lo) dico, non (mi) crederete; se poi (vi) interrogherò, non (mi) risponderete» (Luca, 22, 67-68). Questa ammonizione deluse per un momento l’ansiosa aspettativa dell’intera assemblea, i cui membri perciò dovettero esortare l’imputato a rispondere, ripetendogli alla rinfusa la domanda del sommo sacerdote per ottenere la dichiarazione che essi si aspettavano. Gesù allora, indirizzandosi al sommo sacerdote rispose: «Tu (l’)hai detto»; il che significava: «Io sono ciò che tu hai detto» (§ 543). A questa schematica affermazione l’imputato aggiunse una dichiarazione rivolta all’intera assemblea: «Senonché vi dico, da adesso vedrete il figlio dell’uomo seduto a destra della “Potenza” e veniente sulle nubi del cielo». Questa aggiunta adduce, fondendoli insieme, due celebri passi messianici (Daniele, 7, 9. 13; Salmo 110 ebr., 1); essa infatti vuole precisare il senso della schematica affermazione di Gesù ricollegandola con le sacre Scritture ebraiche, e nello stesso tempo appellarsi ad una futura prova di quella affermazione cioé al ritorno glorioso del Messia «sulle nubi del cielo», predetto dalle Scritture.
• § 568. Appena udite le parole di Gesù tutti i Sinedristi insorsero protesi e vibranti, e a gara domandarono all’imputato: T»u dunque sei il Figlio d’Iddio?» (Luca, 22, 70). Dalla precedente risposta di Gesù essi già avevano ottenuto la preziosa confessione che egli si reputava Messia: poteva tuttavia rimanere un dubbio, cioè se egli si reputasse bensì Messia ma non già «Figlio d’Iddio» nel senso ontologico dell’appellativo. In realtà, le allusioni fatte da Gesù ai due passi messianici mettevano sufficientemente in chiaro anche questo punto; tuttavia i Sinedristi, ansiosi di ottenere una piena dichiarazione dall’imputato, gliene rivolsero formale domanda: «Tu dunque sei oltreché il Messia anche il Figlio d’Iddio?». Più precisi ed esatti di così, quei giudici non potevano essere. Più precisa ed esatta non poté essere la risposta di Gesù, la quale nel silenzio palpitante del tribunale risonò: «Voi dite che io sono»; il che significava: «Io sono ciò che voi dite» cioè il Figlio d’Iddio. Ottenuta questa nettissima affermazione, il sommo sacerdote gridò esterrefatto: «Ha bestemmiato! Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? Ecco, adesso avete udito la bestemmia! Che ve (ne) pare?». Tutti a gran voce risposero: «è reo di morte!». Per rendere più visivo e più impressionante il suo sdegno, il sommo sacerdote mentre aveva lanciato il primo grido si era anche strappato l’orlo superiore della tunica, com’era usanza di fare quando si assisteva ad una scena di sommo cordoglio; ma in realtà se quell’uomo avesse mostrato palesemente sul volto i veri sentimenti che aveva nel cuore, il suo aspetto sarebbe apparso illuminato di profonda e sincera gioia. Egli infatti credeva d’esser riuscito a far bestemmiare Gesù, e con ciò ad implicarlo nella sua propria condanna.
• § 569. Senonché l’interrogazione rivolta dal sommo sacerdote a Gesù aveva costituito una procedura del tutto illegale. Poiché fino allora era mancata la prova testimoniale, si era cercato di rendere l’imputato testimonio avverso a se stesso, contro la norma stabilita in Sanhedrīn, 9 b, e di sorprenderlo in un preteso delitto flagrante; in tal modo non si teneva più conto dei pretesi delitti passati per concentrarsi unicamente su uno presente, e Gesù non figurava più come un imputato responsabile di antiche colpe ma come un innocente arrestato per esser provocato a bestemmiare. Inoltre Gesù, affermando di essere il Messia, non aveva affatto bestemmiato: in primo luogo perché egli in quella sua affermazione non aveva impiegato il nome di Dio, bensì aveva prudentemente sostituito al pronome personale o generico di Dio (Jahveh ovvero Elohīm) l’appellativo di «Potenza» come solevano fare i rabbini; in secondo luogo, perché attribuire a se stesso o ad altri unicamente la qualità di Messia d’Israele non poteva considerarsi una bestemmia. Senza uscire infatti dal rabbinismo più ortodosso, un secolo più tardi il grande Rabbi Aqiba proclamerà Messia quel Bar Kokeba che guiderà l’ultima e più catastrofica ribellione della Giudea contro Roma; eppure, nonostante questa fallace proclamazione, Rabbi Aqiba non solo non fu giudicato bestemmiatore ma rimase poi sempre come uno dei più illustri luminari del giudaismo dell’Era Volgare. Perciò l’affermazione messianica che Gesù aveva fatta di se stesso, anche se non era accettata, poteva essere giudicata dai suoi avversari tutt’al più vana e millantatrice quale di un allucinato od esaltato - come in realtà fu giudicata da alcuni contemporanei l’affermazione di Rabbi Aqiba - ma bestemmia contro la Divinità non era in alcun modo. Perché dunque il presidente gridò, e il tribunale confermò, che Gesù aveva bestemmiato? Evidentemente in forza della risposta affermativa data da Gesù all’ultima interrogazione: «Tu dunque sei il Figlio d’iddio?». In questa domanda il termine «il Figlio d’Iddio» certamente non è - nell’intenzione stessa dell’interrogante - un pratico sinonimo del termine Messia, bensì rappresenta in confronto con questo termine un ulteriore progresso, un climax, e riveste un significato assai superiore: gli interroganti volevano sapere da Gesù se egli, nel significato ontologicamente vero, si riteneva «il Figlio d’iddio». Avendo Gesù risposto in maniera affermativa, fu giudicato bestemmiatore. E così il processo religioso era finito e la sentenza era stata data: Gesù era stato giudicato reo di morte come bestemmiatore. La procedura era riuscita al sommo sacerdote in maniera superiore alla sua aspettativa. Visto che era inutile sperare nelle deposizioni dei testimoni subornati, egli si era rivolto direttamente all’imputato prendendo di mira dapprima la qualità di Messia, perché ottenuta una confessione su questo punto il reo confesso ne avrebbe dovuto rispondere poi in sede politica davanti al procuratore romano. Senonché la confessione era stata così ampia e solenne, che aveva portato spontaneamente all’altra interrogazione se l’imputato fosse - oltreché Messia - anche «il Figlio d’Iddio». Questa nuova interrogazione, più delicata e decisiva che mai, aveva ottenuto pure essa una risposta pienamente affermativa. Cosicché, in conclusione, l’inquirente aveva trionfato in ambedue i campi: in quello nazionale-politico, perché l’imputato aveva confessato di essere il Messia d’Israele; in quello rigorosamente religioso, perché aveva confessato di essere vero Figlio d’Iddio. Questa seconda confessione era stata decisiva davanti al tribunale del Sinedrio; la prima verrà addotta e sarà egualmente decisiva davanti al tribunale del procuratore romano. Questi fatti avvennero - come già accennammo (§ 564) - nella seduta mattinale, la quale fu definitiva e incorporò nella sua procedura i risultati provvisori ottenuti nella seduta notturna. Ma nel frattempo erano già avvenuti e tuttora avvenivano altri fatti, che qui raggruppiamo a parte. Prosegue la prossima settimana ...
Da «Vita di Gesù Cristo», imprimatur 1940, Abate Giuseppe Ricciotti, 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.
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• L’Abate Ricciotti ci descrive l’arresto di Gesù come segue. § 558. «E mentre egli parlava ancora, ecco Giuda uno dei dodici venne, e con lui (era) molta folla con spade e bastoni (mandata) dai sommi sacerdoti ed anziani del popolo». A questa notizia dei Sinottici, San Giovanni aggiunge alcuni particolari riguardo alla «molta folla»; essa in maggior parte era composta di inservienti del Tempio (cfr. Luca, 22, 52), ma c’era anche una coorte con un tribuno (Giov., 18, 3. 12). Ora, questi armati venivano certamente da parte del procuratore romano (§ 619); come erano andate dunque le cose? Non è arrischiato ricostruirle così. Quando Giuda uscì dal cenacolo (§ 543) si recò dai maggiorenti giudei, i quali l’attendevano e avevano compiuto nel frattempo i loro preparativi materiali e morali: materialmente, perché avevano dato ordine ai loro inservienti di tenersi pronti per una piccola ma delicata spedizione; moralmente, perché erano andati dal procuratore o dal tribuno, e dipingendo quel galileo di Gesù come un mestatore politico circondato da altri mestatori suoi compaesani e tutti pronti a suscitare sommosse nella capitale, avevano ottenuto facilmente una scorta armata. Questa scorta non poteva essere l’intera coorte (circa 600 uomini) di stanza a Gerusalemme, ma soltanto una minima parte alla quale qui San Giovanni dà il nome dell’intero: ad ogni modo la presenza dei soldati di Roma aveva un grande valore morale, tanto più che con essi era venuto anche il tribuno che li comandava. Con questa gente, adunatasi a notte fatta, si trattava di rintracciare ed arrestare Gesù. Dove trovarlo per impadronirsene alla chetichella e senza timore di reazioni popolari? A tale impresa nessuno poteva servire meglio di Giuda, che era stato pagato soprattutto per questa parte del programma; già udimmo infatti da San Giovanni che il luogo del Gethsemani era ben noto anche a Giuda «perché spesso si era raccolto cola’ Gesù con i discepoli suoi» (§ 554), e il traditore sapeva bene che Gesù dopo la cena pasquale non poteva essersi recato fino a Bethania troppo lontana: dunque doveva essere al prediletto Gethsemani, o giù di lì. Nel prendere gli ultimi accordi con i sommi sacerdoti, Giuda stabilì un segno speciale per far riconoscere Gesù: «Quello che io abbia baciato è lui! Afferratelo!». Nell’antico Oriente, infatti, i discepoli baciavano per rispetto le mani del maestro: gli amici invece, trattandosi alla pari, si baciavano sulla faccia. Nel segno scelto da Giuda c’era dunque come un avanzo di pudore, per cui il traditore non si sentiva il coraggio di additare palesemente alle guardie il suo maestro ed amico gridando «è lui! »; così avrebbe fatto chi avesse avuto un vero odio per Gesù, perché quel grido già sarebbe stato uno sfogo all’odio: invece il segno convenuto pretendeva salvare le apparenze. Ma anche qui riappare l’enigma di Giuda. Non sapeva egli forse che al maestro il tradimento era noto? Non aveva egli stesso udito quel misericordioso «Tu l’hai detto!» dalla bocca di Gesù poche ore prima (§ 543)? Se tali sconcertanti pensieri s’affacciarono in realtà alla mente di Giuda, egli si sarà rinfrancato ripensando ai 30 sicli e voltandosi per vedersi spalleggiato dai soldati di Roma: ad ogni modo questo pudore di finzione era anch’esso un certo avanzo dell’amore per Gesù, amore allora sopraffatto da quello per l’oro; invece, poche ore più tardi, l’amore per l’oro rimarrà soccombente, il tradimento sarà rinnegato, ma l’amore per Gesù non sarà abbastanza puro e forte da ricercare il perdono di lui (§ 534).
• § 559. Avvenne tutto secondo il convenuto. Gesù stava ancora parlando con gli Apostoli testé risvegliati, quando Giuda entrò nel giardino seguito a poca distanza dalle guardie; si avvicinò egli al gruppo dei dodici e sbirciando nella penombra degli olivi riconobbe Gesù. Andatogli allora dappresso, gli pose le mani sulle spalle e lo baciò in faccia esclamando: «Salute, Rabbi!». Gesù lo guardò, e a mezza voce gli disse: «Amico, per che cosa sei qui?». E passato qualche istante: «Giuda, con un bacio tradisci il figlio dell’uomo?». Non venne alcuna risposta; Giuda aveva compiuto l’incarico che si era assunto verso coloro che gli stavano alle spalle. Visto eseguito il segnale convenuto, le guardie vennero avanti alla rinfusa. Gesù allora, staccatosi dal gruppo degli Apostoli, mosse incontro a loro e domandò: «Chi cercate?». Risposero: «Gesù il Nazoreo». E Gesù: «Sono io». A queste parole i più vicini vacillarono e poi caddero all’inverso in terra. Anche di altri personaggi dell’antichità, come di Mario e di Marco Antonio, si legge che abbiano atterrito solo con la loro presenza o voce persone inviate ad assassinarli, ma si trattava di sicari singoli e di circostanze speciali: nel caso di Gesù può darsi benissimo che le guardie subissero ad un tratto la potenza della sua persona e ne rimanessero sgomentate, forse anche ripensando alla triste fine fatta dagli armati spediti a catturare Elia (II [IV] Re, 1, 10 segg.) o altri antichi profeti; tuttavia è certo che San Giovanni, il quale è solo a narrare questo episodio, vuole qui presentarlo come fatto taumaturgico, anche per dimostrare la libertà con cui Gesù accettava la sua cattura. Rialzatisi e ripetuto che cercavano Gesù il Nazareno, Gesù rispose ancora: «Vi dissi che sono io. Se dunque cercate me, lasciate che costoro se ne vadano». Con delicato accorgimento Gesù chiama gli Apostoli «costoro», dissimulando cioè la loro qualità di discepoli particolari per non esporli a violenze. Alla risposta di Gesù le guardie gli misero le mani addosso e l’afferrarono. Coloro che eseguirono l’arresto dovettero essere gli inservienti del Tempio, giacché appunto un servo del sommo sacerdote ne risentì per primo le conseguenze, e Gesù appena arrestato fu condotto avanti al sommo sacerdote e non all’autorità romana; al contrario i soldati della coorte romana (Unità, prima numerica e poi tattica, dell’esercito romano, composta di tre manipoli, ndr.) rimasero da parte inoperosi, pronti a intervenire solo nel caso che fosse successo qualche tafferuglio grave.
