Comunicato numero 103. I razionalisti e la vita di Gesù (Sesta parte)

Stimati Associati e gentili Sostenitori, quanta tristezza nelle ultime cinque settimane avendo studiato i deliri e le turpi offese dei razionalisti sulla Santa Persona di Gesù. Tutti i loro sforzi di conciliare l’inconciliabile, tutti i loro studi di falsa scienza, tutti i loro sofismi si traducono nel rigetto della divinità di Gesù, quindi nella negazione della Sua stessa storica esistenza. Oggi termineremo questa brutta pagina - studio utilissimo nel nostro percorso di formazione apologetica - poggiando ancora sui meticolosi studi critici dell’erudito Abate Ricciotti: «Le interpretazioni razionaliste della vita di Gesù». Il libro utilizzato è: «Vita di Gesù Cristo» - Imprimatur 1940, 7a Edizione, Rizzoli & C. Editori, Milano e Roma, 1941 - di Giuseppe Ricciotti: riposi in pace.

• § 219. All’attacco del Couchoud il Loisy [in foto lo scomunicato Alfred Loisy: «La sola presenza del suo cadavere sarebbe una causa di profanazione per il cimitero», ndR] ha risposto, occasionalmente, in maniera secca e sdegnosa dichiarando fra l’altro che «noi non abbiamo mai preso sul tragico le speculazioni dei mitologi». Ma che l’attacco avesse in realtà qualche elemento tragico, è apparso dalle ultime pubblicazioni del Loisy, quella su La nascita del cristianesimo (1933) rincalzata dalle Osservazioni sulla letteratura epistolare del Nuovo Testamento (1935). In questi scritti egli accentua sempre più il suo scetticismo storico circa la biografia di Gesù, e passa a giustificare questo scetticismo con una critica sempre più radicale delle lettere di San Paolo. Lo scetticismo è espresso in questi termini: «Rassegniamoci a sapere soltanto che, nel tempo in cui Ponzio Pilato era procuratore della Giudea, forse nell’anno 28 o 29 della nostra era, forse un anno o due prima, un profeta si levò in Galilea, nella regione di Cafarnao. Si chiamava Gesù... Questo Gesù era della più umile origine. Non è probabile che il nome di suo Padre, Giuseppe, e quello di sua Madre, Maria, siano stati inventati dalla tradizione. Alcuni fratelli, ch’egli aveva, hanno goduto di un’autorità più o meno considerevole nella prima comunità. Senza dubbio era nato in qualche borgo o villaggio ove fu visto da principio insegnare». Si noterà come queste parole siano molto simili a quelle che già udimmo sullo stesso argomento dal Renan (§ 206), sebbene costui poi non si attenesse in pratica al suo scetticismo: il Loisy, invece, ci si attiene. Del resto questo Gesù non avrebbe avuto neppure il tempo d’esplicare una vasta operosità, giacché la sua predicazione in Galilea «non è potuta durare a lungo; sarà fare una misura abbondante, prolungarla per qualche mese»: dopo di che, avvenne il viaggio a Gerusalemme e la morte. Ma anche così assottigliata, questa figura di Gesù ha sempre contro di sé - come faceva rilevare il Couchoud - la testimonianza di San Paolo, che a neppure vent’anni di distanza dalla morte di Gesù fa di quest’uomo un essere divino, autore della redenzione umana, della grazia universale, dell’Eucarestia e dei cristiani misteri di salvezza; quindi, o è falsa la figura del Gesù delineata dal Loisy, o è falsa la testimonianza di San Paolo. Il Loisy ha scelto, naturalmente, la seconda alternativa. Nel passato egli aveva ammesso l’autenticità sostanziale delle lettere di San Paolo, assegnandole al periodo tra gli anni 50 e 61; ma adesso, per sfuggire alla suddetta obiezione, mantiene tale assegnazione solo di nome, mentre in realtà la abbandona, giacché scomponendo le singole lettere in una gran quantità di frammenti ne attribuisce ancora a San Paolo solo una minima parte, e al contrario dichiara interpolati i frammenti più ampi e soprattutto più impaccianti per la sua teoria, attribuendoli a una «gnosi mistica» della fine del secolo I. Dopo lunghi tentennamenti, anche il fastidioso passo in cui San Paolo attribuisce a Gesù l’istituzione dell’Eucarestia (I Corinti, 11) è dichiarato falso e interpolato (§ 548).

• § 220. In questo nuovo radicalismo applicato a San Paolo il Loisy ha avuto un predecessore, Henri Delafosse. Sotto questo appellativo, che è uno dei vari pseudonimi di Joseph Turmel, costui ha pubblicato in una collana edita dal Couchoud (il riavvicinamento dei due studiosi è significativo) alcuni volumetti (1926 segg.) in cui egualmente anatomizza le lettere di San Paolo, conservando all’Apostolo brevi tratti ed attribuendo quasi tutto il resto a Marcione, che avrebbe scritto verso l’anno 150. Opera analoga ha fatto il Turmel, ancora sotto lo pseudonimo di Delafosse, per le lettere d’Ignazio d’Antiochia (1927) dichiarate d’origine marcionita, e per quella di Policarpo dichiarata interpolata. Le conclusioni del Turmel, salvo l’attribuzione a Marcione, sono state condivise e largamente impiegate dal Loisy. Ma, se il Loisy ha avuto in ciò un predecessore, non pare che abbia avuto dei seguaci: gli stessi suoi antichi discepoli si sono rifiutati di seguirlo nel suo nuovo radicalismo. [L’Abate Ricciotti scrive prima dell’avvento del funesto “Vaticano Secondo” che, quantomeno nei fatti, dimostrerà e dimostra con i suoi gregari di attingere a piene mani nella torbida melma del Loisy, ndR]. In Italia è stato scritto: «Parliamoci chiaro. Alfredo Loisy ha segnato un’orma incancellabile nella critica religiosa del secolo ventesimo con la sua critica dei Sinottici, condizionata sopra tutto dallo sforzo di isolare l’apporto paolino nella tradizione evangelica, quella di Marco innanzi tutto. Se ora il Paolo storico, il Paolo delle lettere, evapora nelle nostre mani e si perde nelle nebbie della speculazione gnostica del secondo secolo, la critica dei Vangeli (a cui i papiri stanno imponendo limiti cronologici sempre più circoscritti) (esattissimo: cfr. § 160) è da rifare: e sarebbe da rifare, caso mai, in maggior conformità alla tradizione ortodossa. Bel risultato, invero, di tante scomuniche!» (in Religio, gennaio 1936, pag. 67). Altrettanto è avvenuto in Francia, ove M. Goguel e Ch. Guignebert hanno respinto le ultime conclusioni del Loisy, sebbene ambedue accettino la teoria escatologica e siano debitori a lui di molte cose. Il Goguel ha pubblicato una Vita di Gesù (1932), a cui ha tenuto dietro uno studio su La fede nella resurrezione di Gesù nel cristianesimo primitivo (1933): nella biografia predomina l’idea escatologica, pur riscontrandovisi qualche lineamento proveniente dalla Scuola liberale; nello studio successivo, negata la realtà storica della resurrezione, si tenta spiegare come sia sorta la fede in essa. Il Guignebert ha pubblicato un Gesù (1933) in cui, quasi sempre, segue passo passo il Loisy dell’antica maniera, e si mostra ben più radicale del Goguel. Ma anche questa volta torna la questione già accennata a proposito di Bruno Bauer e dei recenti mitologi: si tratta cioè di sapere se dal punto di vista della coerenza critica e della dialettica conseguenziaria - non già della documentazione storica - il Loisy maestro si trovi in regola molto più dei suoi riluttanti discepoli. La logica infatti ha le sue ferree leggi, che spingono fino alle ultime conseguenze quando si sono stabiliti taluni principii. Quando perciò si è stabilito che dai Vangeli deve risultare un Gesù visionario escatologico, e a tale scopo si sono frantumati i Sinottici e si sono gettati via la massima parte dei loro frammenti insieme con l’intero IV Vangelo: quando in questo lavoro sono stati perfettamente d’accordo maestro e discepoli: quando infine il maestro s’avvede che il lavoro già fatto non serve a nulla se non si estende anche all’irriducibile San Paolo tradizionale, ed estende perciò il lavoro anche a San Paolo; allora ogni persona che ragioni troverà che, dal punto di vista della coerenza, il maestro va rettamente per la strada che si è tracciata, mentre i discepoli riluttanti sono illogici, perché si fermano a mezza strada per un ingiustificato conservatorismo.

• § 221. Ma si può fare anche un’altra questione, e chiedere se lo stesso Loisy sia veramente giunto alle ultime conseguenze dei suoi principii. Nella sua lunga operosità scientifica si rileva chiaramente una continua accentuazione di radicalismo, per cui egli ha successivamente sconfessato opinioni meno demolitrici dapprima professate. Ad ogni modo più radicali di lui sono oggi i mitologi colleghi del Couchoud, dalle cui negazioni egli aborre. Certamente tra Couchoud che nega l’esistenza storica di Gesù, e il Loisy che l’afferma, c’è un abisso. Ma l’abisso sembra più teoretico che pratico. A che si riduce, in pratica, il Gesù storico del Loisy? A un giovane Galileo visionario, che ha predicato per due o tre mesi, e che infine è stato giustiziato a Gerusalemme. Altro non si sa (§ 219). È un’ombra, un semplice fantasma, che un tenue soffio farebbe svanire; il Loisy però non vuol dare quel soffio, e ricorre all’espediente di polverizzare le lettere di San Paolo, piuttosto che fare svanire il fantasma. Il ricorso è coerente, ma da disperati; e appunto per questo evidente carattere di disperazione non è stato né sarà imitato. Non sarebbe dunque più agevole, e soprattutto più logico, dare quel decisivo soffio e fare svanire quell’ombra di Gesù storico, come ha fatto il Couchoud? Vero che il Loisy, e dietro lui il fedele Guignebert, ha più volte risposto al Couchoud che l’ipotesi ha il torto «di non spiegare l’origine del cristianesimo». Ma il Couchoud può sempre replicare chiedendo se l’ombra del Gesù storico, mantenuta dal Loisy, spieghi davvero l’origine del cristianesimo, o almeno la spieghi meglio dell’idea religiosa velata di storicità che il Couchoud preferisce; può inoltre insistere affermando che, quand’anche l’origine del cristianesimo non fosse spiegata nell’ipotesi che Gesù non sia esistito, ciò tutt’al più sarebbe un altro fra i molti casi in cui la storia deve ricorrere alla sapiente ars nesciendi: ma che, ad ogni modo, sarebbe evitata la mostruosa assurdità storica di presentare rigidi monoteisti giudei che adorano a masse un uomo morto poco prima e da essi ben conosciuto (§ § 216, 218). Il dramma spirituale dei razionalisti che si rifiutano di seguire il Couchoud, consiste in questo. Essi affermano che l’esistenza storica di Gesù non può essere richiamata in dubbio, garantita qual è da testimonianze gravissime, numerose, solenni: se si respingessero queste testimonianze, si dovrebbero respingere a maggior ragione le testimonianze riguardo all’esistenza storica di Socrate, Alessandro Magno, Annibale, Mani, Maometto, Carlo Magno, e d’infiniti altri personaggi, cosicché tutta la storia cadrebbe. Senonché le identiche testimonianze, gravissime, numerose, solenni, mentre garantiscono l’esistenza storica di Gesù, attestano anche le sue qualità soprannaturali e la sua potenza taumaturgica: perciò, come si conclude da quelle testimonianze che Gesù è veramente esistito, così bisognerebbe concludere ch’egli era un essere soprannaturale e che operò miracoli. Ma questa conclusione è per i razionalisti impossibile a priori, e di qui il loro dramma: essi devono dimostrare a posteriori che le testimonianze in favore del Gesù soprannaturale e taumaturgo non hanno alcun valore, mentre essi stessi le giudicano autorevolissime in favore del Gesù storico. Il metodo seguito per raggiungere questa dimostrazione a posteriori è come - oramai sappiamo - quello della selezione dei testi: i testi irriducibilmente «soprannaturali» sono scartati perché privi di valore storico; gli altri, meno irriducibili, sono sottoposti al processo della dolce sollecitazione cara al Renan (§ 207), e così sono ricondotti al livello puramente naturale e riacquistano valore storico. Ma questo metodo, per quanto sia comodo agli scopi aprioristici di chi lo applica, è troppo puerile, e puerile specialmente per la sua arbitrarietà. Proprio l’Harnack, cioè un razionalista insigne, previde che alla critica dei Vangeli sarebbe avvenuto come a quel fanciullo che tolse via ad una ad una tutte le foglie di un bulbo, giudicandole nella sua mente puerile ingombranti o accessorie al bulbo stesso, ed aspettandosi di ritrovare nell’interno un nocciuolo: e invece, gettata via l’ultima foglia, restò con nulla in mano. Gli avvenimenti successivi hanno mostrato che la previsione dell’Harnack era giustissima, giacché i critici che sfrondavano i testi più o meno abbondantemente sono stati seguiti dai critici che li hanno rasi al suolo indistintamente. Nulla, infatti, è più logico della logica stessa, quando sia applicata rigorosamente.

• § 222. Una conclusione appare evidentissima, a chi riassuma risultati delle molteplici esperienze fatte dal Reimarus fino ad oggi, ed è che quando si comincia a cancellare una parte della figura del Gesù storico qual è presentata dai Vangeli, o si ottiene una figura storicamente assurda che ben presto è abbandonata, oppure si finisce col cancellarla del tutto. I lineamenti del Gesù dei Vangeli sono tanto riconnessi e collegati fra loro, che si richiamano necessariamente a vicenda; quindi, o si lasciano come sono, oppure si cancellano fino all’ultimo. E appare evidentissima anche un’altra conclusione, in relazione diretta con la precedente: ed è che l’accettare tale quale la figura del Gesù dei Vangeli, oppure il cancellarla in parte o tutta, è una conclusione dettata soprattutto da criteri filosofici non già storici. La linea di divisione, la vera cresta di displuvio, che separa i due campi è un criterio filosofico, cioè la «possibilità» del fatto soprannaturale e del miracolo fisico: tutti gli altri criteri storici, in confronto con questo filosofico, sono di gran lunga meno importanti per uno studioso che già si sia schierato nell’uno o nell’altro dei due campi. Previa «possibilità» nel campo di destra; previa «impossibilità» nel campo di sinistra: ecco il vero spirito che animerà le successive investigazioni storico-documentarie in ambedue i campi, e ne suggerirà le conclusioni. Gli accampati di sinistra accetteranno volta per volta qualunque soluzione del problema storico di Gesù, da quella del Reimarus fino a quella dei mitologi, pur di non ammettere quella «possibilità» che per essi è un’assurdità maggiore di qualunque assurda soluzione. Gli accampati di destra avranno il compito di assicurarsi caso per caso che la previa «possibilità» sia diventata «realtà», e di schiarirne l’inquadramento nei contemporanei fatti storici; ma, per il resto, non incontrano ostacoli molto gravi. Questa condizione degli accampati di destra è rilevata da un accampato dell’estrema sinistra, cioè dal Couchoud, con le seguenti parole: «Quanto più ci ripenso, tanto più mi convinco che il Gesù storico non è pienamente accettabile se non dai credenti e non capito bene se non da loro». - «I credenti hanno la chiave di questi antichi testi. Essi li leggono senza fatica, ne penetrano il vero senso; potranno desiderare la spiegazione di un dato particolare, ma difficoltà radicali non ne incontrano. Per essi non esiste un enigma di Gesù. L’ostacolo in cui io urto, di sapere come mai Paolo avrebbe adorato un Giudeo suo contemporaneo elargendo gli gli attributi di Jahvè (cfr. § 218), non esiste. Paolo ha trattato Gesù da Dio, perché Gesù è veramente Dio. I credenti sono nella luce». – «Nel campo dell’esegesi la loro posizione è invidiabile. Essi ricevono di fronte e accettano nel loro senso pieno quei documenti che i critici prendono di sbieco e nei quali tentano di fare una rischiosa selezione».

• § 223. Su questo punto esiste poi una controversia delicata. Dagli accampati di sinistra partono spesso all’indirizzo degli accampati di destra voci disdegnose, che li accusano di essere sotto la tirannia del dogma e di non godere di quella libertà scientifica di cui si gode nel campo di sinistra. Bisogna distinguere. In primo luogo, quando un dato principio è stato liberamente e coscientemente accettato, si potrà parlare di salda adesione ma non di tirannia. Eppoi, vi sono dogmi e dogmi: vero dogma è quello religioso; ma vi sono anche assiomi filosofici che valgono per “dogmi” laici, riscotendo adesioni così tenaci da non invidiare praticamente nulla ai dogmi religiosi. Ora, sarebbe puerile o insincero negare che il campo di sinistra abbia i suoi “dogmi” laici, rappresentati da quegli assiomi filosofici che guidano le sue ricerche e dettano le sue conclusioni ben più dei documenti storici. Questa constatazione non è ammessa né spesso né volentieri dagli accampati di sinistra; ma la loro ben comprensibile ritrosia ha avuto talune felici eccezioni, fra cui la seguente: «Se il problema (cristologico) che ha appassionato ed assorbito per secoli i pensatori cristiani è oggi proposto di nuovo, ciò avviene molto meno perché la storia ne è meglio conosciuta, che non in conseguenza del rinnovamento integrale che è avvenuto e prosegue nella filosofia moderna» (A. Loisy, Autour d’un petit livre, pagg. 128-129). Ecco una confessione tanto sincera quanto preziosa. Cosicché le voci disdegnose della sinistra verso la destra non sono punto giustificate, e possono benissimo esser ritorte dalla destra verso la sinistra con ragioni per lo meno di ugual peso; tanto più che, in pratica, se vi sono state diserzioni da sinistra verso destra, ve ne sono state anche da destra verso sinistra. Né si vorrà seriamente sostenere che l’abbandono del “dogma” laico è cosa sempre facile ed agevole, e che non avviene altrettanto nel campo opposto: in realtà l’esperienza dimostra che per attaccamento al “dogma” laico si affronta volentieri anche una specie di “martirio” laico, quale è quello di accettare la ridicolaggine suprema della teoria di un Paulus o l’assurdità suprema della teoria di un Couchoud. Affrontare simili ridicolaggini e assurdità, non è quasi un “martirio” laico? Nei due campi si parlano in realtà due lingue diverse, chiamate rispettivamente «naturalismo» e «soprannaturalismo». Il campo di sinistra, che parla il «naturalismo», non comprende né desidera comprendere l’altra lingua; il campo di destra, che parla il «soprannaturalismo», comprende benissimo l’altra lingua, soltanto afferma ch’è una lingua straniera nel paese chiamato Vangelo e quindi il visitatore di questo paese non riuscirà ivi né a capire né a farsi capire con questa sola lingua. Avviene perciò che gli accampati di sinistra disdegnano per principio tutto ciò che dicono quei di destra, come gente che parli una lingua barbara. La miglior prova ne è che l’accennata opera del radicale Schweitzer, la quale tratta estesamente delle ricerche sulla biografia di Gesù (§ 210), non s’occupa quasi affatto di pubblicazioni del campo di destra. Al contrario, gli accampati di destra s’interessano molto delle pubblicazioni dell’accampamento di sinistra, perché (oltre il resto) vi riscontrano altrettanti fallimenti delle varie teorie naturalistiche, come di discorsi fatti da persone che parlino tutte le lingue tranne la giusta, e che perciò hanno ridotto il loro accampamento a una specie di torre di Babele. Quest’ultimo paragone potrà sembrare qui inopportuno per la sua indelicatezza: ma in tal caso la responsabilità ricade su chi lo ha impiegato per la prima volta, cioè precisamente su un altissimo gerarca dell’accampamento di sinistra, il Loisy, il quale ha potuto esprimere il seguente giudizio: «Si è assai tentati di pensare che la teologia contemporanea - fatta eccezione per i cattolici romani per i quali l’ortodossia tradizionale ha sempre forza di legge - è una vera torre di Babele, ove la confusione delle idee è anche più grande della diversità delle lingue”(in The Hibbert Journal, VIII-3, aprile 1910, pag. 486). Se queste parole vogliono essere un bilancio dei risultati ottenuti, gli accampati di destra le ascolteranno volentieri come confessione di un fallimento.

• § 224. I risultati pratici ottenuti nel campo di sinistra, che è il solo di cui ci siamo occupati, sono quelli fin qui esposti. È avvenuto cioè che quasi ogni nuova generazione, dal Reimarus fino ad oggi, ha gridato al trionfo credendo di aver finalmente raggiunto la definitiva e vera soluzione del “problema di Gesù”; senonché, immancabilmente, la successiva generazione ha ripudiato la decantata soluzione e ne ha cercata un’altra. Vi sono, è vero, alcuni punti messi al sicuro dopo tante ricerche; ma si tratta di punti secondari, sui quali consente volentieri anche il campo di destra mentre la vera questione principale, cioè il problema in se stesso di Gesù, è ancora là in attesa di una risposta. L’ultima soluzione proposta trionfalmente è stata quella degli escatologisti; ma da quando essa fu proclamata è già passata quasi una generazione quindi, se ancora vige la legge del secolo scorso, non dovrebbe tardare il suo ripudio totale. E in realtà, i preannunzi di questo ripudio già si scorgono, e numerosi; non si scorgono invece i segni di una parusia, che apporti la sostituzione. Né sarà facile congegnare una nuova e ben delineata teoria storica, essendo già state esplorate abbastanza le varie zone dentro e fuori l’antico giudaismo. Rimane, è vero, la possibilità di scoperte inattese, che portino alla luce documenti importanti; ma anche qui le previsioni non sono rosee, giacché i papiri scoperti in questi ultimi anni, mentre mostrano un viso benigno ed amorevole verso i Vangeli antichi e compatti della tradizione, mostrano invece una grinta singolarmente arcigna e scontrosa verso i “vangeli” tardivi e interpolati degli escatologisti (§160). Se dunque il passato insegna qualcosa riguardo al futuro, è prevedibile nel campo di sinistra un accentuato radicalismo riguardo alle fonti - nonostante le attestazioni paleografiche dei documenti - e un più sfiduciato scetticismo riguardo alla ricostruzione della biografia di Gesù. Nel campo di sinistra, insomma, il Gesù storico sembra destinato inesorabilmente alla tomba. Su un angolo di essa i mitologi, o i loro successori, scriveranno NEMO; gli escatologisti o i loro successori rifiuteranno questa iscrizione come grave offesa alla storia, e in un altro angolo scriveranno IGNOTUS; ma poi gli uni e gli altri si aiuteranno a vicenda a rotolare la pietra all’ingresso della tomba, vi apporranno di comune accordo i sigilli, e davanti alla porta chiusa si sdraieranno insieme a far la guardia. Fine!

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.

Comunicato numero 102. I razionalisti e la vita di Gesù (Quinta parte)

Stimati Associati e gentili Sostenitori, sono pronte le felpe e le magliette Sursum Corda 2018: «Sancte Joseph, Patrone S. Ecclesiae, ora pro nobis!».Proseguiamo studiando criticamente, con l’Abate Ricciotti, le «Interpretazioni razionaliste della vita di Gesù». Il libro utilizzato è: «Vita di Gesù Cristo» - Imprimatur 1940, 7a Edizione, Rizzoli & C. Editori, Milano e Roma, 1941 - dell’Abate Giuseppe Ricciotti: riposi in pace.

• § 213. Se, pertanto, si confrontava questa concezione messianica dei rabbini, ch’era predominante ai tempi di Gesù, con quanto i Vangeli riferiscono circa la predicazione di Gesù, si trovava, non già una somiglianza nell’insegnamento morale-religioso, bensì una corrispondenza nella ripartizione dei tempi. Anche Gesù contrappose il «secolo» presente di malvagità al «secolo» futuro di gloria, in cui gli eletti prenderanno parte dopo la resurrezione al regno celestiale preparato loro dal Padre; tuttavia dal «secolo» futuro egli distingue nettamente l’èra del Messia, la quale appartiene al «secolo» presente, si svolgerà su questo mondo, e vi continuerà per un periodo storico indeterminato: ma, benché indeterminato, questo periodo sarà certamente lungo, giacché per conservare stabilmente la sua società messianica Gesù impartisce le già rilevate norme d’indefinita scadenza. Né diversa risulta l’opinione della plebe che, in un momento solenne della operosità messianica di Gesù, lo acclama pubblicamente al suo ingresso in Gerusalemme: «Osanna! Benedetto il Veniente in nome del Signore! Benedetto il veniente regno del nostro padre David! Osanna negli eccelsi!» (Marco, 11, 9-10). Da queste acclamazioni appare evidente che quella plebe attendeva da Gesù anche un regno politico (cfr. Giovanni, 6, 15) - e in ciò era ben lontana dal pensiero di Gesù (cfr. Atti, 1, 6-8) - tuttavia si trattava sempre di un regno visibile, terreno, del «secolo» presente, non già di un regno invisibile, celestiale, del «secolo» futuro. E senza dubbio questa opinione della plebe era in armonia con quella degli Scribi e dei Farisei, suoi autorevoli maestri, non già con quella degli estremisti apocalittici e degli Zeloti (§ 83), che disperati del «secolo» presente aspettavano la palingenesi nella calata taumaturgica del «secolo» celestiale. Queste e molte contestazioni, mosse sulla base di documenti storici ai seguaci della teoria escatologica, provocarono repliche e discussioni numerose, e smorzarono alquanto il primo entusiasmo con cui la teoria era stata accolta: ad ogni modo, ancora oggi, essa è la predominante, e nuove ipotesi organiche per sostituirla non sono state prospettate.

• § 214. Ma nel frattempo si delineava fra gli studiosi una nuova corrente, la quale, più che concentrarsi sulla vita e l’insegnamento di Gesù stesso, faceva oggetto delle sue ricerche il cristianesimo primitivo e specialmente San Paolo. Oramai era assodato - contro le affermazioni dell’antico luteranesimo - che tutto ciò che noi sappiamo circa i fatti di Gesù ci è pervenuto attraverso la tradizione della Chiesa primitiva, e che le stesse fonti scritte evangeliche non sono altro che documenti di quella tradizione (§ 112); sembrò quindi necessario investigare come fosse formato quel mondo spirituale che ci ha trasmesso i Vangeli, quali fossero in esso gli elementi originali e quali gli importati dal di fuori, quanto di ciò che sembrava tipicamente cristiano potesse eventualmente essere una infiltrazione nella Palestina di concetti non palestinesi. Col proposito di tali ricerche la nuova corrente non intendeva ritornare ai metodi della Scuola di Tubinga (§ 200 segg.); quella, infatti, si era racchiusa nel mondo del cristianesimo primitivo, studiandone i presunti contrasti interni ma ignorando del tutto le influenze provenienti su di esso dall’esterno: adesso invece si mirava precisamente a rintracciare queste influenze, istituendo una metodica comparazione fra il cristianesimo primitivo e le altre religioni, contemporanee o anteriori ad esso, anche se nate fuori della Palestina. Erano i criteri del metodo della Storia comparata delle religioni. In realtà, influenze esterne sul cristianesimo primitivo erano già state affermate in precedenza, ma di solito limitatamente a taluni concetti e termini della filosofia greca; adesso, invece, si ricercarono influenze anche delle regioni ellenistiche, specialmente di culti misterici, e più remotamente influenze di religioni orientali: infatti, il sincretismo religioso che imperò nell’ellenismo anteriore e contemporaneo al cristianesimo e che aveva assimilato concetti svariatissimi di provenienza orientale, poteva far sospettare che avesse introdotto taluni dei suoi concetti nel cristianesimo nascente, influendo su esso o direttamente, oppure mediante il tardivo giudaismo della Diaspora o anche della Palestina. Parecchi furono i campi investigati, che fruttarono conoscenze veramente nuove: fra i numerosi studi apparsi basti qui accennare a quelli di Fr. Cumont sulla Religione di Mitra (1896, 1900) e sulle Religioni orientali nell’ Impero romano (1906); a quelli di R. Reitzenstein sull’Ermetismo (1904), sulle Religioni misteriche ellenistiche (1910), sul Mistero di redenzione iranico (1921); agli studi sul Mandeismo di W. Brandt (1889, 1893, 1910, 1912,1915), di M. Lidzbarski (1900, 1905, 1915), di L. Tondelli (1928); agli studi Sullo Gnosticismo di W. Bousset (1907), di E. De Faye (1913), di F. C. Burkitt (1932). Ma assai più limitate, spesso incerte o anche del tutto arbitrarie, furono le conclusioni dedotte dal confronto di queste religioni orientali col cristianesimo: non fu evitato, cioè, lo spontaneo pericolo di affermare una identità di sostanza dove era soltanto una vaga corrispondenza di forma, e l’altro pericolo cronologico anche più grave di prendere per una dipendenza del cristianesimo ciò che era una dipendenza dal cristianesimo. Quest’ultimo caso è avvenuto nei riguardi del Mandeismo, che a bella prima taluni studiosi troppo affrettatamente giudicarono essere una fonte della teologia del IV Vangelo: oggi, raffreddati i primi fervori, si ritiene comunemente che la strana setta dei Mandei è stata largamente influenzata dal cristianesimo, e non viceversa (§171).

• § 215. Ma l’argomento preferito, per gli studiosi di Storia delle religioni comparate, è stato San Paolo, considerato praticamente come il vero fondatore del cristianesimo o almeno come il costruttore della sua impalcatura concettuale. Questa costruzione avrebbe ben pochi elementi originali, mentre molti altri sarebbero stati desunti da varie religioni orientali ed applicati con leggieri adattamenti al Gesù idealizzato, ossia al Cristo, e alla dottrina attribuita a lui: tali sarebbero il concetto di Cristo «uomo dal cielo» (I Corinti, 15, 47), che sarebbe desunto dal mito orientale dell’«Uomo primigenio», molti concetti misterici specialmente riguardo al Battesimo e all’Eucaristia, e altri sulla grazia e lo Spirito. In sostanza si ricercava, a proposito di San Paolo, ciò che si potrebbe chiamare un «cristianesimo precristiano», ossia anteriore a Gesù. A questa corrente si oppose nettamente, fra altri, lo Schweitzer (§210), che in una nuova Storia delle ricerche su San Paolo (1911) e più tardi in uno studio sulla Mistica dell’apostolo (1930), rimase fermo alla sua teoria escatologica, applicata anche a San Paolo, e davanti all’alternativa di una dipendenza del pensiero cristiano dal giudaismo o dall’ellenismo, parteggiò risolutamente per la prima. Al contrario il Loisy, in uno studio sui Misteri pagani e il mistero cristiano (1919), ammetteva una larga influenza delle religioni misteriche ellenistiche sul cristianesimo da San Paolo in poi. In realtà lo Schweitzer, sul terreno pratico, aveva avuto lo sguardo più acuto del Loisy: egli cioè aveva preveduto che il metodo storico-comparativo, ingolfandosi nella ricerca del «cristianesimo precristiano», avrebbe finito per negare l’esistenza storica di Gesù. Ed ebbe ragione, giacché gli sviluppi inevitabili di una logica rigorosa prevalsero anche questa volta. Come già Bruno Bauer, portando alle ultime conseguenze i principii dello Strauss e della Scuola di Tubinga, aveva finito per negare la storicità di Gesù (§ 202); così pure questa volta da taluni principii del metodo storico-comparativo, ma soprattutto dai postulati filosofici in onore dal Reimarus in poi, si dedusse che Gesù non è mai esistito.

• § 216. Veramente i nuovi negatori facevano la figura di dilettanti e d’intrusi in mezzo agli specialisti, giacché non presentavano la commendatizia di qualche nuova esegesi che salvasse - come voleva la corrente - l’uomo Gesù, dopo averlo «purificato» da ogni elemento divino: al contrario, questi enfants terribles si facevano avanti a sostenere la tesi opposta, e invece di salvare l’uomo Gesù volevano salvare il «dio» Cristo, preferendo un «dio» hegeliano a un uomo storico. Tuttavia, una commendatizia la presentavano anch’essi, e molto autorevole, perché fornita loro dagli stessi escatologisti. Vedemmo sopra, infatti, come il Loisy, rivolgendosi a chi negava che Gesù era in una fremente attesa della fine del mondo, sfidasse il negatore a provare l’esistenza storica di Gesù (§ 210): ebbene, questa sfida fu accettata alla lettera, e siccome i nuovi arrivati non erano rimasti affatto convinti dalle prove che gli escatologisti avevano addotte per dimostrare quella fremente attesa di Gesù, così essi negarono che Gesù fosse esistito. Quale escatologista avrebbe potuto accusarli di non essere logici? Già sullo scorcio del secolo XIX alcuni olandesi, quali A. Pierson, A. Loman e qualche altro, si erano messi sulla via della negazione dell’esistenza storica di Gesù, ma senza ottenere apprezzabili risultati. Altrettanto avvenne al tedesco A. Kalthoff (1902), che si richiamò ai principii di Bruno Bauer. In Inghilterra J. M. Robertson, con parecchie pubblicazioni dal 1900 in poi, sosteneva che Gesù era oggetto d’un vecchio culto del popolo ebraico e da identificarsi con un mito impermeato sull’antico Giosuè. Un americano, W. B. Smith, che tuttavia scrisse in tedesco, pubblicò nel 1906 un’opera dal titolo significativo Il Gesù precristiano, con cui andava alla ricerca del culto di un Gesù anche fuori del popolo ebraico; nello stesso anno P. Jensen, assiriologo eminente, in un’opera voluminosa trovava che la figura di Gesù, come già quelle di Mosè e di altri personaggi dell’Antico Testamento, era un semplice episodio della vasta epopea mitica del babilonese Gilgamesh. Finalmente, dal 1909 in poi, il tedesco A. Drews dapprima pubblicò due grossi volumi intitolati Il mito di Cristo, e poi con altri scritti e con una fervorosa attività oratoria tentò di ridurre a sistema e di divulgare la negazione della storicità di Gesù: nel suo sistema erano messe largamente a profitto le idee sia del Robertson (Gesù = Giosuè) sia dello Smith (influenza di concetti pagani). La meschinità, quasi frivola, di siffatte ricostruzioni storiche non meritava la confutazione di specialisti; tuttavia l’attività irruente del Drews suscitò sdegnosa stizza ed animose polemiche. Dal punto di vista dell’argomentazione storica queste polemiche apparivano ingiustificate, come sarebbero ingiustificate le polemiche contro chi negasse la storicità di Giulio Cesare o di Socrate: a tali negatori si risponderebbe degnamente solo col silenzio. Ma nel caso del Drews e dei suoi colleghi c’erano di mezzo i principii filosofici, ch’essi condividevano pienamente con i loro avversari. Il gruppo del Drews obiettava agli avversari in sostanza così: Voi negate che Gesù sia stato Dio ed abbia operato miracoli, ed avete perfettamente ragione; ma non vedete voi che il Dio Gesù è attestato nelle fonti neotestamentarie con una precisione e nettezza che è certamente non minore, e forse maggiore, di quella per l’uomo Gesù? Non vedete che le due figure, del Dio e dell’uomo, sono connesse fra loro così intimamente da non potersi scindere a vicenda? Le due figure, storicamente, sono illuminate dalla stessa luce documentaria: quindi, se voi accettate l’uomo Gesù, non potete più respingere - soltanto in forza di postulati filosofici - il Dio Gesù. Del resto l’esperienza è in nostro favore, giacché i tentativi fatti dal Reimarus in poi, per salvare l’uomo Gesù abbandonando il Dio Gesù, sono tutti falliti, evidentemente perché battevano una strada sbagliata; noi perciò battiamo la strada inversa, abbandonando l’uomo Gesù, o meglio assegnando egualmente l’uomo e il Dio alla sfera dell’irreale. E, facendo ciò, noi siamo in accordo con la storia ben più di voi: voi, infatti, siete costretti ad ammettere la mostruosa assurdità che dei rigidi monoteisti - quali San Paolo ed i primi cristiani provenienti dal giudaismo - adorassero come un essere soprannaturale e divino un uomo morto pochi anni prima e già conosciuto personalmente da molti di loro; noi invece esigiamo un semplice processo di incarnazione ideale, affermando che quei primi cristiani velarono di esistenza terrena una loro idea religiosa, com’è avvenuto altre volte nella storia delle religioni. [Fine del ragionamento, ndR]. Questo ragionamento, come argomento ad hominem, era di una logica perfetta. Di qui la sdegnosa stizza e le polemiche degli avversari, che non gradivano di apparire illogici e inconseguenti.