• § 560. La delicatezza di Gesù che si preoccupava per prima cosa di salvare gli Apostoli, e d’altra parte il vedere improvvisamente l’amato maestro caduto in potere di quella gente e così umiliato, risvegliò negli Apostoli quei propositi bellicosi che essi avevano manifestato poche ore prima nel cenacolo e che erano stati senza dubbio soggettivamente sinceri (§ 549). Spintisi allora nel tafferuglio fin presso a Gesù gli domandarono: «Signore, percoteremo di spada?». Ma Pietro non sarebbe stato Pietro se si fosse frenato in attesa della risposta di Gesù; egli invece, senz’altro, «avendo una spada la sfoderò e colpì il servo del sommo sacerdote e gli mozzò l’orecchio destro: il servo aveva nome Malcho». Solo San Giovanni (18, 10) nomina Pietro e Malcho: i Sinottici invece parlano del ferimento ma senza nominare né il ferito né il feritore, probabilmente per quella prudenza suggerita dal tempo in cui scrivevano e che vedemmo applicata altrove (§ 493, 535). Gesù intervenne subito e disse a Pietro: «Rimetti la tua spada al suo posto, perché tutti quei che impugneranno una spada periranno di spada!. Ovvero credi che non posso pregare il Padre mio ed (egli) mi appresterà subito più che dodici legioni di angeli (§ 347)? Come pertanto si compirebbero le Scritture (le quali dicono) che così deve avvenire?». Messo a posto il feritore, Gesù mise a posto anche il ferito risanandogli l’orecchio col semplice tocco di mano; anche questa guarigione è narrata soltanto dall’Evangelista medico (Luca, 22, 51). Disse quindi alla turba, fra cui erano sommi sacerdoti, capitani del tempio (§ 54) e anziani: «Come verso un ladrone usciste con spade e bastoni? Essendo io ogni giorno con voi nel tempio, non stendeste le mani addosso a me; ma questa è l’ora vostra e la potestà delle tenebre» (Luca, 22, 52-53).
• § 561. L’arrestato fu legato; si cominciò a condurlo via. Gli Apostoli, a cui dapprima la sonnolenza e poi il subitaneo sdegno non avevano permesso di rendersi ben conto della realtà dei fatti, soltanto allora compresero: il maestro era veramente arrestato, era condotto via come un volgare delinquente. Allora forse, meglio che a tutte le passate affermazioni di Gesù, essi cominciarono a intravedere quale fosse la durissima prova, quali i patimenti supremi, attraverso cui il maestro aveva predetto più volte di dover passare per giungere alla sua gloria. A tale tristissima veduta, a tali mestissimi ricordi, quegli undici si sentirono schiantati. Della futura lontana gloria del Messia essi non si ricordarono affatto; badarono soltanto al tintinnio delle catene, al luccicore delle spade, all’umiliazione del maestro: allora, totalmente smarriti, abbandonarono ogni cosa dandosi alla fuga, tutti dal primo all’ultimo. E Gesù uscì dal Gethsemani circondato dalla sola sbirraglia: non gli stava dappresso neppure un amico. O meglio, un amico c’era ancora, sebbene non stesse molto dappresso. Qui infatti avviene l’episodio del «giovanetto con la sola sindone». Come già vedemmo, è possibile che quel giovanetto fosse l’Evangelista Marco (§ 134). Se egli era figlio o altro parente del proprietario del cenacolo (§ 535), il quale forse era proprietario anche del Gethsemani (§ 554), si può supporre che terminata l’ultima cena egli per simpatia avesse seguito la comitiva di Gesù al Gethsemani ed ivi si fosse intrattenuto per qualche tempo con gli otto Apostoli ricoverati nella casipola o grotta, e dopo un certo tempo anch’egli si fosse messo a dormire. è importante il particolare che egli fosse «avvolto d’una sindone sul nudo»: la sindone di lino era infatti usata, stando in letto, soltanto da persone facoltose, mentre i popolani, come gli Apostoli, dormivano ravvolti nelle stesse vesti del giorno; probabilmente, dunque, quel giovanetto era abituato a passar talvolta la notte nella casipola del Gethsemani, ove in un angoletto avrà avuto il suo giaciglio e l’occorrente per dormire da persona agiata. Se queste ipotesi corrispondono alla realtà, tutto diventa chiaro. Il giovanetto, risvegliato improvvisamente dal vociare delle guardie e dalle grida del ferito e degli Apostoli, si alza dal giaciglio e balza fuori vestito come si trova: assiste all’ultima scena dell’arresto di Gesù e alla fuga degli Apostoli; allora, sia per la sicurezza d’un padrone che si ritrova sul terreno suo proprio, sia per la vivacità giovanile accresciuta dall’affetto per l’arrestato, egli si mette a seguire le guardie che s’allontanano; le guardie poco dopo s’accorgono di quel giovanetto che sta pedinando in quello strano abbigliamento, e insospettite lo prendono. Ma afferrano la sola sindone: perché l’agile ragazzo, sgusciando dal di sotto, lascia la sindone in mano alle guardie e fugge via tutto nudo. E così Gesù fu abbandonato anche da quest’ultimo amico: un adolescente privo di veste.
[Dalla nota 1 alla pagina 691, «Vita di Gesù Cristo», G. Ricciotti: Questo episodio è così tipicamente storico nel suo «verismo», che il richiamarne in dubbio la realtà sembrerebbe cosa inconcepibile. Eppure anche a questo si è giunti: si è affermato (modernista A. Loisy) che l’episodio è una pura finzione per dimostrare avverato il passo di Amos (2, 16) che dice nel testo ebraico: «E il più saldo di cuore fra i prodi nudo fuggirà in quel giorno». Senonché il contesto di Amos parla di tutt’altro argomento, e basta leggerlo per vedere che non offre il mimmo appiglio ad inventare un episodio come quello di Marco. A tali conclusioni da disperazione porta il partito preso di subordinare i documenti ad una tesi preconcetta]. Prosegue qui.
Da «Vita di Gesù Cristo», imprimatur 1940, Abate Giuseppe Ricciotti, 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.
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• § 554. San Giovanni, appena ha finito di riferire gli ultimi colloqui, prosegue: «Avendo detto queste cose, Gesù uscì con i discepoli suoi di la’ dal torrente del Cedron, ove era un giardino nel quale entrò egli e i discepoli suoi. Sapeva però il luogo anche Giuda, che lo tradiva, perché spesso si era raccolto colà Gesù con i discepoli suoi» (Giov., 18, 1-2). L’indicazione che il prediletto giardino era di là dal torrente del Cedron già basta per concludere che era nella zona del monte degli Olivi: ciò del resto è affermato esplicitamente dai Sinottici, i quali comunicano anche che il giardino si chiamava Gethsemani. L’appellativo, presuppone un oliveto, munito del suo pressoio e protetto forse da un recinto, il tutto in pieno accordo col nome del monte stesso; una tradizione, che è nettissima già dal secolo IV, indica come il Gethsemani un luogo poco oltre il Cedron e lungo l’odierna strada da Gerusalemme a Bethania, dove sono tuttora superstiti olivi di straordinaria grandezza e di età millenaria. Il cammino dal cenacolo al Gethsemani non era più che una comoda passeggiata. Nella chiara notte di plenilunio, alla frizzante aria primaverile, i reduci dal cenacolo scesero dalla Città Alta giù nel Tyropeon, seguendo probabilmente l’antica strada a gradini recentemente scoperta, attraversarono il quartiere del Siloe (§ 428), uscirono quindi dalla città per la Porta della Fonte, e risaliti verso il settentrione oltrepassarono il Cedron raggiungendo il Gethsemani. Il giardino doveva appartenere a qualche discepolo o ammiratore di Gesù, e questi perciò se ne serviva liberamente. Chi sa che il suo proprietario non fosse lo stesso padrone del cenacolo? Ciò spiegherebbe più facilmente come mai fosse presente nel giardino il giovinetto con la sola sindone, se costui è veramente San Marco (§ 561): ma trattandosi di ipotesi poggiata su altre ipotesi, non è il caso di insistere. Come altri poderetti di quel genere, anche il Gethsemani doveva avere vicino all’ingresso una casupola per riparo dell’ortolano e per deposito di roba; più in là c’era probabilmente pure una grotta scavata nel fianco del monte, e nella grotta era stato collocato (come si preferisce fare anche oggi) il torchio che dava il nome al luogo. In quella notte pasquale la zona era deserta, trattenendosi quasi tutti nell’intimità delle proprie case. Alla solitudine esterna corrispondeva lo stato d’animo della comitiva: come Gesù si mostrava triste lungo il cammino, così gli Apostoli rimasero taciturni e pensierosi. Giunti che furono al giardino, Gesù invitò la comitiva ad allocarsi alla meglio per passare la notte: e fu cosa facilissima per quegli orientali che erano abituati a dormire all’aperto ravvolti nel loro mantello, mentre questa volta trovarono il vantaggio di un ricovero e di foglie secche nella casupola o nella grotta. Al congedarsi da loro Gesù disse: «Restate qui, mentre io vado più in là a pregare. Pregate per non entrare in tentazione!». - Al momento poi di allontanarsi, egli prese con sé i tre testimoni della trasfigurazione, i prediletti Pietro, Giacomo e Giovanni (§ 403), conducendoli verso il luogo ove voleva pregare.
• § 555. Discostati che furono, i testimoni dell’antica gloria compresero subito che adesso avrebbero assistito a ben altra manifestazione, perché a un tratto Gesù cominciò a sgomentarsi ed angosciarsi. Rivolto poi ai tre, allorché avranno tentato di consolarlo, esclamò: «Tristissima è l’anima mia fino a morte! Restate qui, e vegliate con me!». Anche quella compagnia, però, non gli dava sollievo. Nella sconfinata angoscia che l’opprimeva, egli cercò ancora di restare solo per pregare. Facendo uno sforzo immenso, con il volto illividito, le ginocchia vacillanti, le braccia tese in cerca di sostegno, egli si staccò da essi quanto un lancio di sasso, e alfine stremato cadde sul suo volto pregando. Non era il modo di pregare solito ai Giudei, che stavano ritti; era l’accasciarsi a terra di chi non ha più forza di reggersi in piedi e vuole pregare prostrato giù nella polvere. Intanto i tre testimoni, certamente turbati anch’essi, osservavano quello stramazzato gemente: nella serenità plenilunare, alla distanza forse di una quarantina di passi (un lancio di sasso), essi potevano vedere e udire distintamente tutto. Lo stramazzato gemeva: «Abba (Padre)! Tutto è possibile a te! Allontana questo calice da me! Tuttavia (sia fatto) non ciò che io voglio, ma ciò che (vuoi) tu!». Il calice era un’espressione metaforica, frequente negli scritti rabbinici, per designare la sorte assegnata a qualcuno; la sorte qui prevista da Gesù è la suprema prova attraverso la quale il Messia deve pervenire al trionfo (§ § 400, 475, 495), è l’ora decisiva in cui il chicco di grano caduto in terra si disfà e muore ma per sprigionare nuova vita (§ 508). Quale differenza, pertanto, fra le disposizioni di spirito della domenica precedente e quelle di questa notte! Allora, nel Tempio, Gesù aveva prontamente e risolutamente respinto ogni titubanza davanti alla prova suprema (§ 508); in questa notte, a pochi momenti dall’inizio della prova, egli non solo è titubante ma prega esplicitamente il Padre celeste affinché la prova sia risparmiata: tuttavia la preghiera è condizionata al beneplacito supremo del Padre e la volontà dell’uomo è subordinata alla volontà di Dio. Non mai, in tutto il resto della sua vita, Gesù appare così veracemente uomo. Davvero che in quell’ora non già il cavaliere romano Ponzio Pilato, ma l’umanità intera avrebbe dovuto presentare Gesù al balcone dell’universo proclamando: Ecce homo! D’altra parte in quella stessa ora, più chiaramente forse che in seguito, si può misurare la smisurata angoscia che si riversò nello spirito di Gesù durante la sua Passione: perciò a quella proclamazione terrestre «Ecce homo!» avrebbe forse risposto una voce celeste proclamando «Ecce Deus!».
• § 556. La preghiera al Padre dovette essere ripetuta più e più volte, con l’uniformità di chi non chiede altro, con lo spasimo di chi si ritrova in indigenza estrema. Gli apparve però un angelo dal cielo, confortandolo. Il solo San Luca (22, 43), che non è uno dei tre testimoni oculari ma si è informato da essi, dà questa notizia; egualmente egli solo, da psicologo e da medico, ha raccolto taluni particolari di ciò che allora avvenne: «E fatto in agonia, più intensamente pregava. E divenne il sudore di lui quasi globuli di sangue scendenti giù sulla terra». L’agonia era per i Greci ciò che si svolgeva nell’«agone», cioè il concorso degli aurighi e la tenzone degli atleti che lottavano per il premio: e la lotta esigeva dalle membra e dagli spiriti i più laceranti sforzi, le violenze più spossanti, onde nessuno si avvicinava a quella lotta senza un interno pavore (timore - senso di terrore, ndr.) e una trepidazione ansiosa. Più tardi, infatti, «agonia» significò in genere pavore o trepidazione, ma specialmente di chi è implicato nella somma lotta Contro la morte: tale il caso di Gesù. «E fatto in agonia, più intensamente pregava». La preghiera, a cui egli sempre aveva fatto particolare ricorso nelle circostanze più solenni della sua vita, diventa suo unico rifugio in quest’ora suprema. E l’agonia si prolunga, e l’agonizzante o lottatore manifesta sul suo corpo gli effetti della lotta: trasuda, «e il sudore di lui diviene quasi globuli di sangue scendenti giù sulla terra». Alla distanza di un lancio di sasso, sotto il chiarore plenilunare questo fenomeno poté essere osservato abbastanza bene: anche più distintamente poté essere riscontrato dai tre testimoni poco dopo, quando Gesù si recò presso di loro avendo tuttora sul volto le rigature rosseggianti, i grumoli e le altre tracce dei globuli di sangue. Un fenomeno fisiologico, designato come ematidrosi cioè «sudore sanguigno», è noto ai medici: l’osservazione era stata fatta già da Aristotile, che impiega anche il termine là ove dice «taluni sudarono un sanguigno sudore». Il fenomeno avvenuto in Gesù potrà essere oggetto di ricerche scientifiche dei fisiologi, pur avendo presenti le singolari circostanze del paziente: il fisiologo San Luca, trasmettendo egli solo questa notizia, sembra tacitamente invitare a tali ricerche. Ma appunto in questa notizia, che mette tanto in rilievo la realtà della natura umana di Gesù, trovarono scandalo taluni antichi cristiani al leggere il Vangelo del medico Luca. Essi giudicarono che, sebbene il medico aveva narrato un fatto vero, era meglio che la narrazione non fosse ripetuta, perché sembrava fornire una conferma alle calunnie dei nemici del cristianesimo: probabilmente gli attacchi di Celso contro la persona di Gesù (§ 195) avevano suscitato tale preoccupazione. Perciò avvenne che la narrazione del sudore di sangue, insieme col precedente accenno all’angelo confortatore, cominciò a scomparire dai codici del III Vangelo, soppressa per questo infondato timore. Oggi essa manca in vari codici unciali (antichi manoscritti dagli amanuensi latini e bizantini, ndr.), fra cui l’autorevolissimo codice Vaticano, in alcuni minuscoli e in altri documenti, e questa mancanza era già stata segnalata nel IV secolo da Sant’Ilario e San Girolamo. Tuttavia, allorché quella vana preoccupazione si dissipò col cessare degli attacchi contro il cristianesimo, cessò anche la soppressione dell’ombroso passo; del resto le testimonianze in suo favore - sia di codici, sia di scrittori antichi a cominciare da Giustino (Dial. cum Tryph., 103) e Sant’Ireneo - sono così numerose e gravi da non lasciare alcun serio dubbio sulla autenticità del passo.
• § 557. L’agonia frattanto si prolungava: la mezzanotte doveva essere già passata. I tre testimoni, da principio turbati per ciò che vedevano, in seguito erano entrati a poco a poco in una specie di torpore fatto di tristezza, di stanchezza e di sonnolenza: alla fine si erano addormentati tutti e tre. A un certo punto Gesù, nella sua sconfinata angoscia spirituale, sentì anche la desolazione della solitudine umana e quindi cercò nuovamente la compagnia dei tre prediletti: forse si riprometteva soltanto una buona parola, un gesto amichevole, qualcosa che gli facesse sentire di non essere solo sulla terra. Ma giunto presso di loro li trovò addormentati tutti e tre, compreso Pietro che poco prima aveva fatto scorrere fiumi di parole per attestare la sua fedeltà (§ 549). Gli disse allora Gesù: «Simone, dormi? Non fosti capace di vegliare per una sola ora? Vegliate e pregate, affinché non veniate in tentazione! Lo spirito bensì è pronto, ma la carne inferma». Tutto qui fu il conforto che Gesù ritrovò fra i suoi prediletti. E così lo spasimo continuò; ond’egli, lasciati gli uomini, tornò nuovamente a Dio. L’unica domanda di prima fu rivolta ancora adesso al Padre celeste, e i testimoni da poco ridesti la udirono: «Padre mio! Se non può questo (calice passare se (io) non (1’) abbia bevuto, sia fatta la volontà tua!». Trascorse ancora del tempo. La notte era silenziosa e monotona. Dopo qualche resistenza i tre testimoni furono vinti di nuovo dal sonno: Gesù, «tornato di nuovo, li trovò dormienti, giacché gli occhi loro erano aggravati, e non sapevano che cosa rispondergli». In quest’ultima osservazione di San Marco (14, 40) si riconosce facilmente una confessione del suo informatore, il testimonio Pietro. «E lasciatili, di nuovo andatosene pregò per la terza volta, dicendo lo stesso discorso di nuovo» (Matteo, 26, 44). Quanto durasse questa terza ripresa della preghiera non sappiamo: forse non molto. A un certo punto Gesù si ripresentò ai tre assonnati, e in tono questa volta diverso disse loro: «Dormite ormai e riposate. Basta! Venne l’ora: ecco, il figlio dell’uomo è consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi, andiamo! Ecco, chi mi tradisce si è avvicinato». Le prime parole «Dormite ormai» e «riposate» non sono certamente un invito a fare ciò che dicono; è anche poco probabile che valgano in senso interrogativo; più giusto sembra interpretarle come un’antifrasi, quasi una familiare ironia che affermi il contrario di ciò a cui mira, come se dicesse: «Si, si, dormite pure! Non vedete che giunge il traditore?...». Si sentiva infatti rumore di folla che giungeva dalla strada di Gerusalemme: si intravedevano anche, in quella direzione, lumi di lanterne e fiaccole. Gesù ricondusse i tre sonnolenti testimoni là dove stavano gli altri otto Apostoli, immersi certamente nel più profondo sonno. Svegliò tutti, e rivolgendo loro parole di esortazione rimase in attesa.
Da «Vita di Gesù Cristo», imprimatur 1940, Abate Giuseppe Ricciotti, 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.
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• Come si fa a sapere se l’Inferno c’è? Che cos’è questo Inferno del quale oggi si parla troppo poco (con grave danno per la vita spirituale degli uomini) e che invece sarebbe bene, anzi, doveroso conoscere nella giusta luce? È il castigo che Dio ha dato agli angeli ribelli e che darà anche agli uomini che si ribellano a Lui e disobbediscono alla sua legge, se muoiono nella sua inimicizia. Prima di tutto conviene dimostrare che c’è e poi cercheremo di capire che cosa è. Così facendo, potremo arrivare a delle conclusioni pratiche. Per abbracciare una verità la nostra intelligenza ha bisogno di solide argomentazioni. Trattandosi di una verità che ha tante e così gravi conseguenze per la vita presente e per quella futura, prenderemo in esame le prove della ragione, poi le prove della divina Rivelazione e infine le prove della storia.
• Le prove della ragione. Gli uomini, anche se molto spesso, poco o tanto, si comportano ingiustamente, sono concordi nell’ammettere che a chi fa il bene spetta il premio e a chi fa il male spetta il castigo. Allo studente volonteroso spetta la promozione, allo svogliato la bocciatura. Al soldato coraggioso si consegna la medaglia al valore militare, al disertore è riservato il carcere. II cittadino onesto è premiato col riconoscimento dei suoi diritti, il delinquente va colpito con una giusta punizione. Dunque, la nostra ragione non è contraria ad ammettere il castigo per i colpevoli. Dio è giusto, anzi, è la Giustizia per essenza. II Signore ha dato agli uomini la libertà, ha impresso nel cuore di ognuno la legge naturale, che impone di fare il bene e di evitare il male. Ha dato anche la legge positiva, compendiata nei Dieci Comandamenti. È mai possibile che il Legislatore Supremo dia dei Comandamenti e poi non si curi se vengono osservati o calpestati? Lo stesso (infame, ndr) Voltaire, filosofo empio, nella sua opera «La legge naturale» ebbe il buon senso di scrivere: «Se tutto il creato ci dimostra l’esistenza di un Ente infinitamente sapiente, la nostra ragione ci dice che deve pur essere infinitamente giusto. Ma come potrebbe essere tale se non sapesse né ricompensare né punire? Il dovere di ogni sovrano è di castigare le azioni cattive e di premiare quelle buone. Volete che Dio non faccia ciò che la stessa giustizia umana sa fare?».
• Le prove della Rivelazione divina. Nelle verità di fede la nostra povera intelligenza umana può dare soltanto qualche piccolo contributo. Dio, Suprema Verità, ha voluto svelare all’uomo cose a lui misteriose; l’uomo è libero di accettarle o di rifiutarle, ma a suo tempo renderà conto al Creatore della sua scelta. La divina Rivelazione è contenuta anche nella Sacra Scrittura così come è stata conservata e viene interpretata dalla Chiesa. La Bibbia si distingue in due parti: Antico Testamento e Nuovo Testamento. Nell’Antico Testamento Dio parlava ai Profeti e questi erano i suoi portavoce presso il popolo ebreo. II re e profeta Davide scrisse: «Siano confusi gli empi, tacciano negli inferi» (Sal. 30, 18). Degli uomini che si sono ribellati contro Dio il profeta Isaia disse: «Il loro verme non morirà, il loro fuoco non si spegnerà» (Is. 66, 24). Il precursore di Gesù, San Giovanni Battista, per disporre gli animi dei suoi contemporanei ad accogliere il Messia, parlò anche di un compito particolare affidato al Redentore: dare il premio ai buoni e il castigo ai ribelli e lo fece servendosi di un paragone: «Egli ha in mano il ventilabro, pulirà la sua aia e raccoglierà il suo grano nel granaio, ma brucerà la pula con un fuoco inestinguibile» (Mt. 3, 12). Il Figlio di Dio. Nella pienezza dei tempi, duemila anni fa, mentre a Roma imperava Cesare Ottaviano Augusto, fece la sua comparsa nel mondo il Figlio di Dio, Gesù Cristo. Ebbe allora inizio il Nuovo Testamento...
Da «L’Inferno c’è», don Tomaselli, imprimatur 1954.
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• La vocazione viene da Dio. Vi è una doppia vocazione ed elezione; l’una per la fede e la grazia, l’altra per la felicità e la gloria; l’una per vivere di Dio e per Iddio quaggiù, l’altra per godere Dio in cielo. La vocazione è la conseguenza dell’elezione. Dio elegge, poi chiama. «Dio ci previene per chiamarci, scrive Sant’Agostino, ci segue per glorificarci». Vi è inoltre una vocazione speciale per la perfezione e per il ministero evangelico. Da Dio fu chiamato Abramo e costituito padre del popolo del Signore, affinché dalla sua stirpe nascesse il Messia (Gesù Cristo). Dio sceglie e chiama Mosè perché sia il capo del suo popolo e lo liberi dalla schiavitù d’Egitto. Dio elegge e manda i profeti. Dio sceglie i sacerdoti, i religiosi, le vergini. Dio dà a ciascuno la propria vocazione. Narra San Luca, che Gesù Cristo «chiamati a sé i discepoli, ne scelse dodici fra di loro, i quali chiamò Apostoli», ed ai quali poi diceva: «Non voi avete eletto me, ma io ho scelto voi, e vi ho dato per missione di andare e portare frutti». San Paolo in Galati dice di se stesso, che Dio lo aveva separato e riservato a sé fin dal seno di sua madre, e lo aveva chiamato per sua grazia.
• Dio ci chiama in due modi: 1° esteriormente, per mezzo degli esempi, delle prediche, delle letture, delle croci...; 2° interiormente, per mezzo della grazia preveniente..., eccitante... Per qual fine Dio ci chiami, ce lo insegna San Paolo dove scrive ai Tessalonicesi: Dio vi ha scelto dal principio per la salute nella santificazione dello Spirito e nella fede della verità; alla quale salute vi ha chiamati mediante il nostro Vangelo, affinché acquistiate la gloria del nostro Signore Gesù Cristo. Ce lo accenna il divin Maestro nelle citate parole dette agli Apostoli: «Io vi ho scelto e costituiti a questo fine che andiate, e portiate frutto, e il frutto vostro rimanga». «Iddio ci ha scelti per sua eredità e per luogo di suo domicilio», dice il re Profeta. «Il Signore vi ha scelti, annunzia Mosè agli Ebrei (oggi la Chiesa Cattolica), affinché siate suo popolo tra tutti i popoli che sono su la terra».