• § 217. Durante queste polemiche, dopo la prima guerra mondiale, si è delineato, riguardo alla critica delle fonti evangeliche, un nuovo indirizzo, che ha preso il nome di Metodo della storia delle forme. I seguaci di questo metodo, in gran maggioranza tedeschi (K. S. Schmidt, 1919; M. Dibelius, 1919 segg.; R. Bultman, 1921 segg.; M. Albertz, 1921; G. Bertram, 1922 segg; ecc.), si propongono direttamente soltanto uno scopo critico-letterario, cioè di indagare la formazione e la trasmissione dei primi racconti relativi a Gesù, avanti ancora che fossero messi in iscritto: a tale scopo essi sottopongono ad analisi le «forme», ossia i tipi letterari, che rimasero incorporate in quei racconti e ch’erano d’indole religiosa popolare (ad esempio, la «novella» l’«apoftegma», il «paradigma», ecc.). Essi, infatti, ammettono che il materiale dei Vangeli, prima d’essere scritto, fece parte della catechesi ecclesiastica (§ 112) e fu in stretta relazione col culto cristiano, e perciò ebbe una vita ed uno svolgimento suoi propri; come pure riconoscono che il Gesù presentato dalla più antica tradizione cristiana è già un essere soprannaturale e oggetto di adorazione religiosa. Direttamente, quindi, essi non si occupano della biografia di Gesù, ma solo dei suoi preliminari, cioè del materiale evangelico relativo a questa biografia: tuttavia gli sconfinamenti dal campo strettamente critico-letterario a quello costruttivo-biografico sono inevitabili e significativi. Se ne intravede perciò come risultato una teoria che ha molte analogie con quella dello Strauss (§ 199); la realtà storica di Gesù è di solito ammessa, ma le narrazioni evangeliche a suo riguardo sono stimate una elaborazione della primitiva comunità cristiana; questa elaborazione è, non già mitica come per lo Strauss, ma d’indole religiosa popolare, ed ha conservato qua e là alcuni elementi d’oggettività storica, benché oggi sia praticamente assai difficile estrarre con precisione questi elementi per impiegarli in una biografia di Gesù. Questo scetticismo, del resto, non è una prerogativa del Metodo storico-formale, ma si diffonde sempre più anche tra i seguaci di altre correnti. Né contro di esso rappresenta una seria eccezione il solito R. Eisler (§§ 181, 189) che in una grossa pubblicazione dal titolo greco Gesù re che non ha regnato (2 voll., 1929-1930) presenta con ogni sicurezza e precisione un Gesù rivoluzionario, insorto a mano armata e messo regolarmente a morte dai Romani; e che successivamente, in uno studio su L’enigma del quarto Vangelo (1938), traccia una biografia non meno minuziosa di Giovanni l’evangelista. Dai dotti di ogni tendenza, ambedue le pubblicazioni sono state giudicate romanzesche, soprattutto nella loro parte costruttiva; e su tale giudizio non c’è nulla da eccepire. Oggi, pertanto, il campo è diviso praticamente fra la scuola escatologica, quella storico-comparativa e quella mitologica, mentre a tutte e tre indifferentemente possono appartenere coloro che applicano il Metodo della storia delle forme: alcuni ritardatari della scuola liberale attirano scarsa attenzione. La scuola storico-comparativa ha progressivamente abbandonato talune ipotesi su cui da principio aveva riposto molta fiducia, come quella accennata sopra (§ 214) riguardo al Mandeismo. La teoria mitologica, invece, ha avuto un vigoroso sostenitore nel francese Couchoud, che ha preso a partito soprattutto gli escatologisti.

• § 218. Nel suo nervoso libretto su Il mistero di Gesù (1924) egli s’indirizza spesso al principale escatologista, il Loisy, a cui professa gratitudine per tutto ciò che ha imparato ma di cui trova ingiustificato l’attaccamento all’esistenza storica di Gesù. Alla tesi del Loisy, secondo cui il cristianesimo è sorto dalla deificazione dell’uomo Gesù, il Couchoud propone fra altre queste difficoltà: «In molte regioni dell’impero era cosa fattibile deificare un uomo privato. Ma per lo meno in una nazione la cosa era impossibile, cioè presso i Giudei. Essi adoravano Jahvè l’unico Dio, il Dio trascendente, indicibile, di cui non si delineava l’effigie, di cui non si pronunziava il nome, ch’era separato da abissi di abissi da ogni creatura. Associare a Jahvè un uomo di qualunque genere, sarebbe stato il sacrilegio e l’abominazione suprema. I Giudei onoravano l’imperatore, ma si facevano tagliare a pezzi piuttosto che confessare solo a fior di labbra che l’imperatore era un Dio; e si sarebbero fatti egualmente tagliare a pezzi, se fossero stati obbligati a dire ciò dello stesso Mosè. E il primo cristiano di cui udiamo la voce, un Ebreo figlio d’Ebrei (cioè San Paolo), associerebbe un uomo a Jahvè nella maniera più naturale? Ecco il miracolo contro cui io ricalcitro». - «Sarebbe stato frivolo opporsi all’apoteosi dell’imperatore fino ad affrontare il martirio, per poi sostituirla con l’apoteosi di uno dei suoi sudditi». - «Proprio di un artigiano come lui Paolo ha detto: Chiunque invocherà il suo nome sarà salvo, ovvero: Ogni ginocchio si piegherà davanti a lui, quando la Scrittura dice ciò di Dio? Questo costruttore di baracche (tale era San Paolo per mestiere) ha forse attribuito a un altro falegname ambulante l’opera dei sei giorni, la creazione della luce e delle acque, del sole e della luna, degli animali e dell’uomo, dei Troni, delle Dominazioni, dei Principati e delle Potestà degli Angeli e di Satana? Ha forse confuso un uomo con Jahvè?». È dunque inammissibile, per ragioni storiche, che il Cristo del cristianesimo sia l’uomo Gesù deificato. Sarà, allora, vero Dio e vero uomo nello stesso tempo? Anche ciò è inammissibile [secondo Couchoud, ndR], ma non per ragioni storiche, bensì filosofiche: il concetto, infatti, di uomo-Dio: «È un concetto pre-kantiano, esso è entrato egualmente in grandi spiriti, come Sant’Agostino, San Tommaso, Pascal, ma oggi è inammissibile... Si è prodotta una lenta evoluzione dell’intendimento, e io suppongo che Kant c’entri per qualche cosa». (Che Kant c’entri, e più ancora Hegel, è indubitato; ma era pre-kantiano anche Celso, il quale - come vedemmo (§195) - faceva lo stesso identico ragionamento del Couchoud). Non resta dunque che ricorrere all’ipotesi perfettamente contraria a quella del Loisy; e infatti il Couchoud l’accetta, concludendo che «Gesù non è un uomo progressivamente divinizzato, ma un Dio progressivamente umanizzato». [Facciamo presente che stiamo citando gli studi critici dell’Abate Giuseppe Ricciotti su tutti questi autori del passato che, purtroppo per loro, deliravano, ndR]. Prosegue ...

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.

Comunicato numero 101. I razionalisti e la vita di Gesù (Quarta parte)

Stimati Associati e gentili Sostenitori, la scorsa settimana abbiamo festeggiato il numero 100 del nostro settimanale: Dio sia benedetto! Quanto tempo ci dona il Padre Eterno per consentirci di riparare, con le buone opere, ai peccati commessi e di fare penitenza. Anche oggi andiamo a studiare le forbite ricerche del Ricciotti sulle tante «Interpretazioni razionaliste della vita di Gesù». Il libro utilizzato è: «Vita di Gesù Cristo» - Imprimatur 1940, 7a Edizione, Rizzoli & C. Editori, Milano e Roma, 1941 - dell’Abate Giuseppe Ricciotti: riposi in pace.

• § 208. Un efficace attacco contro la dominante Scuola liberale fu mosso nel 1901 da W. Wrede col suo studio sul Segreto messianico nei Vangeli. Base delle costruzioni di quella Scuola era specialmente il Vangelo di Marco, ritenuto più antico e primitivo, e quindi più fedele nel delineare il vero Gesù storico; il quale avrebbe predicato una religione tutta interna e personale, senza però preoccuparsi - come vorrebbero specialmente gli altri Vangeli - di fondare una stabile società esterna, senza attendere un regno di Dio visibile, e tanto meno attribuirsi un’origine soprannaturale. Senonché il Wrede mostrò che il Gesù delineato in Marco, se è storico sotto certi aspetti, sotto altri non è meno «soprannaturale» di quello dei restanti Vangeli, ed è egualmente incaricato di una missione divina e con piena coscienza della sua messianità fin dal principio; perciò il Wrede suppose che, in Marco stesso, alla figura del Gesù storico sia già stata sovrapposta quella del Gesù dogmatico, e il collegamento delle due figure contrastanti sia stato ottenuto mediante l’artificio del «segreto», che Gesù avrebbe serbato per un certo tempo sulla sua qualità di Messia. Ora, questo parziale ritorno alle conclusioni negative di Bruno Bauer minava quel tanto di base oggettiva che la Scuola liberale aveva ancora lasciato alla storicità di Gesù, ed a cui essa teneva moltissimo; ma tanto più difficile era a detta Scuola difendersi dal nuovo assalto, in quanto la coerenza logica non era certo la dote di cui difettasse lo studio del Wrede (come non ne avevano difettato quelli del Bauer), il quale in sostanza partiva dagli stessi principii filosofici ed applicava gli stessi metodi critici della Scuola liberale.

• § 209. Ma quando apparve lo studio del Wrede già si era delineata e prendeva sempre più forza un’altra corrente, che doveva finire col mettere alle strette la Scuola liberale. Nel 1892 Giovanni Weiss, figlio del liberale conservatore Bernardo (§ 204), aveva pubblicato un breve studio circa La predica di Gesù sul Regno di Dio (riapparso molto ampliato nel 1900), in cui dava il massimo rilievo ad un elemento che, nelle precedenti ricerche sulla biografia di Gesù e sul cristianesimo primitivo, era stato toccato solo incidentalmente e superficialmente, cioè l’elemento escatologico. In realtà, di escatologia giudaica si erano occupati a parte già l’Hilgenfeld (1857), il Colani (1864), il Weiffenbach (1873), il Volkmar (1882), il Baldensperger (1888, 1892, 1903), e tutti, salvo il primo, si erano posti il problema delle relazioni fra l’insegnamento di Gesù e l’apocalittica contemporanea, risolvendolo in vari modi; Giovanni Weiss, ritornandovi sopra, lo spiegò considerando come quintessenza della dottrina di Gesù le idee escatologiche contenute nell’apocalittica giudaica dei suoi tempi (§ 84 segg.). Il Gesù storico, diceva in sostanza il Weiss, non era stato già quel pastore protestante, illuminato dall’illuminismo e nutrito di filosofia kantiana, quale l’aveva dipinto la Scuola liberale: egli era stato figlio dei suoi tempi, ne aveva condiviso concetti e speranze, e ne aveva anche preso in prestito espressioni sbocciate da quelle speranze. Ora, ai tempi di Gesù, il mondo giudaico attendeva spasmodicamente un grandioso intervento di Dio che distruggesse d’un colpo l’impero del male stabilitosi sulla terra e lo sostituisse con un’epoca di giustizia, di pace e di felicità. Questo era il «Regno di Dio» da attuarsi per mezzo del «Figlio dell’uomo», il cui concetto, già adombrato nel canonico libro di Daniele, è sempre più sviluppato nei successivi libri apocrifi d’indole apocalittica: questo stesso Regno, in sostanza, sarebbe stato anche l’oggetto della predicazione di Gesù. Ma siffatto «Regno di Dio» Gesù non avrebbe potuto, né voluto, fondare: egli lo avrebbe solo annunziato come imminente, quale subitanea palingenesi grandiosa (improvvisa rigenerazione, ndR). Tuttavia, allorché egli vide respinto il suo annunzio dai Giudei contemporanei, si sarebbe convinto che la sua morte avrebbe affrettato l’avvento del Regno, che essa sarebbe stata per lui il ponte di passaggio per entrare nella gloria messianica, che quindi egli stesso come «Figlio dell’uomo» e come Messia sarebbe tornato sulle nuvole del cielo per giudicare gli empi e i giusti, e ad inaugurare il regno eterno di questi ultimi. Pervaso da questa aspettativa e tutto vibrante per essa, Gesù avrebbe anche predicato una dottrina morale; ma fu una morale provvisoria, interamente subordinata all’imminente palingenesi e che si potrebbe rassomigliare al regolamento momentaneo, improntato lì per lì, per gente rimasta su una nave che affondi o dentro un palazzo che bruci: secondo Gesù, infatti, affondava e bruciava il mondo intero. La vera morale stabile, giammai predicata da Gesù - essi sostengono - doveva essere quella del futuro Regno.

• § 210. Il libretto del Weiss aveva prodotto grande impressione sui dotti; tuttavia il seme da lui gettato non germogliò propriamente che alcuni anni più tardi, forse perché mancò a bella prima il coraggio per trarre le ultime conseguenze da siffatta ipotesi: essa in realtà, se cancellava totalmente l’oleografia di un Gesù spiritualista moraleggiante dipinta dalla Scuola liberale, la sostituiva con il ritratto di un autentico esaltato o, come allora si disse per eufemismo, di un «illuminato». Ma, nello stesso anno che apparve il già visto studio del Wrede, usci uno Schizzo della vita di Gesù, in cui l’autore, A. Schweitzer, partendo da una ricerca sul segreto di Gesù circa la propria messianità e la sua futura passione, in parte contraddiceva ai risultati ottenuti dal Wrede, e in parte li sviluppava ed integrava. L’idea fondamentale dello Schizzo fu ripresa e ampliata largamente dallo stesso Schweitzer, nel 1906, con una storia delle ricerche sulla vita di Gesù, intitolata Dal Reimarus al Wrede, riapparsa in una nuova edizione nel 1913; ivi l’autore, dopo aver fatto un’acuta ed erudita disamina dei precedenti sistemi, propugna in pieno il sistema escatologico. Mentre il Weiss aveva ritrovato l’idea escatologica soltanto nella dottrina di Gesù, lo Schweitzer la ritrova anche come principio animatore di tutta la sua vita e condotta; ciò spiega, secondo Schweitzer, la doppia figura contrastante di Gesù che il Wrede aveva scorto in Marco, e che corrisponderebbe al Gesù predicatore escatologico e al Gesù attore escatologico. Gesù attore escatologico (che corrisponderebbe al Gesù «soprannaturale» di Marco) è convinto della propria messianità, ma da principio vuole velarla di «segreto» perché, secondo una diffusa opinione, l’atteso Messia doveva compiere la sua carriera terrena ignoto e spregiato: perciò anche egli predica ricorrendo a parabole, per manifestare la verità ma senza poter essere ben compreso. Tuttavia il Regno tarda a venire, non essendo comparso neppure quando Gesù invia gli Apostoli in missione nelle città d’Israele (Matteo, 10, 23); allora Gesù si convince che la suprema «prova» richiesta da Dio prima dell’avvento del Regno è, non già estesa a tutto il popolo, ma riservata a lui solo, e in tale persuasione s’avvia a Gerusalemme per affrontarvi la morte, sicuro che essa apporterà la salvezza provocando la venuta del Regno. Davanti ai suoi ultimi giudici, infatti, Gesù svela apertamente il segreto, affermando di essere il Messia, e per questo è condannato a morte. La sostanza di questa teoria, già nel 1903, era difesa così decisamente da uno studioso appartenente allora al campo cattolico, da esser presentata come conditio sine qua non per affermare l’esistenza storica di Gesù: «Se è certo che, tutto ciò che nel Vangelo esprime o suppone l’imminenza del giudizio di Dio, non risalga al Salvatore, quasi tutta la tradizione sinottica dovrà essere abbandonata. La predicazione del Cristo, nei tre primi Vangeli, non è altro che un avvertimento a prepararsi al giudizio universale che sta per compiersi e al Regno che sta per venire... Il Vangelo non era il Vangelo, non era “la buona novella”, se non perché annunziava questo avvenimento. Io vado anche oltre, ed affermo senza paura che Gesù non è stato condannato a morte se non per questo motivo. Se egli non avesse predetto che il regno della carità, Pilato non ci avrebbe trovato un grave inconveniente. Ma l’idea del regno messianico, per quanto fosse spiritualizzata nel Vangelo di Gesù, non lasciava d’implicare in un avvenire prossimo una rivoluzione generale delle cose umane e la regalità del Messia. Togliete dal Vangelo l’idea del grande avvenimento e quella del Cristo-Re, e io vi sfido a provare l’esistenza storica del Salvatore, giacché avrete tolto ogni senso storico alla sua vita e alla sua morte» (A. Loisy, Autour d’un petit livre, pagg. 69-70). Questa teoria, sviluppata pienamente nell’accordo tra la dottrina e l’azione di Gesù («escatologismo conseguente»), sconvolse le posizioni tenute fino allora dai critici, e moltissimi l’accettarono come la vera risoluzione finalmente raggiunta nel problema di Gesù. Nella lenta e conservatrice Inghilterra essa incontrò una inaspettata calorosa simpatia. Nei paesi cattolici fu largamente diffusa dalla corrente modernista, presso cui ebbe cordiali accoglienze. Il Loisy, principale rappresentante di questa corrente, pur non accettando la teoria in tutte le sue parti (e di ciò gli fece un appunto lo Schweitzer), ne prese moltissimi elementi, soprattutto riguardo alla dottrina di Gesù, e li contrappose alle conclusioni dell’Harnack col suo celebre (nel senso di famigerato, ndR) libretto su L’evangile et l’Eglise (1902) difeso col successivo Autour d’un petit livre (1903); gli stessi elementi applicò poi egli metodicamente nei suoi commentari al IV Vangelo (1903), a cui negava ogni valore storico, e ai Vangeli sinottici (1907-1908), tutte opere diffuse nei paesi latini molto più che in quelli tedeschi.

• § 211. Passato il primo momento di entusiasmo, cominciarono anche le critiche riguardo alla nuova teoria. La prima critica fu sul metodo con cui la nuova teoria trattava le fonti evangeliche, e che - sebbene diretto da norme diverse - rassomigliava moltissimo al metodo già applicato dalla Scuola liberale. I liberali avevano sorvolato in maniera sbrigativa su tutto ciò che i Vangeli riferivano, non solo circa i miracoli di Gesù, ma anche circa le sue affermazioni di messianità, di soprannaturalità, di figliolanza divina, ecc.: tutto ciò doveva essere o interpretato in senso blando ed evanescente, oppure sfrondato senz’altro e gettato via, come frascame aggiunto attorno alla figura del Gesù storico dalla posteriore elaborazione cristiana. Ora, gli escatologisti facevano altrettanto, con la sola differenza che sfrondavano e gettavano via come frascame quasi tutto ciò che i liberali avevano conservato, e conservavano invece gelosamente il frascame dei liberali. La strada era la stessa, sebbene battuta in senso inverso. E in realtà i Vangeli, se attribuiscono a Gesù la predicazione dell’imminente regno di Dio, gli attribuiscono nello stesso tempo e sullo stesso piano il proposito di fondare una precisa religione, di costituire una stabile società visibile, di mettere a capo di essa persone da lui stesso scelte, di prescrivere ad essa riti religiosi ben definiti e da osservarsi scrupolosamente in futuro, di fornirla di un codice morale ben distinto da ogni altro e del tutto nuovo, di aver curato la formazione di discepoli con la precisa mira di propagare illimitatamente questa sua società, insomma di aver fatto queste e molte altre cose che presuppongono inevitabilmente una stabilità duratura della sua società visibile. Ora, è evidente che una persona la quale aspetti - come il Gesù degli escatologisti - di giorno in giorno e di ora in ora la frantumazione del mondo intero, non ha né tempo né voglia di spingere lo sguardo tanto nel futuro, al punto di preoccuparsi di ciò che avverrà nelle future generazioni e di fondare per esse una società: né quelle generazioni né quella società potranno giammai esistere, perché domani il mondo andrà in pezzi. Questa elementare considerazione fu ammessa francamente anche dagli escatologisti; i quali perciò, coerentemente ai loro principii, tolsero di mezzo la difficoltà sfrondando e gettando via tutte le affermazioni evangeliche in questione: nulla vi sarebbe in esse che possa realmente riportarsi al Gesù storico, ma tutte sarebbero creazioni del cristianesimo primitivo attribuite falsamente a lui. Né questo sfrondamento si limitò ad aforismi e a detti isolati, attribuiti a Gesù: c’erano di mezzo, infatti, anche le parabole a cui Gesù ricorreva spessissimo nella sua predicazione, e che in maniera più o meno esplicita svelano l’idea di una stabilità duratura preannunziata da Gesù riguardo alle sue istituzioni; perciò anche le parabole evangeliche furono sottoposte, specialmente da parte del liberale radicale Jülicher seguito dal Loisy (§ 360, nota seconda), a un metodico lavoro di disarticolazione che, dopo avere distaccato in esse il nucleo originario attribuibile a Gesù, ne rigettò i suddetti preannunzi di stabilità come aggiunte intrecciatevi dalla successiva tradizione. In conclusione anche gli escatologisti, come i liberali, «estraevano» dai Vangeli una loro particolare figura di Gesù, ripudiando tutti quei lineamenti ch’erano offerti sì dai Vangeli, ma che non s’addicevano a quella figura. Ora, quale garanzia assicurava che questa selezione degli escatologisti fosse meno arbitraria e meno soggettiva di quella dei liberali?

• § 212. A questa preliminare critica di metodo s’aggiunse subito l’altra anche più grave, dell’argomentazione storica. Giacché il fulcro della teoria escatologica erano le idee apocalittiche predominanti ai tempi di Gesù, queste idee divennero oggetto di nuovi e più accurati studi; si ricercò se veramente il giudaismo dei tempi di Gesù fosse tutto sconvolto dall’attesa dell’imminente fine del mondo e di una palingenesi totale; se queste idee, testimoniate qua e là da Apocrifi ch’erano stati addotti, rappresentassero uno stato d’animo assai diffuso e predominante, oppure fossero patrimonio di una minoranza numerica e morale: se, a fianco a queste idee, che potevano essere di estrema sinistra, non ve ne fossero altre da assegnarsi al centro o alla destra. Gli escatologisti si erano limitati, nelle loro ricerche, agli Apocrifi apocalittici (§ 84 segg.), trascurando quasi del tutto l’immensa tradizione rabbinica, i cui primi dati risalgono più in su dell’Era Cristiana o le sono contemporanei: e tale incompiutezza d’indagine poteva essere assai dannosa, tanto più che nuovi raffronti avevano messo in luce sempre più chiara quanto il metodo didattico di Gesù fosse somigliante a quello dei rabbini suoi contemporanei. Per conoscere quindi il pensiero di costoro s’investigò a fondo il gran mare degli scritti rabbinici, e in queste ricerche ogni altro lavoro fu superato dal voluminosissimo commento al Nuovo Testamento di (Strack e) Billerbeck (voll. I-IV, 1-2, 1922-1928 che illustra i singoli passi neotestamentari con tutti i relativi testi del Talmud, dei Midrashīm e degli altri scritti rabbinici, aggiungendovi trattazioni a parte su argomenti più importanti: il quale commento incontrò accoglienze freddissime e quasi ostili dagli escatologisti, per ragioni ben comprensibili. Ora, da questi contributi nuovi risultò che la teoria escatologica aveva troppo semplificato e troppo generalizzato. È vero che in alcuni Apocrifi, ad esempio nell’Assunzione di Mosè di circa l’anno 10 dopo Cr., si identifica regno di Dio, messianismo ed escatologia, attendendosi da un momento all’altro la loro violenta attuazione in mezzo alla catastrofe mondiale, ma queste visioni costituivano il patrimonio e il conforto di persone religiosamente sfiduciate e politicamente disperate, che non scorgevano via d’uscita dalle condizioni tristissime del giudaismo contemporaneo se non in una distruzione totale seguita dalla palingenesi. Senonché, già il carattere cosi’ radicale di siffatte opinioni indurrebbe a supporre che esse non potevano rappresentare l’opinione predominante e comune; la quale difatti è rispecchiata sia in altri Apocrifi, sia specialmente nelle sentenze del Talmud e dei Midrashīm. I più, cioè, ritenevano che il mondo o «secolo» presente, tutto malvagità e miseria, doveva essere realmente sostituito da uno futuro di giustizia e felicità, chiamato in ebraico il «secolo veniente»; ma questo secolo futuro non era l’epoca del Messia, come già si era creduto nel passato Israele e come continuavano tuttora a credere i messianisti politici più accesi, bensì era il regno della retribuzione individuale dopo morte, il glorioso regno celestiale, in cui sarebbero stati accolti i fedeli Israeliti dopo la resurrezione e il giudizio universale. Fra i due «secoli» contrastanti, il presente e il futuro, faceva in qualche modo da ponte di passaggio l’epoca del Messia, la quale sarebbe stata di trionfo e di gloria per tutto Israele. Ad ogni modo questo trionfo messianico era del tutto distinto dal «secolo» futuro, ed apparteneva rigorosamente al «secolo» presente, in cui avrebbe costituito una particolare èra, quella dei «giorni del Messia». Riguardo alla durata di questa èra esistevano opinioni diverse, da quella di Rabbi Aqiba che la restringeva a 40 anni, fino a quella di Rabbi Abbahu che la prolungava a 7000 anni, mentre l’opinione più comune stava per 2000 anni: ma l’èra messianica costituiva sempre un periodo ch’era strettamente storico, non già eterno, ch’era strettamente terreno, non già ultraterreno, sebbene per gli Israeliti che vi fossero pervenuti quell’èra costituiva una specie di deviazione dal presente «secolo» malvagio e un preludio al futuro «secolo» beato. Prosegue ...

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.

Comunicato numero 100. I razionalisti e la vita di Gesù (Terza parte)

Stimati Associati e gentili Sostenitori, proseguiamo nell’analisi cristiana, benché critica, di alcune «Interpretazioni razionaliste della vita di Gesù» usando la rigorosa «Vita di Gesù Cristo» - Imprimatur 1940, 7a Edizione, Rizzoli & C. Editori, Milano e Roma, 1941 - dell’Abate Giuseppe Ricciotti: riposi in pace.

• § 202. Gli attacchi più numerosi vennero, naturalmente, da parte dei protestanti conservatori, con a capo l’Hengstenberg, i quali accusavano il Baur di radicalismo demolitore; ma l’attacco più interessante, per chi abbia di mira soprattutto lo svolgimento logico delle idee, fu quello sferrato da un suo quasi omonimo, Bruno Bauer (1809-1882), con cui si assodarono alcuni studiosi olandesi. Costoro, infatti, accusavano il Baur, non già di radicalismo, ma di conservatorismo e di essersi fermato illogicamente a mezza strada. Il Bauer, hegeliano anch’esso, accettava molti principii del Baur, come pure accettava il giudizio dello Strauss che negava ogni base storica al IV Vangelo considerandolo come un’elaborazione mistica; ma, spingendosi avanti, egli si domandò se tale giudizio non doveva essere esteso anche ai tre Sinottici, che lo Strauss aveva parzialmente salvati. Proprio poco prima (1838) il Weisse e il Wilke, indipendentemente tra loro, avevano affermato che, nell’ordine cronologico dei Sinottici, Marco è da considerarsi più antico di Matteo e di Luca, mentre tanto lo Strauss quanto il Baur avevano seguito l’antica idea di un Marco epitomatore di Matteo e Luca; la priorità di Marco fu accettata dal Bauer, che perciò riversò la testimonianza degli altri due Sinottici nel solo Marco, da cui i due sarebbero dipesi. Stabilito ciò, egli negò che fra il IV Vangelo e l’unico Sinottico indipendente (Marco) esistesse una sostanziale differenza quanto al valore storico-documentario; ambedue contengono dati, in quantità più o meno abbondante e di colorito alquanto diverso, ma che sono storici solo apparentemente. Ciò che avrebbero fatto le prime generazioni cristiane, creando inconsciamente il mito secondo lo Strauss, oppure consciamente le varie tendenze di partiti secondo il Baur, lo avrebbe fatto invece da solo il primo Evangelista sinottico, e il suo lavoro poi sarebbe stato ampliato dagli altri tre. Delineata questa teoria, dopo alcune riserve e incertezze, il Bauer dapprima richiamò in dubbio e infine negò l’esistenza storica di Gesù: con ciò egli capovolse il procedimento dello Strauss, in quanto considerò la creazione mitica, non come un prodotto, ma come un produttore della comunità cristiana. Gli scritti del Bauer sul IV Vangelo (1840) e sui Sinottici (1842) gli attirarono nel 1842 la proibizione d’insegnare. Inviperito, egli dapprima si occupò di storia politica, quindi ritornò agli antichi argomenti con metodi sempre più radicali, negando l’autenticità dell’intero epistolario di San Paolo, comprese le quattro Lettere già risparmiate dal Baur. Fini poi elaborando una fantastica ricostruzione fra lo stoicismo e il giudaismo ellenistico. Il Bauer non lasciò, nè poteva praticamente lasciare, una scuola dietro a sé. Ma ciò ha scarsa importanza, mentre ne ha molta la questione della coerenza logica del suo sistema in relazione ai principii da cui parte; si domanda cioè se, ammessi i generici principii filosofici e critici che servono da basi allo Strauss e alla Scuola di Tubinga, non meno che al Bauer, non sia proprio il Bauer lo straussiano più consenguenziario o il tubinghiano più coerente.

• § 203. Dopo lo Strauss e la Scuola di Tubinga, che rappresentarono indirizzi veramente nuovi (e deliranti, ndR) negli studi sulla vita di Gesù e sul cristianesimo primitivo, la critica protestante entrò in un lungo periodo che fu in parte di assestamento e in parte di compromesso. Diradatasi alquanto la tempesta suscitata dalle due scuole, l’ortodossia protestante diffidò per principio d’ogni teoria delineata con originalità nuova, perché le recenti esperienze dimostravano che siffatte teorie frantumavano le basi stesse della fede protestante, poggiata unicamente sulla parola di Dio scritta (e non anche sulla Tradizione, ndR). D’altra parte i teologi protestanti non erano certo disposti a retrocedere sulle antiche posizioni luterane, riducendosi a considerare il Nuovo Testamento semplicemente come un libro ispirato da Dio e come il primo dei libri teologici; queste antiche posizioni, più che per opera di un Reimarus, di un Paulus, di uno Strauss e dei Tubinghiani, erano state minate e rese praticamente insostenibili per opera dell’Illuminismo, di un Kant, di un Hegel e delle altre correnti filosofiche (di falsa scienza, ndR) formatesi nella patria di Lutero. Si aggiunga che, proprio col declino della Scuola di Tubinga, la critica delle origini dei Vangeli entrava in un nuovo periodo. Il IV Vangelo, sebbene non proprio teoricamente, almeno praticamente era tuttora scartato come fonte storica, come già avevano fatto lo Strauss e la Scuola di Tubinga; ma a differenza di costoro, che mettevano come ultimo della serie cronologica dei Sinottici Marco, si cominciò invece a mettere questo brevissimo fra i Sinottici proprio in cima alla serie dei tre (come già vedemmo aver fatto anche il Bauer), per farlo servire insieme con i Logia di Papia quale fonte agli altri due (§ 148). Molti critici poi supposero l’esistenza di un Proto-Marco, che sarebbe stato una forma più antica dell’odierno Marco; qualcuno suppose pure, ma senza incontrare favore, l’esistenza di un Proto-Luca, e anche di un Proto-Giovanni. Ora, questa nuova visione dell’origine letteraria dei Sinottici portò insieme a rialzare di molto le rispettive date: non si parlò più, come avevano fatto lo Strauss e la Scuola di Tubinga, di secolo II inoltrato quale epoca dei Vangeli, ma si risalì complessivamente al secolo I e per taluni scritti si giunse fino all’anno 60 dopo Cristo. Stabilito ciò, la critica protestante aveva una solida base per ricostruire la biografia storica di Gesù senza troppo urtarsi con l’ortodossia luterana. Col rialzo cronologico dei Sinottici, le teorie dello Strauss e del Baur rovinavano in pieno (come del resto i rispettivi autori avevano ipoteticamente concesso); le tre o quattro decine d’anni, che andavano dalla morte di Gesù ai primi scritti confluiti nei Sinottici, erano certamente un periodo troppo angusto per permettere tutto quel lavorìo di «miti» e di «tendenze» ch’era fondamentale nelle due teorie. Infine il nuovo studio minuzioso delle caratteristiche di ciascun Sinottico permetteva di affermare ch’essi dipendono in gran parte da testimoni diretti degli avvenimenti narrati, e che - pur mostrando ciascuno scopi e coloriti diversi - non lasciano scorgere tutto quel complesso di contrastanti «tendenze» ch’erano state attribuite ad essi; e anche queste conclusioni di critica interna rassodavano la nuova base messa a disposizione della critica protestante per una biografia storica di Gesù. Senonché queste conclusioni erano un’arma a doppio taglio: indubbiamente esse erano gradite all’ortodossia protestante, ma non accrescevano forse grandemente le difficoltà di una interpretazione «razionale» dei Vangeli? Confessata o no, la principale mira comune a tutte le teorie elaborate dal Reimarus in poi - anche lasciando da parte gli antichi Celso e Porfirio - era stata quella di spogliare di ogni elemento soprannaturale e miracoloso il contenuto dei Vangeli; adesso invece quel contenuto riceveva dalle ultime conclusioni della critica un nuovo credito, sia per l’antichità sia per l’obiettività degli informatori, e il nuovo credito faceva da baluardo protettivo del soprannaturale. Né è da supporre che, verso questo soprannaturale, i teologi protestanti del paese di Kant e di Hegel fossero in genere meglio disposti dopo il fallimento delle varie teorie dal Reimarus fino alla Scuola di Tubinga: vi furono in realtà dei dotti non ostili al soprannaturale, ma i loro scritti esercitavano influenza più sui fedeli e sui pastori protestanti che non sugli studiosi e sulle università, mentre la maggioranza cercò il compromesso fra i risultati della critica riavvicinatasi alla tradizione e il dogmatismo laico della filosofia imperante. Ne risultò un indirizzo teologico-storico che si esplicò in numerosi tentativi, differenti a seconda delle disposizioni individuali, e che fu designato collettivamente col termine politico allora in voga di Scuola liberale.