• Dio ci aiuta a corrispondere alla nostra vocazione. Iddio non solamente ci chiama, ma ci dà inoltre la forza di corrispondere alla sua chiamata, secondo quel detto dell’Apostolo: «Colui che vi chiama è fedele, e si farà egli medesimo aiuto nell’adempimento dei doveri della vostra vocazione». «Iddio, scrive in altro luogo il medesimo Apostolo, ci ha liberati e chiamati per mezzo della sua santa vocazione, non già in riguardo delle opere nostre, ma secondo il suo decreto e la grazia che ci è stata data da Gesù Cristo prima dei tempi».
• Non tocca a noi scegliere la nostra vocazione. Nessuno, dice San Paolo, dove conferire a se stesso un onore qualunque, ma colui che è chiamato da Dio. Ora quante volontà sostituite alla volontà di Dio! Quante persone fanno a se stesse una vocazione senza consultare né Iddio, né i suoi rappresentanti, né i buoni parenti, né i veri amici! Donde poi tante pene, tante difficoltà, tante traversie nella vita, tanti scandali, tante cause di dannazione. Essere volontariamente infedele alla vocazione divina è un mettersi fuori dalla via della salute. In quello stato la persona si trova come un pesce fuor d’acqua, come un soldato senz’armi nella mischia, come una pecora sbandata. Oh! giovani incauti e imprudenti - esclama Cornelio Alapide - che volete seguire i capricci di una volontà illusa dalle nascenti passioni, che volete abbracciare uno stato di vita al quale Dio non vi chiama, o quanto siete da compiangere, o qual triste avvenire vi preparate! Al contrario chi cerca di conoscere la vocazione di Dio, e conosciutala si adopera ad eseguirla fedelmente, diviene, come già San Paolo, un vaso di elezione, destinato ad essere riempito delle più speciali ed elette grazie di Dio, e si assicura la gloria eterna. Chi fallisce volontariamente alla propria vocazione, pone un ostacolo all’effusione delle grazie: egli è un ramo reciso dal tronco, non buono ad altro che ad ardere, commenta ancora Cornelio Alapide.
• La vocazione ad uno stato di maggior perfezione, quale è lo stato sacerdotale e il religioso, è l’indizio più certo della predestinazione alla gloria, come formalmente dice San Paolo: «Quelli che Dio ha predestinato, ha anche chiamato; e quelli che ha chiamato, ha giustificato; e quelli che ha giustificato, ha glorificato». La vocazione allo stato chiericale è una distinzione e un’elevazione tutta speciale di cui parla il Signore quando dice per bocca del Salmista: «Ho innalzato il mio eletto in mezzo al mio popolo». Gli altri saranno con gli uomini, il mio eletto sarà con me... Gli altri si uniranno tra di loro, il mio eletto si unirà a me. Gli altri avranno il niente per loro sposo, ma il mio diletto lo sposerò a me per tutta l’eternità - dice il Signore per bocca di Osea. «Il Signore fa conoscere quelli che a lui appartengono, dice la Scrittura, e chiama i suoi santi: e quelli ch’esso sceglie, si avvicineranno a lui». L’anima che segue la sua vocazione allo stato sacerdotale o religioso, vede in sé effettuate, nel dominio spirituale e divino, che è infinitamente più desiderabile e prezioso del terreno e temporale, tutti i vantaggi, tutte le ricchezze promesse da Dio nel senso materiale al popolo ebreo, quando gli diceva che lo avrebbe introdotto in una terra di latte e miele.
• La vocazione religiosa ha tanti privilegi. Trattandosi della vocazione di Paolo e Barnaba al ministero sacerdotale, lo Spirito Santo disse: «Separatemi Saulo e Barnaba per l’opera alla quale io li ho chiamati». E San Pietro chiama gli eletti al chiericato «stirpe scelta, sacerdozio regale, gente sana, popolo d’acquisto; affinché proclami le virtù di colui che l’ha chiamato dalle tenebre al chiarore della sua fiammeggiante luce». Chi viene favorito di tale vocazione, ha tutta ragione di dire: «Signore, voi mi avete tenuto per mano e mi avete guidato secondo i vostri disegni, e ricevuto nella vostra gloria». Il Signore veglierà sulla loro entrata e sulla loro uscita, oggi e sempre - recita il Salmista.
• La vocazione si deve sempre provare. Quando gli Apostoli vollero ordinare dei diaconi, cercarono persone di cui il popolo potesse fare testimonianza che godevano buon nome, e che fossero pieni di Spirito Santo e di sapienza. Occorrono prove dalla parte di Dio; incertezze, dubbi, aridità, prove per parte dei parenti sinceri; dei superiori; prove per parte del demonio... Dice Cornelio Alapide: Quante volte Dio chiama, la grazia sollecita, e intanto il demonio, il mondo, la carne, talvolta i parenti, mettono ostacoli, frappongono difficoltà affinché non si obbedisca alla chiamata divina! Quante vocazioni allo stato ecclesiastico o religioso, non restano impedite dai Faraoni ribelli a Dio! (cfr. Esodo, V, 1-2).
• Bisogna studiare la propria vocazione e corrispondervi. La preghiera è indispensabile a chi vuole conoscere e seguire la propria vocazione; con essa otteniamo dal cielo i lumi, la forza, le grazie di cui abbisognamo in un affare così importante come quello della scelta di uno stato di vita. Quello poi che assicura la vocazione presso Dio, è 1° il desiderio di salvare l’anima propria. 2° I buoni costumi, una vita santa formano ed assicurano la vocazione alla gloria. Nel tumulto delle passioni del cuore, non s’intende più la voce di Dio...
Sentenze da «I Tesori di Cornelio Alapide».
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La parola avaro significa avido di oro, dice Sant’Isidoro; «ed è avaro, soggiunge Sant’Agostino, non solamente chi ama il danaro, ma chiunque brama troppo ardentemente qualsiasi altro oggetto. Chiunque desidera oltre quello che gli bisogna, è avaro».
L’avarizia è una follia; «Non ammassate ricchezze su la terra, dice Gesù Cristo in San Matteo, dove o la ruggine le consuma, o i vermi le rodono, o i ladri le scovano e involano». Notiamo queste tre maniere di distruzione, riflette Cornelio Alapide: la tignuola che rode gli abiti, la ruggine che consuma il ferro, i ladri che rubano l’oro e l’argento; e da ciò rileviamo che per tre motivi Gesù Cristo cerca di distogliere l’uomo dall’amore disordinato delle ricchezze! Innanzitutto perché svaniscono e si corrompono; in secondo luogo perché abbagliano la mente; in terzo luogo perché esse s’impadroniscono di tutta l’anima, e le impediscono di servire a Dio.
Vi fu un uomo ricchissimo, diceva Gesù Cristo, al quale i possedimenti avevano reso così bene e abbondantemente, che di ogni raccolto aveva grande abbondanza. Ora costui andava una notte tra sé ragionando e dicendo: «Che farò di tanti beni? Oh, ecco quello che farò: distruggerò i vecchi granai e ne farò dei nuovi e più ampi, e quivi ammasserò tutti i miei raccolti, e dirò all’anima mia: ora tu hai moltissimi beni per molti anni; riposati dunque lietamente, e bevi, e mangia, e sta allegramente». Ma in quel momento una voce terribile gli disse: «Pazzo che tu sei, questa notte medesima ti sarà richiesta l’anima, e i beni che hai a tanto studio apparecchiati e cumulati di chi saranno?». Tal sorte avrà colui che, avaro, pensa solo ad avere e non è ricco nel Signore.
Gesù, ci dice il Padre Dragone, perfeziona i Comandamenti comandando anche l’elemosina, la castità (secondo il proprio stato) e l’obbedienza, che conducono a una buona vita. Conviene occupare i giorni di festa a bene dell’anima, dice San Pio X, anche compiendo qualche opera buona: specialmente qualcuna delle opere di misericordia spirituale o corporale, come istruire i fanciulli aiutando a fare il Catechismo, aiutare i poveri con qualche elemosina, visitare gli ammalati e i carcerati. Qualche elemosina, ripete il Dragone, serve a scontare specialmente i peccati di avarizia.
Il quarto Precetto ci ordina - insegna San Pio X - di fare le offerte per il conveniente esercizio del Culto e per l’onesto sostentamento dei ministri di Dio. Il patriarca Abramo pagò la decima parte del valore di tutto quello che possedeva a Melchisedech, Sacerdote dell’Altissimo, che aveva offerto pane e vino in sacrificio, prefigurando il Sacrificio del Nuovo Testamento, e aveva benedetto Abramo in nome di Dio (Gen., 14, 18-20). Gesù, levando poi gli occhi, osservò i ricchi che gettavano le loro offerte nella cassetta del tempio, e vide anche una povera vedova gettarvi due oboli. Allora disse: «Vi dico in verità che questa vedova povera ha messo più che non tutti gli altri, perché tutti costoro hanno messo nelle offerte a Dio di quello che loro sopravanzava; essa invece nella sua miseria ha messo quanto aveva per sostentarsi» (Lc., 21, 1-4).
Se si osserva l’anima dell’avaro, si troverà somigliante ad un abito roso dalla tignuola: si vedrà foracchiata da ogni parte, incancrenita dal peccato e coperta della ruggine del male - ci dice Cornelio Alapide. È troppo vera la parola di San Paolo a Timoteo: «Quelli che vogliono arricchire, cadono nella tentazione e nel laccio del diavolo e in molti inutili e nocivi desideri i quali sommergono gli uomini nella morte e nella perdizione. Poiché radice di tutti i mali è la cupidigia: per amore della quale alcuni hanno deviato dalla fede, e si trovano in molti dispiaceri».
Fuggite l’avarizia, dice San Prospero; se bramate disordinatamente le ricchezze, v’impiglierete in mille difficoltà per trovarle, vi addosserete lavori e fastidi per procacciarvele, cure e attenzioni per custodirle, infine proverete amarezze per goderle e dolori nel perderle. «O uomo, soggiunge Sant’Agostino, che sei tormentato dall’avarizia, quanto non ti costa cara la tua passione! Dio si ama senza fatica. L’avarizia impone travagli, pericoli, tristezze, tribolazioni e tu a tutto ti sobbarchi! E a qual fine? Per riempire i tuoi forzieri e perdere la tranquillità. Tu godevi ben altra pace prima che possedessi, che non ora che hai cominciato ad ammucchiare. Vedi a che cosa l’avarizia ti ha sospinto. Hai arricchito la casa e stai in timore dei ladri; hai acquistato l’oro e perduto il sonno».
L’avarizia, secondo la graziosa similitudine di San Bernardo, è trascinata su di un carro a quattro ruote che sono quattro vizi: la pusillanimità, l’inumanità, il disprezzo di Dio, la dimenticanza della morte». Gesù Cristo dà alle ricchezze il nome di spine. E infatti, spiega il Crisostomo, date uno sguardo un poco addentro alla coscienza dell’avaro, e ci vedrete un gran numero di peccati, un timore continuo, l’ansia, l’affanno, il sospetto, e cento sorta di spaventi.
«L’avarizia, dice Sant’Ambrogio, è invidiosa di tutti, vile a se stessa, povera in mezzo alle ricchezze». I giorni dell’avaro passano nelle tenebre, nei pianti, nella collera, nella stanchezza e nel furore. Non lo contenta né il tempo sereno, né il nuvoloso; il suo parlare è un continuo lagnarsi dei suoi scarsi profitti. Non c’è, a sentirlo, casa più sventurata della sua.
Sentenze da «I Tesori di Cornelio Alapide».
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Oggi abbiamo pochissimo spazio per l’editoriale, ci rifaremo. «Chi cerca di arricchire non bada a nessun’altra cosa», dice l’Ecclesiastico. Il forziere d’un avaro è la tomba dove giace la vita degl’indigenti. Udite che cosa ci dice Sant’Agostino: «Voi avete lucrato, ma per ciò fare avete offeso Dio: avete acquistato dell’oro e perduta la fede». L’avaro è un idolatra: «Io sono divenuto ricco, mi sono acquistato un idolo» (Osea XII, 8), diceva Efraim, e così ripete l’avaro. E qual è questo suo idolo? Uditelo dal medesimo profeta Osea: «Del loro oro e del loro argento si fecero degli idoli che li condurranno a perdizione». Gli avari amano e adorano le ricchezze, perché ogni loro pensiero ed azione volgono al fine di procacciarsene e di conservarle; ad esse consacrano il corpo, il cuore, l’anima, le sollecitudini, le fatiche, i sudori, i sonni, le veglie, la vita. Obbediscono interamente e ciecamente alla loro passione, e pongono in essa ogni felicità e l’ultimo fine. Per lei trascurano il culto di Dio, ne violano i precetti, ne negano la provvidenza...
Sentenze da «I Tesori di Cornelio Alapide».
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La conversione - insegna Cornelio Alapide (N.B. userò i suoi preziosi «Tesori» per redigere tutto l’editoriale) - è opera della grazia e bontà di Dio. «Il Signore mi ha liberato da ogni opera cattiva, diceva San Paolo, mi salverà e mi condurrà nel suo celeste regno: gloria sia a Lui in tutti i secoli dei secoli». Adamo, Davide, Maddalena, Paolo, Agostino, ecc.., e tutti i peccatori che si sono convertiti e si convertono, lo fanno solo per grazia e misericordia di Dio... «Dio, scrive San Paolo, per sua volontà opera in noi il volere ed il fare». Uno può ben perdersi senza Dio; ma non si ritorna alla vita, non si viene a conversione senza l’aiuto di Dio. «Il Signore ha inviato dal cielo la sua grazia e mi ha liberato, coprendo di obbrobrio i miei calpestatori», dice il Salmista. Ed ancora: «Non a noi, o Signore, è da attribuire la nostra conversione, ma a voi solo se ne deve la gloria». E per mezzo di Ezechiele Dio medesimo dice: «Io toglierò loro il cuore di pietra e ne sostituirò uno di carne, affinché camminino per la strada dei miei precetti, osservino le mie sentenze, siano mio popolo, ed io sia loro Dio».
Osservate, dice Sant’Agostino, le bestie selvagge ed anche gli animali domestici, sui quali l’uomo signoreggia: «Né il cavallo, né il leone si domano da se stessi; così è dell’uomo. Per domare il leone ed il cavallo ci vuole l’uomo, per domare l’uomo ci vuole Dio; e l’uomo non si doma già con la natura, ma con la grazia». Dio desidera grandemente la conversione del peccatore: «Io voglio la misericordia e non il sacrifizio, disse Gesù Cristo; perché non sono venuto quaggiù a chiamare i giusti,. ma i peccatori». «Ecco che sto all’uscio e busso, dice Iddio nell’Apocalisse; chi dà orecchio alla mia voce e mi apre il cuore, mi avrà in sua casa, alla sua tavola, ed egli si assiderà alla mia».
Leggiamo nell’Ecclesiastico che il Signore è paziente coi peccatori e spande su loro la sua misericordia; Egli vede la presunzione e la malizia del loro cuore, conosce lo sregolamento e la corruzione del loro spirito; perciò versa su di loro tutta la sua misericordia. La misericordia di Dio si estende ad ogni persona; prova compassione di chiunque riceve l’insegnamento della sua misericordia ed è pronto a riconoscere le sue sentenze. «Dio, scrive Sant’Agostino, comincia ad operare per il primo in noi, facendo sì che vogliamo; e coopera con noi, allorché vogliamo, compiendo». Scrive San Gregorio: «Quel Dio che ributta il peccatore, accoglie il penitente, chiama a sé i suoi nemici, concede il perdono ai convertiti, anima gli indolenti, consola gli afflitti, istruisce gli avidi, soccorre ai combattenti, rafforza i travagliati, esaudisce i supplicanti». «Noi eravamo un tempo, dice San Paolo, insensati, increduli, ingannati»; per la conversione, siamo divenuti saggi, credenti, illuminati. Il peccatore che amando la terra era terra, volgendosi al cielo per la conversione, diventa paradiso, scrive San Girolamo.
Nel cuore del peccatore convertito può dirsi che Dio ha spuntato la spada, ha spezzato la corazza, ha rotto l’arco di Satana: afferma il Salmista. Saulo sbuffa minacce e anela strage; Gesù Cristo gli dice: «Perché mi perseguiti, o Saulo?»; ed egli rapidamente: «Che volete, o Signore, ch’io faccia?». « Già è pronto ad obbedire, osserva Sant’Agostino, quegli che fremeva di rabbia e ardeva della voglia di perseguitare; già il manigoldo si converte in difensore; il lupo diventa agnello: l’avversario si fa intrepido avvocato». A imitazione di Satana, Saulo altro non cercava che la morte e l’uccisione dei fedeli; cambiato in Paolo, diventa un modello di tutte le virtù e niente più gli sta a cuore che la gloria di Dio e la salute delle anime: «Cristo è la mia vita ed il morire è per me un guadagno». Dice ancora San Paolo: «Io vivo, non più io, ma è Gesù Cristo che vive in me».
«L’Agnello morto per le sue pecore, dice Sant’Agostino, cambia in agnello Paolo ch’era un lupo. E chi si adoperava a tutto potere per cancellare il nome di Gesù, deve ora soffrire per mantenere l’onore di questo nome; o misericordioso castigo!». Paolo è atterrato e convertito; recupera ben presto la vista ed è pieno di forza; predica Gesù Cristo... «Non si vergogna del suo cambiamento, nota il Crisostomo, non esita a rinunziare a ciò che prima formava la sua gloria».
La conversione dei popoli pagani, si guardi sotto qualunque aspetto, è uno dei più stupendi miracoli. Il Venerabile Beda, spiegando il settimo capo del Vangelo di San Luca, ove si racconta come Gesù cacciò un demonio dal corpo d’un muto, così scrive: «Tre miracoli avvennero in quest’uomo: era cieco e vide; muto e parlò; ossesso e fu liberato. Questi tre miracoli avvengono ogni giorno nella conversione dei peccatori: il demonio è scacciato, essi ricevono la luce della fede e la loro bocca, già muta, si apre per lodare Iddio». Più insigne miracolo è, dice San Gregorio, convertire un peccatore con l’insegnamento e con la preghiera, che risuscitare un morto: poiché il morto non pone ostacoli alla sua risurrezione, mentre il peccatore indurito oppone agli sforzi dell’apostolo la sua volontà perversa. «La conversione dell’empio, dice Sant’Agostino, è opera più grande, più difficile, più divina che la creazione medesima dell’universo».
Chi non ammirerà, dice Cassiano, l’opera miracolosa di Dio nella conversione dei peccatori e non esclamerà: «Io seppi che Dio è grande allorché lo vidi fare di un avaro un prodigo, di un voluttuoso un casto, di un orgoglioso un umile, di un essere debole e fragile un uomo mortificato e un soldato imperterrito, di un amico degli agi e dell’opulenza, un penitente che digiuna e si priva di tutto per alleviare il povero. Ecco le opere, certamente, più ammirabili di Dio; ecco i più grandi prodigi ch’Egli abbia fatto su la terra». «Chi di voi, diceva Gesù Cristo, avendo cento pecore, se ne perde una, non lascia le novantanove e si mette in cerca della smarrita finché l’abbia raggiunta? E trovatala se la leva in collo e la porta tutto giulivo al chiuso, e quivi raccolti gli amici e i vicini, dice: “Rallegratevi con me perché ho trovato la pecorella che si era perduta. Ora, io vi do la mia parola che si farà maggior festa in cielo per un solo peccatore che viene a conversione, che non per novantanove giusti, i quali di penitenza non bisognano”».
Questo avviene allorquando un peccatore si converte: Dio si rallegra, gli angeli fanno festa, il cielo esulta, la Chiesa, tenera madre, versa lacrime di consolazione; a somiglianza del padre del figliuol prodigo, essa accoglie questo figlio traviato, l’abbraccia, se lo stringe al petto, lo sveste dei cenci, gli indossa splendide vesti, imbandisce un lauto convito, e grida: «Il figliuol mio era morto ed è risuscitato; io l’avevo perduto e l’ho ritrovato». Peccando e danneggiando se stesso e la società, l’uomo contrista la Chiesa; convertendosi, colma di consolazione il cuore di questa tenera madre, come il ritorno del figliuol prodigo allietò il cuore del padre. Il peccatore riconciliato con Dio può ripetere con San Paolo: «Né occhio vide, né orecchio udì, né mente d’uomo ha immaginato quello che Dio riserva a coloro che l’amano». Il mondo corrotto, i peccatori induriti non ne capiscono un solo iota di queste ineffabili consolazioni. «Essi, da quegli animali che sono, non assaporano, dice San Paolo, fuorché le animalesche, essendo chiusi a quelle di Dio».
Il padre celeste, dice Gesù Cristo, nasconde queste meraviglie ai peccatori superbi che non vogliono convertirsi, ma le manifesta ai peccatori che si umiliano e domandano grazia. Un peccatore che ricusa di convertirsi è, al dire dell’Apostolo Paolo, senza Dio, senza Gesù Cristo; colui, al contrario, che desidera ed ama la propria conversione, è in Gesù Cristo; stava lontano da Dio e gli si avvicina per il sangue del Salvatore. Dei primi fedeli si dice negli Atti Apostolici, che «una grande grazia era in tutti loro». Non abbiamo noi forse le medesime grazie per convertirci? Le grazie non ci mancano, siamo noi che manchiamo alla grazia. Noi abbiamo la Dottrina, la Parola di Dio, la sua Legge, le sue inspirazioni, i Sacramenti, i rimorsi, ecc. Non restiamo né ciechi, né sordi, né muti, e convertiamoci ... Imitiamo i Tessalonicesi i quali avevano così bene approfittato delle grazie recate loro da San Paolo, che questi potè loro scrivere: «Sapete voi medesimi come il nostro arrivo in mezzo a voi non è stato vuoto di frutto».
«La grazia di Dio Salvatore nostro, scriveva il grande Apostolo a Tito, si è rivelata a tutti gli uomini, per insegnarci a rinunziare all’empietà ed alle voglie del secolo e a vivere nel mondo con temperanza, pietà e giustizia». Non bisogna procrastinare la conversione: «Se oggi vi si fa sentire la voce del Signore, non indurite i vostri cuori», scrive il Salmista. Così fece il prodigo il quale non appena ebbe detto: «Io m’alzerò e me n’andrò al padre», sull’istante si mosse e si pose in viaggio. «Noi sappiamo, scriveva San Paolo ai Romani, che il tempo incalza e che è giunta l’ora di destarci dal sonno». Bisogna imitare Davide, il quale così diceva: «Io l’ho detto: ed ora comincio la mia conversione, io ritorno al mio Dio senza indugio; questo cambiamento è, in verità, l’opera della mano di Dio». Commenta ancora Cornelio Alapide: «Peccatori, voi fuggite Dio che vi chiama, che vuole il ritorno a Lui; ebbene voi non fuggirete a Dio vendicatore che vi giudicherà e condannerà». «Peccatori, dice l’Ecclesiastico, vi prenda compassione dell’anima vostra, rendendovi accetti a Dio per mezzo d’una pronta e sincera conversione».
Chi vuol fare l’elemosina, dice Sant’Agostino, cominci da se medesimo. Dio, nella sua bontà infinita, non solo ci consiglia, ma ci scongiura di uscire dal triste stato del peccato mortale. Dice Isaia: «Cercate il Signore mentre si può trovare; invocatelo finché l’avete vicino». Ed ancora: «Lasci l’empio la sua strada e l’iniquo i perversi suoi disegni; ritornino al Signore ed egli ne avrà compassione; ritornino al loro Dio che è ricco in misericordia». Il durare nel peccato è cosa deplorevole. Per convertirsi bisogna rinunziare al peccato e distaccarsene. La morte ci separa da tutto: ora la conversione che è la morte del peccato, ci deve separare dal peccato: «Gettiamo da noi le opere delle tenebre e impugniamo le armi della luce. Vestitevi del nostro Signore Gesù Cristo e non cercate di secondare i desideri della carne», scrive San Paolo ai Romani.
Tre cose richiede il Signore perché una conversione sia vera e perfetta: 1° che si rimuova il peccato, cioè se ne allontani lo spirito e si prenda la risoluzione di non più peccare; 2° si regolino le mani per fare buone azioni; 3° si purifichi il cuore da ogni iniquità per mezzo della contrizione e della confessione. Insomma, in noi ogni cosa sia nuova: i cuori, le parole, le opere. Dice San Girolamo: «La concupiscenza e i delitti devono scomparire alla loro volta in faccia alla continenza e all’innocenza, di maniera che queste virtù annientino i vizi loro contrari». Conclude il Salmista: «Spezziamo le catene del peccato e gettiamo da noi il giogo di Satana».
Sentenze da «I Tesori di Cornelio Alapide».
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• Veniamo ora agli argomenti del giorno - brevi pillole. L’intelligenza, moto dell’anima, è necessaria. Il Sacerdote, per esempio, è destinato a maestro di tutte le anime che si troveranno attorno a lui. Egli dovrà essere un dotto, da poter stare alla pari con tutte le persone colte del suo ambiente, in fatto di cultura generale; mentre, in cultura sacra deve essere uno specialista. «Ora, se tu non avessi sufficiente intelligenza, come potresti assimilare la cultura necessaria?», dice il Canonico Muscolo al seminarista. Il Sacerdote deve essere, come disse Gesù, luce del mondo e sale della terra, cioè maestro di verità e di santità. L’intelligenza è assolutamente necessaria. Essa è un dono di Dio che dobbiamo chiedere con Fede. Il santo Curato d’Ars era deficiente in fatto d’intelligenza; pure, egli ne ottenne tanta, per mezzo della Madonna, quanto bastò a compiere il suo dovere ed a fare un grandissimo bene.