• § 204. La Scuola liberale mostra le caratteristiche dei periodi di transizione e degli stati di compromesso. Rinunzia alle posizioni nette e precise di un Reimarus o di un Paulus pur accettandone praticamente varie conclusioni, ma aborrisce anche dalla logicità conseguenziaria di un Bruno Bauer pur ammettendone molti principii; sfugge di solito a fondamentali dichiarazioni preliminari, ma poi le lascia intravedere applicate tacitamente; messa di fronte a questioni decisive costituite dalla spiegazione di determinati fatti, preferisce aggirarle, non pronunciandosi sul fatto in sé e dilungandosi invece sulle opinioni che del fatto si ebbero nell’antichità; col proiettare idee e sentimenti moderni sullo sfondo dei tempi antichi, dice molte cose di cui uno storico non sente affatto bisogno, mentre poi non dice altre cose nettamente affermate dai riaccreditati documenti storici, trovandole in contrasto con idee e sentimenti moderni; non è certo l’erudizione la dote che manchi alla Scuola liberale, ma si può domandare se non le manchi la dote della franchezza. Il protestante radicale Schweitzer, storico di questi studi, deplorava nel 1904 che la teologia contemporanea non fosse «totalmente sincera» (ganz ehrlich) (Von Reimarus zu Wrede, pag. 249). Le biografie di Gesù, e specialmente gli studi critici sui Vangeli, che videro la luce durante questo periodo furono in gran numero e di graduazione diversa. Dalla destra conservatrice rappresentata dallo Zahn e in parte da Bernardo Weiss, si passa al centro in cui emerge H. J. Holtzmann, per finire sempre più verso la sinistra radicale con lo Schenkel, il Beyschlag, il Weizsäcker, il Wellhausen, ecc. La figura di Gesù, quale è tratteggiata o in biografie o in vari studi di critica letteraria, è messa in luce soprattutto sotto l’aspetto psicologico, come quella d’un maestro che avrebbe insegnato niente più che una nuova dottrina morale tutta fondata sul sentimento della paternità di Dio: il regno di Dio annunziato da Gesù avrebbe avuto un senso puramente spirituale interno, o tutt’al più un vago senso escatologico difficilmente precisabile; le affermazioni di Gesù sulla propria qualità di Messia sono volentieri, dai meno conservatori, attenuate o anche eliminate; l’appellativo di «figlio dell’uomo» è spesso interpretato come designazione dell’umanità astratta, o anche come indicazione personale di colui stesso che parla; l’altro appellativo di «figlio di Dio» non può avere che un senso morale, essi dicono, in corrispondenza al concetto della paternità universale di Dio; sulle qualità soprannaturali attribuitesi da Gesù, come pure sui miracoli fisici attribuitigli dai Vangeli, si sorvola liberamente. Queste sono pur con numerose e anche notevoli differenze individuali - le idee seguite più comunemente dai protestanti liberali; sui quali però il non sospetto Renan dà il seguente giudizio (riferito a due soli di essi, ma facilmente estensibile agli altri): «Ammettono, certamente, un Gesù storico e reale; ma il loro Gesù storico non è né un messia, né un profeta, né un Giudeo. Non si sa che cosa abbia egli voluto: non si capiscono né la sua vita né la sua morte. Il loro Gesù è un eroe a suo modo, un essere impalpabile, intangibile. La pura storia non conosce esseri di tal fatta».

• § 205. Nella Scuola liberale spetta il seggio più eminente ad A. von Harnack (1851-1930) per le sue moltissime pubblicazioni sia sul Nuovo Testamento sia sul resto della letteratura cristiana antica, delle quali buona parte ha un valore permanente. Quanto al Nuovo Testamento egli sostenne che i Logia, da cui dipenderebbero i Vangeli di Matteo e di Luca, sono opera dell’apostolo Matteo e composti verso l’anno 50 o anche prima; di poco posteriore sarebbe il Vangelo di Marco; il Vangelo di Luca, come pure gli Atti degli Apostoli, furono scritti dal medico Luca, discepolo di Paolo, non dopo l’anno 63; il IV Vangelo è opera di Giovanni il Presbitero (§ 158), che avrebbe in esso seguito la tradizione di Giovanni l’Apostolo. Nel suo divulgatissimo libro su L’essenza del cristianesimo (1900) l’Harnack riassunse riguardo alla vita e alla dottrina di Gesù le sue opinioni, che concordavano in gran parte con quelle della Scuola liberale; al centro della dottrina di Gesù sarebbe stata l’idea della rivelazione di Dio come padre, da cui si sarebbe sviluppata in Gesù la coscienza di esser Figlio di Dio, e quindi Messia; ma «come egli sia giunto alla coscienza della sua forza, e a quella del dovere e del compito ch’erano conseguenza di quella sua forza, è il suo segreto che nessuna psicologia può spiegare». I miracoli di Gesù furono distribuiti dall’Harnack in cinque categorie, per poter esser man mano eliminati con procedimenti che ricordano in parte quelli del Paulus e in parte quelli dello Strauss: cioè 1) miracoli che sono ingrandimenti di fatti naturali; 2) miracoli dovuti a una proiezione nel concreto o di precetti o di parabole o di processi psicologi vari; 3) miracoli immaginati come avveramento di profezie dell’Antico Testamento; 4) miracoli ottenuti dalla forza spirituale di Gesù; 5) miracoli estranei alle precedenti categorie e la cui spiegazione è irraggiungibile. Ad ogni modo la vera dottrina religiosa di Gesù, del tutto spoglia di dogmi, si mantenne pura e genuina solo durante l’epoca apostolica, egli asserisce; più tardi essa entrò sotto la diretta influenza del pensiero filosofico ellenistico, e di qui sorsero i dogmi e le supercostruzioni speculative.

• § 206. Non appartiene alla Scuola liberale, anzi le si professa avverso, un autore che ebbe risonanza larghissima nel mondo latino cattolico ma piuttosto ristretta in quello tedesco protestante, cioè E. Renan (1823-1892). La sua famosa «Vita di Gesù» che faceva parte di una Storia delle origini del cristianesimo, apparve nel 1863; la 13a edizione, apparsa nel 1867 con talune modificazioni, rimase definitiva per le innumerevoli edizioni e traduzioni successive. Nella questione delle fonti il Renan era relativamente conservatore: Marco rappresenta «il tipo primitivo della tradizione sinottica e il testo più autorizzato», dipendente dalla predicazione di Pietro, sebbene la redazione odierna non corrisponda precisamente alla forma originale; Matteo è costituito dai Logia autentici dell’Apostolo Matteo, ai quali poi è stata aggiunta una raccolta di notizie biografiche su Gesù; il III Vangelo e gli Atti sono di Luca, che avrebbe scritto dopo la distruzione di Gerusalemme dell’anno 70. Nella questione del IV Vangelo il Renan, staccandosi dalla critica tedesca, modificò le sue idee: nella 1a edizione lo attribuì all’Apostolo Giovanni, almeno quanto alla sostanza, mentre nella 3a edizione ne fece autore un discepolo di Giovanni, tuttavia in ambedue i casi attribuì particolare valore storico a questo Vangelo (in perfetto contrasto con la critica tedesca), pur considerandone non autentici i discorsi. Ma, nonostante questa critica relativamente moderata, i risultati pratici raggiunti dal Renan sono negativi, anche più di quelli della Scuola liberale e quasi quanto quelli dello Strauss. Di Gesù, infatti, noi non sappiamo con certezza se non «che è esistito. Che era di Nazareth in Galilea. Che predicò con incanto, e lasciò nella memoria dei suoi discepoli aforismi che vi s’impressero profondamente. I due principali dei suoi discepoli furono Cefa e Giovanni figlio di Zebedeo. Suscitò l’odio dei Giudei ortodossi, che riuscirono a farlo mettere a morte da Ponzio Pilato, allora procuratore della Giudea. Fu crocifisso fuori della porta della città. Si credette poco dopo che fosse risuscitato... Fuori di questo il dubbio è permesso». Questo dubbio, inoltre, si estende a domande così fondamentali come le seguenti: «Si considerò egli Messia?... S’immaginò di far miracoli? Gliene furono attribuiti quand’era vivo?... Quale fu il suo carattere morale?...». Questo scetticismo programmatico non impedì tuttavia al Renan di scrivere una biografia abbastanza voluminosa, traendone il materiale da varie parti. Contrariamente alle biografie tedesche, che erano ricostruzioni fatte in biblioteca da chi non aveva visto né luoghi né costumi, il Renan scrisse la sua durante la missione archeologica che diresse in Fenicia negli anni 1860-1861, e che gli dette occasione di visitare anche la Palestina. In questa visita la storia evangelica, «che da lontano sembra vagare tra le nubi d’un mondo irreale, prese talmente corpo e solidità che mi stupirono. Il sorprendente accordo fra testi e luoghi, la meravigliosa armonia fra l’ideale evangelico e il paesaggio che gli fa da cornice, furono per me una rivelazione. Ebbi davanti agli occhi un quinto Vangelo...». In realtà, a questo «quinto Vangelo» il Renan ricorse molto poco per ciò che riguarda la geografia storica e tanto meno l’archeologia (che, del resto, ai suoi tempi erano appena agli inizi), e quando vi ricorse per queste materie non si salvò da gravi abbagli; ad ogni modo chi ha visitato la Palestina dopo di lui, cioè dopo che vi sono stati compiuti molti ed importanti scavi, e l’ha visitata più a lungo di lui e con più agio e comodità che ai tempi di lui, vi ha certo ritrovato parecchie cose, ma non già un «quinto Vangelo», almeno se la fantasia del successivo visitatore era calma e tranquilla. Ma gli è che il Renan visitò il paese di Gesù più come artista che come storico, prendendo come dati oggettivi quelle ch’erano semplici proiezioni soggettive: cosicché quando egli esclamava: «Per comprendere ciò bisogna essere stato in Oriente!», ricorreva in realtà a un argomento che ai suoi tempi era incontrollabile per la massima parte degli studiosi, mentre quasi sempre era un’importazione ideale da lui fatta nell’Oriente.

• § 207. Del resto, il metodo con cui egli trattò il suo «quinto Vangelo» è analogo a quello con cui trattò gli altri quattro. Dal momento che i dati sicuri della biografia di Gesù erano quei pochissimi testé elencati, non rimaneva che ricorrere alla ricostruzione psicologica: la quale infatti fornì al suo libro molto altro materiale, e materiale ben appropriato al carattere di cui il Renan aveva rivestito il suo biografato. In realtà, “chi vorrebbe fare di Gesù un sapiente, chi un filosofo, chi un patriota, chi un uomo di bontà, chi un moralista, chi un santo. Egli non fu nulla di tutto questo. Fu un incantatore», afferma Renan. Questo «incantatore», tuttavia, ha fondato una religione, anzi non una ma la religione: «Gesù ha fondato la religione nell’umanità, come Socrate vi ha fondato la filosofia... Gesù ha fondato la religione assoluta, non escludendo niente, non determinando niente, salvo il sentimento»; se poi scendiamo più al particolare, troviamo che «un culto puro, una religione senza sacerdoti e senza pratiche esteriori, poggiata tutta sui sentimenti del cuore, sull’imitazione di Dio, sul rapporto immediato della coscienza col Padre celeste, erano le conseguenze di tali principii», quelli cioè predicati da Gesù (egli asserisce). Come ognuno vede, ci ritroviamo in sostanza davanti alla figura di Gesù tracciata da quella Scuola liberale che il Renan riprovava; qualche decennio più tardi l’Harnack presenterà un Gesù ben poco differente da questo (§ 205). Concordano anche, in gran parte, le idee attribuite a Gesù circa il suo stesso essere e circa i punti fondamentali della sua missione. «Gesù non espresse mai l’idea sacrilega ch’egli fosse Dio... Egli è figlio di Dio: ma tutti gli uomini sono o possono divenire tali in gradi diversi. Tutti ogni giorno devono chiamar Dio loro padre... Il titolo di “Figlio di Dio”, o semplicemente di “Figlio”, diventò per Gesù un titolo analogo a “Figlio dell’uomo” e, come questo, sinonimo di Messia». «Titolo da lui preferito era quello di “Figlio dell’uomo”; titolo di umile apparenza, ma in rapporto con le speranze messianiche. Tale è il nome con cui indicava se stesso: onde in bocca sua “Figlio dell’uomo” era sinonimo di “Io”, che gli ripugnava d’usare». Quanto all’elemento soprannaturale e miracoloso dei Vangeli, il Renan fin dal principio fa una netta dichiarazione di metodo: chi studia, cioè, questi documenti, «non deve preoccuparsi né di edificare né di scandalizzare, né di difendere i dogmi né di abbatterli»; tuttavia, poco dopo questa dichiarazione, egli stabilisce il seguente assioma a cui attribuisce tutta la fermezza di un dogma laico: «che i Vangeli siano in parte leggendari è cosa evidente, perché’ sono pieni di miracoli e di soprannaturale». D’altra parte egli afferma che «si mancherebbe al buon metodo storico se, badando troppo alle nostre ripugnanze..., volessimo sopprimere i fatti che agli occhi dei contemporanei apparvero più cospicui», cioè miracolosi; è anzi regolare che ad un innovatore religioso come Gesù si attribuissero miracoli, tanto che «il massimo miracolo sarebbe stato ch’egli non ne avesse fatti». Ad ogni modo il Gesù del Renan, costretto dalle circostanze, «non divenne taumaturgo che assai tardi, e molto a malincuore»; scrive ancora: «... si può ben credere che la reputazione di taumaturgo non l’avesse, ma gli venisse imposta: se egli non resistette molto ad accoglierla, nulla fece però per aiutarla». Venendo però alla conclusione pratica, tutti i miracoli sono eliminati, ricorrendo volta per volta ai precedenti metodi o dello Strauss, o del Paulus, e talvolta del Reimarus, che il Renan applica servendosi anche della sua norma che «è necessario sollecitare dolcemente i testi». In primo luogo «su cento racconti soprannaturali ve ne sono ottanta nati interamente dall’immaginazione popolare»; gli altri venti casi, che rimangono, sono eliminati facendo appello di solito alla mitezza di Gesù, che valeva da eccellente farmaco, giacché «la presenza di un uomo superiore che tratti dolcemente il malato, e lo assicuri della guarigione con qualche segno sensibile, è spesso un rimedio decisivo». All’efficacia di questo farmaco vengono sottratti, naturalmente, casi come quello della resurrezione di Lazzaro; per spiegare questo caso, si propongono insieme l’ipotesi di una sincope passeggera e quella del trucco da parte delle sorelle di Lazzaro, e più tardi vi si aggiunge l’ipotesi di un malinteso (§ 493). Insomma, anche nella questione dei miracoli evangelici, il Renan era vicino alla riprovata Scuola liberale ben più di quanto egli credesse. L’incomparabile venustà dello stile letterario assicurò alla «Vita» del Renan una diffusione mondiale, che le massicce e asmatiche «Vite» tedesche non raggiunsero neppur lontanamente; tuttavia la dotta Germania, che prima del 1870 era apparsa al Renan come «un tempio, in cui tutto è puro, elevato, morale, bello e commovente», fu piuttosto ingrata verso questo suo ammiratore d’oltre Reno, non prendendo affatto sul serio il suo scritto e seguitando invece tranquillamente per la sua strada. Prosegue ...

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.

Rinnovo tessera e nuove iscrizioni anno 2018

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Dio benedica tutti i benefattori!

Comunicato numero 99. I razionalisti e la vita di Gesù (Seconda parte)

Stimati Associati e gentili Sostenitori, torniamo ad analizzare criticamente alcune «Interpretazioni razionaliste della vita di Gesù» usando la rigorosa «Vita di Gesù Cristo» - Imprimatur 1940, 7a Edizione, Rizzoli & C. Editori, Milano e Roma, 1941 - dell’Abate Giuseppe Ricciotti: riposi in pace.

• § 198. Su quest’ultima via (quella delle interpretazioni fisico-naturali dei miracoli evangelici, ndR) si inoltrò, andando fino in fondo, H. E. G. Paulus, professore ad Heidelberg. Fallito il tentativo di Reimarus di rigettare in massa i fatti miracolosi dei Vangeli, il Paulus li accettò invece integralmente, ma tentò spogliarli dell’elemento soprannaturale mediante una interpretazione naturalistica. Egli cioè distinse nei racconti evangelici il fatto materiale narrato, e il giudizio dato su esso dall’evangelista: il fatto era oggettivamente vero, almeno quanto alla sostanza, mentre il giudizio era falso e doveva essere sostituito. Così, ad esempio, il racconto di Gesù che cammina sulle acque era interpretato come una passeggiata sulla spiaggia, o tutt’al più come un inoltrarsi che Gesù fece nell’acqua profonda solo qualche palmo per avvicinarsi alla barca dei discepoli: la moltiplicazione dei pani era spiegata come dovuta al fatto che Gesù e i discepoli condivisero le cibarie, di cui erano provvisti, con taluni che ne erano sprovvisti, inducendo il resto della turba a fare altrettanto con l’efficacia del loro esempio; le sanazioni di ciechi e di sordi erano dovute a speciali colliri e polveri, di cui Gesù conosceva l’efficacia; la resurrezione di Lazzaro, e quella di Gesù stesso, furono soltanto dei risvegli, perché ambedue non erano veramente morti ma solo in letargo, da cui si riebbero col riposo del sepolcro; e così di seguito. I miracoli di Gesù, insomma, sarebbero stati o atti filantropici, o guarigioni mediche, o effetti provvidenziali del caso, ad ogni modo sempre fatti naturali. Questo metodo, esposto dal Paulus nel suo «Commento ai tre primi Vangeli» (1800-1804) e nel «Manuale esegetico» (1830), e insieme applicato praticamente per la sua «Vita di Gesù» (1828), voleva essere una spiegazione «razionale» dei fatti evangelici. Di qui il nome di «razionalismo» dato al metodo stesso; il cui vero iniziatore però fu il già visto Semler, mentre il Paulus non ne fu che l’ampio divulgatore. (Anche oggi molti studiosi negatori del soprannaturale seguitano ad applicare a questo solo metodo il termine di «razionalismo», mentre sarebbe più esatto quello di «naturalismo» conforme all’indole stessa del metodo; per gli studiosi cattolici, invece, «razionalismo» è più genericamente il metodo che nega il soprannaturale). Notevole è il fatto che il Paulus fu di facile contentatura nella questione dell’origine dei Vangeli, attribuendoli senz’altro agli autori indicati dalla tradizione. Del resto questa sua arrendevolezza si spiega facilmente, giacché a lui premeva aver dei «fatti» sicuramente attestati da autori molto antichi; egli poi avrebbe provveduto a sbarazzarli dagli antichi «giudizi», passandoli alla trafila del suo sistema.

• § 199. Il metodo del Paulus colpì, non già per la sua ingegnosità, ma per la sua ingenuità, e la reazione ad una ingenuità così colossale venne immediatamente. Già nel 1832 lo Schleiermacher dettava quelle lezioni universitarie, da cui fu estratta e pubblicata postuma la sua «Vita di Gesù» (1864) d’indole più filosofica che storica, e che rappresentò un compromesso fra l’ortodossia protestante e la negazione del soprannaturale; in quel tempo stesso, poi, D. F. Strauss stava elaborando un sistema del tutto opposto a quello del Paulus, pur mirando allo stesso scopo di lui, cioè ad eliminare il soprannaturale dai Vangeli. Su questo punto lo Strauss è di una lealtà e di una franchezza singolari, confessando apertamente che se i Vangeli sono fonti totalmente storiche, il meraviglioso non si può sopprimere dalla vita di Gesù, se invece il miracolo e la storia sono fra loro incompatibili, i Vangeli non possono essere più fonti storiche. Ma allo Strauss parve che tentare di sopprimere l’elemento miracoloso dai Vangeli col metodo razionalista-naturalistico del Paulus fosse una sciocca goffaggine, e di quel metodo egli fece in realtà una critica così serrata e sensata che valse per una sentenza di morte; egli quindi credette poterlo sostituire, per ottenere lo stesso risultato, ricorrendo al metodo razionalista-idealistico, cioè alla teoria del «mito» d’ispirazione hegeliana ch’egli applicò nella sua «Vita di Gesù» (Ia edizione, 1835-1836). Secondo lo Strauss, il mito è un puro concetto ideale, espresso però sotto forma d’un fatto storico riferentesi alla vita di Gesù: quindi il valore del mito non è già nel «fatto» narrato, bensì nell’«idea» racchiusa in quel fatto apparente, e velatavi dentro secondo il simbolismo e l’immaginativa degli antichi. Questa teoria del mito non è però applicata illimitatamente, giacché lo Strauss non dubitò affatto dell’esistenza storica di Gesù e dei principali dati della sua biografia: solo che nei Vangeli l’elemento mitico, formatosi sotto l’influenza di idee messianiche dell’Antico Testamento, si trova mescolato con quello storico, ed è ufficio dello studioso critico distinguere i due elementi. Per ottenere questa distinzione le norme fissate dallo Strauss sono specialmente le seguenti. In primo luogo - come era da aspettarsi - è mitico tutto ciò che riveste carattere miracoloso o contrario alle leggi d’evoluzione storica; parimenti mitici sono i fatti presentati come rispondenti ad anteriori concetti religiosi (avveramenti di profezie, di aspettative messianiche, ecc.); risentono pure del mito i passi poetici e quelli oratorii di notevole ampiezza, come anche le narrazioni che mostrano divergenze da altre d’eguale argomento. Applicando queste norme, ed altre secondarie, è chiaro che poco o nulla si salva dei Vangeli come documenti storici della biografia di Gesù: difatti la «Vita di Gesù» dello Strauss porta a risultati quasi totalmente negativi, salvando la generica esistenza storica del personaggio e pochi tratti particolari; per tutto il resto il Gesù dei Vangeli non è un Gesù storico, ma un Cristo ideale, disegnato dalla collettività delle prime generazioni cristiane, che crearono tale figura mitica elaborando inconsciamente e senza una mira predeterminata alcuni pochi dati storici. Quanto alle origini dei Vangeli, lo Strauss non fece particolari ricerche, e accettò in complesso le idee predominanti ai suoi tempi fra i critici protestanti: i tre Sinottici, dei quali il più antico è Matteo, rappresenterebbero una tradizione contraria al IV Vangelo, e quest’ultimo non può essere impiegato come fonte storica della biografia di Gesù. Ma la teoria dello Strauss esigeva per se stessa che si lasciasse, tra la morte di Gesù e la composizione dei Vangeli, un ampio spazio di tempo necessario alla formazione di quei miti, la cui elaborazione è certamente impossibile a compiersi in pochi anni; e lo Strauss, coerentemente, fa scendere la composizione dei Vangeli al secolo II molto inoltrato. Ma egli si decide a ciò, non già per testimonianze storiche o critico-letterarie, bensì solo per esigenze della sua filosofica teoria, giacché onestamente confessa che questa cadrebbe in rovina se i Vangeli fossero stati composti entro il primo secolo. Nelle successive edizioni del suo scritto lo Strauss dapprima temperò alquanto le sue negazioni, poi ritornò sulle sue primitive posizioni. Trent’anni dopo, con la nuova «Vita di Gesù per il popolo tedesco» (1864), fu meno radicale, dipingendo un ritratto del biografato che si avvicinava al tipo di Gesù del protestantesimo liberale.

• § 200. La teoria dello Strauss, pur fra clamorose proteste, fece un’impressione duratura soprattutto per il ricorso al Cristo idealizzato, il quale procedimento non fu più abbandonato in sostanza dalla successiva critica protestante; ma la teoria, esaminata più da vicino nei suoi particolari, apparve subito ispirata troppo a preconcetti filosofici e troppo poco alla realtà storica. Tutto quel lavorìo di incosciente trasformazione mitica da parte delle prime generazioni cristiane era in armonia con quanto lasciano intravedere i più antichi documenti di quelle generazioni? E se i Vangeli sono alla loro volta emanazioni di quelle generazioni, non bisognava in linea preliminare rendersi conto dello stato d’animo di quelle generazioni, per poi passare a giudicare il valore storico dei Vangeli emanati da esse? Non è forse regolare dapprima rendersi conto della Firenze del 1300, e del suo sfondo politico e culturale, e del «dolce stil nuovo», e delle vicende personali dell’Alighieri, e solo dopo ciò passare a intendere e giudicare la «Divina Commedia»? Ora, di tutto questo lavoro preliminare non si era affatto occupato lo Strauss, che si era racchiuso dentro i quattro Vangeli canonici armato solo delle sue teorie filosofiche, e considerandoli quasi avulsi dal mondo spirituale che li ha prodotti. Allo Strauss pertanto si contrappose F. C. Baur, già maestro di lui e fondatore della nuova Scuola di Tubinga (distinta dall’antica, che aveva difeso le posizioni dell’ortodossia protestante contro i Deisti); egli quindi, che già dal 1825 in poi aveva pubblicato studi d’argomento generico filosofico-religioso ispirati alle teorie dello Schleiermacher, specialmente dal 1835 fece oggetto delle sue ricerche le vicende del cristianesimo lungo il secolo I, senza però affrontare in pieno una biografia di Gesù, e ne espose i risultati in numerosi scritti e soprattutto in quello su «Paolo apostolo di Gesù Cristo» (1845). Staccatosi dallo Schleiermacher e divenuto verso il 1830 seguace ardente, non meno che lo Strauss, della filosofia hegeliana, di questa il Baur si servì d’allora in poi per vivificare la storia, la quale - com’egli apertamente confessava - gli rimaneva «eternamente morta e muta» senza la filosofia: da Hegel egli prese il principio del «triplice processo», costituito da tesi-antitesi-sintesi, che applicò rigorosamente alla storia del cristianesimo apostolico. In questo la tesi fu rappresentata dal partito petrino, che metteva capo a Pietro fiancheggiato da Giacomo e Giovanni e che riassumeva la corrente giudaico-cristiana di tipo particolaristico; l’antitesi fu rappresentata dal partito paolino, che metteva capo a Paolo e riassumeva la corrente ellenistico-cristiana di tipo universalistico; dal contrasto fra tesi e antitesi sorse la sintesi, rappresentata dalla Chiesa cattolica, che fu un compromesso conciliativo fra le due tendenze rimastevi ambedue parzialmente assorbite. Il petrinismo insisteva sull’idea giudaica del messianismo e sull’osservanza dei minuziosi precetti della legge giudaica; il paolinismo insisteva sull’universalità della salvezza e sulla fede; la Chiesa cattolica, sotto la pressione dello gnosticismo e delle altre eresie del secolo II, assorbì in sé le due tendenze contemperandole insieme.

• § 201. Non meno della teoria mitica dello Strauss, questa teoria delle «tendenze» aveva bisogno di un ampio periodo di tempo in cui fossero potuti sorgere i contrastanti partiti e gli scritti che li rappresentano; inoltre, poiché fra i più antichi scritti del cristianesimo ve ne sono parecchi che non s’accordavano affatto con la teoria delle «tendenze» bisognava in linea preliminare dare spiegazione anche di questi scritti irriducibili. Il Baur, coerentemente al suo sistema, fece scendere i Vangeli a epoca tardiva, e insieme respinse come non autentici gli scritti irriducibili. Il Vangelo di Matteo sarebbe stato composto non prima dell’anno 130 ed avrebbe per base uno scritto favorevole al partito petrino, cioè il Vangelo degli Ebrei (§ 96), ma ritoccato alquanto a scopo di conciliazione col partito paolino. Il Vangelo di Luca al contrario, che non risalirebbe più in su del 150, avrebbe per base uno scritto del partito paolino, cioè il Vangelo di Marcione (§ 136 fine), ma anche questo ritoccato, naturalmente in senso paolino. Dipendente da questi due, e quindi posteriore ad essi, sarebbe il Vangelo di Marco di tipo neutrale, e che perciò nell’attingere ai due precedenti ha omesso i rispettivi passi tendenziosi. Il IV Vangelo sarebbe di un tempo in cui i contrasti fra le due tendenze erano già sopiti, cioè di circa il 170, e perciò esso può liberamente spaziare in alte speculazioni teologiche. Di spirito conciliativo fra petrinismo e paolinismo sarebbero gli Atti degli Apostoli, composti dopo il 150 (sempre secondo le fantasie di Baur, ndR). Delle quattordici lettere di Paolo sarebbero non autentiche ben dieci, soprattutto per la ragione che in queste non appare il fondamentale contrasto fra petrinismo e paolinismo: le sole autentiche sarebbero Galati, Romani, e le due ai Corinti. La teoria del Baur spostava, propriamente, il campo delle ricerche e proponeva nuovi principii per tali ricerche. Molti studiosi si riunirono attorno al maestro, e per un quindicennio ne applicarono fervorosamente il metodo nei «Theologische Jahrbücher» (1842-1857): in questa schiera si segnalarono specialmente lo Zeller, lo Schwegler, il Köstlin, discepoli personali del Baur, oltre all’Hilgenfeld, Volkmar e molti altri. Non mancò però l’opposizione che fu assai violenta, mossa da più lati del campo protestante, e favorita dalle stesse autorità politiche: tanto che a un certo punto i discepoli, disanimati, cominciarono ad abbandonare il maestro, e, quando nel 1860 il Baur morì, la Scuola di Tubinga era praticamente dispersa.

[Facilmente noteremo che i “nostri” modernisti precipiteranno negli stessi errori, tutti impegnati a piegare le cronache evangeliche ai loro pregiudizi ideologici, nell’intenzione di demolire il Cristo storico, l'istituzione divina della Chiesa e quindi il dogma stesso, ndR]. Prosegue ...

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.

Comunicato numero 98. I razionalisti e la vita di Gesù (Prima parte)

Stimati Associati e gentili Sostenitori, come avrete notato, ogni settimana pubblichiamo anche alcune preghiere al Santo del giorno, talvolta tridui e novene di preparazione ad una particolare festa o ricorrenza. Il settimanale, tuttavia, viene distribuito abitualmente la settimana successiva a quella di pubblicazione, quindi in ritardo rispetto alla liturgia della Chiesa. Abbiamo, pertanto, previsto un archivio on-line utilizzabile con puntualità per gli anni che seguiranno. Questo è il link: CLICCA QUI. Troverete anche numerose preghiere e devozioni da recitare quotidianamente. Sant’Alfonso ci ammonisce: «Chi prega si salva, chi non prega si danna!». Il culto è la manifestazione esterna di onore fatta ad una persona superiore alla quale ci sottomettiamo. Dio è l’Ente Supremo ed è il Signore assoluto dell’universo, quindi a Lui è dovuto il culto in massimo grado. Il culto è dovuto esclusivamente a Dio (latria); la ragione ci fa comprendere la gravità del culto al falso (o ido-latria). Una forma inferiore di culto (dulia) è lecita verso le creature (esempio gli Angeli ed i Santi) in quanto sono legate a Dio e Dio in esse manifesta la Sua virtù. Alla Vergine Maria si presta culto di iper-dulia. Dio si adora, le creature a Lui legate si venerano. La preghiera è un’elevazione dell’anima a Dio per esprimerGli i nostri sentimenti e desideri. La preghiera, come atto di religione, è un dovere ed è un bisogno dell’anima che sente le sue infermità e miserie, quindi si rivolge umilmente a Chi può aiutarla. L’efficacia della preghiera dipende dalla divina misericordia, tuttavia ordinariamente è proporzionata anche alla dignità di chi prega. Non c’è dubbio che nel modo con cui la Chiesa prega e loda il Signore, esprime ciò che crede, come lo crede ed in base a quali concetti onora pubblicamente Dio.

• Adesso una breve comunicazione di servizio. È possibile rinnovare la tessera annuale come Socio o come Sostenitore. Il link per effettuare il rinnovo della tessera è il seguente: CLICCA QUI. Per richiedere una nuova iscrizione è necessario, invece, usare il link: CLICCA QUI . Ordinariamente la campagna di rinnovo e di nuove iscrizioni si concluderà a fine febbraio. Ricordiamo che il Socio riceverà settimanalmente per tutto il 2018, Dio volendolo, anche il nostro periodico di formazione ed informazione «Sursum Corda» tramite il servizio Stampe di Poste Italiane. All’atto del rinnovo o della nuova iscrizione è possibile versare contestualmente la quota tramite Paypal, Postepay, Carta di credito o Bollettino postale precompilato. Sursum Corda è una Onlus che si finanzia esclusivamente con le quote associative, con le donazioni e con delle sporadiche raccolte fondi. Sursum Corda non utilizza denaro pubblico per svolgere la propria attività associativa. Dio benedica tutti i benefattori! Fatta questa comunicazione, veniamo al tema di oggi: «Le interpretazioni razionaliste della vita di Gesù - Parte prima» secondo gli studi del dotto Abate Giuseppe Ricciotti - riposi in pace.

• § 194. Le fonti della vita di Gesù - ossia in sostanza i Vangeli - ricevono la loro incomparabile importanza storica dall’argomento che trattano e dal modo come lo trattano. Loro argomento è l’origine della massima corrente religiosa, che è anche la più radicale innovazione apparsa nella storia della spiritualità umana, cioè il cristianesimo. Questo argomento poi è trattato senza mire polemiche né apparato erudito, ma solo mediante la comunicazione semplice e piana di dati biografici non abbondanti circa il fondatore del cristianesimo, e di punti essenziali poco più abbondanti circa la sua dottrina. Ma se queste notizie evangeliche non sono moltissime, hanno tuttavia un carattere che le distingue nettamente dalle notizie prevenuteci circa altri fondatori di grandi religioni. Taluni di costoro, ad esempio il Buddha e specialmente Zarathustra, sono oggi figure storiche vaghe e dai lineamenti sfumati; le sicure notizie che ne abbiamo distano molto per tempo e per luogo d’argomento, e se da esse si può concludere con certezza l’esistenza storica dei rispettivi personaggi e l’epoca approssimativa in cui vissero, poco più di questi generici lineamenti possiamo estrarne, mentre il vero volto di quei personaggi rimane per noi coperto da un velo più o meno denso. Al contrario le notizie evangeliche circa la vita e la dottrina di Gesù, pur non pretendendo affatto di esaurire l’argomento, sono precise, circostanziate, spesso minuziose; soprattutto poi esse si presentano come provenienti o direttamente da discepoli immediati di Gesù, i quali gli erano stati a fianco lungo tempo e conoscevano bene uomini e cose, o almeno da informatori di poco posteriori, i quali avevano goduto di lunga familiarità con gli stessi discepoli. Oltre a ciò le fonti evangeliche, trattando della vita e della dottrina di Gesù, non fanno in sostanza che esporre tutto un tessuto di fatti miracolosi accentrati attorno a lui. Ora, è vero che pure agli inizi di altre grandi correnti morali si ritrovano fatti meravigliosi di vario genere e di realtà storica indiscutibile, quali l’arcano daimònion che guida occultamente Socrate nel rinnovamento della filosofia greca, oppure le gesta appena credibili di Alessandro Magno che iniziano il travolgente ellenismo; ma fatti di tal genere sono bensì meravigliosi, non già miracolosi, giacché né il fenomeno psicologico di Socrate sembra che entrasse nel campo propriamente fisico, né le gesta di Alessandro, per quanto superassero l’ordinario livello delle imprese umane, risultano in contrasto con le leggi fisiche della natura. D’altra parte, anche limitandosi al campo strettamente religioso, sono esistiti fondatori di potenti religioni, come Mani e Maometto, che non si sono presentati affatto come operatori di miracoli, secondo i più sicuri documenti storici, e non hanno avuto alcuna pretesa di essere taumaturghi. I Vangeli invece, mentre descrivono Gesù come del tutto alieno da risonanti gesta militari o politiche, gli attribuiscono fin dal suo concepimento, per continuare anche dopo la sua morte, ogni sorta di miracoli fisici, compiuti tanto su se stesso quanto su altri uomini, tanto su esseri viventi quanto su corpi inanimati: inoltre ricollegano intimamente siffatti miracoli con la sua missione di fondatore di una nuova religione, presentandoli come prove di quella missione. Da tutto ciò scaturiscono tre conseguenze strettamente concatenate fra loro. Stando cioè alle fonti evangeliche, in primo luogo i fatti e i detti che noi sappiamo di Gesù ci vengono comunicati da persone o contemporanee e familiari a lui, o almeno di poco posteriori ma sempre ottimamente informate; - in secondo luogo, questi nostri informatori attestano fatti strettamente miracolosi; - in terzo luogo, questi fatti sono stati operati a provare la missione religiosa di Gesù. Il passaggio dall’uno all’altro di questi tre punti è spontaneo; il lettore che scorrendo i Vangeli accetta il primo punto, passa inevitabilmente al secondo, e da questo inevitabilmente al terzo salvo che trovi il modo di spezzare uno dei tre anelli della catena. Se la catena non è spezzata il lettore deve finire logicamente con accettare e fare sua propria la religione predicata da Gesù; questo, del resto, è lo scopo apertamente confessato da uno dei Vangeli quando conclude: «Tali cose sono state scritte affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio d’Iddio, e affinché credendo abbiate vita nel nome di lui» (Giovanni, 20, 31).

• § 195. La storia delle ricerche fatte lungo i secoli sulla biografia di Gesù è, in sostanza, la storia delle prove a cui è stata sottoposta la saldezza di ciascuno di questi tre anelli. - Sono veramente autorevoli, per tempo e per luogo, gl’informatori evangelici? - I fatti straordinari da essi narrati sono attestati con veracità ed obiettività, e rivestono un carattere veramente miracoloso? - Questi fatti dimostrano veramente l’autenticità della missione religiosa di Gesù? Naturalmente, conforme alla differente indole dei vari tempi, si è insistito più sull’uno o sull’altro di questi tre punti; ma da essi non si è usciti, né si sarebbe potuto uscire. Il terzo e ultimo punto è stato il meno dibattuto, sia perché esso è di natura più filosofica che storica, sia perché la sua accettazione è praticamente inevitabile quando siano accettati i due punti precedenti, e ciò tanto nei secoli passati quanto ai nostri tempi; sebbene oggi, col predominio del metodo storico-critico, il punto più discusso sia divenuto il primo, cioè il valore storico degli informatori evangelici. Gli antichi scrittori, accettando i Vangeli come libri sacri ed ispirati, non sentivano necessità di dimostrare in modo particolare la loro autorità storica, salvo nel caso che questa fosse impugnata da scrittori non cristiani: ma ordinariamente i Vangeli erano per essi libri di speculazione teologica o di parenesi (o esortazione - ammonimento) edificativa. Non mancarono però dei casi in cui la necessità apologetica richiamò la loro attenzione particolare sul valore puramente storico dei Vangeli. Anche prima che nell’anno 400 Sant’Agostino scrivesse il De consensu evangelistarum, erano stati mossi contro la credibilità dei racconti evangelici gli attacchi di Celso, a cui aveva risposto Origene, e poi quelli di Porfirio a cui avevano replicato parecchi cristiani. Purtroppo gli scritti di ambedue i filosofi pagani non sono giunti fino a noi; ma dalle notizie indirette che ne possediamo, possiamo farcene un’idea approssimativa. Celso, poco prima del 180, pubblicò il suo Discorso veritiero, con cui assale in minor parte Gesù ed in maggior parte i cristiani. Egli tiene a far rilevare che in precedenza si è informato bene del suo argomento, giacché ripete fiduciosamente rivolto ai cristiani: «Io so tutto (sul conto vostro)!»; ha infatti letto i Vangeli, e li cita nel suo discorso attribuendoli regolarmente ai discepoli di Gesù. Ciò nonostante egli accetta dai Vangeli solo i fatti che corrispondono alle sue mire polemiche, quali le debolezze della natura umana di Gesù, il lamento della sua agonia, la sua morte in croce, ecc., che sarebbero a parer suo tutte cose indecorose per un Dio: invece sostituisce gli altri dati biografici con le sconce calunnie anticristiane messe in giro già allora dai Giudei; spesso poi altera l’indole dei fatti, talvolta deforma anche le parole delle citazioni, e in genere sparge a piene mani il ridicolo sull’odiato argomento con un metodo che anticipa sotto vari aspetti quello del Voltaire. Ma queste ragioni storiche sono, in realtà, solo sussidiarie, e il vero argomento fondamentale è filosofico: Celso, che mira a rinsaldare l’unità politica dell’Impero romano di fronte alla minaccia dei Barbari, giudica indiscutibilmente assurda l’idea di un Dio fattosi uomo, e quindi erronea la storia evangelica; perciò i cristiani, se vorranno essere ragionevoli, dovranno abbandonare tali assurdità e ritornare ai tradizionali Dei dell’Impero. Porfirio, il discepolo del neoplatonico Plotino, è molto più sodo di Celso. Nei suoi 15 libri Contro i cristiani, apparsi sullo scorcio del secolo III, egli conserva un tono più moderato (a quanto possiamo raccogliere dai frammenti), e si dà tutto a rilevare le contraddizioni o inverosimiglianze storiche ch’egli trova nei Vangeli; ma anche qui, come in Celso, l’obiezione più forte è sollevata in nome dei principii filosofici: «Può patire un Dio? Può risuscitare un morto?». La risposta negativa che evidentemente bisogna dare a tali domande, secondo Porfirio, decide anche di tutta la questione; qualunque interpretazione dei racconti evangelici sarà preferibile a quella che ammetta il patimento di un Dio o la resurrezione di un morto. Quando l’Impero diventò ufficialmente cristiano, non solo non comparvero più nuovi scritti contro l’autorità storica dei Vangeli, ma disparvero anche quelli già pubblicati: ad esempio, i libri di Porfirio Contro i cristiani furono ufficialmente proscritti per decreto della corte di Bisanzio nel 448. Seguitarono tuttavia a circolare, scritte in ebraico o trasmesse oralmente, le sconce calunnie giudaiche di cui già si era servito Celso, e che più tardi confluirono nel libello Toledōth Jeshua, di cui già si è trattato (§ 89).

• § 196. La “Riforma” protestante non disturbò direttamente il concorde giudizio della cristianità circa l’autorità dei Vangeli: sembrò anzi rafforzarlo perché, respingendo ogni autorità di tradizione e di magistero ecclesiastico e non ammettendo altra rivelazione che quella scritta, tanto meno avrebbe potuto richiamare in dubbio l’autorità anche storica dell’unica fonte della rivelazione. Ma la salvaguardia protestante era rafforzata solo apparentemente, mentre alla prova dei fatti risultò fallace e rovinosa: i protestanti stessi mossero i primi attacchi contro i Vangeli e li rinnovarono poi continuamente fino ad oggi, cambiando sempre le posizioni di combattimento ma sempre applicando puntualmente un principio fondamentale nella “Riforma”, quello del libero esame. Ma anche su questo mutamento pratico del protestantesimo ebbero un’influenza decisiva le idee filosofiche esterne, come già presso gli antichi critici pagani: dai quali, infatti, nei tempi nuovi furono inconsciamente ricopiati taluni atteggiamenti. I primi a romperla con il concetto ortodosso protestante furono alcuni seguaci del Deismo inglese, che fra altro identificava rivelazione soprannaturale e ragione naturale: alcuni tentativi fatti in tal senso, specialmente con la mira di eliminare l’elemento taumaturgico dai miracoli evangelici (Woolston, 1730; Annet, 1744), non ottennero larga risonanza, ma rimasero nondimeno come semi per il futuro. In Francia il Filosofismo s’inoltrò alquanto sulle stesse strade. L’enciclopedico Voltaire non avrebbe potuto fare a meno di occuparsi anche dei Vangeli, e lo fece col suo abituale ricorso a sarcasmi denigratori ed a sottigliezze sofistiche; sia in altri dei suoi innumerevoli scritti, sia specialmente ne La Bible enfin expliquée (1776) e nella Histoire de l’établissement du christianisme (1777), egli tratta Gesù da vanitoso impostore, San Paolo da energumeno insensato, rimette a nuovo le vecchie calunnie delle Toledōth Jeshua, e mescolandole con le leggende di vangeli apocrifi le contrappone ai dati dei Vangeli canonici.

• § 197. Ma i meschini risultati ottenuti dal Deismo inglese e dal Filosofismo francese, furono di gran lunga superati in Germania dall’Illuminismo (Aufklärung), il quale, mentre era ostile non meno delle altre due scuole a ogni idea di soprannaturale, era per di più sbocciato nella stessa patria della “Riforma” e del libero esame. Nel tempo che il Voltaire si perdeva in Francia nei suoi lazzi sconnessi, in Germania si portavano a termine tentativi più organici e complessi. Un professore di lingue orientali ad Amburgo, H. S. Reimarus, poco prima della sua morte (1768) finì di scrivere una Apologia degli adoratori razionali di Dio, di ben 4000 pagine, che non ardì però pubblicare; ma ne pubblicò sette ampi estratti (nel 1774, 1777 e 1778) il Lessing, allora bibliotecario a Wolfenbüttel, come Frammenti di un anonimo, di cui gli ultimi due ricevettero i rispettivi titoli di Sulla storia della resurrezione e Dello scopo di Gesù e dei suoi discepoli. In questi estratti il Reimarus sferra un ordinato attacco dapprima contro ogni idea di soprannaturale, poi contro la rivelazione dell’Antico Testamento, e infine contro tutta la storia evangelica. Gesù sarebbe stato un focoso agitatore politico, che voleva suscitare una sommossa popolare contro i Romani padroni della Palestina; fallita la sommossa con la crocifissione di Gesù, i suoi seguaci avrebbero travisato il vero scopo di lui, spacciandolo per rinnovatore puramente spirituale e religioso; ne avrebbero perciò rapito il corpo, dicendo che era risuscitato e che la sua morte era servita a redimere l’umanità; i quattro Vangeli canonici non sarebbero che la consacrazione ufficiale di questa catena di disinganni e di inganni, giacché i cristiani «non sono che dei pappagalli i quali ripetono ciò che sentono dire». Ma nel paese stesso dell’Illuminismo un’interpretazione di tal genere, anche prescindendo dal suo palese fanatismo anticristiano, era o appariva troppo puerilmente semplicista per poter incontrare molti consensi; e in realtà, se essa toglieva dai racconti evangelici l’«irrazionale» elemento miracoloso, v’introduceva una sproporzione non meno irrazionale tra causa ed effetto, facendo dipendere l’intero cristianesimo da un ammasso di deliri e di ciurmerie: il che sarebbe stato un «miracolo» contro i principii storici più elementari, arduo ad ammettersi non meno dei miracoli evangelici. Perciò i Frammenti dell’anonimo di Wolfenbüttel produssero il solo risultato di segnalare una via sbagliata nell’interpretazione anti-soprannaturale della storia evangelica, e si attirarono parecchie confutazioni da parte protestante. Fra le quali è notevole quella di J. S. Semler (1779), conosciuto per i suoi lavori di filologia sacra e specialmente per il metodo dello «storicismo critico» applicato ai Vangeli; questo metodo, ispirato anch’esso al Deismo inglese, scorgeva nei Vangeli la sintesi di correnti spirituali diverse, trovava nella predicazione di Gesù molti «adattamenti» fatti a malincuore di fronte ai pregiudizi dei contemporanei, e scendeva inoltre a minute interpretazioni fisico-naturali di miracoli evangelici. Prosegue la prossima settimana ... 

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.

Comunicato numero 97. L’aspetto fisico di Gesù

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• § 189. Dell’aspetto fisico di Gesù le fonti degne di fede non dicono assolutamente nulla. Un accenno si è voluto trovare nel racconto del pubblicano Zaccheo; costui, essendo Gesù giunto a Gerico, cercava di vedere Gesù (per conoscere) chi fosse, e non poteva a causa della folla, perché di statura era piccolo: e fatta prima una corsa in avanti, salì su un sicomoro per vederlo, perché di là stava per passare (Luca, 19, 3-4). Dalle quali parole si è voluto concludere che Gesù era piccolo di statura. Questa interpretazione, già proposta un tre secoli fa, è una pura stramberia senza alcun fondamento, sebbene sia stata rinnovata recentemente da R. Eisler (§ 181): è chiaro infatti che il soggetto di tutto l’episodio non è Gesù ma Zaccheo, quindi egli di statura era piccolo, e appunto per questo si arrampica sull’albero; del resto ben poco gli sarebbe giovata la sua arrampicatura, se si fosse trattato di vedere un uomo di bassa statura assiepato da molta folla.

• § 190. A questa mancanza di notizie la cristianità successiva, naturalmente, non si rassegnò, né nel campo artistico né in quello letterario. Per il campo artistico un ostacolo gravissimo alla produzione di una vera e storica effigie di Gesù era stata la circostanza che egli era nato, vissuto e morto in Palestina, ove l’ortodossia giudaica interdiceva ogni raffigurazione di esseri animati per paura dell’idolatria: la prima generazione cristiana, provenendo in enorme maggioranza dal giudaismo, non poteva quindi avere alcun motivo e desiderio di trasmettere un’effigie di Gesù. Al contrario, se Gesù fosse vissuto fuori della Palestina e la maggior parte dei primi cristiani fosse appartenuta alla civiltà greco-romana, non è improbabile che qualche delineazione del suo aspetto fisico sarebbe stata curata fin da quei tempi. E così le più antiche raffigurazioni superstiti di Gesù sono in Occidente quelle delle catacombe (II-III secolo) e in Oriente le pitture bizantine (IV secolo), le quali tutte non riproducono lineamenti storici, ma dipendono esclusivamente da motivi ideali e sono creazioni di fantasia. Nel campo letterario dipendono egualmente da motivi ideali le più antiche descrizioni dell’aspetto fisico di Gesù, e si dividono in due correnti totalmente diverse. I motivi ideali sono passi dell’Antico Testamento riferentisi egualmente al Messia, il quale però è presentato sotto aspetti diversi. In uno dei carmi del «servo di Jahvè» s’era stato affermato: Figura egli non aveva né beltà, e lo guardammo e non (aveva) sembianza tal che lo pregiassimo (Isaia, 53, 2); d’altra parte un canto messianico, in forma di mistico epitalamio, aveva esclamato: Bellissimo tu sei fra i figli d’uomo: soffusa è la grazia sulle tue labbra (Salmo, 45, 3 ebr.). Indubbiamente testi di questo genere non miravano alle fattezze fisiche del futuro Messia, ma valevano come semplici allegorie, adombrando il primo i dolori e il secondo i trionfi di Lui. Tuttavia non mancarono scrittori cristiani che li presero alla lettera, pretendendo ritrovarvi descrizioni dell’aspetto fisico di Gesù; il quale perciò fu creduto brutto o bello, a seconda della citazione da cui si traeva argomento.

• § 191. I partigiani della bruttezza di Gesù sono in genere più antichi; ma di solito, o esplicitamente o implicitamente, essi si riferiscono al citato passo di Isaia, mostrando con ciò di mirare più all’idea del Messia sofferente che alle fattezze fisiche di Gesù, cosicché non è sempre possibile precisare il loro pensiero. Per San Giustino martire Gesù era deforme (Dialogo Cum Tryfone, 88; cfr. 100, 85); per Clemente Alessandrino era brutto il viso (Pædag., III, 1); secondo Tertulliano era privo di beltà ed il suo corpo nec humanæ honestatis corpus fuit (De carne Christi, 9; cfr. Adv. Marcion., III, 17; Adv. Judæos, 14; ecc.); Sant’Efrem siro lo dice alto tre cubiti, cioè poco più di metri 1,35 (in Lamy, S. Ephrem syri hymni et sermones, tomo IV, col. 631). Origene, che riporta l’obiezione del pagano Celso (§ 195) secondo cui Gesù era piccolo, sgraziato e senza avvenenza, non sembra dissentire molto su questo punto dal suo avversario (Contra Celsum, VI, 75); ad ogni modo egli riporta anche la curiosa opinione di certi cristiani, secondo cui Gesù a volta a volta appariva brutto agli empi e bello ai giusti, e confessa che tale opinione non gli sembra incredibile (in Matth. series, 100; in Migne, Part. Gr., 13, 1750). Più numerosi, ma più recenti, sono i partigiani della bellezza di Gesù, quali Gregorio di Nissa, Giovanni Crisostomo, Teodoreto, Girolamo, ecc. Anche costoro partono di solito da ragioni non storiche ma ideali, e specialmente dal passo del Salmo citato sopra. Tuttavia fin qui sono affermazioni vaghe, di bruttezza o bellezza generica. Più tardi cominciano le precise descrizioni di Gesù e sempre come di uomo specioso.

• § 192. L’anonimo pellegrino di Piacenza che verso l’anno 570 visitò la Palestina, vide in Gerusalemme la pietra sulla quale Gesù stette ritto quando auditus est a Pilato, ubi etiam vestigia illius remanserunt. Pedem pulchrum, modicum, subtilem, nam et staturam communem, faciem pulchram, capillos subanellatos, manum formosam, digita longa imago designat, quæ illo vivente picta est et posita est in ipso prætorio (Geyer, Itinera Hierosol., pag. 175). Verso l’anno 710 Andrea metropolita di Creta, dopo aver parlato del ritratto di Gesù dipinto secondo la tradizione da Luca, soggiunge: Ma anche il giudeo Giuseppe racconta che il Signore è stato visto nella stessa maniera: con sopracciglia congiunte, con occhi belli, con viso lungo, alquanto curvo, di buona statura come certamente appariva dimorando insieme con gli uomini; similmente (descrive) anche l’aspetto della Madre di Dio, come oggi si vede (dall’immagine) che taluni chiamano anche la Romana (frammento in Migne, Patr. Gr., 97, 1304). Questa descrizione proviene certamente, non già dal giudeo Giuseppe (Flavio), ma da una precedente tradizione bizantina, e sembra anche risentire dell’opposta opinione che credeva alla bruttezza di Gesù (di cui è forse traccia l’aggettivo alquanto curvo, interpretato qui benignamente). Ad ogni modo gli elementi principali di questa descrizione sono ripetuti ancora nella tradizione successiva, che li mescola con altri tratti desunti da fonti ignote o anche dalla fantasia. Il monaco Epifanio verso l’800 a Costantinopoli era in grado di affermare che Gesù era alto circa 6 piedi (circa metri 1,70), con capigliatura bionda, con una leggiera inclinazione del collo in modo che il suo aspetto non era del tutto perpendicolare, col viso non rotondo ma alquanto allungato come quello di sua madre, alla quale del resto egli rassomigliava in tutto (Vita Deiparæ, testo critico in Dobschütz, Christusbilder, in Texte u. Untersuch, N. F. III, vol. 18, pas 302**). L’altezza di Gesù è invece di soli 3 cubiti (poco più di metri 1,35) secondo la Lettera sinodale dei Vescovi di Oriente dell’anno 839 (in Dobschütz, Op. cit., pag. 303*** - 304***; cfr. Migne, Part. Gr., 95, 349) e secondo il discorso di un anonimo bizantino sull’immagine della Vergine (in Dobschütz, Op. cit., pag. 246** ultima riga), i quali documenti del resto sostengono la bellezza di Gesù, pur ripetendo meccanicamente elementi sparsi delle descrizioni già viste.

• § 193. In seguito ancora gli stessi elementi passarono in Occidente, e confluirono fra l’altro anche nella Leggenda aurea di Giacomo da Varazze (Varagine) del secolo XIII. Verso lo stesso tempo fu composta la cosiddetta Lettera di Lentulo, che ebbe gran fortuna in Occidente fra i secoli XIV-XV e si presenta come inviata al Senato romano da un favoloso predecessore di Pilato, di nome Lentulo; in essa è contenuta la seguente descrizione, il cui inizio dipende evidentemente dal famoso testimonium flavianum (§ 91), mentre il seguito tradisce reminiscenze delle descrizioni precedenti: Apparuit temporibus istis et adhuc est homo (si fas est hominem dicere) magnæ virtutis nominatus Jesus Christus, qui dicitur a gentibus propheta veritatis, quem ejus discipuli vocant filium Dei, suscitans mortuos et sanans (omnes) languores, homo quidem statura procerus mediocris et speetabilis, vultum habens venerabilem, quem possent intuentes diligere et formidare, capillos habens coloris nucis avellanæ praematuræ, planos fere usque ad aures, ab auribus (vero) circinnos crispos, aliquantulum ceruliores et fulgentiores, ab humeris ventilantes, discrimen habens in medio capitis, juxta morem Nazarænorum, frontem pianam et serenissimam, cum facie sine ruga et macula (aliqua), quam rubor (moderatus) venustat: nasi et oris nulla prorsus (est) reprehensio; barbam habens copiosam capillis concolorem, non longam, sed in mento (medio) parum bifurcatam; aspectum habens simplicem et maturum, oculis glaucis variis et claris existentibus; in increpatione terribilis, in admonitione blandens et amabilis, hilaris servata gravitate; aliquando flevit, sed nunquam risit; in statura corporis propagatus et erectus, manus habens et brachia visu delectabilia, in colloquio gravis, rarus et modestus, ut merito secundum prophetam diceretur: «Speciosus inter filios hominum» (in Dobschütz, Op. cit., pagina 319***). Quest’ultima citazione è certo edificante, fatta com’è dal presunto pagano Lentulo; ma è costituita appunto dal Salmo (45, 3 ebr.) che sopra abbiamo citato come principale ispiratore di quella corrente cristiana che ha parteggiato per la bellezza fisica di Gesù. Intanto tutto il Medioevo cristiano era convinto di possedere, in siffatte descrizioni letterarie e nelle relative immagini pittoriche, la vera effigie di Gesù, chiamata anche con termine in parte bizantino la «vera icone», che il volgo personificò in Veronica. Qual è colui, che forse di Croazia - Viene a veder la Veronica nostra, - Che per l’antica lama non si sazia, - Ma dice nel pensier fin che si mostra: - Signor mio Gesù Cristo, Dio verace, Or fu si fatta la sembianza vostra? (Dante, Paradiso, XXXI, 103-108). Movesi il vecchierel canuto e bianco - Del dolce loco ov’ha sua eta’ fornita - E da la famigliola sbigottita - Che vede il caro padre venir manco: - Indi traendo poi l’antico fianco - Per l’estreme giornate di sua vita, - Quanto più può col buon voler s’aita - Rotto dagli anni e dal cammino stanco. - E viene a Roma, seguendo il desio - Per mirar la sembianza di colui - Che ancor là su nel ciel vedere spera... (Petrarca, Canzoniere, XII). L’opera utilizzata è la rigorosa «Vita di Gesù Cristo» (Imprimatur 1940, 7a Edizione, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941). Fine.

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.

Comunicato numero 96. Il censimento di Quirinio

Stimati Associati e gentili Sostenitori, vi ricordiamo di prendere visione del Rendiconto 2017 e di partecipare alle varie consultazioni on-line. Tutti i dettagli vi sono stati inviati tramite e-mail nelle scorse settimane. Abbiamo iniziato anche i lavori di progettazione per la ristampa del «Catechismo sul Modernismo» del P. Lemius, che contiamo di terminare, Dio volendolo, il prossimo mese. Oggi, con l’aiuto dell’Abate Giuseppe Ricciotti - riposi in pace -, impareremo alcune nozioni utilissime sul censimento di Quirinio e sul contesto storico e sociale dell’epoca. L’opera utilizzata è la rigorosa «Vita di Gesù Cristo» (Imprimatur 1940, 7a Edizione, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941).

• § § 183. Il solo Luca, l’evangelista che ha talune mire di storia universale (§ 141), mette in relazione la nascita di Gesù a Bethlehem con un censimento ordinato dalle autorità romane in Palestina: questo censimento avrebbe dato occasione a un viaggio di Giuseppe e di Maria a Bethlehem e alla nascita di Gesù in questa borgata. Ecco il testo di Luca: «Avvenne poi in quei giorni che uscì un decreto da Cesare Augusto di censire tutta la (terra) abitata. Questo censimento primo avvenne governando la Siria Cirinio. E tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città. Salì pertanto anche Giuseppe dalla Galilea, dalla città di Nazareth, nella Giudea, nella città di David la quale si chiama Bethlehem - giacché egli era del casato e della famiglia di David - per farsi censire insieme con Maria, la fidanzata di lui, ch’era gravida. Avvenne poi che, mentre essi erano colà, si compirono i giorni per il suo parto, e partorì, ecc.» (2, 1-7). Contro questo racconto si sollevano tre principali obiezioni: contro il fatto stesso del censimento; contro la sua possibilità giuridica; e contro la maniera in cui il censimento sarebbe stato compiuto. Contro il fatto stesso si obietta che noi conosciamo bensì un censimento compiuto nella Giudea da Quirinio (Cirinio), ma esso avvenne negli anni 6-7 dopo Cristo, quando Gesù era nato da più di 11 anni; invece nessun documento storico ci attesta che Quirinio abbia compiuto un precedente censimento verso il tempo della nascita di Gesù, cioè prima della morte di Erode, e nei territori di costui. Contro la possibilità giuridica del censimento si obietta che i territori del vivente Erode erano territori di un re «amico e alleato» di Roma (§ 11), e quindi Roma non aveva alcun diritto a farvi censimenti. Diverso fu il caso del censimento compiuto negli anni 6-7 d. Cristo, perché in quell’occasione Archelao, figlio di Erode, era stato deposto da Augusto ed i suoi territori passavano sotto il dominio diretto di Roma. Contro la maniera seguita nel censimento si obietta che dal racconto di Luca risulta che si sarebbe seguita la maniera giudaica secondo cui i censiti si recavano a iscriversi nei propri luoghi d’origine (§ 240). Ma si ritiene impossibile che le autorità romane, che avevano ordinato il censimento, adottassero quella maniera inusitata abbandonando per essa l’abituale maniera romana, la quale - perseguendo il tributum capitis e il tributum soli - si rifaceva al domicilio attuale dell’individuo ed al luogo ove egli aveva possedimenti. Quale fondamento hanno tali obiezioni? Esaminiamo brevemente questa vecchia questione alla sola luce dei documenti storici, e soprattutto la prima e principale obiezione mossa contro il fatto stesso del censimento anteriore alla morte di Erode.

• § 184. Di un censimento da compiersi per ordine di Augusto in tutta la (terra) abitata, ossia praticamente nell’Impero romano, parla esplicitamente il solo Luca. Ciò è vero. Ma se altri documenti non riferiscono esplicitamente ciò che riferisce Luca, non per questo Luca ha torto: l’argomento da silenzio, come tutti sanno, è il più debole e infido che vi sia nel campo storico. Fra gli innumerevoli esempi che si potrebbero addurre, basterà ricordare quello del nostro stesso caso, cioè il censimento fatto da Quirinio in Giudea negli anni 6-7 dopo Cristo; il quale censimento è attestato dal solo Flavio Giuseppe, e sebbene mostri qualche incongruenza logica e cronologica, ordinariamente non è richiamato in dubbio. Inoltre, il silenzio da cui si vorrebbe argomentare non è assoluto, e abbiamo molti indizi che c’inducono a supporre un piano di censimento generale. Augusto, eccellente organizzatore ed amministratore, si era creato un vero protocollo personale, quasi uno specchio della forza demografica e finanziaria dell’impero, perché alla sua morte - a detta di Tacito - fu ritrovato un Breviarium Imperii scritto tutto di sua mano nel quale erano indicate tutte le entrate pubbliche, il numero dei cittadini (romani) e degli alleati ch’erano nelle armi, lo stato della flotta, dei regni (alleati), delle province, delle imposte, dei tributi, dei bisogni, e delle largizioni (Annal., I, II). Ora, tutte queste precise notizie come avrebbe potuto Augusto saperle senza censimenti, computi, investigazioni, o simili procedimenti? E procedimenti di tal genere sono in realtà attestati. Augusto stesso nel celebre monumentum Ancyranum (ad Ankara) afferma di aver compiuto tre volte il censimento dei cives romani, cioè nel 28 avanti Cristo, nell’8 av. Cr., e nel 14 dopo Cristo È noto altronde che nel 28 av. Cr. furono censite le Gallie, ed è molto probabile che verso lo stesso tempo fosse censita anche la Spagna; inoltre dai papiri recentemente scoperti risulta che in Egitto si eseguivano censimenti periodici alla distanza di 14 anni l’uno dall’altro, ed il più antico quasi sicuramente attestato è dell’anno 5-6 d. Cr., a cui seguirono quelli degli anni 19-20, 33-34, 47-48 e così di seguito fino al secolo III. Questi provvedimenti dimostrano che il progetto di un censimento generale doveva essere nei piani di Augusto, sebbene la sua attuazione non fosse simultanea in tutto l’Impero, e che egli l’andava attuando gradualmente già da qualche tempo quando nacque Gesù. Veniamo adesso al Quirinio di Luca.

• § 185. Il senatore P. Sulpicio Quirinio ci è noto anche dagli storici romani. Nato a Lanuvio, vicino a Tuscolo, per la sua intelligente operosità era salito ad alte cariche nell’Impero: aveva governato a Creta ed a Cirene, e impiger militiæ et acribus ministeriis, consulatum sub divo Augusto, mox expugnatis per Ciliciam Homonadensium castellis insignia triumphi adeptus, datusque rector Gaio Cæsari Armeniam obtinuit (Tacito, Annal., III, 48). Di queste cariche a cui allude Tacito, il consolato è da assegnarsi all’anno 12 avanti Cristo e l’assistenza al giovanetto Gaio Cesare, nepote d’Augusto, agli anni 1 av. Cr. - 3 dopo Cristo. Ma il consolato apriva anche la via alla carica di legatus in una provincia imperiale (§ 20); e difatti troviamo che Quirinio è al governo della provincia di Siria come legato durante gli anni 6-7 dopo Cr., allorché, deposto Archelao, venne in Giudea ad eseguire insieme col procuratore Coponio il già accennato censimento (§ § 24, 43). Tuttavia questa legazione di Quirinio in Siria non ha alcuna relazione con la nascita di Gesù, giacché non cominciò prima dell’anno 6 dopo Cr., quando cioè Gesù era circa undicenne. Del resto lo stesso Luca mostra di conoscere bene il censimento degli anni 6-7 dopo Cr. e le sue sanguinose conseguenze (cfr. Atti, 5, 37), e quindi sa certamente che quello non può essere il censimento della nascita di Gesù. Vi fu dunque un censimento anteriore a quello degli anni 6-7 d. Cr.? E fu eseguito, anche questo, da Quirinio? Alcuni studiosi, tanto fra protestanti quanto fra cattolici, hanno risposto alle precedenti domande traducendo in maniera particolare il passo di Luca, 2, 2 (...). Noi, sopra (§ 183), l’abbiamo tradotto: «Questo censimento primo avvenne governando la Siria Cirinio», ed è la traduzione comune; ma gli accennati studiosi lo traducono: «Questo censimento avvenne prima (di quello avvenuto) governando la Siria Cirinio». Con ciò la questione è risolta; il censimento della nascita di Gesù è diverso e anteriore a quello tenuto da Quirinio nel 6-7 dopo Cristo, sebbene non si dica di quanto tempo anteriore. Questo modo di tradurre l’aggettivo greco (...) dandogli il significato di «anteriore», «precedente», è certamente possibile, e se ne trovano esempi negli stessi Vangeli (cfr. Giovanni, 1, 15.30; 15,18), oltreché nei papiri e altrove; tuttavia non si può negare che è una traduzione peregrina, e che in realtà è suggerita dal desiderio di evitare la difficoltà storico-cronologica offerta dal passo. Seguendo pertanto la spontanea traduzione comune e affrontando in pieno quella difficoltà, vi sono altri argomenti per risolverla? Affinché Quirinio eseguisse nella Giudea un censimento contemporaneo alla nascita di Gesù, era necessario che egli già in quell’epoca fosse legato in Siria, o almeno vi compisse qualche importante missione investito di speciale autorità. Ebbene, a questo proposito abbiamo testimonianze molto significative.