• Quanta ne occorre. Certo, non si pretende che tutti abbiano cinque talenti. Chi li ha è fortunato. Ma Dio, ad alcuni ne dà cinque, ad altri due, e ad altri uno appena. Si richiede almeno una intelligenza mediocre. Chi brilla per intelligenza andrà avanti con facilità; e chi non brilla potrà andare avanti raddoppiando la buona volontà: altro moto dell’anima. Ma c’è in funzione la grazia speciale del Signore, per chi è umile e diligente. Piccole intelligenze han fatto tanto bene con l’aiuto di Dio; e certe grandi intelligenze han fatto niente di bene a causa del loro orgoglio. Da qui la necessità di essere umili e di sforzarci di lavorare.
• Come usarla. L’intelligenza nessuno se la dà, ma la riceve dalla natura: da Dio. Insuperbirsene è stoltezza. Riconoscere il dono, ringraziarne il Donatore, fargli omaggio di essa: questa è giustizia, è saggezza. La nostra intelligenza deve servirci a meglio amare e servire Dio; e il prossimo per amore di Lui, che ne è il Creatore e Padre comune. L’intelligenza, dunque, non è in servizio del nostro orgoglio, del nostro arricchimento materiale, ma del nostro progresso nel bene, in armonia con la nostra dignità di figli di Dio. Dio è contento di come stiamo usando la nostra intelligenza? Riflettiamo e preghiamo...
• La libertà è un gran dono di Dio. Ognuno ha il dono della libertà. Quindi, noi abbiamo la capacità di fare o non fare una cosa: di stare attenti alla Meditazione o di non starci, abbiamo la capacità di fare una cosa invece di un’altra: di stare seduti o in ginocchio alla Preghiera. Cioè, noi abbiamo la capacità di fare il bene ed il male; il dovere o il suo contrario. Possiamo fare il male? Abbiamo la capacità terribile di poterlo fare; ma non abbiamo alcun diritto di farlo; perché, il capo di casa, Dio, proibisce di fare il male, essendo esso cosa indegna della Sua sapienza e bontà. Dio ci ha dato la libertà affinché possiamo liberamente amarlo e meritare altri doni da Lui; non perché facessimo il male, e lo provocassimo a castigarci. Dobbiamo liberamente fare quello che è giusto e santo; perché, solo ciò vuole da noi il Signore. Pensiamo spesso a questa verità...
• Gran pericolo. Se il mondo è pieno di guai, e l’Inferno è popolato di dannati, ciò si deve all’uso della libertà in senso contrario a quello voluto dal Creatore. Se non studiamo, se non lavoriamo, non siamo noi che ci determiniamo liberamente? Eppure, la volontà di Dio è che noi studiamo, lavoriamo e facciamo sempre il nostro dovere. Intanto abbiamo l’arma pericolosa della libertà, per cui possiamo determinarci al bene oppure al male. Se ci riesce faticoso il dovere, ciò è effetto della ferita infertaci dal peccato originale. Tuttavia sappiamo che c’è la grazia di Gesù, a superare le difficoltà. Chiediamo a Dio la grazia utile a fare sempre bene i doveri del nostro stato...
• Libertà e grazia. Molti vivono santamente; molti arrivano fino a salire la gloria degli altari. Tutto questo avviene, perché ognuno si decide per il bene, mentre avrebbe la capacità di decidersi per il male. Determinarsi per il bene è difficile, ma possibile. Dice Sant’Agostino che: «Chi prega bene, vive anche bene». E già; perché, chi è convinto della sua debolezza e prega, si assicura l’aiuto della grazia di Dio. Con essa, l’intelligenza vede con chiarezza la via giusta da seguire; e la volontà è allettata a determinarsi verso di essa. Da soli non valiamo niente; con la grazia possiamo tutto ciò che è bene per la nostra anima. Traiamo le conclusioni...
Pensieri scelti da «Meditatio mea» del Canonico Raffaele Muscolo. Commento CdP.
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Stimati Associati e gentili Sostenitori, è frequente imbattersi in avventori di ogni sorta - soprattutto modernisti infiltrati nella Chiesa - i quali definiscono l’Islam «religione di pace». Niente di più falso: lo insegnano la storia passata e recente, la Sunna e, non ultimo, il Corano.
Non ho molto spazio a disposizione, dunque mi limiterò solamente a fornire dei riferimenti: Corano, Sura 8, 12-17; 9, 111; 5, 33; 4,84; 61,4; 2,190; 2, 216; 2, 217; 4,77; 4,74; 4,76; 9,13-14; 9,36; 9,41; 9, 123; 47,4; 2, 191; 9, 5; 8, 65; 33, 61; 47, 4; 8, 60; 2, 193; 2, 194; 3, 169, eccetera. Per la corretta interpretazione rimando alle versioni commentate UCOII. (Vedere nota a fine pagina)
Purtroppo noi Cattolici paghiamo le conseguenze del fetido ecumenismo - indifferentismo deplorato dalla Chiesa (es. «Mortalium Animos», Pio XI) - celebrato da Montini, Wojtyla, Ratzinger, Bergoglio e dai modernisti loro seguaci. Qui numerose condanne della Chiesa all'eresia chiamata «ecumenismo».
È davvero difficile, quindi, difendere la verità in un mondo, e soprattutto nelle chiese, oramai plagiato da cumuli di guide cieche che pretendono eguagliare tutte le religioni e piegare la Chiesa ai sollazzi ed ai pruriti del mondo. Ma non perdiamoci d’animo: abbiamo la Fede, la Grazia sacramentale ed il Magistero della Chiesa, tanto ci basta a perseverare.
I Maomettani, insegna il «Catechismo» (al n° 106, Papa San Pio X), non sono battezzati e non fanno parte della Chiesa. L’Islam non è una via di salvezza (ivi., n° 125), difatti per salvarsi è necessario credere nelle verità rivelate. I Maomettani in senso proprio sono infedeli, poiché non hanno ricevuto il Battesimo, sono privi cioé della virtù della Fede e non credono in Cristo Salvatore. Gli infedeli possono essere negativi (non hanno mai sentito parlare di Gesù) o positivi (conoscono Gesù ma lo rigettano). I primi, se vivono secondo la legge naturale e si sforzano di cercare Dio, possono essere uniti all’anima della Chiesa e salvarsi. I secondi assolutamente non si possono salvare.
I Maomettani sono infedeli anche perché ritengono Maometto superiore a Cristo.
Tra i Martiri armeni ricordiamo un bambino al quale i Maomettani tagliarono le mani poiché non voleva convertirsi all’Islam e dunque apostatare dal Cattolicesimo (P. Dragone, «Commento al Cat. S. Pio X», p. 302). Non contenti, gli esponenti della «religione di pace» gli dissero: «Se non ti decidi ti taglieremo anche la testa!». Il futuro Martire rispose: «Troncatemi pure anche la testa, ma io voglio morire cristiano, come sono vissuto».
Eppure i modernisti esibiscono per santo un baciatore di Corani (Wojtyla nel 1985 a Casablanca e nel 1999 in Vaticano). Wojtyla sosteneva anche le abnormi falsità: «Voi Mussulmani, nostri fratelli nella fede in un unico Dio» (Parigi, 31 maggio 1980); «Abramo è per noi uno stesso modello di fede in Dio (...). Noi crediamo nello stesso Dio, l’unico Dio» (Casablanca, 19 agosto 1985). Nulla di nuovo, si tratta difatti della miasmatica dottrina della «Nostra Aetate», promulgata da Montini e punto di riferimento anche di Ratzinger, di Bergoglio e di tutti i modernisti. Siete stupiti o scandalizzati? Mi permetto di consigliarvi i seguenti approfondimenti: - Appunti sulla questione del cosiddetto «Papa eretico»; - Catechismo sul Modernismo. Et cognoscetis veritatem, et veritas liberabit vos ...
I Martiri sono gli eroi della Fede cristiana. I “concilianti” sono degli apostati. L’apostasia è un peccato gravissimo, separa dalla Chiesa e dalla Comunione dei Santi e priva della possibilità di salvezza. La Cresima è il Sacramento che dà la forza ai Martiri di confessare la Fede.
Maometto II voleva costringere un soldato prigioniero a rinnegare la Fede cristiana. Il soldato, scoprendosi il petto pieno di cicatrici, esclamò: «Come tradirò il Re del Cielo, io che ho sfidato mille morti per un re della terra?» (ivi., p. 403).
Dobbiamo ringraziare ogni giorno il Signore perché ci ha elargito il dono della Fede nel Battesimo, e pregare per la conversione di tutti gli infedeli. Coloro che non hanno mai avuto la Fede e quelli che l’hanno perduta, devono studiare diligentemente la Religione cattolica. Se si applicano a questo studio con animo scevro di passioni e libero da preconcetti, scoprono presto o tardi che la Religione cattolica è l’unica vera. Avendo imitato San Tommaso apostolo nell’infedeltà, dovrebbero anche seguirne l’esempio nel ritorno alla Fede in Cristo Risorto (Ivi., p. 160). Per il ritorno degli erranti e per la conversione degli infedeli, più delle parole e degli scritti polemici, giovano la preghiera, la penitenza ed il buon esempio (ivi., p. 163).
Il dotto San Giovanni Bosco - al quale Dio salvò la vita da vari attentati orditi dagli eretici Valdesi - nella sua preziosa «Storia Ecclesiastica» scrive: «Il famoso impostore Maometto (...) vagando in cerca di fortuna, fu fatto agente di una vedova mercantessa di Damasco che poscia lo sposò. Siccome pativa epilessia, egli seppe servirsi di questa sua infermità a provare la religione da sé inventata, affermando quelle frequenti cadute essere altrettanti rapimenti in cui esso teneva colloquii coll’Arcangelo Gabriele. La religione che Maometto predicava è un miscuglio di paganesimo, di giudaismo e di cristianesimo. (...) Vantandosi superiore al divin Salvatore, venne tosto eccitato a far miracoli al pari di lui. Ma egli rispondeva di essere suscitato da Dio non a fare miracoli, sibbene a ristabilire la vera religione colla forza. Scrisse la sua credenza in lingua araba in un libro, cui diede nome Corano, nel quale si vanta di avere operato un miracolo, per altro molto ridicolo. Narra che essendo caduto un pezzo della luna nella sua manica si gloriava di averla saputo racconciare; il perché i Maomettani presero per insegna la mezzaluna. Conosciuto per uomo perturbatore, i suoi cittadini volevano ucciderlo. Ma Maometto pigliò la fuga, e ritirossi a Medina con alcuni avventurieri che l’aiutarono ad impadronirsi di quella città. Il suo Corano è pieno di contraddizioni, assurdità, e ripetizioni. Non sapendo scrivere Maometto fu aiutato da un ebreo e da un monaco apostata persiano, di nome Sergio. Il Maomettismo favorendo il libertinaggio ebbe tosto molti seguaci, ed in breve il suo autore potè colle parole, ma specialmente colle armi dilatarla quasi per tutto l’Oriente» (Epoca terza. Capo I, Maometto).
Qui potete trovare il vero Discorso di San Francesco davanti al Sultano Al-Malik al-Kāmil. Qui potete trovare la Breve storia dell'Islam raccontata dal Dottore della Chiesa Sant'Alfonso.
Et cognoscetis veritatem, et veritas liberabit vos ...