• § 186. Un’iscrizione frammentaria trovata a Tivoli nel 1764 (oggi al museo Lateranense), confrontata con un iscrizione di Emilio Secondo trovata a Venezia nel 1880, offre sufficiente base per concludere che Quirinio sia stato già una volta legato in Siria in un tempo imprecisato, ma certamente qualche anno prima dell’Era Volgare. Se egli infatti fu console nel 12 av. Cr., questa sua prima legazione di Siria dovrà essere posta senza dubbio dopo questo anno; ma quanto tempo dopo? Un’iscrizione trovata nel 1912 ad Antiochia di Pisidia informa che Quirinio era duumviro onorario di quella colonia romana, e questa onorificenza induce a credere che egli fosse al governo di Siria già nel tempo dell’iscrizione; il quale però non può essere fissato con precisione di anni. D’altra parte circa fra gli anni 9-1 av. Cr. bisogna includere come legati di Siria tre personaggi che Flavio Giuseppe menziona, senza però comunicarci i limiti estremi del tempo che rimasero in carica. Essi sono M. Tizio, che è menzionato verso l’anno (10) 9 (o anche 8) av. Cr.; Senzio Saturnino che durò dall’8 al 6 av. Cr.; Quintilio Varo che durò dal 6 al 5 av. Cr. Con l’1 av. Cr. è legato di Siria G. Cesare, nepote di Augusto: per gli altri anni di quest’ultimo decennio avanti l’Era Volgare (3-2 av. Cr.), non abbiamo notizie esplicite, le quali pure ci mancano riguardo alla durata di M. Tizio; dunque la prima legazione di Quirinio in Siria può essere avvenuta in uno di questi due interstizii, o nel 3-2 av. Cr., oppure subito prima o subito dopo la legazione di M. Tizio, cioè dopo l’anno 12 av. Cr. in cui Quirinio fu console, ma prima dell’8 in cui legato di Siria fu Saturnino. Se si suppone che Quirinio fu legato negli anni 3-2 av. Cr., la questione del censimento non è ancora risolta, perché Gesù è nato prima del 4 av. Cr. Resta dunque l’altro interstizio fra gli anni 12-8 av. Cr., che bisogna tener presente come una possibilità. Ma riguardo allo stesso Quirinio abbiamo un’altra notizia che potrebbe offrire una risoluzione diversa in tutto il problema. La campagna contro gli Omonadensi accennata testé fugacemente da Tacito è confermata e presentata più ampiamente da Strabone (XII, 6, 5), il quale comunica che Quirinio intraprese questa campagna per vendicare la morte del re Aminta ucciso dagli Omonadensi, briganti della Cilicia; poiché la Cilicia dipendeva dalla provincia di Siria, torna di nuovo la conclusione che Quirinio, conducendo questa campagna, o era legato di Siria o vi godeva di speciale autorità per gli scopi della campagna. Quando avvenne però questa campagna? Una risposta sicura anche qui non possiamo darla con notevole probabilità, sebbene non con certezza, si può supporre che avvenisse tra gli anni 10 e 6 av. Cr. Un ultimo dato, negativo ma importante, è offerto incidentalmente da Tertulliano. Questo eccellente giurista, ch’era benissimo in grado di conoscere i documenti anagrafici romani, rinvia con sicurezza al censimento fatto sotto Augusto in Giudea da Senzio Saturnino come a quello da cui risulta la nascita di Gesù: Sed et census constat actos sub Augusto tunc in Judæa per Sentium Saturninum, apud quos genus eius inquirere potuissent (Adv. Marcion., IV, 19). La menzione qui di Saturnino invece che di Quirinio è assolutamente inaspettata, e già per questo mostra che Tertulliano non dipende da Luca bensì attinge la sua notizia da documenti dell’Impero, forse ufficiali; e il valore della notizia, sebbene negativo, è grandissimo, perché già vedemmo che Saturnino fu legato in Siria poco prima o poco dopo Quirinio.

• § 187. Esaminati fin qui tutti i dati disponibili, si presentano due soluzioni dell’intera questione. Una soluzione può supporre che la prima legazione di Quirinio si svolse fra gli anni 10-8 av. Cr. Sul finire di questo tempo egli indisse il censimento, il quale appunto perché primo incontrò difficoltà in Giudea, e si protrasse così a lungo da essere condotto a termine dal successore Senzio Saturnino. Presso i Giudei, ch’erano rimasti fortemente impressionati da questo primo censimento, esso passò alla storia sotto il nome di Quirinio che l’aveva iniziato, e Luca segue questa denominazione giudaica; presso i Romani lo stesso censimento passò sotto il nome di Saturnino che l’aveva terminato, e Tertulliano segue questa denominazione romana. Può darsi anche che Saturnino da principio fosse il subordinato cooperatore di Quirinio nell’esecuzione del censimento: infatti più tardi, nel censimento degli anni 6-7 d. Cr., il procuratore Coponio fu egualmente cooperatore di Quirinio (§ 24), ed egualmente Emilio Secondo nella sua lapide (§ 186) dice di aver eseguito il censimento della città di Apamea per ordine dello stesso Quirinio (certamente durante la sua prima legazione). Tuttavia in seguito Saturnino, succeduto a Quirinio nella legazione di Siria, rimase solo anche nell’esecuzione del censimento. Una soluzione analoga, ma forse meno probabile, si otterrebbe invertendo le due legazioni, anteponendo cioè quella di Saturnino (8-6 av. Cr.) a quella di Quirinio (3-2 av. Cr.). In tal caso Gesù sarebbe stato censito in realtà da Saturnino, ma l’intero censimento sarebbe stato poi attribuito a Quirinio che lo terminò. L’altra soluzione parte dal fatto che in una stessa provincia romana talvolta potevano ritrovarsi, insieme col legato imperiale, anche altri insigni ufficiali con incarichi particolari, mentre poi legato e ufficiali erano chiamati indistintamente «governatori». E Questo fatto è dimostrato con certezza soprattutto riguardo alla Siria. E in realtà Flavio Giuseppe parla più volte del nostro Senzio Saturnino e insieme di un (procuratore) Volumnio chiamandoli collettivamente «governatori», o di Cesare (Antichità giud., XVI, 277) o della Siria (ivi, 344), ovvero «prefetti», della Siria (ivi, 280). Inoltre Nerone, verso il 63, affidò la legazione di Siria a Cizio o Cincio (forse Cestio), ma lasciò in quella provincia il precedente legato Corbulone, riserbando a costui il comando militare con poteri straordinari, come a esperto stratega che già aveva guerreggiato contro i Parti (Tacito, Annal., XV, 25, cfr. I segg.). Parimenti nell’ultima guerra contro Gerusalemme il legato di Siria era Muciano, ma Nerone affidò il comando militare a Vespasiano. Quanto all’Africa, una pietra miliaria del 75 dopo Cr. nomina due legati Augusti, specificando che uno di essi è addetto al censimento e l’altro al comando militare. Accertata questa possibilità della coesistenza contemporanea di più «governatori», è da rilevare che Luca afferma il censimento essere stato fatto «governando» Quirinio la Siria. Ma, in primo luogo, non dice che il censimento fu fatto da lui direttamente, come sembra dire la Vulgata; inoltre, egli non specifica che specie di «governo» fosse quello tenuto allora da Quirinio, se civile-militare ovvero solo militare. Poté dunque avvenire che, al tempo della nascita di Gesù, il legato ordinario di Siria fosse Saturnino, mentre Quirinio era il capo militare della guerra contro gli Omonadensi. I poteri concessi a Quirinio per questa guerra gli permettevano anche di fare censimenti nella provincia in cui guerreggiava e nelle regioni da essa dipendenti. Tertulliano attribuirebbe il censimento a Saturnino, legato ordinario; Luca l’attribuirebbe a Quirinio, sia perché egli effettivamente lo ordinò in virtù dei suoi poteri militari, sia perché Quirinio era rimasto celebre per il suo secondo censimento che rappresentò l’assoggettamento definitivo della Giudea.

• § 188. Queste soluzioni hanno ciascuna le loro probabilità, ma chiare e definitive non sono. Il lato in cui esse rimangono in una fastidiosa imprecisione, causata dalla mancanza di documenti, è quello cronologico, che invece sarebbe il più importante nei riguardi della nascita di Gesù. Come è sicura la campagna di Quirinio contro gli Omonadensi, così si può ritenere quasi sicura la sua prima legazione in Siria avanti all’Era Volgare. Ma in quali anni precisamente avvennero questi fatti? Abbiamo visto che a tale domanda si danno risposte varie e solo approssimative, le quali perciò non offrono una solida base alla cronologia della nascita e vita di Gesù. Rimangono le altre due obiezioni sollevate contro il racconto di Luca (§ 183), le quali però sono molto meno gravi. Poteva un rappresentante di Roma fare un censimento nei territori di Erode, re «amico ed alleato» di Roma? Checché sia della questione puramente giuridica, in pratica la cosa era possibilissima e del tutto naturale, data la sudditanza assoluta che legava Erode ad Augusto. Dopo ciò che sappiamo del servilismo che Erode mostrò sempre, ma specialmente negli ultimi anni di sua vita verso Augusto (§ 11), non è neanche da pensare ch’egli ardisse opporsi il giorno in cui l’onnipotente signore del Palatino avesse deciso, per ragioni di politica generale, di censire i territori dell’umilissimo suo vassallo. Quanto alla maniera giudaica seguita nel censimento a preferenza della maniera romana, si può scorgere in questo particolare, non già un’obiezione, ma una conferma alla storicità del racconto di Luca. I Romani, è vero, avevano la loro propria maniera di censire; ma erano anche esperti politici, e perciò sapevano ben evitare inutili difficoltà di governo e non urtare senza ragione la suscettibilità dei popoli soggetti. A Roma si sapeva perfettamente che il censimento d’un popolo straniero, soprattutto se era il primo censimento, costituiva un’operazione pericolosa, perché rappresentava la prova ufficiale della soggezione di quel popolo: per citare un solo esempio, basti ricordare che il censimento delle Gallie cominciato nel 28 av. Cr. da Augusto provocò ribellioni gravissime, tanto che fu dovuto sospendere per allora, e poi fu ripreso altre due volte da Druso e poi da Germanico. A Roma, quindi, si saranno previsti con certezza grandi malumori da un censimento di Giudei, tenacemente attaccati alle proprie tradizioni per motivi religiosi e nazionali. E in tali condizioni sarebbe stato insensato aumentare ancora le difficoltà, seguendo la maniera romana. Roma non s’impuntava su vuote formalità: purché il censimento si effettuasse, importava poco che si seguisse la maniera romana o quella giudaica, mentre una elementare prudenza consigliava appunto di seguire la maniera giudaica specialmente in questo primo censimento. Noi, del resto, non sappiamo se nel secondo censimento, fatto da Quirinio nel 6-7 d. Cr., si seguì la maniera romana: può darsi di si, ma può anche darsi che si seguisse la maniera giudaica. Dai papiri, tuttavia, risulta che in Egitto i Romani imponevano ai cittadini che si trovavano fuori dei propri distretti, di ritornarvi in occasione del censimento: il che; sarebbe in favore del racconto di Luca. Fine.

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.

Comunicato numero 95. Data della morte di Gesù

Stimati Associati e gentili Sostenitori, vi ricordiamo di prendere visione del Rendiconto 2017 e di partecipare alle varie consultazioni on-line. Tutti i dettagli vi sono stati inviati tramite e-mail nelle scorse settimane. Oggi cercheremo, con l’aiuto dell’Abate Giuseppe Ricciotti - riposi in pace -, di individuare la data della morte di Nostro Signore. L’opera utilizzata è la rigorosa «Vita di Gesù Cristo» (Imprimatur 1940, 7a Edizione, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941), che si contrappone agli studi di falsa scienza sulla vita di Gesù che condussero e conducono i modernisti

• § 179. Tutti e quattro i Vangeli, concordemente ed esplicitamente, mettono la morte di Gesù in un venerdì (Matteo, 27, 62; Marco, 15, 42; Luca, 23, 54; Giovanni, 19, 31) e in occasione di una Pasqua. Da Giovanni poi sappiamo che questa Pasqua della morte era la terza della vita pubblica di Gesù. Ora, il mese Nisan in cui cadeva la Pasqua ebraica s’iniziava col novilunio, come gli altri mesi del calendario ebraico ch’era lunare, e la Pasqua, che si celebrava nel pomeriggio del 14 Nisan, coincideva col plenilunio di quel mese. Ecco dunque un bel campo aperto alle ricerche degli astronomi, per determinare quale anno dell’Era Volgare corrisponda meglio alle varie condizioni già esposte. La prima condizione è storica. Se Gesù ha iniziato la sua vita pubblica circa tra il l° ottobre del 27 d. Cr. e il 18 agosto del 29 (§ 175) e l’ha prolungata per due anni ed alcuni mesi, la sua morte non può essere anteriore all’anno 29. D’altra parte non può essere posteriore a un anno tale in cui Gesù avesse al massimo 37 anni; egli infatti era sulla trentina, forse anche passata, all’inizio della sua vita pubblica (§ 176), e questa durò circa due anni e mezzo: dunque, pur volendo essere molto abbondanti nel valutare il termine di «trentina», alla fine della sua vita pubblica Gesù non poteva avere un’età maggiore della suddetta (34 + 2 e mezzo = 36 e mezzo, in cifra abbondante 37). Ad ogni modo, nelle ricerche astronomiche, si potranno esaminare con maggiore ampiezza gli anni dal 28 fino al 34 d. Cr., fra i quali deve trovarsi quello della morte di Gesù. La seconda condizione è dettata dall’apparente dissidio, cui già accennammo (§ 163), fra i Sinottici e Giovanni circa il giorno della morte di Gesù, giacché essa secondo i primi sembra avvenuta il 15 Nisan, mentre secondo Giovanni il 14. Bisognerà dunque aver presenti ambedue questi giorni nei calcoli astronomici. L’ultima condizione è che il ricercato giorno della morte di Gesù cada in un venerdì, sia esso il 14 oppure il 15 Nisan. Accertando i calcoli dei più autorevoli astronomi moderni (omettiamo la lunga nota 1 a pagina 191), veniamo a sapere che: Nell’anno 28 d. Cr.: caddero il 14 Nisan nel martedì 30 marzo, e il 15 Nisan nel mercoledì 31; oppure, il 14 Nisan nel mercoledì 28 aprile o anche nel giovedì 29, e il 15 Nisan nel giovedì 29 o anche nel venerdì 30. Nell’anno 29 d. Cr.: caddero il 14 Nisan nel sabbato 19 marzo, e 15 Nisan nella domenica 20; oppure, il 14 Nisan nel lunedì 18 aprile, e il 15 Nisan nel martedì 19. Nell’anno 30 d. Cr.: caddero il 14 Nisan nel venerdì 7 aprile, e il 15 Nisan nel sabbato 8; oppure, il 14 Nisan nel sabbato 6 maggio, e il 15 Nisan nella domenica 7. Nell’anno 31 d. Cr.: caddero il 14 Nisan nel martedì 27 marzo, e il 15 Nisan nel mercoledì 28; oppure, il 14 Nisan nel mercoledì 25 aprile, e il 15 Nisan nel giovedì 26. Nell’anno 32 d. Cr.: caddero il 14 Nisan nel lunedì 14 aprile, e il 15 Nisan nel martedì 15; oppure, il 14 Nisan nel martedì 13 maggio, e il 15 Nisan nel mercoledì 14. Nell’anno 33 .d. Cr.: caddero il 14 Nisan nel venerdì 3 aprile, e il 15 Nisan nel sabbato 4; oppure, il 14 Nisan nella domenica 3 maggio, e il 15 Nisan nel lunedì 4. Nell’anno 34 d. Cr.: caddero il 14 Nisan nel mercoledì 24 marzo, e il 15 Nisan nel giovedì 25; oppure il 14 Nisan nel giovedì 22 aprile, e il 15 Nisan nel venerdì 23. In forza della suaccennata condizione che il giorno della morte dev’essere un venerdì, si scarteranno senz’altro gli anni 29, 31 e 32, in cui né il 14 né il 15 Nisan caddero in un venerdì. L’anno 28, sebbene contenga la possibilità del venerdì 30 aprile (=15 Nisan), è da scartarsi perché cade prima del tempo che per le ragioni storiche già viste sembra ammissibile. L’anno 34, sebbene contenga la possibilità del venerdì 23 aprile (= 15 Nisan), è da scartarsi perché troppo tardivo. Se Gesù fosse morto in quest’anno avrebbe avuto da anni 38 e mezzo a 39 e mezzo essendo nato circa un biennio prima della morte di Erode (§ 173), e quindi all’inizio della sua vita pubblica avrebbe avuto da 36 anni a 37, che non sembra accordarsi con l’indicazione che egli era allora circa di trenta anni (§ 176). Inoltre se la vita pubblica cominciò al più tardi nel 29 d. Cr. e durò circa anni 2 e mezzo, la morte dovette avvenire prima del 34. L’anno 33 risponde molto bene alle condizioni astronomiche, ma contro di esso vi sono le stesse ragioni storiche rilevate contro l’anno 34; vi sarà bensì la differenza di un anno in meno per l’età di Gesù, tuttavia sembra ancora poco probabile che un uomo di 35-36 anni sia chiamato circa di trenta anni, ed è senz’altro meno verosimile che la vita pubblica si sia protratta dal 29 al 33 d. Cr. L’unico anno che rimane, cioè il 30 d. Cr., risponde anch’esso molto bene alle condizioni astronomiche, e di più si inquadra anche giustamente negli altri dati cronologici che abbiamo finora raccolti. Se Gesù è nato circa un biennio prima della morte di Erode, era veramente circa di trenta anni all’inizio della sua vita pubblica, giacché poteva contare allora da 32 a 33 anni; dopo 2 e mezzo di vita pubblica, egli contava da anni 34 e mezzo a 35 e mezzo; infine la sua morte cade in un venerdì.

• § 180. Tutto ciò è chiaro; ma bisogna lealmente aggiungere che non è altrettanto sicuro, e la mancanza di sicurezza deriva proprio dai calcoli astronomici, più che dai precedenti argomenti storici. I calcoli astronomici riportati qui sopra saranno esattissimi, ottenuti come sono da insigni scienziati dei nostri giorni; il male invece è che altrettanto non possiamo dire dei calcoli su cui i Giudei del tempo di Gesù fondavano il loro calendario. E in realtà pare certo che i Giudei di quel tempo non avessero ancora un calendario fisso, bensì stabilissero mediante l’osservazione diretta dei vari fenomeni le principali date; queste erano specialmente l’inizio dell’anno e dei mesi, e l’intercalazione di un giorno dopo certi mesi e di un mese dopo ogni terzo anno, per far corrispondere, bene o male, l’anno lunare all’anno solare. Le norme per fissare queste date son contenute specialmente nel trattato della Mishna intitolato Rosh hashānāh («capodanno»), e sono norme molto empiriche. Il fenomeno principale cui si badava era naturalmente il novilunio. Il caso più semplice e facile era quando la luna nuova si scorgeva subito da Gerusalemme stessa; e allora i sacerdoti addetti facevano accendere segnali luminosi in cima all’attiguo monte degli Olivi, per annunziare alle campagne circostanti e attraverso queste ai distretti più lontani che nel giorno seguente cominciava il nuovo mese. Ma spesso la luna nuova non si poteva scorgere subito da Gerusalemme, per ragioni climatiche o anche astronomiche; e allora si aspettavano messaggeri dai vari distretti che giungessero ad annunziare alle autorità della capitale d’aver scotto la luna nuova, essendosi ritrovati in condizioni di visibilità più favorevoli degli abitanti di Gerusalemme: questo messaggio della luna nuova era stimato così urgente, che dispensava anche dal riposo del sabbato per potersi recare immediatamente a Gerusalemme. Se non giungeva alcun messaggero, quel giorno d’aspettativa era computato col mese precedente come giorno aggiunto, e il nuovo mese cominciava col giorno seguente. Più arduo ancora era fissare il capodanno, che secondo il calendario religioso coincideva con l’inizio del mese Nisan: bisognava, infatti, ad ogni terzo anno aggiungere un tredicesimo mese per la ragione già vista. L’intercalazione del tredicesimo mese era regolata dall’osservazione empirica delle colture agricole, che dovevano aver raggiunto un certo grado di sviluppo: infatti per la Pasqua (14 Nisan) dovevano esser mature le prime spighe della nuova messe, perché in un giorno (16 Nisan) di quella festività si doveva offrire al Tempio un manipolo di spighe come primizia. È chiaro che, con coteste norme empiriche, il calendario effettivamente seguito poteva avere frequenti divergenze dalla realtà astronomica; tanto più che talvolta avvenivano anche frodi, testimoniate dal Talmud, da parte di chi annunziava di aver scorto la luna nuova e aveva interesse a dire il falso. Tornando pertanto ai surriferiti calcoli degli astronomi odierni, quello che può destare qualche serio dubbio di non corrispondere al calendario empirico dei Giudei antichi è il calcolo dell’anno 29 d. Cr., mentre quanto a ragioni storiche detto anno si trova circa nelle stesse condizioni favorevoli dell’anno 30. Se nell’anno 29 la segnalazione della luna nuova fu anticipata erroneamente d’un giorno, il 14 Nisan cadde nel venerdì 18 marzo e il 15 Nisan nel sabbato 19, e ciò si accorderebbe ottimamente con i dati evangelici della morte di Gesù.

• § 181. Con tanta elasticità di dati ed incertezza di computi non farà meraviglia di trovare la cronologia della vita di Gesù fissata nelle maniere più diverse dagli studiosi, anche in questi ultimi decenni. La nascita è posta, a seconda delle opinioni, in quasi tutti gli anni tra il 12 av. Cr. e il 1° d. Cr.: ma i preferiti sono gli anni tra il 7 e il 5 av. Cr. L’inizio del ministero di Giovanni il Battista, cioè l’anno decimoquinto di Tiberio, è posto da parecchi all’anno 26 d. Cr., ma più numerosi sono coloro che assegnano detto ministero nella sua massima parte all’anno 28, facendo tuttavia iniziare tale anno o il 1° ottobre del 27 o in un’altra delle date successive già segnalate (§ 175). In questo stesso anno sono comunemente collocati il battesimo di Gesù, posteriore di alcune settimane all’inizio di Giovanni, e l’inizio della vita pubblica di Gesù, posteriore di 40 giorni al suo battesimo. La durata della vita pubblica è stata giudicata di un solo anno da alcuni pochi studiosi (che con manifesta arbitrarietà sono costretti a correggere i testi di Giovanni, per sopprimere le precise testimonianze delle tre Pasque); gli altri studiosi stanno per la durata o di due anni e alcuni mesi, o di tre anni e alcuni mesi: gli imprecisati mesi in più del biennio o del triennio sono quelli che ricollegano il battesimo di Gesù con la prima Pasqua della sua vita pubblica. I partigiani del biennio sono più recenti ma alquanto meno numerosi dei partigiani del triennio. La morte di Gesù ha ricevuto anch’essa varie assegnazioni. Astraendo da alcune assegnazioni del tutto strampalate - ad esempio, quella di R. Eisler che la pone all’anno 21 d. Cr. - pochissimi sono gli studiosi che la pongono agli anni 28, 31, 32, 34; tutti gli altri stanno per uno degli anni 29, 30, 33. Numerosi sono tanto i partigiani dell’anno 29, col giorno della morte al venerdì 18 marzo (§ 179, cfr. 180 fine), quanto i partigiani dell’anno 33, col giorno della morte al venerdì 3 aprile; più numerosi ancora sono i partigiani dell’anno 30, col giorno della morte al venerdì 7 aprile. Quanto al giorno del calendario ebraico corrispondente al giorno della morte, i partigiani di tutti e tre gli anni si dividono nuovamente, preferendo o il 14 o il 15 Nisan (§ 536 segg.).

• § 182. Infine, si sarà notato che i precedenti risultati sono stati ottenuti esaminando i soli dati dei quattro Vangeli confrontati con i documenti profani, e trascurando del tutto la tradizione ecclesiastica. Non esiste, infatti, una «tradizione» nel vero senso della parola; esistono soltanto delle opinioni particolari ai vari scrittori antichi, le quali spesso sono manifestamente assurde, talvolta si contraddicono fra loro, non di rado sono affatto gratuite, e solo qualche rara volta sembrano riecheggiamenti di più antiche notizie autorevoli. Frequentissima è l’assegnazione della nascita di Gesù a qualcuno degli anni posteriori al 4 av. Cr. (morte di Erode), con manifesta assurdità. Varia è la durata concessa alla vita di Gesù: l’autorevole Ireneo, nel passo già accennato (§ 176), afferma che Gesù ha raggiunto addirittura i 50 anni di età. La vita pubblica è protratta ordinariamente da uno a tre anni (talvolta uno stesso scrittore segue opinioni diverse), non mancano però accenni anche a durate più lunghe. La data della morte è disseminata dall’anno 21 fino al 58 d. Cr. Una certa attenzione, tuttavia, si può prestare ad una voce che assegna la morte di Gesù all’anno in cui furono consoli L. Rubellio Gemino e C. Fufio Gemino, che fu il 782 di Roma e 29 d. Cr. Questa voce, che già si ritrova in Tertulliano (Adv. Judæos, 8) e forse anche in Ippolito (in Danielem, IV, 23, 3), è riecheggiata in seguito da molti altri documenti, i quali pongono la morte di Gesù sotto i «due Gemini»; non mancano tuttavia dissonanze anche a questa voce, e soprattutto essa è ignorata o esplicitamente contraddetta da tanti altri scrittori antichi che il suo valore è ridotto praticamente a quasi nulla. A guisa di riepilogo offriamo la seguente tabella, la cui giustificazione storica è contenuta nei paragrafi precedenti. Essi però mostrano chiaramente che non possiamo attribuire all’intera tabella un valore di certezza (salvo, negativamente, per alcune date escluse), bensì solo un valore di probabilità, che può essere maggiore o minore a seconda delle varie date.

• Tabella cronologica della vita di Gesù. Nascita di Gesù: sul finire dell’anno 748 di Roma, 6 av. Cr. Inizio del ministero di Giovanni il Battista: sui principii dell’anno 28 d. Cr. (o anche tra l’ottobre e il dicembre del 27). Battesimo e inizio della vita pubblica di Gesù: poco tempo dopo la data precedente; Gesù ha da 32 a 33 anni di età. Prima Pasqua della vita pubblica di Gesù: marzo-aprile dell’anno 28; età di Gesù, anni 32 e mezzo, 33 e mezzo. Seconda Pasqua: marzo-aprile del 29; età di Gesù, anni 33 e mezzo, 34 e mezzo. Terza Pasqua e morte di Gesù: 7 aprile dell’anno 30, il giorno 14 del mese Nisan; età di Gesù, anni 34 e mezzo, 35 e mezzo. Fine.

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.

Comunicato numero 94. Durata della vita pubblica di Gesù

Stimati Associati e gentili Sostenitori, con l’aiuto di Dio siamo entrati nel terzo anno di pubblicazione del nostro settimanale. Dobbiamo essere davvero grati alla Provvidenza, poiché la nostra Onlus vive di donazioni, si finanzia in proprio e non ha alcuna intenzione di usufruire di denaro pubblico. Anche oggi affronteremo vari argomenti come, per esempio, l’Epifania e la dottrina politica in san Tommaso d’Aquino. Iniziamo con una relazione del dotto Abate Giuseppe Ricciotti - riposi in pace - sulla durata della vita pubblica di Gesù. L’opera utilizzata è la rigorosa «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, 7a Edizione, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.

• § 177. Il battesimo di Gesù, che si può praticamente considerare come l’inizio della sua operosità pubblica, di quanto tempo precedette la sua morte? In altre parole, quanto durò la predicazione di Gesù? In questa ricerca la guida migliore e in sostanza unica è Giovanni, per le ragioni che già sappiamo (§ 163). Ora il suo Vangelo, letto senza arbitrarie correzioni nel testo (troppo spesso praticatevi), menziona distintamente tre Pasque ebraiche: la prima al principio della vita pubblica di Gesù, subito dopo il miracolo delle nozze di Cana (Giov., 2, 13); la seconda circa al mezzo della vita pubblica (Giov., 6, 4); la terza in occasione della sua morte (Giov., 11, 55; 12, 1; ecc.). Oltre a queste tre Pasque, Giovanni menziona altre feste ebraiche: dopo la seconda Pasqua menziona la Scenopegia, ossia i Tabernacoli (Giov., 7, 2), le Encenie (Giov., 10, 22), che sarebbero cadute fra la seconda e la terza delle Pasque. Limitandosi perciò a queste indicazioni, bisognerebbe concludere che la vita pubblica di Gesù durò i due anni compresi fra le tre Pasque, e in più quei mesi che trascorsero fra il battesimo di Gesù e la prima di queste tre Pasque. Ma anche qui sorge un motivo di dubbio. Lo stesso Giovanni (5, 1) interpone fra le menzioni della prima e della seconda Pasqua una notizia che suona letteralmente cosi: «Dopo queste cose era festa dei Giudei, e sali Gesù a Gerusalemme». Qual è questa imprecisata festa? Alcuni autorevoli codici greci, aggiungendo l’articolo, leggono era la festa dei Giudei; ma gli altri codici in gran maggioranza e quasi tutte le edizioni critiche moderne leggono senza articolo, e questa sembra ben essere la lezione giusta. Ad ogni modo si legga come si voglia, è gratuito supporre che una o la festa giudaica fosse ai tempi di Gesù soltanto da Pasqua; con la stessa vaga designazione si poteva alludere anche alla Pentecoste o ai Tabernacoli (§ 76), ch’erano «feste di pellegrinaggio» (§ 74), oppure a quella delle Encenie ch’era molto solenne e frequentata, o anche ad altre (§ 77). Inoltre si è supposto, già nei tempi antichi, che gli avvenimenti narrati da Giovanni in quel capitolo (cap. 5) siano da posporsi cronologicamente a quelli narrati nel capitolo seguente (cap. 6); in tal caso l’innominata festa (di 5, 1) potrebbe essere appunto la seconda Pasqua menzionata (6, 4) o più probabilmente la Pentecoste successiva. Questa posposizione ha in proprio favore ragioni gravi (ad esempio, il richiamo di 7, 21-23, ai fatti di 5, 8-16, come ad avvenimenti recenti), tuttavia non è assolutamente necessaria: ad ogni modo la questione cronologica ne rimane indipendente. Dal Vangelo di Giovanni, dunque, non risulta che durante la vita pubblica di Gesù siano state celebrate più di tre Pasque.

• [Dalla nota 1 a pagina 189: Un’obiezione di qualche gravità contro questa conclusione può essere tratta da Giovanni, 4, 35. Gesù torna in Galilea da Gerusalemme, ove ha operato miracoli la cui fama lo ha già preceduto in Galilea (ivi, 4, 45) ; mentre attraversa la Samaria, avviene il colloquio con la Samaritana, e durante questa sosta egli dice ai suoi discepoli: Non dite voi: «C’è ancora un quadrimestre, e verrà la messe »? Da queste parole si è concluso che allora doveva essere circa il mese di gennaio, giacché in Palestina la mietitura comincia un quattro mesi dopo ; perciò Gesù, ch’era partito per Gerusalemme poco dopo le nozze di Cana in occasione della prima Pasqua (Giov., 2, 12 segg.), sarebbe rimasto in Gerusalemme ben nove mesi, tornando in Galilea in questo gennaio. Ma sta in contrario che dalla narrazione di Giovanni si ha l’impressione che la dimora di Gesù in Gerusalemme e nella Giudea fosse in quell’occasione assai breve (Giov., 3, 22 ; 4, 3; cfr. Matteo, 4, 12; Marco, 1, 14) e che il viaggio attraverso la Samaria avvenisse, non già in gennaio, bensì in una stagione calda (Giov., 4, 6-8 ). Perciò sembra più giusta l’interpretazione di altri commentatori, anche antichi, che vedono nelle parole in questione un proverbio agricolo addotto qui da Gesù per la sua applicazione, che segue immediatamente, alla messe spirituale ; in tal caso il passaggio per la Samaria sarebbe avvenuto qualche settimana dopo la prima Pasqua, probabilmente in maggio (§§ 294, 297)].

• § 178. Dai Sinottici non si ricava in proposito un quadro cronologico, come già sappiamo: tuttavia qualche vaga conferma indiretta alla cronologia di Giovanni vi si può ritrovare. Nella parabola del fico sterile, pronunciata da Gesù verso il termine della sua vita pubblica, egli dice: «Ecco già tre anni, dacché vengo a cercar frutto... e non trovo» (Luca, 13, 7). Questa durata di tempo è forse un’allusione alla durata della vita pubblica di Gesù, che fino allora aveva cercato invano frutti da un simbolico albero sterile: se l’allusione è veramente spinta fino alla coincidenza numerica, abbiamo la conferma del terzo anno in corso di vita pubblica, che già conosciamo da Giovanni. Un’altra indiretta conferma si ha in Marco, 6, 39, il quale dice che al tempo della prima moltiplicazione dei pani la folla si sdraiò sull’erba verde. Era dunque la primavera palestinese, forse in marzo, poco prima della Pasqua: ciò appunto dice esplicitamente Giovanni (6, 4), menzionando nella stessa occasione la seconda Pasqua della vita pubblica. L’episodio delle spighe divelte in sabbato (Matteo, 12, 1-8; Marco, 2, 23-28; Luca, 6, 1-5) suppone una messe ben matura, e perciò un periodo immediatamente successivo alla Pasqua: dunque era una delle due prime Pasque di Giovanni (la terza non può venire in questione), senza che si abbia alcun diritto a supporne una diversa da quelle due. Seguendo poi la serie cronologica offerta da Marco e Luca, si viene a concludere che questa ignota Pasqua testé trascorsa era appunto la prima Pasqua di Giovanni (§ 308). L’appellativo di «secondo-primo» dato a quel sabbato in Luca, 6, 1, non ha alcuna probabilità di essere autentico, e ad ogni modo non si sa assolutamente che cosa significhi, nonostante le molte elucubrazioni fattevi sopra. Fine.

[L’opera utilizzata è la rigorosa «Vita di Gesù Cristo» dell’Abate Giuseppe Ricciotti, Imprimatur 1940, 7a Edizione, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941].

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.

Comunicato numero 93. Inizio del Ministero di Giovanni il Battista

Stimati Associati e gentili Sostenitori, l’Abate Giuseppe Ricciotti magistralmente ci introduce al Ministero di Giovanni il Battista, precursore di Gesù Cristo.

• § 175. Altri aiuti per circoscrivere il tempo della nascita di Gesù sono offerti dagli evangelisti in occasione dell’inizio della sua operosità, e qui abbiamo in primo luogo il testo classico di Luca (3, 1-2) che riguarda la comparsa in pubblico di Giovanni il Battista: «Nell’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio Cesare, governando Ponzio Pilato la Giudea, essendo tetrarca della Galilea Erode, e Filippo fratello di lui essendo tetrarca dell’Iturea e della regione Traconitide, e Lisania essendo tetrarca dell’Abilene, sotto il sommo sacerdote Anna e Caifa, la parola di Dio fu su Giovanni figlio di Zacharia nel deserto». Per poter fissare l’anno a cui qui si fa riferimento (Ricciotti scrive: si allude), la cronologia di quasi tutti questi personaggi è troppo ampia, come risulta da ciò che vedemmo di ciascuno di essi (Pilato, §§ 24-27; Erode, § 15, Filippo, § 19; Anna e Caifa, § 52): anche di Lisania, non ancora visto, sappiamo troppo poco, cioè unicamente che cessò di governare nell’anno 37. La sola data di Tiberio è qui ben precisa, ma purtroppo la precisione è più nella mente dello scrittore che in quella degli odierni lettori. Qual è l’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio? Poiché Augusto predecessore di Tiberio morì il 19 agosto dell’anno 767 di Roma (14 dopo Cr.), il primo anno di Tiberio sembrerebbe cadere dal detto giorno fino al 18 agosto del 768 (15 dopo Cr.), cosicché l’anno decimoquinto cadrebbe dal 19 agosto del 781 (28 dopo Cr.) fino al 18 agosto del 782 (29 dopo Cr.). Questo computo fu il più seguito nel passato dagli studiosi. Tuttavia recentemente si è fatto osservare che in Oriente vigeva l’uso di computare per un anno intero l’intervallo tra la morte del regnante predecessore e l’inizio dell’anno civile seguente, cosicché all’inizio del nuovo anno civile il successore già entrava nel secondo anno di regno; questo inizio presso i Romani era il principio di gennaio, presso i Giudei al principio del mese Tishri (ottobre) o più raramente del mese Nisan (marzo: inizio dell’anno religioso). Secondo tale computo il primo anno di Tiberio cadrebbe presso i Romani dal 19 agosto fino al 31 dicembre del 14 d. Cr., il secondo occuperebbe l’intero anno 15 d. Cr., e il decimoquinto occuperebbe l’intero anno 28 d. Cr.; presso i Giudei, invece, il primo anno cadrebbe dal 19 agosto fino al 30 settembre del 14 d. Cr. (ovvero fino alla vigilia del l° marzo del 15 d. Cr.), e il decimoquinto anno cadrebbe dal l° ottobre del 27 d. Cr. fino al 30 settembre del 28 d. Cr. (ovvero 1° marzo del 28 fino alla vigilia del 1° marzo del 29). Ma, quasicché questa incertezza non bastasse, si è sollevato un dubbio anche più radicale. Nominando l’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio, (San) Luca comincia veramente il suo computo dalla morte di Augusto? È da aver presente, infatti, che Augusto due anni prima della sua morte, cioè nell’anno 765 di Roma (12 d. Cr.), aveva eletto Tiberio suo compartecipe nel governo dell’Impero, cioé collega imperii, consors tribuniciæ potestatis (Tacito, Annal., I, 3) e più distintamente ut provincias cum Augusto communiter administraret simulque censum ageret (Svetonio, Tiber., 21). Questa correggenza, che dava a Tiberio nelle province la stessa potestà d’impero del vivente Augusto, ha fatto pensare che il provinciale Luca abbia computato l’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio partendo dalla data della correggenza di lui, non già da quella della morte d’Augusto; in tal caso l’anno decimoquinto cadrebbe nel 26 d. Cr. In favore di questa interpretazione sono state addotte alcune ragioni di analogia, ad esempio il caso di Tito che regnò poco più di 2 anni, eppure alla sua morte contava 11 anni di governo, da quando cioè suo padre Vespasiano lo aveva associato all’impero conferendogli la potestà tribunizia; ma, nonostante queste analogie, non sembra verosimile che il computo di Luca parta dalla correggenza di Tiberio. Nessuno scrittore antico e nessun documento archeologico pervenuto fino a noi segue questo computo, ed invece come inizio dell’impero di Tiberio è sempre supposta la sua successione ad Augusto.

• § 176. Dallo stesso Luca riceviamo altre due indicazioni cronologiche. La prima è che l’inizio del ministero di Giovanni il Battista precedette di poco tempo il battesimo di Gesù e l’inizio dell’operosità pubblica di costui, come si raccoglie sia dal confronto di Luca, 3, 1-2, con 3, 21, sia da Atti, 1, 22; 10, 37-38. La seconda è che, al tempo del suo battesimo, era Gesù, iniziando (il suo ministero), circa di trenta anni (Luca, 3, 23): aveva circa trent’anni, ndR. L’espressione circa di trenta anni è ricercatamente elastica, a causa del suo avverbio circa. Presso di noi oggi si potrebbe applicare anche con una differenza di due unità in più o in meno, perché è «circa di trenta anni» tanto un uomo di 32 quanto uno di 28. Presso i Giudei antichi questa elasticità non solo non poteva mancare ma vi sono vari indizi per ritenere che fosse anche maggiore; specialmente se si trattava di tollerare aggiunte, il numero-base poteva essere accresciuto anche di tre o quattro unità, rimanendo come generico indice minimo: nel caso nostro sarebbe stato «circa di trenta anni» anche un uomo sui 34. Ad ogni modo siffatta elasticità rende questa indicazione cronologica meno preziosa di quanto sembri a prima vista. Riassumendo le date di Luca abbiamo: 1) che Giovanni il Battista iniziò il suo ministero l’anno decimoquinto di Tiberio, cioè in un tempo che può cadere nel periodo dal 1° ottobre del 27 d. Cr. fino al 18 agosto del 29 d. Cr. a seconda delle varie interpretazioni (escludendo quella del 26 d. Cr.); 2) che poco dopo l’inizio di Giovanni, Gesù ricevette il battesimo e iniziò a sua volta la vita pubblica essendo sulla trentina, forse passata. Appare subito che queste indicazioni sono troppo vaghe, e non offrono una salda base ad un vero computo numerico. Un’indicazione assai importante è offerta incidentalmente dai Giudei che disputano con Gesù, e che riferendosi al Tempio di Gerusalemme esclamano: «In quarantasei anni fu costruito questo santuario, e tu in tre giorni lo farai sorgere?» (Giovanni, 2, 20). Nel contesto l’evangelista, da accurato cronologo, fa sapere che quando fu pronunziata questa frase era la Pasqua del primo anno della vita pubblica di Gesù (ivi, 2, 13.23). Poiché si può stabilire con sicurezza che Erode il Grande cominciò il rifacimento totale del Tempio nel 20-19 av. Cr., se scendiamo per 46 anni da questa data otteniamo l’anno 27-28 d. Cr., che sarebbe il primo della vita pubblica di Gesù. Si noti la corrispondenza abbastanza esatta tra questa indicazione e quella dell’anno decimoquinto di Tiberio. Supponendo che i Giudei parlino di 46 anni totalmente compiuti, questa data conferma più o meno tutte le varie interpretazioni che collocano l’anno decimoquinto di Tiberio tra il 1° ottobre del 27 d. Cr. ed il 18 agosto del 29 d. Cr. Nessuna indicazione positiva, invece, si può trarre dalle parole che molti mesi più tardi rivolsero i Giudei a Gesù: «Cinquanta anni ancora non hai, e hai visto Abramo?» (Giovanni, 8, 57), nonostante il fiducioso impiego che di queste parole fa Ireneo appellandosi anche alla tradizione (Adv. Hær., II, 22, 4-6; cf. § 182 dell’opera di Ricciotti). Usando il numero 50, i Giudei evidentemente qui vogliono abbondare riguardo alla vera età di Gesù, forse anche ricorrendo al numero tipico del giubileo ebraico: ma di quanto abbondassero non sappiamo, e dalle loro parole la vera età di Gesù ci resta ignota. Fine.

[L’opera utilizzata è la rigorosa «Vita di Gesù Cristo» dell’Abate Giuseppe Ricciotti, Imprimatur 1940, 7a Edizione, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941].

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.

La donazione alla Caritas diocesana di Potenza del 28 dicembre 2017 fa seguito a quelle del 20 febbraio, 5 e 6 aprile, 15 giugno e del 19 settembre. In data 28 dicembre sono stati consegnati, per uso dei cristiani indigenti, alcuni capi di abbigliamento per uomo, donna e bambino. Giacche, pantaloni, felpe, camicie, capi di intimo, gonne, tailleur, vestiti e vestitini. Gli Associati ed i Sostenitori che intendono contribuire possono inviare prodotti, non rovinati e puliti, da destinare alla beneficenza all'indirizzo dell'Associazione. Si consiglia di avvisare telefonicamente o via mail prima di effettuare spedizioni. Ve ne siamo grati. Affidiamo la nostra piccola opera alla protezione di san Giovanni di Dio.

Comunicato numero 92. Breve cronologia della vita e nascita di Gesù

Stimati Associati e gentili Sostenitori, l’Abate Giuseppe Ricciotti oggi ci introduce alla cronologia della vita ed alla nascita di Gesù. Auguri di Santo Natale 2017!

• § 172. La cronologia della vita di Gesù è tutta sotto un velame di dubbiezza, e non soltanto considerata internamente in sé stessa, ma anche in relazione con la storia contemporanea esterna. Con certezza assoluta non sappiamo né il giorno né l’anno di nascita di Gesù, né quando egli iniziò la sua operosità pubblica, né quanto tempo questa durò, né il giorno né l’anno della sua morte. Qualche mistico medievale avrebbe forse scorto in ciò l’effetto di predisposizioni arcane; tanto più che l’unico squarcio fatto dal mondo ufficiale cristiano a quel velame di dubbiezza ha costituito, quasi in punizione dell’audacia, un solenne errore; quando infatti il monaco scita Dionisio il Piccolo nel secolo VI fissò la nascita di Gesù all’anno 754 di Roma, errò per un ritardo di almeno quattro anni, e il mondo cristiano odierno che segue il computo di Dionisio ne perpetua anche l’errore. In realtà la nostra dubbiezza ha cause, non mistiche, ma umilmente storiche e abbastanza palesi e semplici. Già vedemmo come tutto ciò che sappiamo della vita di Gesù ci sia stato trasmesso dalla catechesi della Chiesa primitiva, da cui dipendono i Vangeli (§ 106 segg.): ma né la catechesi né i Vangeli ebbero giammai la preoccupazione di esporre una «biografia» di Gesù nel senso che si attribuisce oggi a questo termine. Per noi d’oggi una biografia senza una ben precisa cronologia interna ed esterna è un corpo senza ossatura, e la prima cosa a cui oggi badiamo sono le date. Del resto può darsi benissimo che lo stesso concetto di biografia avessero anche gli evangelisti; i quali però non si curarono dell’ossatura, appunto perché non mirarono a scrivere una «biografia». E in realtà i due evangelisti che portano avanti la loro narrazione in maniera meno lontana dal tipo biografico (sebbene con metodi e scopi fra loro differenti) sono Luca e Giovanni, i quali appunto sono i meno avari di date cronologiche, il primo per i fatti esterni, il secondo per quelli interni. I Vangeli, e più generalmente la catechesi in essi riecheggiata, miravano all’edificazione e formazione spirituale, non già all’erudizione storica; senza dubbio era necessario a quella loro mira spirituale narrare fatti e dottrine di Gesù, ma non era affatto indispensabile inquadrare la loro narrazione in una compassata cornice cronologica o ricollegarla con fatti contemporanei esterni. Gesù era il padre del primo evo cristiano, e di un padre scomparso il figlio ricorda con esattezza avvenimenti ed ammaestramenti, anche se trascura di menzionare il preciso giorno in cui accadde tal fatto o ricevette tale ammonizione: il vero patrimonio morale lasciato dal padre sono i suoi fatti e le sue ammonizioni, mentre la loro cronologia potrà essere tutt’al più un’aggiunta erudita. Perciò la catechesi primitiva badò al patrimonio, non già all’erudizione; raccolse fatti e dottrine che edificavano lo spirito, senza molto curarsi dei giorni e degli anni che appagavano la curiosità della mente. Tuttavia i due evangelisti testé nominati si curano alquanto della cronologia, appunto perché sono gli ultimi fra i quattro e mirano a scopi particolari oltre a quelli comuni della catechesi. Luca ha qualche preoccupazione di storia universale (§ 141), e perciò egli offre l’unico dato cronologico ben netto che ricolleghi i racconti evangelici con la storia profana (Luca, 3, 1-2). Giovanni non bada alla storia profana, ma vuole precisare molti punti che i precedenti evangelisti hanno lasciato nel vago: perciò ne precisa anche la cronologia interna, fornendo in proposito quei molti elementi a cui già accennammo (§ 163). Solo da quei due evangelisti si traggono le date cronologiche disponibili per una odierna «biografia» di Gesù. Se è vero che la geografia e la cronologia sono i due occhi della storia, bisogna oggi raccogliere premurosamente queste date disponibili, come si ricercano accuratamente le testimonianze geografiche. Le date sono troppo scarse e le conclusioni spesso troppo incerte, in confronto con la minuziosità che sarebbe oggi desiderio comune; tuttavia, entro certi limiti, un’approssimativa certezza può essere raggiunta nelle singole questioni che passiamo ad esaminare.

• La nascita di Gesù. § 173. Un elemento assolutamente sicuro per fissare la data della nascita di Gesù è che egli nacque prima della morte di Erode il Grande, cioè prima del tempo tra la fine di marzo e il principio di aprile dell’anno 750 di Roma, 4° av. Cr., essendo certo che Erode morì in quel tempo (§12). Ma quanto tempo prima della morte di Erode era nato Gesù? Ricorrendo a vari argomenti si riesce a circoscrivere entro certi limiti il tempo utile anteriore al 750 di Roma. Un argomento si può trarre dal comando di Erode che fece uccidere tutti i bambini nati in Beth-lehem da un biennio in giù (Matteo, 2, 16), ritenendo con ciò d’includervi sicuramente il bambino Gesù: dunque Gesù era nato molto meno di un biennio prima, giacché si può supporre a buon diritto che Erode abbondasse assai nella misura stabilita per esser certo di raggiungere il suo scopo. Ma questa misura di un biennio non risale dalla morte di Erode, bensì dalla visita dei Magi i quali appunto fornirono a Erode la base dei suoi calcoli. D’altra parte i Magi al loro arrivo trovarono Erode ancora a Gerusalemme (Matteo, 2, 1 segg.), mentre noi sappiamo che il vecchio monarca, già malato e aggravatosi di salute, si fece trasportare nella tiepida Gerico ove poi morì: possiamo anche ragionevolmente stabilire che questo trasporto avvenne ai primi rigori dell’inverno con cui si chiudeva l’anno 749 di Roma, cioè un 4 mesi prima della morte di Erode. La consecuzione dei fatti è dunque questa: nascita di Gesù; arrivo dei Magi a Gerusalemme; decreto di strage dei bambini nati da un biennio; partenza di Erode per Gerico; morte di Erode. Per collegare cronologicamente i due termini estremi - cioè la nascita di Gesù e la morte di Erode - dobbiamo calcolare il biennio stabilito nel decreto di Erode, pur avendo presente che è una misura assai sovrabbondante, ma dobbiamo anche farvi l’aggiunta dei 4 mesi testé stabiliti. Un’altra aggiunta da fare è l’intervallo tra l’arrivo dei Magi e la partenza di Erode per Gerico, ma di ciò non sappiamo nulla di preciso. Una terza aggiunta è l’intervallo tra la nascita di Gesù e l’arrivo dei Magi: di questo intervallo sappiamo soltanto che non poté essere inferiore ai 40 giorni della purificazione (Luca, 2, 22 segg.), perché Giuseppe certamente non avrebbe esposto il bambino Gesù al grave pericolo di presentarlo a Gerusalemme se ivi fosse già stata decretata la morte del neonato; tuttavia questo stesso intervallo può essere stato notevolmente maggiore di 40 giorni. In conclusione, risalendo per questa via dalla data di morte di Erode, possiamo concludere che la grande sovrabbondanza del biennio decretato da Erode colmi in maniera tale i 4 mesi e i due intervalli testé esaminati, che ne sopravanzi anche qualche piccolo spazio di tempo quindi Gesù sarebbe nato un po’ meno di un biennio prima della morte di Erode, cioè sullo scorcio dell’anno 748 di Roma (6 av. Cr.).

• § 174. Un altro argomento per fissare la data della nascita di Gesù potrebbe essere il censimento di Quirinio, che dette occasione al viaggio di Giuseppe e Maria a Beth-lehem; ma tale questione è così complessa che merita d’esser trattata a parte (§ 183 segg.). Molti studiosi, poi, hanno cercato un altro argomento ricorrendo a dati astronomici, tentando cioè d’identificare la stella apparsa ai Magi con qualche straordinaria meteora. Già il famoso Kepler credette che la stella dei Magi fosse la congiunzione di Giove con Saturno avvenuta nell’anno 747 di Roma (7 av. Cr.); altri dopo di lui, fino ai nostri giorni, la identificarono o con la cometa di Halley o con altre meteore apparse verso questi tempi. In questi tentativi, fuor della buona intenzione, non c’è altro da apprezzare, giacché scelgono una strada totalmente falsa: basta fermarsi un istante sulle particolarità del racconto evangelico (Matteo, 2, 2. 9. 10) per comprendere che quel racconto vuole presentare un fenomeno assolutamente miracoloso, il quale non si può in alcun modo far rientrare nelle leggi stabili di una meteora naturale sebbene rara. Numerosi sono stati anche i tentativi per fissare, se non proprio il giorno, almeno la stagione in cui nacque Gesù; ma pure questi tentativi sono tutti vani. La circostanza che nella notte in cui nacque Gesù c’erano attorno a Beth-lehem pastori che vegliavano all’aperto per custodire i greggi (Luca, 2, 8), non dimostra che allora fosse una stagione mite, forse la primaverile, come talvolta si è concluso: risulta infatti che, specialmente nella Palestina meridionale, ov’è Bethlehem, vi erano greggi che rimanevano all’aperto anche nelle notti invernali senza alcun inconveniente. Fine.

[L’opera utilizzata è la rigorosa «Vita di Gesù Cristo» dell’Abate Giuseppe Ricciotti, Imprimatur 1940, 7a Edizione, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941].

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.

Comunicato numero 91. Il Vangelo secondo San Giovanni. Parte seconda ed ultima

Stimati Associati e gentili Sostenitori, grazie a Dio oggi studieremo la seconda ed ultima parte de «Il Vangelo secondo San Giovanni». L’opera utilizzata è la rigorosa «Vita di Gesù Cristo» dell’Abate Giuseppe Ricciotti, Imprimatur 1940, 7a Edizione, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.

• § 162. In Giov., 2, 28, si parla di una Bethania di la’ dal Giordano, sconosciuta altronde; al contrario, in 11, 18, si ricorda che Bethania era soltanto a 15 stadi da Gerusalemme, cioè a circa 2800 metri, mentre da Gerusalemme per arrivare al Giordano, sono una quarantina di chilometri. - Senonché c’erano due Bethanie (come c’erano due Beth-lehem, e due Beth-horon, ecc.). La Bethania del Giordano era vicina ad un passaggio del fiume che si compiva su barca, donde forse il suo nome (beth-onijjah, «casa della nave»); ma il luogo, per la stessa ragione, era chiamato anche Beth-abarah («casa del passaggio»), come Origene legge in questo tratto invece di Bethania. Sul posto si sono trovate recentemente antiche installazioni. In 5, 2 (testo greco) si dice che a Gerusalemme, presso la Porta delle pecore o Probatica, c’era una piscina chiamata Bethzatha, o Bezetha, forse dal nome del quartiere; ma si aggiunge che questa Piscina aveva cinque portici. Era dunque recinta da un porticato pentagonale? Forma assai strana: la quale non ha mancato di suggerire a studiosi moderni che deve trattarsi di una scena tutta allegorica, in cui la piscina simboleggia la fonte spirituale del giudaismo, e i cinque portici rappresentano i cinque libri della Legge. - Senonché, anche qui, gli scavi recenti hanno fatto crollare tutto questo bel castello di fantasie allegorizzanti. Si è trovato, cioè, che la piscina era regolarmente recinta da quattro portici, formando un rettangolo lungo 120 metri e largo 60; ma un quinto portico l’attraversava in mezzo, dividendola in due bacini (§ 384). In 19, 13 si narra che Pilato, mentre si svolgeva il processo, condusse fuori Gesù e si assise su tribunale in un luogo chiamato Lithostrotas, ma in ebraico Gabbatha. Dov’era questo luogo dal doppio nome, di cui non si hanno altre notizie? - Precise notizie invece sono state fornite da scavi di qualche anno fa. I due nomi non pretendono affatto di essere la traduzione etimologica l’uno dell’altro, bensì sono due equivalenti designazioni di uno stesso luogo: questo luogo, ch’era sulla fortezza Antonia, è stato testé ritrovato, e archeologicamente mostra tutti i caratteri dell’epoca di Erode il Grande, costruttore dell’Antonia (§ 578).

• § 163. Questa precisione riguardo alla topografia si ritrova anche riguardo alla cronologia, quasi per dar ragione al noto assioma che i due occhi della vera storia sono la geografia e la cronologia. Confrontando la cronologia interna offerta dai Sinottici nella biografia di Gesù, con quella offerta da Giovanni, si ha l’impressione che quest’ultimo vada in cerca d’occasioni per precisare e delimitare ciò che quelli hanno lasciato nel vago. Limitandosi ai Sinottici, sembrerebbe che la vita pubblica di Gesù potesse restringersi entro un solo anno, e anche meno; Giovanni invece, ricordando espressamente tre differenti Pasque, estende quella durata almeno a due anni e qualche mese (§177). In 2, 11, si fa espressamente notare che l’inizio dei miracoli operati da Gesù fu quello delle nozze di Cana, cioè proprio un fatto non narrato dai Sinottici; e subito appresso (2, 13 segg.) si mette, quasi come primo atto solenne e autoritario della vita pubblica di Gesù, la cacciata dei venditori dal Tempio, mentre i Sinottici trattano di questo argomento solo pochi giorni prima della morte di Gesù. E in quale anno avvenne la cacciata dei venditori dal Tempio, computando da qualche insigne avvenimento della storia palestinese? Avvenne 46 anni dopo che si era cominciata la ricostruzione del «santuario» nel Tempio: ma anche ciò sappiamo solo da Giovanni (2, 20). Infine, se si legge il racconto della passione secondo i Sinottici, si conclude che Gesù ha celebrato con i suoi discepoli il banchetto della Pasqua ebraica la sera precedente al giorno di sua morte: quel banchetto, cioè, che legalmente doveva celebrarsi la sera del giorno 14 del mese Nisan, cosicché Gesù sarebbe morto il 15 Nisan. Giovanni invece ha cura di avvertire che, il mattino stesso del giorno in cui Gesù fu ucciso, i Giudei che in folla lo accusavano davanti a Pilato non avevano ancora celebrato il banchetto pasquale; infatti essi non entrarono nel pretorio affinché non si contaminassero, bensì mangiassero la Pasqua (Giov., 18, 28), giacché contaminandosi si sarebbero resi inabili a quella celebrazione da tenersi la sera stessa: in tal caso Gesù sarebbe morto il 14 Nisan, ma il suo banchetto della sera precedente non sarebbe stato quello legale della Pasqua ebraica. Non è questo il momento d’addentrarsi in questa celebre questione, per mostrare che i Sinottici e Giovanni possono avere egualmente ragione (§ 536 segg.): ma è ben opportuno far rilevare, ancora una volta, con quanta studiata fermezza Giovanni segua una sua propria cronologia, precisando ciò che gli evangelisti anteriori avevano lasciato imprecisato.

• § 164. Questi, del resto, sono soltanto alcuni tratti da cui risulta che il narratore scrive con una conoscenza tutta personale e diretta dei fatti, ma le prove potrebbero facilmente allungarsi di molto. Giovanni sa bene ciò che hanno raccontato i Sinottici, ma deliberatamente vuol battere una strada diversa dalla loro. Senza pretendere affatto di esaurire l’argomento (cfr. Giov., 21, 25), egli vuole supplire parzialmente a quanto i Sinottici non hanno narrato: il computo materiale dimostra che su 100 parti del IV Vangelo, 92 non si ritrovano nei Sinottici. Qualche volta, tuttavia, i due racconti si corrispondono necessariamente a causa dell’argomento: ma anche in questi casi Giovanni appare spesso come il testimonio che vuole integrare e precisare. Ciò è chiarissimo nel racconto della passione. I Sinottici non hanno detto chi fosse quel discepolo che con un colpo di spada mozzò l’orecchio destro al servo del sommo sacerdote, né come si chiamasse il servo; Giovanni precisa che il discepolo fu Simone Pietro e che il servo si chiamava Malcho (18, 10). Arrestato Gesù, sembrerebbe secondo i Sinottici che fosse condotto direttamente alla casa del sommo sacerdote Caifa; Giovanni vuol dissipare questa inesatta apparenza, ed informa che lo condussero presso Anna dapprima (18, 13) dandone subito appresso la ragione. - I Sinottici fanno che Pietro segua l’arrestato ed entri immediatamente nell’atrio del sommo sacerdote; secondo Giovanni, invece, Pietro segue insieme con un altro discepolo ma si ferma dapprima fuori dell’atrio, mentre l’altro discepolo entra subito, e solo più tardi Pietro può entrare grazie all’intercessione del discepolo (18, 15-16). - Dal solo Giovanni e non dai Sinottici, si apprende che Pilato interroga Gesù nell’interno del pretorio, mentre i Giudei restano al di fuori; come pure solo Giovanni descrive la scena dell’Ecce homo, e riporta la discussione fra Pilato e i Giudei, mentre il primo anche dopo la flagellazione di Gesù tenta di liberarlo e i secondi si protestano fedeli sudditi di Cesare (18, 33 segg.; 19, 4 segg.). - Soltanto Giovanni fa sapere che a Gesù morto non fu praticato il crurifragio romano, ma che in sua vece gli fu squarciato il petto con una lanciata (19, 31-34). Subito appresso a quest’ultima notizia si aggiunge: E chi ha visto (ciò) ha testimoniato, e verace è la testimonianza di lui (19, 35); questo testimonio oculare è appunto il discepolo prediletto, la cui presenza ai piedi della croce, insieme con la madre di Gesù, è stata ricordata poco prima egualmente dal solo Giovanni (19, 25-27). In tutti questi particolari, così minuziosi e realistici, non traspare in alcun modo nessuno di quei tanti sottintesi allegorici che taluni studiosi recenti v’insinuano di proprio arbitrio.

• § 165. Che Giovanni batta una strada diversa dai Sinottici, appare da tutto il contenuto. I Sinottici insistono sul ministero di Gesù in Galilea, Giovanni invece insiste sul ministero in Giudea e Gerusalemme. Soltanto sette miracoli di Gesù sono riferiti da Giovanni, ma di essi ben cinque non si trovano nei Sinottici. Più che ai fatti di Gesù, Giovanni fa posto ai ragionamenti dottrinali di lui, e specialmente alle sue dispute con i maggiorenti Giudei. In questi discorsi, come nel restante dello scritto, affiorano frequentemente alcuni concetti caratteristici, che presso i Sinottici sono ben rari o del tutto sconosciuti: tali i simboli Luce, Tenebra, Acqua, Mondo, Carne, o gli astratti Vita, Morte, Verità, Giustizia, Peccato. Ma Giovanni, se non segue la tradizione sinottica, non la perde mai d’occhio. Giustamente ha detto il Renan che Giovanni aveva una sua propria tradizione, una tradizione parallela a quella dei sinottici, e che la sua posizione è quella d’un autore che non ignora ciò ch’è già stato scritto sull’argomento ch’egli tratta, approva molte delle cose già dette, ma crede d’avere informazioni superiori e le comunica senza preoccuparsi degli altri. Non è però tutto qui. Giovanni, pur nel suo silenzio, impiega la tradizione sinottica indirettamente, in quanto la presuppone già nota ai lettori; come, dall’altro lato, nei Sinottici non mancano allusioni che trovano la loro piena giustificazione solo nella tradizione di Giovanni. Si direbbe che le due tradizioni, cortesemente, si dicano a vicenda: Nec tecum, nec sine te. Nulla racconta Giovanni né della nascita di Gesù, né della sua vita privata; parla della madre di lui ma senza nominarla giammai, benché nomini altre Marie; riporta due volte l’espressione Gesù figlio di Giuseppe (1, 45; 6, 42), ma senza sentire la necessità di spiegare tale ambigua designazione; dice di scrivere per indurre a credere che Gesù è il Cristo, il figlio d’iddio (20, 31), e non accenna affatto alla scena della trasfigurazione sul Tabor che sarebbe stata opportunissima a quello scopo; riporta un lungo discorso taciuto dai Sinottici in cui Gesù si presenta come mistico pane celestiale (6, 25 segg.), e non ha una parola sull’effettiva istituzione dell’Eucarestia all’ultima cena. Eppure, queste manchevolezze non sono manchevoli e queste incongruenze sono congruentissime, per la semplice ragione che Giovanni non vuol ripetere ciò ch’era già notorio, e fa assegnamento sulla conoscenza che i suoi lettori già avevano della tradizione sinottica. Ma, alla sua volta, anche la tradizione sinottica presuppone quella di Giovanni. Pochissimo dicono i Sinottici, e specialmente i primi due, del ministero di Gesù a Gerusalemme; tuttavia due di essi riportano la deplorazione di Gesù: Gerusalemme, Gerusalemme, uccidente i profeti e lapidante gl’inviati ad essa! Quante volte volli coadunare insieme i tuoi figli, alla maniera che una gallina coaduna i suoi pulcini sotto le ali, e (voi) non voleste! (Matteo, 23, 37; Luca, 13, 34). Dalle sole narrazioni dei Sinottici non si riuscirebbe a giustificare l’esclamazione Quante volte volli...! perché essi trattano quasi esclusivamente il ministero di Gesù in Galilea. Giovanni invece, narrando non meno di quattro viaggi di Gesù a Gerusalemme, giustifica in pieno quell’esclamazione. Perciò i Sinottici presuppongono tacitamente la tradizione di Giovanni, e alla loro volta le ripetono: Nec tecum, nec sine te.

• § 166. Che l’autore del IV Vangelo sia un Giudeo d’origine, appare anche dal suo stile e dal suo modo d’esporre; tanto che alcuni moderni hanno supposto, esagerando, ch’egli abbia scritto originariamente in aramaico. In realtà egli spesso impiega, oltre ad espressioni semitiche, come godere di gaudio (3, 29), figlio della perdizione (17, 12), ecc., anche voci semitiche, ma che regolarmente traduce in greco per farsi capire dai suoi lettori, come Rabbì e Rabbonì (1, 38; 20, 16), Messia (1, 41), Kefa (1, 42), Siloam (9, 7), ecc. Anche il periodare è grecamente povero, elementare, alieno da ogni costruzione complessa e subordinata; ma, al contrario, vi si osserva una spiccata tendenza a quel parallelismo di concetti che è base della forma poetica ebraica. Ad esempio: Non è servo maggiore del signore di lui, nè messo maggiore di chi inviò lui... Chi accoglie alcuno, se io lo mando, accoglie me, e chi accoglie me, accoglie chi inviò me (13, 16... 20) La donna, quando partorisca, ha tristezza, perché venne l’ora di lei: ma quando partorì il bambino, più non rammenta l’angustia per il gaudio che è nato un uomo nel mondo (16, 21). La forma paratattica e slegata rende spesso difficile di rintracciare l’occulta connessione dei pensieri; ma, in compenso, il suo procedere sentenzioso e solenne infonde a tutto il discorso un’arcana maestà ieratica, che colpisce il lettore fin dal principio dello scritto: In principio era il Logos, e il Logos era presso Iddio ed era Dio il Logos. Costui era in principio presso Iddio: tutte le cose per mezzo di lui furono, e senza lui non fu neppure una cosa ch’e stata. In lui era Vita, e la Vita era la Luce degli uomini: e la Luce nella Tenebra apparve, e la Tenebra non la comprese... Era la Luce vera, la quale illumina ogni uomo venendo (ella) nel mondo. Nel mondo era, e il mondo per lui fu, e il mondo non lo conobbe... E il Logos carne divenne, e s’attendò fra noi (1, 1... 14).

• § 167. Ma appunto questo solennissimo inizio è servito da inizio a un lungo elenco di difficoltà. Come poteva l’incolto pescatore di Bethsaida elevarsi a concetti così sublimi? Come poteva, egli solo fra tutti gli scrittori del Nuovo Testamento, spingersi a proclamare l’identità dell’uomo Gesù non solo con il Messia ebraico ma perfino con l’eterno Logos divino? In qual maniera passò egli, dalle astuzie della pesca, a speculare sulle finezze concettuali di quel Logos di cui tanto avevano ragionato l’antica filosofia greca e la contemporanea alessandrina? Come mai il Gesù da lui tratteggiato è così diverso da quello dei Sinottici, e così trascendente, così «divino»? Donde provengono quei discorsi di Gesù, così ampi e così ricchi di astrazioni e allegorie? Donde quei dialoghi in cui gl’interlocutori di Gesù fanno la figura di pulcini che si sentano sollevati tra le nuvole dall’artiglio dell’aquila, e sbalorditi rispondono con goffaggini, come fanno Nicodemo e la Samaritana, e spesso gli stessi discepoli? Queste e molte altre considerazioni sono fatte, per poi concluderne che tutto lo scritto non può essere opera del pescatore di Bethsaida: esso quindi riassumerà le mistiche speculazioni di qualche solitario filosofo che ha religiosamente idealizzato il Gesù storico, non senza impiegare concetti che provenivano dal platonizzante giudaismo alessandrino, o dal sincretismo ellenistico, o dalle religioni misteriche, o anche dal Mandeismo. Che questa attribuzione ad uno sconosciuto sia in contrasto con le più antiche testimonianze storiche, è cosa più che evidente; ma ciò non disturba i suoi sostenitori, i quali non attribuiscono molto peso a quelle testimonianze, salvo che esse sembrino deporre in loro favore, come nel caso del presunto martirio di Giovanni (§ 156) giacché in casi siffatti quegli abituali scettici dei documenti si precipitano su testi miserevolissimi millantandone l’importanza. Ad ogni modo si può domandare perché mai nelle condizioni del solitario filosofo sconosciuto non possa essersi ritrovato proprio Giovanni di Bethsaida. Egli era pescatore, è vero: ma da accenni dei Vangeli sembra che suo padre Zebedeo fosse un agiato possessore di barche, e quindi poteva aver fatto impartire a suo figlio una certa istruzione metodica. Checché sia di ciò, era perfettamente nelle abitudini palestinesi coltivare l’erudizione e nello stesso tempo praticare un mestiere. S. Paolo lavorava con le sue mani; e prima e dopo di lui lavorarono il celebre Hillel che guadagnava solo mezzo «denaro» al giorno, e Rabbi Aqiba ch’era spaccalegna, e Rabbi Joshua ch’era carbonaio, e Rabbi Meir ch’era scrivano, e Rabbi Johanan ch’era calzolaio, e tanti altri che formarono tra i dottori talmudici la maggioranza, mentre la minoranza era formata da uomini facoltosi che non avevano bisogno di esercitare un mestiere. Se l’ardente Giovanni, vero figlio del tuono (Marco, 3, 17), si mise ancor giovanissimo alla sequela dapprima di Giovanni il Battista e poi di Gesù, poté restare privo di quest’ultimo maestro nell’età di poco più che vent’anni. Allora egli, fedele alle usanze della sua regione, si concentrò nello studio della Legge, ma non già di quella investigata nelle contemporanee scuole rabbiniche, bensì di quella nuova Legge di perfezione e di amore ch’era stata proclamata dal suo ultimo maestro, e i cui ricordi - anche senza ch’egli scrivesse nulla - si conservavano nettissimi nel suo spirito. Nell’archivio della memoria, ch’era l’unico archivio che funzionasse anche nelle scuole rabbiniche d’allora (§§ 106, 150), Giovanni poté svolgere durante lunghissimi anni un amoroso lavorio attorno a quei tesori depositativi dallo scomparso maestro; il quale, come aveva avuto per il giovanissimo discepolo una predilezione particolare, così doveva avergli fatto confidenze e comunicazioni particolari. Da questo lavorìo di redazione mentale e di pratica sistemazione sorse la «catechesi» particolare a Giovanni, diversa ma non contraria a quella di Pietro e dei Sinottici, parzialmente suppletiva rispetto ad essa, parzialmente esplicativa, e soprattutto meglio rispondente alle nuove condizioni esterne del messaggio cristiano.