CdP
– «E quando il tuo Signore ispirò agli angeli: “Invero sono con voi: rafforzate coloro che credono. Getterò il terrore nei cuori dei miscredenti: colpiteli tra capo e collo, colpiteli su tutte le falangi! E ciò avvenne perché si erano separati da Allah e dal Suo Messaggero”. Allah è severo nel castigo con chi si separa da Lui e dal Suo Messaggero! Assaggiate questo! I miscredenti avranno il castigo del Fuoco! 0 voi che credete, quando incontrerete i miscredenti in ordine di battaglia non volgete loro le spalle. Chi in quel giorno volgerà loro le spalle – eccetto il caso di stratagemma per [meglio] combattere o per raggiungere un altro gruppo – incorrerà nella collera di Allah e il suo rifugio sarà l’inferno. Qual triste rifugio! Non siete certo voi che li avete uccisi: è Allah che li ha uccisi» (Sura 8, 12-17);
– «Allah ha comprato dai credenti le loro persone e i loro beni [dando] in cambio il Giardino, [poiché] combattono sul sentiero di Allah, uccidono e sono uccisi. Promessa autentica per Lui vincolante, presente nella Torâh, nel Vangelo e nel Corano. Chi, più di Allah, rispetta i patti? Rallegratevi del baratto che avete fatto. Questo è il successo più grande» (Sura 9, 111);
– «La ricompensa di coloro che fanno la guerra ad Allah e al Suo Messaggero e che seminano la corruzione sulla terra è che siano uccisi o crocifissi, che siano loro tagliate la mano e la gamba da lati opposti o che siano esiliati sulla terra: ecco l’ignominia che li toccherà in questa vita; nell’altra vita avranno castigo immenso» (Sura 5, 33);
– «Combatti dunque per la causa di Allah – sei responsabile solo di te stesso – e incoraggia i credenti. Forse Allah fermerà l’acrimonia dei miscredenti. Allah è più temibile nella Sua acrimonia, è più temibile nel Suo castigo» (Sura 4,84). «Combatti», arabo «katel», radice della parola «uccidere, assassinare, trucidare »;
– «In verità Allah ama coloro che combattono per la Sua causa in ranghi serrati come fossero un solido edificio» (Sura 61,4);
– «Combattete per la causa di Allah contro coloro che vi combattono, ma senza eccessi, che Allah non ama coloro che eccedono» (Sura 2,190);
– «Vi è stato ordinato di combattere, anche se non lo gradite. Ebbene, è possibile che abbiate avversione per qualcosa che invece è un bene per voi, e può darsi che amiate una cosa, che invece vi è nociva. Allah sa e voi non sapete» (2, 216);
– «Ti chiedono del combattimento nel mese sacro. Dì: “Combattere in questo tempo è un grande peccato, ma più grave è frapporre ostacoli sul sentiero di Allah e distogliere da Lui e dalla Santa Moschea. Ma, di fronte ad Allah, peggio ancora è scacciarne gli abitanti. La sovversione è peggiore dell’omicidio» (Sura 2, 217);
– «Non hai visto coloro ai quali fu detto: “Cessate il combattimento, eseguite la preghiera e pagate la decima”? Quando fu loro ordinato di combattere, ecco che una parte di loro temendo gli uomini quanto temono Allah o ancor di più, dissero: “0 Signor nostro, perché ci hai ordinato il combattimento? Se potessi rinviarci il termine!” Di’ loro: “Il godimento di questo mondo ha poco valore, mentre l’Altra vita è migliore per chi è timorato [di Allah], Lì non subirete la minima ingiustizia”» (Sura 4,77);
– «Combattano dunque sul sentiero di Allah, coloro che barattano la vita terrena con l’altra. A chi combatte per la causa di Allah, sia ucciso o vittorioso, daremo presto ricompensa immensa» (Sura 4,74);
– «Coloro che credono combattono per la causa di Allah, mentre i miscredenti combattono per la causa degli idoli. Combattete gli alleati di Satana. Deboli sono le astuzie di Satana» (Sura 4,76);
– «Non combatterete contro gente che ha violato i giuramenti e cercato di scacciare il Messaggero? Sono loro che vi hanno attaccato per primi. Li temerete? Allah ha ben più diritto di essere temuto, se siete credenti. Combatteteli finché Allah li castighi per mano vostra, li copra di ignominia, vi dia la vittoria su di loro, guarisca i petti dei credenti». (Sura 9,13-14);
«Presso Allah il computo dei mesi è di dodici mesi [lunari] nel Suo Libro, sin dal giorno in cui creò i cieli e la terra. Quattro di loro sono sacri. Questa è la religione retta. In questi mesi non opprimete voi stessi, ma combattete tutti assieme i politeisti, come essi vi combattono tutti assieme. Sappiate che Allah è con coloro che [Lo] temono» (Sura 9,36);
– «Leggeri o pesanti, lanciatevi nella missione e lottate con i vostri beni e le vostre vite. Questo è meglio per voi, se lo sapeste!» (Sura 9,41);
– «0 voi che credete, combattete i miscredenti che vi stanno attorno, che trovino durezza in voi. Sappiate che Allah è con i timorati». (Sura 9, 123);
– «Quando [in combattimento] incontrate i miscredenti, colpiteli al collo finché non li abbiate soggiogati, poi legateli strettamente. In seguito liberateli graziosamente o in cambio di un riscatto, finché la guerra non abbia fine. Questo è [l’ordine di Allah], Se Allah avesse voluto, li avrebbe sconfitti, ma ha voluto mettervi alla prova, gli uni contro gli altri. E farà sì che non vadano perdute le opere di coloro che saranno stati uccisi sulla via di Allah» (Sura 47,4);
– «Uccideteli ovunque li incontriate, e scacciateli da dove vi hanno scacciati: la persecuzione è peggiore dell’omicidio. Ma non attaccateli vicino alla Santa Moschea, fino a che essi non vi abbiano aggredito. Se vi assalgono, uccideteli. Questa è la ricompensa dei miscredenti» (Sura 2, 191);
– «Quando poi siano trascorsi i mesi sacri, uccidete questi associatori ovunque li incontriate, catturateli, assediateli e tendete loro agguati. Se poi si pentono, eseguono l’orazione e pagano la decima, lasciateli andare per la loro strada. Allah è perdonatore, misericordioso» (Sura 9, 5). Di questa “decima” e del suo significato ve ne ho già parlato in passato;
– «Profeta, incita i credenti alla lotta. Venti di voi, pazienti, ne domineranno duecento e cento di voi avranno il sopravvento su mille miscredenti» (Sura 8, 65);
– «[Gli ipocriti e i miscredenti] Maledetti! Ovunque li si troverà saranno presi e messi a morte» (Sura 33, 61);
– «Quando incontrate gli infedeli, uccideteli con grande spargimento di sangue e stringete forte le catene dei prigionieri» (Sura 47, 4);
– «Preparate, contro di loro, tutte le forze che potrete [raccogliere] e i cavalli addestrati, per terrorizzare il nemico di Allah e il vostro e altri ancora che voi non conoscete, ma che Allah conosce. Tutto quello che spenderete per la causa di Allah vi sarà restituito e non sarete danneggiati» (Sura 8, 60);
– «Combatteteli finché non ci sia più persecuzione e il culto sia [reso solo] ad Allah. Se desistono, non ci sia ostilità, a parte contro coloro che prevaricano» (Sura 2, 193);
– «Mese sacro per mese sacro e per ogni cosa proibita un contrappasso. Aggredite coloro che vi aggrediscono. Temete Allah e sappiate che Allah è con coloro che Lo temono» (Sura 2, 194);
– «E non chiamare morti coloro che sono stati uccisi sulla via di Dio, anzi, vivi sono, nutriti di Grazia presso il Signore!» (Sura 3, 169).
E così via.
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Stimati Associati e gentili Sostenitori, auguriamo un santo 2020 a tutti voi. Vi ricordiamo, inoltre, che nella sezione riservata del sito è disponibile il Rendiconto economico annuale. Siete pregati di accedere con Login, di prenderne visione e - se lo ritenete opportuno - di approvarlo. Come già accennato precedentemente, per qualche tempo sospenderemo le abituali spiegazioni del Vangelo - dalla «Vita di Gesù Cristo» - a cura dell’Abate Ricciotti e dedicheremo le nostre attenzioni ad altre tematiche.
• Festa di amore. Epifania significa manifestazione. Gesù si manifesta ai pagani, ai Magi. Si era manifestato ai pastori, rappresentanti del popolo Ebreo; poi si è manifestato ai Magi, rappresentanti di tutta l’umanità pagana. È l’amore di Gesù Bambino che invade il mondo, per riempire di amore e di grazia le anime nostre. È la festa dell’amore di Gesù per tutti gli uomini. La Chiesa la celebra con grande solennità, e ci invita a baciare Gesù Bambino. Amiamo Gesù vero unico Dio.
• Festa di luce. Gesù, che si era fatto annunziare ai pastori per mezzo di un Angelo, si fa annunziare ai pagani per mezzo di una stella. Gesù chiama in vari modi. I Magi, uomini dotti e ricchi, erano venuti a conoscenza che il popolo ebreo era in attesa del gran Re; e sapevano che sarebbe stato annunziato da una stella speciale in cielo. Vista la stella, partirono con doni. La stella li guidava. Per trovare Gesù ci vuole una guida. Il Romano Pontefice ed il Magistero siano la nostra guida.
• Festa di incontri. I Magi, col loro seguito, s’incontrano con Gesù. La vita è piena d’incontri, dalla culla alla tomba... E, ogni incontro porta delle conseguenze... Che cosa è l’incontro dell’anima con Gesù?... Che videro, che sentirono, che dissero, che fecero, che provarono i Magi?... Nessuno potrebbe dirlo. Gesù riempì i Magi di celesti dolcezze, in proporzione della generosità da essi usata nell’affrontare i sacrifici del viaggio. Gesù si manifesta a noi, in proporzione della nostra generosità nel cammino della vocazione. Qual è lo spirito di sacrificio che accettiamo per dedicarci al nostro progresso spirituale ed intellettuale?
• Una stella. Sapevano i Magi, per antica tradizione, che il mondo avrebbe avuto un gran Re, inviato dal Cielo, e che sarebbe nato nella Giudea, allorché nel cielo sarebbe apparsa una stella speciale. Vista la stella, dunque, capirono, e Lo andarono a cercare. Non si erano sbagliati. Gesù era veramente nato, ma non sapevano il luogo preciso; perciò partirono, e cercarono notizie in Gerusalemme, presso la corte di Erode. Consideriamo la prontezza e diligenza dei Magi. È così che si cerca Gesù. Non facciamoci distrarre della mondanità.
• Una losca figura. Il re Erode si turba nel sentire la nascita di un altro Re nella Giudea; ma nasconde il suo turbamento, e prepara i suoi piani perversi, che avranno come risultato la strage degli Innocenti. L’ambizioso, l’ipocrita, il sanguinario resta sempre quel maligno che si è rivelato in tutta la sua vita passata. Egli non sa nulla della nascita di Gesù, che, tuttavia, non è molto lontano dalla sua reggia. Deve interrogare i dotti della sua corte per sapere cosa dicessero le profezie; poi, raccomanda ai Magi di fare ricerca del nuovo Re, e di ritornare da lui per informarlo. Chi vive in peccato resta nell’ignoranza di Dio, che è l’unico suo bene. Fuggiamo il peccato.
• Gesù Bambino. Partiti da Erode, usciti da Gerusalemme, i Magi rividero la stella. La seguirono. Ed essa si fermò in Betlemme, sul luogo preciso dove stava Gesù. I Magi, finalmente, dopo tante incertezze e fatiche, trovano Gesù. Che gioia!... Dalla culla del Figlio di Dio umanato, partì una grazia speciale, che trasformò il cuore di quei generosi viaggiatori. Per vedere Gesù, e ricevere i suoi doni, bisogna saper affrontare gli immancabili disagi delle faticose ricerche. Raccoglimento, preghiera, studio, ubbidienza, duro lavoro, doveri, ecco il faticoso cammino che ci condurrà a Gesù! Accettiamo di buon cuore tutto questo.
• Cosa cercano. I Magi cercavano un bambino, che sarebbe stato il Re dell’universo, quindi, anche il loro Re. Era doveroso, dunque, andarlo a trovare e fargli omaggio. E partirono, affrontando gravi disagi e recando doni. Che discorsi facevano per la via? Come si figuravano di trovare la culla del nato Re? La loro fantasia era in piena attività. Non sapevano pensare ad altro che al fasto e al lusso dei Re terreni, portandolo alle più alte proporzioni. Lavoro di tanta fantasia... Nulla corrisponderà alla realtà. Non viviamo di fantasia. Non abitiamo in un mondo di sogni e di fate. Impariamo ad essere riflessivi, prudenti, saggi. Non esponiamoci a fatali delusioni.
• In una povera casa, i Magi trovano Gesù Bambino con la Madre e San Giuseppe. La grazia li sostenne: altrimenti non avrebbero potuto crederlo. E si prostrarono. Ora è Gesù stesso che illumina, sostiene, riempie di fede e di amore i loro cuori. Nulla di questo era passato per la loro fantasia. I doni di Dio non si sanno immaginare. Sono superiori ad ogni nostro pensiero e desiderio.
• Il cuore dei Magi è trasformato. Quel santo Bambino, che aveva fatto sussultare di gioia Giovanni Battista, nel seno materno, che avrà operato nei Magi? Videro Dio : videro il paradiso: gustarono la felicità, che solo Dio possiede e può dare a quelli che lo amano. E, prostrati, Lo adorarono. Chi si avvicina al fuoco si riscalda. Chi si avvicina a Dio si divinizza. Stiamo vicini a Gesù, doniamoci a Lui ed Egli si darà a noi.
Ispirato agli scritti del Canonico Muscolo, da «Meditatio mea».
CdP
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Stimati Associati e gentili Sostenitori, vogliate gradire il nostro augurio di santo Natale 2019. Nell’odierno studio dei Vangeli l’Abate Ricciotti ci descrive gli ultimi colloqui di Gesù con gli Apostoli.