• § 168. Anche la catechesi di Giovanni, infatti, già elaborata mentalmente prima di essere scritta, deve aver vissuto vari decenni di vita soltanto orale. Mentre il discepolo meditava sui ricordi del maestro, li comunicava anche ai fedeli affidati alle sue cure, dapprima in Palestina, e poi in Siria e in Asia Minore. Ora, in questi nuovi campi d’azione Giovanni, inoltrato ormai negli anni e sempre più autorevole per la graduale scomparsa degli altri Apostoli, incontrava ostacoli di nuovo genere; non si opponevano più le vecchie conventicole di cristiani giudaizzanti che tanto avevano molestato Paolo, bensì erano le varie correnti di quella gnosi, in gran parte precristiana, che sul declinare del secolo I cominciavano ad infiltrarsi nell’alveolo del cristianesimo. Contro tali correnti bisognava far argine; e Giovanni, dai forzieri dei suoi ricordi, estraeva sempre nuovi e più adatti materiali per rendere particolarmente efficace la sua propria catechesi contro la nuova minaccia. Un certo giorno - come possiamo già astrattamente supporre, e come effettivamente attestano il Frammento Muratoriano e Clemente Alessandrino (§§ 159, 160) - i discepoli del vegliardo lo forzano amorevolmente per ottenere in iscritto la parte essenziale di quella sua catechesi. Giovanni la detta; ma in fondo a tutto lo scritto sarà apposta, a guisa di sigillo, una dichiarazione collettiva d’autenticità rilasciata unitamente da chi aveva concesso e da chi aveva richiesto lo scritto: Costui è il discepolo che testimonia circa queste cose e scrisse queste cose: e (noi) sappiamo che vera è la testimonianza di lui (21, 24).

• § 169. Questa preistoria spiega l’indole speciale dello scritto di Giovanni, già chiamato il Vangelo spirituale per eccellenza. In tutte le maniere esso fa risaltare la trascendenza e la divinità del Cristo Gesù, perché questo era il principale suo scopo (20, 31) contro la gnosi di provenienza pagana: di qui il suo particolare carattere. Ma la medesima tesi, sviluppata più parcamente o anche solo appena abbozzata, si ritrova già nei Sinottici, e specialmente in Marco brevissimo fra tutti, com’è riconosciuto da parecchio tempo da critici radicalissimi (i quali perciò scompongono Marco in vari strati, ripudiandone le parti «soprannaturali» e «dogmatiche»). Giovanni avrà enormemente accresciuto, ma non ha innovato; fra le moltissime cose che si sarebbero potute dire di Gesù (cfr. 21, 25), egli studiosamente trascelse taluni particolari fino al suo tempo non detti ma proprio allora opportunissimi a dirsi, senza però inventarli, e li unì con altre notizie già comuni e diffuse. Ne risultò un Gesù più illuminato di luce divina, ma fu in conseguenza della scelta di Giovanni: come il Gesù dei Sinottici è figura più umana, ma egualmente in conseguenza della scelta dei Sinottici. Ciascun biografo ha delineato il biografato dal punto di vista da cui lo ha contemplato: e lo ha delineato tutto, sebbene non totalmente, perché nessuno di essi ha preteso riprodurre tutti i singoli tratti della sua figura. Se i discorsi e i dialoghi di Gesù nel IV Vangelo sono straordinariamente elevati, non per questo sono meno storici di quelli dei Sinottici. Sarebbe antistorico supporre che Gesù parlasse in un medesimo tono sempre e in ogni occasione, sia quando si rivolgeva ai montanari della Galilea con cui lo fanno parlare di solito i Sinottici, sia quando discuteva con i sottili casuisti di Gerusalemme, con cui per lo più lo fa parlare Giovanni. Prescindendo poi dall’elevatezza dei concetti, il metodo seguito nelle discussioni con gli Scribi e i Farisei mostra numerose analogie con i metodi seguiti nelle dispute rabbiniche di quei tempi: dotti Israeliti moderni, particolarmente versati nella conoscenza del Talmud, hanno sagacemente rilevato siffatte analogie, considerandole come una collettiva conferma del carattere storico dei discorsi del IV Vangelo [Anche su questo argomento la più abbondante documentazione è raccolta in Strack e Billerberck, Kommentar zum N. Test. aus Talmud und Midrasch, vol. II, 1934, in tutta la parte riservata al Vangelo di Giovanni]. Anche rivolgendosi ai suoi discepoli, Gesù deve aver parlato in toni differenti: più semplicemente ai primi tempi in cui lo seguivano, più complessamente in seguito, per sollevarsi fino ad altezze non mai ancora raggiunte pronunziando il discorso di commiato all’ultima cena. Inoltre, fra i discepoli stessi egli dovette avere i suoi intimi e prediletti, a cui doveva riservare confidenze che non comunicava agli altri (cfr. 13, 21-28): intimo fra questi intimi era, come già sappiamo, Giovanni, il quale perciò, anche dal semplice punto di vista storico, fu un testimonio superiore ad ogni altro.

• § 170. E questo singolare testimonio comincia il suo scritto affermando che Gesù è il divino Logos fattosi uomo. Ma anche in questa affermazione egli mostra il suo senso storico, sebbene applicato ad una visione teologica dei fatti: quel Logos che è dall’eternità presso Dio, è diventato uomo pochi anni fa, e contemplammo la gloria di lui, gloria come di unigenito da Padre (1, 14). Giammai però il verace testimonio, scrupoloso nella sua storicità, afferma che Gesù si sia chiamato da se stesso Logos: egli solo, Giovanni, lo chiama con questo nome, sia nel prologo al Vangelo, sia in quella sua lettera che si può ben considerare come uno scritto d’accompagnamento al Vangelo (I Giovanni, 1, 1), sia nell’Apocalisse (19, 13). In tutto il Nuovo Testamento il termine personale Logos occorre in questi tre soli luoghi. Se ne può concludere che il termine non era usato né dalla catechesi che metteva capo a Pietro, né da quella che metteva capo a Paolo: al contrario, nella catechesi orale di Giovanni il termine doveva essere abituale, giacché egli l’impiega fin dalle prime righe senza spiegazione alcuna, certamente supponendolo già noto ai suoi lettori. Il termine, come nuda voce, era già noto alla filosofia greca dai tempi di Eraclito in poi: ma al medesimo termine corrisposero lungo i secoli concetti differenti, o presso i Sofisti o presso i Socratici (logica) o presso gli Stoici. Gran parte fece al Logos nelle sue speculazioni anche il giudeo alessandrino Filone, ma il suo concetto del Logos è differente da quello dei Greci, e si avvicina piuttosto a quello della «Sapienza» dell’Antico Testamento: a quest’ultimo si avvicina anche il concetto dei termini Memra e Dibbura (abbiamo semplificato i caratteri, ndR), col senso di parola (di Dio), che si trovano frequentissimi nei Targumin giudaici ma non nel Talmud. In Samaria, poi, Giovanni fu in relazione col più antico gnostico cristiano a noi noto, Simone Mago (Atti, 8, 9 segg.), il quale nel suo sistema - qualora se ne accetti l’esposizione fatta da Ippolito (Refut., VI, 7 segg.) - aveva incluso, invece del Logos, il Logismòs, che faceva parte della terza coppia di eoni: ed emanata dal Supremo Principio.

• § 171. Fino a pochi anni addietro si affermava fiduciosamente che Giovanni avesse desunto il concetto del suo Logos dall’una o l’altra delle teorie suaccennate, ma più comunemente da Filone. In realtà il Logos di Giovanni, ipostasi essenzialmente divina ed increata, è tutt’altro dal Logos di Filone, che appare come un essere fluttuante fra la personalità e l’attributo divino, e fungente quasi da tratto intermedio fra Dio immateriale e il mondo corporeo. Ad ogni modo sarebbe oramai inutile insistere su ciò, poiché la differenza fra i due concetti di Logos è stata riconosciuta recentemente dagli studiosi più radicali: (addirittura) lo stesso Loisy (delirante modernista scomunicato, ndR), che nella sua prima edizione del commento al IV Vangelo (1903, pagg. 121-122) aveva sostenuto non potersi negare l’influenza parziale delle idee filoniane su Giovanni, nella seconda edizione (1921, pag. 88) ha giudicato improbabile una dipendenza letteraria da Filone ritenendo che il Logos di Giovanni faccia piuttosto seguito alle personificazioni della Sapienza nell’Antico Testamento. È ciò che, già da secoli, avevano detto i vecchi Scolastici. Anche della dipendenza del Logos di Giovanni dal Mandeismo, non mette conto di parlare: questa teoria è stata un fuoco di paglia che qualche anno fa divampò per breve tempo, ma di cui oggi restano soltanto fredde ceneri (§ 214). È dunque da concludersi che il concetto del Logos di Giovanni è proprio esclusivamente a lui, e non trova vere corrispondenze in concetti anteriori. Quanto alla voce con cui Giovanni espresse questo suo concetto, sembra che egli la impiegasse perché, trovandola adatta al concetto e divulgata già nel mondo greco-romano, volle avvicinarsi almeno per la strada della terminologia a quel mondo, e così guadagnarlo al Logos Gesù. Egli quindi diventò greco con i Greci, come egualmente Paolo diventava tutto con tutti, con Giudei e con non Giudei, per guadagnare tutti alla buona novella (I Cor., 9, 19-23). Si narra che Cristoforo Colombo, allorché nelle sue navigazioni era colto da qualche tempesta, usasse collocarsi sulla prora della nave, e là ritto recitasse al cospetto del procelloso mare l’inizio del Vangelo di Giovanni: In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum... omnia per ipsum facta sunt... Sugli elementi perturbatori del creato risonava il preconio del Logos creatore: era l’esploratore del mondo che commentava a suo modo l’esploratore di Dio incominciando l’alto preconio, che grida l’arcano di qui laggiù, sovra ogni altro bando (Paradiso, XXVI, 43-45). Fine.

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.

Comunicato numero 90. Il Vangelo secondo San Giovanni. Parte prima.

Stimati Associati e gentili Sostenitori, grazie a Dio oggi studieremo la prima parte de «Il Vangelo secondo San Giovanni». L’opera utilizzata è la rigorosa «Vita di Gesù Cristo» dell’Abate Giuseppe Ricciotti, Imprimatur 1940, 7a Edizione, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.

• § 155. I tre Vangeli sinottici non contengono alcuna designazione diretta dei propri autori; al contrario nel IV Vangelo, unico non sinottico, siffatta designazione è contenuta, sebbene in maniera velata, dicendosi alla fine dello scritto: «Costui è il discepolo che testimonia circa queste cose e scrisse queste cose» (Giovanni, 21, 24); nella quale proposizione il pronome costui si riferisce a un discepolo che Gesù amava, e di cui si è trattato poco prima (21, 10). Questa dichiarazione conclusiva di tutto il libro, se non è una palese firma dell’autore, ne è come una velata sigla. Come interpretare questa sigla? Chi è l’anonimo discepolo che Gesù amava? La stessa designazione affettiva ritorna altre volte (13, 23; 19, 26; 20, 2; 21, 7.20), ma solo da quando la biografia di Gesù volge alla conclusione entrando nel periodo più tragico e più patetico, cioè dall’ultima cena in poi (13, 23): prima di questo periodo, quella designazione affettiva non compare. Ma compare un discepolo di Gesù, egualmente innominato, che è tra i primi a seguire Gesù, e che passa a lui, dopo essere stato alla sequela di Giovanni il Battista, insieme con Andrea di Bethsaida, fratello di Simone Pietro (1, 35-44). Compare anche nel processo di Gesù un innominato discepolo il quale, essendo conosciuto dal sommo sacerdote, si serve di questa conoscenza per far entrare Simone Pietro nell’atrio del sommo sacerdote (18, 15-16). Ora, questo discepolo anonimo e il discepolo che Gesù amava sono in realtà una sola e identica persona. Dai Sinottici, infatti, apprendiamo che i discepoli prediletti da Gesù erano gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni: dunque, ragionevolmente, fra questi tre deve stare il discepolo che Gesù amava. Ma costui certamente non è Pietro, il quale più d’una volta è nettamente distinto dal nostro ricercato (13, 23-24; 18, 15; 20, 2; ecc.); ma neppure è Giacomo, per le seguenti ragioni. Il Giacomo in questione è Giacomo il Maggiore, che aveva per padre Zebedeo e per madre Salome, ed era perciò fratello dell’apostolo Giovanni: essendo questi due fratelli nativi di Bethsaida, si comprende facilmente che fossero amici degli altri due fratelli Andrea e Simone Pietro, ch’erano della stessa borgata (1, 35-44; cfr. Marco, 1, 16-20). Senonché questo Giacomo fu ucciso da Erode Agrippa I assai presto (Atti, 12, 2), nell’anno 44, quando nessuno dei nostri Vangeli era scritto, tanto meno dunque il IV e ultimo, che è appunto attribuito al prediletto discepolo che ricerchiamo. Costui dunque deve essere l’altro fratello, cioè l’apostolo Giovanni, figlio di Zebedeo. Vari rilievi confermano questa conclusione. L’amicizia particolare che esisteva fra i compaesani Simone Pietro e Giovanni di Zebedeo, esisteva anche fra Simone Pietro e il discepolo che Gesù amava (13, 24-26; 18, 15-16; 20, 2 segg.; 21,7. 20 segg.). Inoltre mentre Simone Pietro è nominato in questo Vangelo ben una quarantina di volte, e spesso anche altri Apostoli, soltanto i fratelli Giacomo e Giovanni non vi sono giammai nominati, e solo una volta vi sono designati appellativamente come quelli di Zebedeo (21, 2); perché mai questa ignoranza, se specialmente Giovanni risulta dagli Atti come persona di somma autorità, e dallo stesso Paolo è ricordato subito dopo Pietro come una delle colonne della Chiesa (Galati, 2, 9)? È dunque un’ignoranza fittizia, dettata da modestia: è un riserbo simile a quello per cui Marco, «interprete» di Pietro, omette volentieri nel suo Vangelo i fatti onorifici a Pietro (§ 134). Si vedrà in seguito se, ai caratteri dell’autore così svelato, corrispondano le qualità interne dello scritto. Adesso, invece, ascoltiamo che cosa l’antica tradizione dice di lui.

• § 156. Ai piedi della croce di Gesù, insieme con Maria madre di lui, stava Giovanni, e da quell’ora la prese il discepolo in (casa) sua (Giov., 19, 27). Dopo la Pentecoste, Giovanni appare a fianco a Pietro in Gerusalemme (Atti, 3, 1 segg.) e poi in Samaria (ivi, 8, 14). Recandosi Paolo nell’anno 49 a Gerusalemme, per partecipare al concilio apostolico, vi trova Giovanni (Gal., 2, 9; cfr. Atti, 15, 1 segg.). Dopo ciò il custode della madre di Gesù non compare più in Palestina; probabilmente ne era partito prima dell’anno 58, allorché tornando Paolo a Gerusalemme non si fa menzione di Giovanni (Atti, 21, 15 segg.). La successiva tradizione addita Giovanni in Asia Minore, ad Efeso, sul finire del secolo I. Durante la persecuzione, mossa insieme contro giudei e cristiani da Domiziano negli ultimi due anni del suo impero (anni 81-96), Giovanni fu relegato nell’isola di Patmos, ove scrisse l’Apocalisse. Morto Domiziano, tornò ad Efeso, ove visse durante l’impero di Nerva (anni 96-98) e una parte di quello di Traiano; morì vecchissimo, forse nell’anno settimo di Traiano, cioè nel 104, di morte naturale. La sua tomba era venerata ad Efeso. Su questo fondo costante della tradizione si sovrapposero ben presto leggende e amplificazioni, favorite certo da quell’aura d’arcano prodigio che doveva aver circonfuso, già nella sua longevità, colui ch’era stato il prediletto amico di Gesù e il suo spirituale biografo. Una traccia di siffatte leggende si ritrova in fondo allo stesso Vangelo, ove sta scritto: «Uscì pertanto tra i fratelli questa parola “Quel discepolo non muore”. Tuttavia Gesù non gli disse “Non muore”, bensì “Se io voglio ch’egli rimanga finché io vengo, che importa a te (Pietro)?» (21, 23). Dunque, fra gli ammiratori del vegliardo erano alcuni i quali credevano ch’egli, non tocco da morte, sarebbe rimasto unico superstite dei discepoli di Gesù fino alla nuova venuta gloriosa di Lui: credenza pia ed affettuosa, ma che lo scrittore provvede a dissipare. Recentemente invece, si è fatto il tentativo inverso, essendosi ordita una regolare congiura per far morire Giovanni prima del tempo; alcuni studiosi, infatti, hanno supposto che egli sia stato ucciso nel 44 insieme con suo fratello Giacomo, o almeno in un anno imprecisato di poco posteriore. Questa sconcertante ipotesi, che merita appena d’esser presa in speciale considerazione, adduce come prove un passo evangelico interpretato arbitrariamente e un paio di testi incertissimi e tardivi, mentre a cuor leggiero respinge una congerie di testimonianze nettissime ed antiche; ma quei testi sono in realtà dei pretesti, mentre il vero motivo dell’ipotesi è di rendere impossibile l’attribuzione del IV Vangelo a Giovanni l’apostolo. [Abbiamo omesso di citare la lunga nota 1 alle pagine 164 e 165. L’Abate Ricciotti contrappone «la maestosa autorità delle prove» date dalla Chiesa, ai «miserabili frustoli di prove» addotte dai moderni. Conclude che la loro «tesi era già pregiudicata, prima e indipendentemente dalle (pretese nuove) prove storiche», ndR]

• § 157. Ecco pertanto le più antiche attestazioni circa la presenza di Giovanni ed il suo Vangelo. Anche qui primo in ordine di tempo è Papia (§ 114), sebbene la sua testimonianza questa volta sia più indiretta del solito e soltanto riassunta. (...) La notizia che il Vangelo fu pubblicato da Giovanni adhuc in corpore constituto, mentre smentisce, a morte avvenuta, la leggenda del-l’immortalità di Giovanni, vuole rilevare che lo scritto non fu pubblicato postumo, come forse si potrebbe erroneamente concludere dalla sua finale (21, 23-24). Verso l’anno 180 Ireneo, dopo aver parlato dei tre primi Vangeli, soggiunse: «Quindi Giovanni, il discepolo del Signore, quello che riposò pure sul petto di lui, anch’egli pubblicò il Vangelo, dimorando in Efeso d’Asia» (Adv. hær., III, 1, 1; testo greco in Eusebio, Hist. eccl., V, 8, 4). Non vi può esser ragionevole dubbio che per Ireneo questo Giovanni, discepolo del Signore, sia l’Apostolo che nell’ultima cena riposò sul petto di Gesù (Giov., 13, 23); ma il valore singolare d’Ireneo come testimonio su tale questione è dato dalla circostanza che egli da giovanetto, in Asia Minore, era stato uditore di Policarpo di Smirne, morto quasi novantenne nel 155, il quale a sua volta era stato uditore di Giovanni: cosicché da Ireneo si risale a Giovanni per il solo intermediario di Policarpo.

• § 158. Ma qui è da accennare ad una celebre questione, suscitata da un passo di Papia e dal commento che vi aggiunge Eusebio nel riportare il passo: cioè, se Ireneo non abbia confuso l’apostolo Giovanni con un suo omonimo. Papia dunque, volendo a principio del suo scritto manifestare la provenienza dei suoi insegnamenti, così si esprime: «Se mai fosse venuto taluno ch’era stato al seguito dei presbiteri (o anziani), io interrogavo sui detti dei presbiteri, che cosa Andrea o che cosa Pietro disse, o che cosa Filippo, o che cosa Tommaso o Giacomo, o che cosa Giovanni o Matteo, o alcun altro dei discepoli del Signore, inoltre quelle cose che Aristione e il presbitero Giovanni, discepoli del Signore, dicono». Alla quale citazione di Papia (tradotta con fedeltà meticolosa) Eusebio fa seguire questo commento: «Qui è anche opportuno rilevare che egli due volte enumera il nome di Giovanni, il primo dei quali egli cataloga insieme con Pietro e Giacomo e Matteo e gli altri apostoli, mostrando apertamente (che è) l’evangelista: invece l’altro Giovanni egli colloca - facendo una distinzione nel ragionamento - tra gli altri fuor del numero degli apostoli, mettendo avanti a lui Aristione e apertamente chiamandolo presbitero. Cosicché, pure da tali cose, è dimostrata vera l’informazione di coloro che hanno detto esservi stati due omonimi in Asia ed esistere in Efeso due tombe, dette anche adesso ambedue di Giovanni. È anche necessario fare attenzione a queste cose, poiché se taluno non ammette che sia stato il primo, è verosimile che sia stato il secondo, colui che ha contemplato l’Apocalisse che va in giro sotto il nome di Giovanni» (Hist. eccl., III, 39, 4-6); di qui Eusebio conclude che Ireneo, affermando che Papia è stato l’uditore di Giovanni e compagno di Policarpo, abbia scambiato Giovanni il Presbitero con Giovanni l’apostolo (ivi, 1-2). Infinite sono state le discussioni su questi testi, a cominciar da quella sull’esattezza della loro trasmissione. Prima di Eusebio, a quanto ci risulta, nessuno pensò all’esistenza di due Giovanni, salvo Dionisio d’Alessandria a mezzo il secolo III; il quale tuttavia attribuisce il Vangelo all’Apostolo e non al Presbitero (ivi, VII, 25, 7-16), come del resto fa pure Eusebio. Cedendo alla prima impressione che fanno le nude parole di Papia, verrebbe certo spontanea la distinzione di due Giovanni: ma questa prima impressione potrebbe anche esser fallace, per varie ragioni che sarebbe qui fuor di luogo ricordare. Ad ogni modo, anche se si preferisce distinguere due Giovanni, l’attribuzione del Vangelo a Giovanni l’apostolo non resta minimamente pregiudicata, come appare già dall’opinione di Dionisio e di Eusebio, il quale ultimo aveva sott’occhio l’intero scritto di Papia. Quand’anche si dimostrasse con certezza che Ireneo abbia confuso due Giovanni diversi, altrettanto non si potrebbe davvero dire di Policarpo ch’era stato in relazioni personali con Giovanni; come d’altra parte all’apostolo Giovanni, indipendentemente dall’esistenza di un altro Giovanni, è attribuito il Vangelo dalle attestazioni di altre chiese d’Asia e d’Occidente, le quali - checché si sia congetturato recentemente - non sono in alcuna maniera sotto l’influenza di Ireneo.

• § 159. Non è sotto tale influenza la testimonianza di Policrate che, non solo era vescovo di Efeso e scriveva a nome di altri vescovi d’Asia, ma era egli stesso l’ottavo vescovo di sua famiglia, e perciò erede di antiche tradizioni. Egli dunque, scrivendo al papa Vittore in Roma (anni 189-199), ricorda Giovanni, quello che riposò sul petto del Signore, che fu sacerdote portante il «pètalon», e martire e maestro: costui s’addormentò in Efeso (in Eusebio, Hist. eccl., V, 24, 3). L’accenno al pètalon è un’applicazione simbolica della veste liturgica riservata nell’Antico Testamento al sommo sacerdote (cfr. Esodo, 28, 36; 39, 30); il resto è chiaro, anche il termine martire impiegato in senso largo, come già accennammo (§ 156, «martirio soltanto morale di dolori», ndR) e come è confermato dal seguente s’addormentò. Veramente si è asserito che anche Policrate abbia confuso i due Giovanni, ma l’asserzione non è stata in alcun modo provata. In Occidente, la tradizione della chiesa di Roma è rappresentata specialmente dal Frammento Muratoriano (§ 136), che sul IV Vangelo si diffonde più che sugli altri scritti. Eccone il passo relativo, corretto anche questa volta dagli errori più grossolani: «Quantum evangeliorum Johannis ex discipulis. Cohortantibus condiscipulis et episcopis suis dixit: Conieiunate mihi hoc triduo, et quid cuique fuerit revelatum, alterutrum nobis enarremus. Eadem nocte revelatum Andreæ ex apostolis, ut recognoscentibus cunctis Johannes suo nomine cuncta describeret. Et ideo, licet varia singulis evangeliorum libris principia doceantur, nihil tamen differt credentium fidei, cum uno ac principali Spiritu declarata sint in omnibus omnia ... Quid ergo mirum, si Johannes tam constanter singula etiam in epistulis suis profert, dicens in semetipsum “Quæ vidimus oculis nostris, et auribus audivimus, et manus nostræ palpaverunt, hæc scripsimus vobis” (cfr. I Giov., 1, 1)? Sic enim non solum visorem se et auditorem, sed et scriptorem omnium mirabilium Domini per ordinem profitetur». In questa testimonianza si ritrovano elementi certo leggendari - come il patto fra Giovanni e i discepoli, e l’apparizione ad Andrea - che fantasticano forse sui dati di Giov., 21, 24; ma vi si ritrova anche una chiara preoccupazione polemica, per cui questo tratto riguardante il IV Vangelo si estende ad una straordinaria lunghezza (che noi abbiamo anche accorciata). Senza dubbio tale polemica era diretta contro i rimasugli della scuola del prete romano Caio, il quale, per opporsi ai Montanisti che si facevano forti soprattutto del IV Vangelo, l’aveva respinto; ai seguaci di Caio fu perciò dato l’appellativo di Alogi, cioè privi di “logos”, giacché il IV Vangelo è appunto il Vangelo del Logos divino, ma l’appellativo valeva anche in senso non teologico come privi di ragione, cioè del logos umano.

• § 160. L’Egitto è rappresentato da Clemente Alessandrino; il quale, immediatamente appresso all’ultimo suo tratto che citammo a proposito del Vangelo di Marco (§ 130) aggiunge: «Ultimo, pertanto, è Giovanni: vedendo che negli evangeli (precedenti) erano state manifestate le cose corporee, spinto dagli amici, divinamente portato dallo Spirito produsse un Vangelo spirituale» (in Eusebio, Hist. eccl., VI, 14, 7). Anche in questa affermazione Clemente, più che parlare del proprio, riporta la tradizione degli antichi presbiteri a cui si appella (ivi, 5); d’altra parte egli concorda col Frammento Muratoriano, almeno genericamente, ritenendo che Giovanni scrisse per esortazione altrui: né si può dubitare che il Giovanni di Clemente sia l’apostolo, come è dimostrato fra altro dall’episodio del giovane pervertitosi e poi convertito da Giovanni, che Clemente narra nel «Quis dives salvetur», 42, e ch’è riportato da Eusebio (Hist. eccl., III, 23, 6 segg.). L’appellativo di Vangelo spirituale, in contrapposto a corporeo, risente della nota distinzione antropologica (corpo, anima, spirito) comune nell’ellenismo, ma coglie nel segno nel definire l’indole del IV Vangelo, e perciò trovò molta fortuna in seguito. Le testimonianze fin qui viste sono le principali, ma non tutte, dei primi due secoli; sarebbe pertanto inutile scendere lungo il secolo III, perché nessuno nega che già alla fine del II secolo Giovanni l’apostolo fosse ritenuto concordemente quale autore del IV Vangelo. Inoltre oggi sarebbe anche inutile elencare le varie tracce che di questo Vangelo si trovano già nella prima metà del secolo I, sia presso scrittori ortodossi, quali Ignazio d’Antiochia, Giustino martire e altri, sia presso i vari maestri della gnosi quali Valentino, Eracleone, ecc., e presso lo stesso Marcione; oggi la segnalazione di tali tracce sarebbe inutile, perché è dimostrato in maniera lampante che il IV Vangelo circolava in Egitto già verso l’anno 130. Oltre al papiro (Egerton), di cui già parlammo (§100) e che tradisce una indubbia dipendenza dal IV Vangelo, è stato pubblicato nel 1935 un frammento di papiro contenente tratti di questo Vangelo (C. H. Roberts, An unpublished fragment of the Fourth Gospel in the John Rylands Library, Manchester, 1935). Il frammento è minimo, di circa 8 centimetri, e contiene solo pochi versetti relativi al dialogo di Gesù con Pilato (cioè Giov., 18, 31-33 e 37-38), ma la sua incomparabile importanza è data dalla sua antichità: i più competenti specialisti mondiali, consultati in proposito, sono convenuti nell’attribuire il frammento alla prima metà del secolo II, e più probabilmente ai primi decenni di quella metà che agli ultimi: come media, quindi, può valere l’anno 130. È poi da notare che il frammento, che faceva parte d’un intero codex (non d’un volumen), proviene dall’Egitto certamente, sebbene non se ne conosca il luogo preciso: quindi, nel detto anno, l’Egitto già conosceva questo scritto composto in Asia Minore. Si sottragga pertanto dalla cifra 130 un numero d’anni proporzionato per permettere allo scritto nato in Asia di raggiungere l’Egitto, e di esservi ricopiato e diffuso, e si otterrà la data che la tradizione assegna all’origine del IV Vangelo, cioè la fine del secolo I. È bastato quel misero cencio di papiro per dissipare le aprioristiche elucubrazioni di quegli studiosi che avevano sentenziato non essere il IV Vangelo anteriore al 130, o al 150, o anche al 170: e non erano soltanto studiosi del secolo scorso, perché ancora nel 1933, quando cioè il papiro si trovava già in Europa benché inedito, il Loisy (La naissance du christianisme, pag. 59) affermava che il IV Vangelo aveva avuto due redazioni, di cui la prima e più antica cadeva fra gli anni 135-140 e la seconda fra il 150-160. (Lo scomunicato Alfred Loisy fu un famoso delirante modernista, ndR)

• § 161. Su un altro argomento importantissimo i nuovi ritrovamenti smentiscono giudizi arbitrari e tendenziosi. Per molti studiosi anche dei nostri giorni, il IV Vangelo è «un teorema teologico che conserva a mala pena le apparenze della storia» (Loisy); ossia, è uno scritto allegorico e simbolico, che si muove nel mondo delle astrazioni mistiche e che tutt’al più solo apparentemente inquadra le sue scene in una cornice geografica, non senza manifesti contrasti con la vera topografia. Come al solito, questa condanna è stata motivata soprattutto da preconcetti filosofici; ma, per giunta, coloro che l’hanno pronunziata sono studiosi da tavolino, ben pochi di essi hanno visitato accuratamente o anche fugacemente la Palestina, e tutti ad ogni modo danno ben poco peso all’archeologia e alla geografia storica. L’imprudenza è grave: tanto più che lo stesso Renan, che per primo ricorse a sopralluoghi geografici (benché a suo modo) per una biografia di Gesù, poté scrivere: «La trama storica del quarto Vangelo è, secondo me, la vita di Gesù qual era nota al gruppo accentrato attorno a Giovanni. Anzi, secondo la mia opinione, questa scuola sapeva diverse circostanze esteriori della vita del fondatore meglio del gruppo i cui ricordi hanno costituito i Vangeli sinottici». Ma, nonostante questa non sospetta ammonizione, si continuò ad affermare che l’autore del IV Vangelo era ignaro della topografia palestinese, al punto da non avere un’idea chiara neppure della situazione di Gerusalemme (quest’ultima affermazione è di un dilettante italiano, che non mette neppure conto di nominare). La verità è precisamente al contrario. L’autore del IV Vangelo dimostra una conoscenza topografica più accurata di quella dei Sinottici, e suole scendere in molte narrazioni a particolarità sorprendenti, che avrebbe potuto omettere del tutto senza che la narrazione ne risentisse; se non le ha omesse, è perché si sentiva ben sicuro del fatto suo. Almeno una decina sono le designazioni di luoghi palestinesi che appaiono soltanto nel IV Vangelo; di esse, non solo nessuna è stata dimostrata falsa, ma varie sono state dimostrate precise ed esatte contro ogni aspettativa. Citiamo, come esempio, due o tre casi. Prosegue la prossima settimana ...

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.

Comunicato numero 89. La questione sinottica

Stimati Associati e gentili Sostenitori, ringraziando Dio per questa opportunità e per tutti gli autori veramente cattolici che ci ha donato, oggi studieremo e capiremo «La questione sinottica». L’opera utilizzata è, come sempre, la rigorosa «Vita di Gesù Cristo» dell’Abate Giuseppe Ricciotti, Imprimatur 1940, 7a Edizione, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941. •  § 146. I tre Vangeli fin qui visti, Matteo, Marco e Luca, sono chiamati fin dal principio del secolo XVIII sinottici, per la ragione che, se i loro testi siano disposti in colonne affiancate, se ne possono scorgere subito con uno sguardo collettivo («sinossi») le moltissime somiglianze che li collegano fra loro, pur non essendo testi identici. Insieme con le somiglianze, infatti, vi si ritrovano anche discrepanze; le quali tuttavia non riescono a cancellare l’impressione di una sostanziale uguaglianza, cosicché in complesso viene piuttosto da pensare ad una concordia discors. La concordia dei Sinottici si rileva sia dagli argomenti trattati, sia dall’ordine nel trattarli, sia anche dalle parole ed espressioni impiegate. L’argomento comune dei Sinottici è costituito dall’inaugurazione della vita pubblica di Gesù, dal suo ministero prima in Galilea con centro a Cafarnao e poi in Giudea, e dagli avvenimenti dell’ultima settimana della sua vita comprese la morte e la resurrezione (§ 113); a questo fondo comune Matteo e Luca premettono i fatti dell’infanzia, su cui Marco tace del tutto. Anche nell’ordine con cui sono presentati i singoli fatti del fondo comune, esiste una certa concordia, riscontrandosi una generica corrispondenza fra le rispettive sezioni di quel fondo, specialmente fra Marco e Luca, mentre Matteo spesso offre raggruppati fatti e sentenze che gli altri due offrono separati. Infine frequenti sono i passi in cui tutti e tre i testi procedono con le stesse identiche parole, di guisa che, letto uno di essi, si sono letti gli altri due; e ciò anche in casi in cui occorrono vocaboli rari (es. in Matteo, 19, 23; Marco, 10, 23; Luca, 18, 24 - abbiamo omesso il vocabolo in greco, ndR) o impiegati in accezioni rare (es. in Mt., 9, 16; Mc., 2, 21; Lc., 5, 36 - idem.), ovvero compaiono frasi peregrine (figli della camera nuziale, cioè paraninfi; Mt., 9, 15; Mc., 2, 19; Lc., 5, 34) o altre espressioni singolari; talvolta poi tutti e tre, in piena concordia fra loro, citano qualche passo dell’Antico Testamento in forma tale che discorda sia dal testo ebraico sia da quello greco dei Settanta (abbiamo omesso la lunga nota 1 alle pagine 154 e 155, con annesso grafico comparativo, in cui l’autore accenna ad alcuni modi utilizzati per computare l’affinità fra i tre Sinottici, ndR).