• § 550. Il solo san Giovanni riferisce questi colloqui, conforme alle sue predilezioni e quasi in compenso di non aver riferito l’istituzione dell’Eucaristia. Né letterariamente né concettualmente questi discorsi potranno mai esser classificati o riassunti. Essi sono un’eruzione impetuosa di sentimenti che non è contenuta né diretta da alcuna norma, ma solo viene giù come scaturisce da un vulcano di amore; e la lava incandescente s’avanza ora pianamente e ora a sbalzi, con progressi e con retroversioni, inonda monticelli e burroni, e travolgendo tutto trasforma ogni zona sommersa in un lago infiammato. L’amore per il Padre celeste: l’amore per i discepoli terrestri. Il Padre, a cui fra ore Gesù ritorna: i discepoli, da cui fra ore egli si allontana. Ma sebbene tanto sublimi, questi colloqui non astraggono dalla realtà umana e terrena, bensì in alcuni punti la seguono minutamente con l’intenzione appunto di farla diventare una realtà transumana e ultraterrena. La piena effusione d’amore era trattenuta ancora da un impedimento, la presenza di Giuda; ma quando costui uscì, Gesù disse: «Adesso fu glorificato il figlio dell’uomo, e Iddio fu glorificato in lui; se Iddio fu glorificato in lui, pure Iddio lo glorificherà in lui (stesso) e subito lo glorificherà. Figliolini, ancora un poco sono con voi. Mi cercherete, e come dissi ai Giudei “dove io vado voi non potete venire’” (§ 419), (così) pure a voi dico adesso. Un comandamento nuovo vi do che vi amiate gli uni gli altri; come (io) vi amai, (comando) che pure voi vi amiate gli uni gli altri. In ciò conosceranno tutti che siete miei discepoli, qualora abbiate amore gli uni agli altri». Con ciò Gesù ha consegnato la tessera di riconoscimento ai propri discepoli. Nell’antichità, sia giudaica sia greco-romana, le varie associazioni o religiose o culturali o d’altro genere avevano spesso una nota distintiva che contrassegnava la loro operosità e serviva quasi da tessera di riconoscimento ai propri membri: talvolta, anche, essi si servivano di un motto, di un aforisma, che rispecchiava in qualche modo quella nota distintiva. Qui, per Gesù, la nota distintiva che servirà da tessera di riconoscimento per i suoi seguaci dovrà essere, non la scienza della «tradizione» come per i Farisei, né la scienza dei numeri come per i Pitagorici, né altre scienze o altre pratiche come per altre associazioni, bensì la scienza e la pratica dell’amore. Perciò egli ha chiamato questo suo precetto un «comandamento nuovo», perché in realtà nessun fondatore di precedenti associazioni aveva pensato di assegnarlo e distribuirlo ai propri seguaci come tessera di riconoscimento. Se alla civiltà d’allora Roma aveva contribuito creando la Forza e il Diritto; se, anche prima, la Grecia aveva elargito all’umanità la Bellezza e la Sapienza; se, proprio in quell’epoca, le varie religioni orientali diffondevano nel mondo greco-romano correnti mistiche d’indole varia: nessuno ancora aveva importato come forza sociale l’amore, perché l’«amore», nel più ampio senso - ossia la carità - ancora non era stato “inventato”. E la novità di questo elemento allora importato fece grande impressione sui contemporanei. È noto il passo di Tertulliano che, descrivendo questa impressione, riferisce le esclamazioni dei pagani riguardo ai cristiani: «Guarda come si amano fra loro!» (Essi - pagani - infatti si odiano fra loro). «E come sono pronti a morir l’uno per l’altro!» (Essi - pagani -infatti sono anche più pronti ad ammazzarsi l’un altro). D’ora innanzi la futura società umana dovrà fare i conti con questa novità inventata e importata da Gesù, e il vero progresso umano sarà misurato in ragione di quanto la legge dell’«amore-carità» sarà realmente obbedita.
• § 551. Dopo un dialogo con Pietro e con Tommaso, Gesù continuò: «In verità, in verità vi dico, chi ha fede in me le opere che io faccio anch’egli farà, e maggiori di queste farà perché io vado al Padre; e ciò che chiediate in nome mio lo farò, affinché sia glorificato il Padre nel Figlio: se mi chiederete alcunché in mio nome io (lo) farò. Se mi amate, custodite i miei comandamenti [Ecco cosa significa amare: osservare i comandamenti, ndr.]. E io pregherò il Padre ed (egli) vi darà un altro difensore affinché sia insieme con voi in eterno, (cioè) lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede né conosce; voi (invece) lo conoscete, perché presso voi rimane ed in voi sarà. Non vi lascerò orfani: verrò a voi. Ancora un poco e il mondo non mi vede più; voi invece mi vedete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi conoscerete che io (sono) nel Padre mio, e voi in me, e io in voi. Chi ha i miei comandamenti e li custodisce, questi è colui che mi ama; colui poi che mi ama sarà amato dal Padre mio, ed io l’amerò e manifesterò me stesso a lui». All’udire tutto ciò i poveri Apostoli non potevano non sentirsi quasi del tutto smarriti, e dovevano brancolare fra quei concetti come in mezzo ad una nebbia luminosa. Una nuova domanda, fatta questa volta da Giuda (Taddeo), svia alquanto il discorso; poi Gesù riprende: «Pace lascio a voi, la pace mia do a voi: non come il mondo (la) dà, io (la) do a voi. Non si turbi il vostro cuore nè si sgomenti. Udiste che io vi dissi “vado, e (poi) vengo a voi”; se mi amaste, godreste che io vado al Padre, perché il Padre è maggiore di me. E adesso ve (l’)ho detto prima che avvenga, affinché quando sia avvenuto crediate. Non parlerò più con voi di molte cose, perché il principe del mondo sta per venire; e in me non ha nulla, bensì (ciò accade) affinché il mondo conosca che io amo il Padre e come il Padre mi comandò cosi faccio. Sorgete: partiamo di qua». È molto probabile che questo invito a partire dal cenacolo non fosse immediatamente eseguito, giacché la vera uscita dalla città è segnalata molto più tardi, a colloqui finiti (Giov., 18, 1); fu dunque quasi un generico ricordo che bisognava abbandonare quel luogo di calda intimità, quell’ultimo convegno di Gesù con i suoi diletti prima della morte. Ma, come suole avvenire in occasione di distacchi supremi, quel primo appello a partire fu seguito da un altro indugio amoroso in cui Gesù seguitò a parlare, provocato forse da questo o quello dei presenti: frattanto il prediletto dei discepoli attentissimamente raccoglieva le sue parole e se le imprimeva nella vigile memoria, per ripeterle più tardi come Evangelista spirituale (§§ 167 segg., 290).
• § 552. Immediatamente infatti dopo l’appello alla partenza, Gesù continua: «Io sono la vite vera, e il Padre mio è il viticultore... Io sono la vite, voi i tralci; chi rimane in me e io in lui, costui porta molto frutto, perché senza me non potete far niente. Se alcuno non rimanga in me sarà gettato fuori come il frascame e si disseccherà, e lo raccoglieranno in fasci e getteranno nel fuoco e brucerà; qualora (invece) rimaniate in me le mie parole rimangano in voi, domandate ciò che vogliate e sarà (dato) a voi. In ciò fu glorificato il Padre mio, che portiate molto frutto e siate miei discepoli. Come amò me il Padre, anch’io amai voi: rimanete nel mio amore. Qualora custodiate i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho custodito i comandamenti del Padre mio e rimango nell’amore di lui. Di queste cose ho parlato con voi affinché il mio gaudio sia in voi e il gaudio vostro sia compiuto. Questo è il comandamento mio, che vi amiate gli uni gli altri come (io) vi amai: maggiore di questo nessuno ha un amore, che taluno la sua vita (ri)metta in pro dei suoi amici. Voi siete amici miei, qualora facciate ciò che io vi comando. Non vi dico più “servi”, perché il servo non sa che cosa fa il suo signore: vi ho detti invece “amici”, perché tutte le cose che udii dal Padre mio resi note a voi... Queste cose vi comando, che vi amiate gli uni gli altri. Se il mondo vi odia, conoscete che ha odiato me prima di voi. Se foste dal mondo, il mondo amerebbe la (sua) proprietà; perché invece non siete dal mondo bensì io vi trassi fuori dal mondo, per questo il mondo vi odia... Di queste cose ho parlato a voi affinché non vi scandatizziate. Vi renderanno privi di sinagoga (§ 430), anzi verrà un’ora in cui chiunque vi uccida creda di offrire culto a Iddio; e faranno tali cose perché non conobbero il Padre né me. Tuttavia vi ho parlato di queste cose, affinché quando venga la loro ora vi rammentiate di esse, che io ve (le) dissi; non vi dissi invece queste cose da principio, perché ero con voi. Ma adesso me ne vado a Colui che m’inviò...». Dopo altre interrogazioni degli Apostoli, Gesù chiude il colloquio dicendo: «Di queste cose vi ho parlato, affinché in me abbiate pace: nel mondo avete tribolazione. Tuttavia fatevi coraggio: io ho vinto il mondo». [Nota 1 alla pagina 676: Dove Gesù dice: «... se mi amaste, godreste che io vado al Padre, perché il Padre è maggiore di me ...», questa proposizione era il testo classico con cui gli antichi Ariani volevano dimostrare che il Figlio non era consustanziale al Padre. Ma è chiaro che qui Gesù si mette allo stesso livello umano degli uomini Apostoli, bisognosi di conforto, e quindi che parla ad essi da uomo e in quanto uomo. È l’antica spiegazione dei Padri].
• § 553. Dopo questi colloqui con gli Apostoli, l’Evangelista spirituale (san Giovanni, ndr.) soggiunse immediatamente quel colloquio di Gesù col Padre celeste ch’è designato comunemente dagli studiosi come la «preghiera sacerdotale» (Giov., 17, 1-26). In essa Gesù prega dapprima il Padre per se stesso, per esser da lui glorificato (17, 1-5); quindi per gli Apostoli, perché siano protetti nella loro futura missione (17, 6-19); infine per tutti coloro che crederanno in lui (17, 20-26). È la più lunga preghiera di Gesù riportata nei Vangeli; e con fine accortezza provvide san Giovanni a far sì che questo inestimabile tesoro, tralasciato dai Sinottici, non andasse perduto perché egli lo considerò giustamente come riepilogo di tutta l’operosità di Gesù, quasi ultimo fiore di fuoco sbocciato sul sommo vertice della sua vita. Più in su di quel fiore luminoso non c’è che il cielo del Padre: Tali cose parlò Gesù; ed elevati i suoi occhi al cielo, disse: «Padre, è venuta l’ora. Glorifica il figlio tuo affinché il figlio glorifichi te, conforme gli desti potestà su ogni carne, affinché a tutti coloro che gli hai dati (egli) dia vita eterna. Ora, questa è la vita eterna, che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che inviasti, Gesù Cristo. Io ti glorificai sulla terra, avendo compiuto l’opera che mi hai data da fare; e adesso tu, Padre, glorifica me presso te stesso con la gloria che avevo, prima che il mondo fosse, presso di te. Manifestai il tuo nome agli uomini che mi desti dal mondo. Tuoi erano e a me li desti, e la tua parola hanno custodita. Adesso sanno che tutte quante le cose che mi hai date sono da te: poiché le parole che desti a me (io) ho date a loro, ed essi (le) ricevettero e conobbero veramente che da te uscii e credettero che tu m’inviasti. Io per essi prego: non per il mondo prego, ma per quelli che mi hai dati perché sono tuoi; e tutte le cose mie sono tue, e le tue (sono) mie e sono stato glorificato in esse. E (io) non sono più nel mondo - mentre essi sono nel mondo - e io vengo a te. Padre santo, custodiscili nel nome tuo che mi hai dato, affinché siano una sola cosa come noi. Quando ero con loro, io li custodivo nel nome tuo che mi hai dato, e feci guardia, e nessuno di essi perì se non il figlio della perdizione affinché s’adempisse la Scrittura. Ma adesso vengo a te, e queste cose parlo nel mondo affinché abbiano il gaudio mio compiuto in se stessi. Io ho dato a loro la tua parola, e il mondo li odiò perché (essi) non sono dal mondo come io non sono dal mondo. Non prego che (tu) li tolga dal mondo, bensì che li custodisca dal male: dal mondo non sono (essi), come io non sono dal mondo. Santificali nella verità: la tua parola è verità. Come (tu) inviasti me nel mondo, anch’io inviai essi nel mondo; e per essi io santifico me stesso, affinché siano anch’essi santificati ne(lla) verità. Non prego però per questi soltanto, ma anche per quelli che credono in me mediante la loro parola, affinché tutti siano una sola cosa come tu Padre (sei) in me e io in te, affinché anche essi siano in noi, affinché il mondo creda che tu m’inviasti. Io pure la gloria che mi hai data ho data ad essi, affinché siano una sola cosa come noi (siamo) una sola cosa. Io in essi e tu in me, affinché siano consumati in uno, affinché conosca il mondo che tu inviasti me e amasti essi come amasti me. Padre, quei che mi hai dati voglio che dove sono io anch’essi siano come me, affinché vedano la gloria mia che mi hai data, perché mi amasti prima della creazione del mondo. Padre giusto, ancorché il mondo non ti conobbe, io invece ti conobbi, e costoro conobbero che tu m’inviasti; e resi noto ad essi il tuo nome e (lo) renderò noto, affinché l’amore col quale mi amasti sia in essi ed io in essi»..
Da Vita di Gesù Cristo, imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.
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