• § 147. Ma questa concordia fondamentale è nello stesso tempo discors in molti particolari. Anche prescindendo dai passi propri ad un solo Sinottico, troviamo che talvolta due trattano in maniera del tutto diversa uno stesso argomento, ad esempio l’infanzia di Gesù (Matteo, 1, 18 - 2, 23; Luca, 1, 5 - 2, 52) e la genealogia di lui (Matteo, 1, 1-17; Luca, 3, 23-38); lo stesso Discorso della montagna, lunghissimo in Matteo (capp. 5-7) e molto più breve in Luca (6, 20-49), ha divergenze fin dal principio con l’enumerazione delle beatitudini. Anche nell’ordine di narrazione, pur astraendo dalla diversità di raggruppamento di fatti e sentenze, compaiono discordanze difficili a spiegarsi: ad esempio, mentre nella narrazione della passione la corrispondenza delle parti è quasi costante, subito appresso compaiono divergenze circa l’ordine delle apparizioni di Gesù risorto. Frequenti sono pure i casi di divergenze fra passi in tutto il resto paralleli. Queste divergenze possono essere soltanto verbali, come quando in una narrazione che procede assolutamente identica presso tutti e tre, uno di essi sopprime una o più parole, oppure le aggiunge, oppure le sostituisce con altre quasi sinonime: valga come esempio, fra molti altri, la narrazione della visita fatta a Gesù dai suoi parenti: Matteo, cap. 12 - Marco, cap. 3 - Luca, cap. 8 (abbiamo sintetizzato la nota, ndR). Ma talvolta le divergenze non sono soltanto di parole, bensì si estendono anche al pensiero: come quando in Matteo (10, 10) e Luca (9, 3) Gesù proibisce agli Apostoli di portare in viaggio alcunché neppure il bastone, mentre in Marco (6, 8) proibisce di portare alcunché salvo il bastone soltanto; oppure come quando, nella regione dei Gadareni o dei Geraseni, sono liberati due indemoniati secondo Matteo (8, 28-34), ma uno solo secondo Marco (5, 1-20) e Luca (8, 26-39); e parimente sono due i ciechi sanati presso Gerico secondo Matteo (20, 29-34), ma è uno solo di nuovo presso Marco (10, 46-52) e Luca (18, 35-43); ai quali esempi, di divergenze concettuali, se ne potrebbero aggiungere vari altri. Ecco, dunque, la questione: è da spiegarsi come sia sorta questa concordia la quale, se talvolta è discors nel suo interno, appare tanto più concors vista dall’esterno, se si confronta con l’unico Vangelo non sinottico, Giovanni, ch’è di tutt’altra indole e di tenore ben diverso.

• § 148. La questione è dibattutissima, e si può dire che da più di un secolo sia il principale problema su cui si sono concentrate le investigazioni degli studiosi del Nuovo Testamento. Le soluzioni e le ipotesi che ne sono scaturite sono moltissime, e a presentarle e discuterle tutte sarebbe necessario un ampio studio speciale: il quale, poi, avrebbe un valore quasi soltanto retrospettivo, giacché la massima parte di quelle soluzioni sono oggi abbandonate. Fino a pochi anni addietro la soluzione più in voga, ritenuta come un assioma della cosiddetta Scuola liberale (§ 203 segg.), era che i tre Sinottici dipendano da due documenti scritti: il primo sarebbe una raccolta contenente soltanto «detti» o «discorsi» di Gesù, e precisamente la raccolta che Papia chiama dei Logia e attribuisce all’apostolo Matteo (§ 114); il secondo documento sarebbe il Vangelo di Marco, o in una forma primitiva o in quella nostra odierna, contenente in prevalenza miracoli e altri fatti di Gesù. Con ciò, l’origine di Marco è indipendente; l’origine degli odierni Vangeli di Matteo (che non sarebbe di questo Apostolo) e di Luca è spiegata come una doppia fusione della massima parte dei Logia con parte dei fatti narrati da Marco, pur ammettendosi che pochi altri elementi siano stati desunti altrove, e che nella scelta dei materiali ciascun Evangelista si sia lasciato guidare dallo scopo particolare a cui mirava. Oggi questa soluzione, pur avendo tuttora largo seguito, non è così incontrastata come nell’addietro. Il nuovo indirizzo dato dal cosiddetto Metodo della storia delle forme (§ 217), che ha avuto il merito di richiamare l’attenzione sull’importanza del periodo preparatorio dei Vangeli canonici (§ 110 segg.), trova che la suddetta soluzione è troppo semplice ed elementare essendo insufficienti due soli documenti a rappresentare l’ampia produzione di quel periodo, e che ad ogni modo accanto a tutta una serie di documenti scritti si deve supporre tutta una serie di testimonianze orali.

• § 149. In realtà, quasi tutte queste varie soluzioni, più che ispirarsi alle attestazioni pure e semplici dei documenti antichi, sono guidate da principii aprioristici moderni, e tradiscono la preoccupazione (ovvero si preoccupano piuttosto) di adattare forzatamente quelle attestazioni a questi principii. Scendendo al caso pratico, i Logia di Papia non sarebbero affatto il nostro Matteo. Ora, questo assioma, fondamentale nella teoria dei due documenti, non solo non è stato mai dimostrato con argomenti storici, ma ha contro di sé tutta l’attestazione dell’antichità, la quale ha sempre ritenuto che ai Logia corrisponda il nostro Matteo: ciò fino al mese di ottobre del 1832, allorché per la prima volta lo Schleiermacher negò questa corrispondenza, non però in forza di testimonianze storiche nuovamente scoperte, bensì in forza dei suoi particolari principii filosofici. Un altro criterio fondamentale per la suddetta teoria è che Marco, brevissimo fra tutti i Vangeli, deve essere il primo e più antico, perché i racconti d’argomento religioso tenderebbero sempre ad aumentare il patrimonio delle loro narrazioni, non già a diminuirlo. Ma anche questo è un principio aprioristico, e lo troviamo nettamente smentito proprio dai documenti giudaici (per tralasciare quelli di altre nazioni). Perché Marco non poté essere un riassunto di altro scritto - come già apparve a S. Agostino (De consensu evangel., I, 2, 4) - se già le ebraiche Cronache erano state un riassunto dei precedenti libri di Samuele-Re e di altri documenti, e se il libro Maccabei era stato un riassunto dei cinque libri di Giasone di Cirene? Nello stesso campo del Nuovo Testamento, non avviene forse che l’ultimo dei Sinottici, Luca, benché tante volte aggiunga, molte altre volte invece riassume? Se infine i cristiani dei primi due secoli componevano per uso privato quegli estratti di sentenze evangeliche, di cui ci sono pervenuti frammenti nei papiri d’Egitto (§ 100), non poteva anche Marco compiere un estratto alquanto più ampio, da lui giudicato opportuno per un determinato ceto di cristiani? Risparmiando perciò le congetture avventurose e le adattazioni forzate, vediamo brevemente fino a qual punto le testimonianze antiche ed i rilievi moderni possano far luce in questa intricatissima questione.

• § 150. Le testimonianze storiche ci hanno già detto che dei Sinottici è cronologicamente primo lo scritto semitico di Matteo, corrispondente sostanzialmente al nostro Matteo greco, e che il secondo è Marco e il terzo Luca. Ma vedemmo anche che questi tre scritti hanno una preistoria, rappresentata da quel venticinquennio circa in cui dominava la catechesi orale, e che di quella catechesi i tre scritti sono sotto diversi aspetti uno specchio (§ 110). Rilevammo anche che l’ultimo dei Sinottici ha trovato prima di sé molti altri scritti sullo stesso argomento, dei quali anch’esso si è servito, pur volendo aggiungere alcunché al contenuto di quelli (§ 140): c’erano infatti tuttora altre notizie extravagantes, giacché qualche decennio dopo che erano apparsi i tre Sinottici e i molti scritti anonimi, fu composto il Vangelo di Giovanni, che dà moltissime informazioni nuove. Ora da questo mare, per noi così poco esplorato, come mai è avvenuto che i tre Sinottici abbiano estratto quasi sempre le medesime perle, e non altre, allineandole per di più in una serie quasi sempre uguale? In altre parole, donde la concordia dei tre scritti? Presso i Semiti aveva parte principalissima nell’insegnamento, specialmente religioso, la memoria, alla quale unicamente restò affidato per molto tempo un ampio materiale didattico che solo più tardi fu messo in iscritto: fra molti esempi che si potrebbero recare, basti qui ricordarne uno non ebraico, ma classico nel campo semitico e posteriore all’epoca dei Vangeli, cioè il Corano; il quale non fu messo in scritto da Maometto, ma restò per circa una generazione affidato unicamente alla memoria dei suoi discepoli, pur conservandosi con fedeltà verbale. Si è quindi pensato che qualcosa di simile sia avvenuto per i Sinottici: essi dipenderebbero tutti e tre da un corpo d’insegnamenti orali fissati alla lettera, ossia dalla catechesi apostolica, che sarebbe stata messa in iscritto più o meno ampiamente da ognuno di essi sempre con fedeltà verbale, in maniera analoga a quanto avvenne per il Talmud (§§ 87, 106). Senonché, pur essendo innegabile l’importanza della memoria sia presso i Semiti in genere sia nella primitiva catechesi cristiana, la suddetta spiegazione appare troppo elementare e meccanica. Secondo essa bisognerebbe supporre - si permetta il ricorso ad un paragone moderno - un’ampia serie di immateriali dischi fonografici corrispondenti ciascuno ad un tratto speciale della catechesi, e che sarebbero stati fatti funzionare di volta in volta sempre con precisione meccanica. E chi avrebbe preparato questa impalpabile discoteca? Certamente il collegio degli Apostoli. E in quale lingua? Certamente in aramaico, allora corrente in Palestina. Ma è dimostrato tutto ciò?

• § 151. Checché sia della possibilità astratta, se ci volgiamo ai fatti concreti, cioè ai documenti, apprendiamo che una raccolta di tal genere fu bensì preparata dal collegio degli Apostoli, ma essa non consiste in una discoteca immateriale, bensì in una scrittura reale, cioè nello scritto di Matteo (§ 117). Questo documento ufficiale non assorbì certamente tutta la catechesi orale, la quale continuò a vivere con largo e fondamentale impiego della memoria; ma nessuna prova abbiamo per asserire che la catechesi orale avesse una forma così precisa verbalmente, così stereotipata, com’è la forma di una scrittura: anzi siamo indotti a pensare proprio il contrario da quelle libertà avvenute nella traduzione dal testo semitico di Matteo, e da quelle divergenze verbali dei Vangeli greci, che già rilevammo (§§ 121-122). Se dunque i Sinottici sono concordi perché dipendono da una forma di catechesi fissata a parola, tale fissazione non deve essere stata orale bensì scritta. A questa conclusione conducono anche i rilievi letterari fatti confrontando il testo dei Sinottici (§ 146). Senza dubbio la primissima catechesi orale degli Apostoli fu in lingua aramaica: ma allora come mai almeno Marco e Luca, che hanno scritto originariamente in greco, tradurrebbero da quel fluttuante patrimonio verbale con tanta concordia di vocaboli, di espressioni, di costruzioni grammaticali, anche in cose minutissime? E come mai, al contrario, discordano inaspettatamente in cose di particolare importanza, quali le parole dell’Eucaristia e quelle della tavoletta di condanna apposta sulla croce di Gesù (§ 122)? Dunque, almeno questi due Sinottici presuppongono un testo scritto, da essi in parte impiegato e in parte abbandonato; e questo testo scritto, nuovamente, non può essere altro che quello di Matteo, nella sua originale interezza oppure in estratti e rifacimenti di vario genere.

• § 152. Messi al sicuro questi punti che risultano dagli antichi documenti, vediamo come essi possano inquadrarsi nelle altre notizie che la tradizione già ci ha dato riguardo all’origine di Marco e di Luca. Il testo semitico di Matteo circolava già con somma autorità, per la sua origine apostolica e per il suo carattere ufficiale, ma anche con una possibilità d’impiego diretto sempre più scarsa, man mano che la «buona novella» s’estendeva fra popolazioni che non intendevano lingue semitiche. Tuttavia quel testo poteva sempre essere impiegato da molti «evangelisti» orali che lo intendevano, e ad ogni modo sorsero ben presto quelle sue traduzioni totali o parziali a cui allude Papia (§ 119). Questo attaccamento alla composizione di Matteo appare naturalissimo a motivo del credito che la circondava: essa nel campo della «buona novella» scritta rappresentò quasi una præoccupatio, che non poté esser trascurata dagli scrittori successivi. Prescindendo pertanto dai molti che scrissero prima di Luca, sui quali possiamo far solo congetture, sappiamo che Marco scrisse secondo la catechesi di Pietro, e Luca secondo quella di Paolo. Che valore ha questa doppia notizia antica in relazione con il documento semitico di Matteo? I due ultimi Sinottici hanno conosciuto ed impiegato quel documento? Gli studiosi moderni, in massima parte, rispondono negativamente. Coloro per cui il Matteo semitico equivale ai Logia di Papia ma non al Matteo greco, ritengono che Marco non ha conosciuto i Logia, mentre Luca li ha conosciuti; quanto alle relazioni fra Marco e Luca c’è un generico consenso nell’affermare che il primo è stato impiegato dal secondo. Ma chi giudica storicamente infondata una sostanziale differenza tra il Matteo semitico (ossia i Logia) e il Matteo greco, può ancora distinguere tra l’originale semitico e la sua traduzione greca, a cagione di quelle modificazioni operatevi dal traduttore alle quali già accennammo (§ 120 segg.); è infatti sempre possibile che, se l’originale semitico è stato in qualsiasi maniera impiegato da Marco e Luca, questi due alla loro volta siano stati impiegati dal nostro traduttore greco di quell’originale. Gli studiosi moderni hanno raccolto le prove più sottili e sfuggevoli per dimostrare le rispettive tesi. Con lavori pazientissimi, degni della più sincera ammirazione, essi hanno rilevato che, se Marco avesse conosciuto Matteo, non avrebbe sconvolto il «coordinamento» caratteristico di lui, né tralasciato tali o tali narrazioni, o sentenze, o parole; così pure, se Luca avesse conosciuto Matteo, non avrebbe narrato con tante divergenze da costui la storia dell’infanzia, e quella della resurrezione, e la genealogia di Gesù, e le beatitudini, né avrebbe preferito la serie di fatti seguita da Marco: e tante altre sagacissime ragioni, ritrovate nel confronto dei testi.

• § 153. Ma, disgraziatamente, questi testi sono pochi, tre soltanto; noi invece sappiamo che anticamente essi erano molti, e ciò anche prima di Luca, ossia quando i nostri testi erano due soltanto (§ 140): anzi neppure due completamente, perché il nostro Matteo non rappresenta con assoluta fedeltà verbale il Matteo semitico. Ecco la grande lacuna di cui non bisogna dimenticarsi in questi confronti dei Sinottici, la lacuna dei molti che noi più non abbiamo. Se poi si ha presente che questi molti, come già congetturammo, dipendevano in gran parte dal Matteo semitico; che essi, pur essendo di varia ampiezza, potevano benissimo aver aggiunto talune notizie non contenute nel Matteo semitico; che, contemporaneamente a questa nuova «buona novella» scritta continuava a risonare l’antica «buona novella» orale degli «evangelisti» la quale riecheggiava sostanzialmente il contenuto di quella: si comprenderà bene quanto più complicato sia il problema delle dipendenze letterarie dei nostri Sinottici, e quanto le conclusioni tratte dai confronti dei testi odierni possano esser insufficienti per insufficienza degli stessi testi, ossia per la mancanza dei testi antichi.

concordanze sinottici

• § 154. Riassumendo, si può tracciare la seguente genealogia dei nostri Sinottici, la quale tiene conto dei dati di fatto messi in luce dalle investigazioni letterarie moderne, mentre non perde di vista le attestazioni precise dell’antichità. Primo di tutti fu il Matteo semitico, che conteneva sia discorsi sia fatti di Gesù; esso fu anche la sorgente principale, se non unica, dei molti fiumicelli e rigagnoli che scorrevano ai tempi di Luca. Marco fu indotto a scrivere in Roma, per il motivo e nelle circostanze che già sappiamo. Scrivendo, egli riprodusse la catechesi orale di Pietro; la quale non era però né remota né estranea allo scritto di Matteo, bensì costituiva gran parte del suo fondo. Perciò Marco, mettendo mano al suo lavoro, trovò che la sua impresa sarebbe stata, non solo agevolata, ma anche indirettamente garantita, se avesse preso come punto di riferimento lo scritto che in qualche modo poteva riportarsi a Pietro stesso, cioè il documento di Matteo. Ma sotto quale forma questo documento pervenne nelle mani di Marco? Nel suo testo originale intero, oppure in un estratto parziale? Oppure anche in una di quelle traduzioni di cui parla Papia? E se pervenne tradotto, qual era la sua indole e ampiezza? E quale la sua rassomiglianza all’odierno Matteo greco? Ecco altrettante domande a cui non siamo in grado di rispondere. Supposto però che questo documento non meglio definibile sia stato a disposizione di Marco, il suo lavoro personale si spiega agevolmente come una fusione delle due fonti, quella della sua memoria e quella del documento che aveva sott’occhi: quando la stessa notizia veniva concordemente dalle due parti, egli seguiva genericamente il documento; quando c’era divergenza, egli metteva in iscritto la catechesi di Pietro conservata nella sua memoria. Questa spiegazione sembra dar ragione sia della concordia discors fra i due primi Sinottici, sia della costante attestazione dell’antichità secondo cui Marco è «interprete» di Pietro. Il caso di Luca è più complicato, non solo perché prima di lui esistevano Matteo, Marco e i molti da lui investigati diligentemente, ma anche perché egli riecheggia la catechesi di Paolo: quindi le sue dipendenze si moltiplicano, e per noi d’oggi si perdono in una nebbia d’ignoranza. Si è Luca servito del Matteo semitico? Si dice che l’esame dei testi odierni non possa dimostrarlo con certezza; ma senza volersi addentrare in tale questione, Luca per lo meno deve essersi servito di qualche documento che era come un largo estratto del Matteo semitico, forse anche tradotto in greco, e che entrava certamente nel numero dei molti: le numerosissime identità o analogie fra i nostri Luca e Matteo non lasciano alcun dubbio su questo punto. È anche generalmente ammesso, come già vedemmo, che Luca si sia servito di Marco, specialmente nell’ordinamento cronologico dei fatti. Se quindi si accetta l’ipotesi di un’origine romana del Vangelo di Luca, possiamo concludere che egli si servisse di Marco come di trama generica per il proprio scritto; ma su questa trama egli lavorò lungamente e l’ampliò fino a raddoppiarla, con l’aggiungervi quei moltissimi fili ch’era andato raccogliendo diligentemente sia dai molti scritti precedenti, sia dalla tradizione orale e specialmente dal suo maestro Paolo. Terzo per forma, non per contenuto, viene il nostro Matteo greco, che è una versione sostanzialmente identica al Matteo semitico: ma la sua forma letteraria greca risente di Marco e di Luca, per le ragioni e nella misura già viste. In quella genealogia dei Sinottici, la loro concordia è data dal fondo comune a tutti e tre, che è o direttamente o indirettamente lo scritto originale di Matteo, cioè la catechesi degli Apostoli e specialmente di Pietro; la loro concordia diventa discors, quando i singoli autori secondo le mire personali (visti i luoghi, le circostanze, la cultura, la mentalità, etc..., ndR) o abbreviano, o spostano, oppure anche aggiungono altri elementi, i quali in massima parte provengono egualmente dalla catechesi apostolica, sebbene per altre vie. FINE.

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.

Comunicato numero 88. Il Vangelo secondo San Luca

Stimati Associati e gentili Sostenitori, per grazia di Dio oggi studieremo «Il Vangelo secondo San Luca». L’opera utilizzata è dell’Abate Giuseppe Ricciotti: «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, 7a Edizione, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941. Stiamo ancora focalizzando le nostre attenzioni sulle fonti storiche che riguardano Nostro Signore

• § 135. Il terzo Vangelo è attribuito a Luca: nome che forse è una abbreviazione di Lucano. Nel cristianesimo della prima generazione, Luca appare come un satellite dell’astro di Paolo, che lo chiama il caro medico (Coloss., 4, 14). Originario d’Antiochia, non giudeo ma ellenista di stirpe e d’educazione, Luca era entrato nel cristianesimo parecchio prima dell’anno 50, sebbene certamente non fosse stato discepolo di Gesù e non l’avesse mai veduto. Poco dopo il 50 egli è a fianco a Paolo nel suo secondo viaggio missionario (Atti, 16, 10 segg.), probabilmente anche per prestare la sua opera di medico a causa della recente malattia dell’Apostolo (cfr. Galati, 4, 13, con Atti, 16, 6); da quel tempo Luca riappare in quasi tutte le peregrinazioni di Paolo come l’ombra di lui, salvo un distacco, probabilmente lungo, dopo la comune permanenza a Filippi (cfr. Atti, 16, 40, con 20, 5). Ricongiuntosi con Paolo di nuovo a Filippi durante il terzo viaggio dell’Apostolo, verso il 57, lo accompagnò nel resto del viaggio fino a Gerusalemme (Atti, 21, 15). Durante il biennio passato da Paolo in prigione a Cesarea (anni 58-60), sembra che Luca non potesse restargli vicino; ma lo accompagnò amorevolmente nel suo viaggio a Roma, partecipando sulla stessa nave alle fortunose peripezie del passaggio (Atti, 27, 1 segg.). Nella prima prigionia dell’Apostolo a Roma, Luca gli stava dappresso; più tardi, fedele fino alla morte, lo assisté anche nella seconda prigionia romana meritandosi da Paolo, in quella lettera ch’è quasi il testamento del declinante Apostolo, la commovente attestazione: Il solo Luca è con me (II Tim., 4, 11). Scrivendo ai Corinti, sul finire dell’anno 57, Paolo allude, senza nominarlo, ad un fratello la cui lode è nel vangelo per tutte le chiese (II Cor., 8, 18). Insieme con altri antichi, S. Girolamo stimò che questo innominato fratello sia appunto Luca, e soggiunge anche l’opinione di altri secondo i quali ogni volta che Paolo nelle sue lettere dice «secondo il mio Vangelo», alluda al volume di Luca. Se quest’ultima opinione è del tutto infondata, la prima non è molto attendibile qualora si riferisca al Vangelo scritto da Luca, essendo sommamente improbabile che questo Vangelo fosse già redatto quando Paolo scriveva la lettera in questione: tanto più che giammai altrove, nelle Lettere di Paolo, il termine «vangelo» designa un determinato scritto, ma solo l’annunzio della «buona novella» (§ 105 segg.). Al contrario, l’identificazione dell’ignoto fratello con Luca può avere un serio grado di probabilità, qualora nel «vangelo» attribuitogli si scorga, non già un determinato scritto, ma l’operosità di chi era «evangelista» nel senso primitivo che già vedemmo (§ 109), ossia propagatore orale della «buona novella». In tal caso Luca, anche prima di ricorrere alla scrittura, avrebbe diffuso largamente nelle chiese dell’apostolato di Paolo una determinata catechesi orale; della quale, nel frattempo, lo stesso Luca riesaminava il contenuto diligentemente (cfr. Luca, 1, 3), per arricchirlo di altri elementi e disporlo in un conveniente «riordinamento» (cfr. in Luca, 1, 1), finché poi giudicò opportuno fissarlo in iscritto. Questa interpretazione appare tanto più verosimile, quanto più probabile risulta da recenti studi che Paolo stesso seguisse nel suo apostolato una determinata forma di catechesi, non soltanto orale, ma anche parzialmente scritta. Perciò il fedele Luca sarebbe giustamente il più insigne rappresentante, dopo Paolo, di questa catechesi, ossia sarebbe il fratello la cui lode è nella «buona novella» diffusa da Paolo in tutte le chiese da lui fondate.

• § 136. Comunque si giudichi questa ipotesi, a Luca è attribuito sia il terzo Vangelo, che mostra spiccata affinità con gli scritti di Paolo, sia il libro degli Atti di (meglio che degli) Apostoli, che tratta in gran parte delle vicende di Paolo e contiene ampi tratti in cui il narratore parla in prima persona plurale, svelandosi perciò anch’egli presente alle vicende narrate. Tale attribuzione a Luca, confermata dall’identità di autore che risulta dai prologhi dei due scritti (cfr. Luca, 1, 1-4, con Atti, 1, 1-2), non solo è concorde presso gli antichi scrittori, ma trova consenzienti - cosa piuttosto rara - anche la massima parte dei più autorevoli studiosi moderni. Le testimonianze, tuttavia, sono posteriori a quelle riguardo a Matteo e a Marco, giacché non risalgono più in su della seconda metà inoltrata del secolo II. Il cosiddetto Frammento Muratoriano, cioè un catalogo dei libri sacri ammessi dalla chiesa di Roma che fu composto verso l’anno 180 e scoperto da L. A. Muratori nella Biblioteca Ambrosiana di Milano, così si esprime nel suo orrido latino (qua e là corretto): Tertium evangelii librum secundum Lucam. Lucas iste medicus, post ascensum Christi cum eum Paulus quasi ut iuris studiosum secum adsumpsisset nomine suo ex opinione conscripsit; Dominum tamen nec ipse vidit in carne, et ideo prout asse qui potuit, ita et a nativitate Johannis incepit dicere. - Verso lo stesso tempo, Ireneo afferma: Anche Luca, seguace di Paolo, compose in un libro il vangelo predicato da quello (Adv. hær., II, 1, 1; cfr. III, 14). Alla fine del secolo II risalgono anche i vari Prologhi, greci o latini, premessi al terzo Vangelo, che vanno sempre più accrescendosi di notizie con lo scendere lungo i secoli, pur concordando nella sostanza; di questa può essere un saggio il prologo detto Monarchiano, che dice: Luca Siro, di nazione Antiocheno, medico di professione, discepolo degli Apostoli, più tardi fu seguace di Paolo fino alla confessione (martirio) di lui servendo Dio senza delitto. Poiché, non avendo avuto moglie mai né figli, di anni 74 (altri 84) morì in Bitinia (altri Beozia) pieno di Spirito santo. Costui, essendo già stati scritti i vangeli di Matteo in Giudea e di Marco in Italia, per impulso dello Spirito santo nelle parti di Acaia scrisse questo vangelo, mostrando anch’egli a principio che dapprima erano stati scritti gli altri; ecc. Le successive testimonianze non fanno che confermare questi punti principali (Tertulliano, Adv. Marcion., IV, 5; Clemente Aless., Stromata, I, 21, 145; Origene, in Matt., tom. I, in Migne, Patr. Gr., 13, 830; ecc.): merita tuttavia di essere citato Eusebio, a guisa di ricapitolatore della tradizione: Luca, ch’era per discendenza di Antiochia e per arte medico, restò congiunto il più a lungo con Paolo, ma anche con gli altri Apostoli trattò non incidentalmente. Della scienza di guarire le anime ch’e gli aveva appresa da costoro, ci lasciò la prova in due libri divinamente ispirati: (in primo luogo) il Vangelo, che egli attesta di aver composto secondo le cose che gli tramandarono coloro che dall’inizio furono testimoni oculari e inservienti della parola, ed alle quali tutte egli dice pure di essere riandato appresso dal principio (cfr. Luca, 1, 1-4); e (in secondo luogo) gli Atti degli Apostoli, che egli coordinò per informazione non già di udito ma di veduta (Hist. eccl., III, 4, 6). Ha il suo peso anche la notizia dataci da Ireneo e da Tertulliano, secondo cui l’eretico Marcione, verso l’anno 140, accettava dei Vangeli canonici solo quello di Luca, sebbene lo mutilasse adattandolo alle sue dottrine (cfr. 1° Adv. hær., II, 11; cfr. I, 27 - 2° Adv. Marcion., IV, 3 segg.).

• § 137. Le qualità di Luca, ellenista, medico, discepolo di Paolo, si riscontrano abbastanza chiare nel suo Vangelo (come anche negli Atti, che qui non ci riguardano). Il letterato ellenista appare fin dalle prime linee del suo primo scritto le quali, in contrasto con l’uso seguito in tutti gli altri libri del Nuovo Testamento ma conforme all’uso ellenistico, contengono un elaborato prologo: questo, inoltre, mostra sorprendenti rassomiglianze di espressioni e di ripartizioni col prologo che al suo libro Sulla materia medica premetteva quel Pedanio Dioscuride che era non solo collega per professione e contemporaneo per età con Luca, ma essendo nativo della regione di Tarso, era anche conterraneo di Paolo. Ecco il prologo di Pedanio Dioscuride: «Poiché molti, non solo degli antichi ma anche dei nuovi, fecero coordinamenti circa la preparazione e la potenza e la prova dei farmaci, ottimo Areo, tenterò mostrarvi che io ho avuto per questo argomento un’attitudine né vana né irragionevole» [cfr. il prologo di Luca (1, 1-4) in § 140]. Il greco di Luca, poi, non è certo quello classico dell’Attica, tuttavia mostra una raffinatezza non comune per uno scrittore ellenistico: il lessico è ricco e spesso letterario, la frase di solito tornita e dignitosa, cosicché i moderni filologi, proclamando il suo stile superiore a quello degli altri Vangeli, concordano in sostanza con San Girolamo per il quale Luca inter omnes evangelistas græci eruditissimus fuit, quippe ut medicus. Non mancano tuttavia i semitismi di costruzione e anche di lessico; i quali sono numerosi specialmente nei due primi capitoli che contengono la narrazione dell’infanzia di Gesù, mostrandosi così ivi una più stretta dipendenza del narratore da documenti semitici relativi a quell’argomento. Che lo scrittore del terzo Vangelo sia stato un medico, non si potrebbe certamente provare dal semplice esame del suo scritto: tuttavia parecchi sono i tratti che servono da ottima conferma alla primitiva tradizione che lo presenta qual medico. Pazienti ricerche moderne hanno segnalato numerosi termini tecnici impiegati da Luca che hanno riscontro negli scritti di Ippocrate, Dioscuride, Galeno e altri medici greci (cfr. W. K. Hobart, The medical language of St. Luke, Dublin, 1882, ecc.); è vero che siffatti termini possono riscontrarsi anche presso scrittori profani che affettino occasionalmente conoscenza di materie mediche (ad esempio, presso Luciano), ma il caso di Luca è diverso, giacché egli non aveva motivi particolari per introdurre quella terminologia tecnica nelle narrazioni comuni agli altri Sinottici, salvo la ragione d’essere egli stesso medico. Si può anche scoprire che una specie di «occhio clinico» guida il narratore in talune sue descrizioni, specialmente se si confrontino con quelle parallele di Marco: la semeiotica è curata in modo particolare nei racconti della suocera di Pietro malata (4, 38-39), dell’indemoniato dei Geraseni (8, 27 segg.), della donna con profluvio di sangue (8, 43 segg.), del giovanetto indemoniato (9, 38 segg.), della donna ricurva (13, 11 segg.). Il solo Luca narra il sudore di sangue sofferto da Gesù nel Gethsemani (22, 44). Nel caso poi della donna con profluvio di sangue è palese in Luca una benigna preoccupazione pro domo sua in favore della classe dei medici; infatti Marco (5, 25-26) rudemente annunzia che la donna era malata da dodici anni e molto aveva sofferto da parte di molti medici, e dopo aver consumato tutte le sue sostanze non aveva tratto alcun giovamento, ma piuttosto era andata peggio: Luca al contrario (8, 43, testo greco) omette siffatte notizie, che non potevano esser gradite dai suoi colleghi di professione, e si limita a dire che la donna era malata da dodici anni, né era stata potuta curare da alcuno.

• § 138. Infine il calamo di Luca, più che quello degli altri evangelisti, si diletta a delineare Gesù come supremo medico, sia dei corpi sia delle anime. Luca solo lo fa chiamare dai suoi compaesani medico (4, 23) in atto di sfida: ma poco appresso, quasi in risposta alla sfida, ricorda che una potenza emanava da lui e medicava tutti (6, 19; cfr. 5, 17). Spiritualmente, poi, il Gesù tratteggiato da Luca è il misericordioso curatore dell’umanità languente, il pio confortatore degli afflitti, il mansueto che perdona ai più traviati: onde con ogni appropriatezza storica Dante Alighieri definisce Luca, pur senza nominarlo, come lo scriba mansuetudinis Christi (De monarchia, I, 16). Non meno chiaramente appare nello scritto di Luca il discepolo di Paolo. Una specie di parentela spirituale riannoda il suo scritto con le Lettere di Paolo: molti vocaboli, circa un centinaio, si ritrovano soltanto presso Luca e presso Paolo in tutto il Nuovo Testamento; non rare sono anche frasi tipiche, particolari ai due autori. Ma, più che dalla veste letteraria, la parentela è dimostrata dal pensiero, che insiste sui grandi principii della catechesi di Paolo, quali l’universalità della salvezza operata da Gesù, la «bontà e filantropia» (Tito, 3, 4) di lui, il pregio dell’umiltà e della povertà, la potenza della preghiera, il gaudio di spirito proprio ai fedeli, e altri. Certamente questi principii non sono espressi letteralmente conforme a parole di Paolo, giacché Luca non era riguardo a costui quell’«interprete» che Marco era stato riguardo a Pietro; essi sono tuttavia i luminosi fari che dirigono la navigazione di Luca, secondo l’immagine usata già da Tertulliano che vide Luca «illuminato» da Paolo (Adv. Marcion., IV, 2).

• § 139. Quando scrisse Luca il suo Vangelo? Certamente dopo gli altri due Sinottici, come afferma la quasi costante tradizione antica che assegna Luca al terzo posto nella serie cronologica dei Vangeli: dunque dopo Marco, che non è posteriore all’anno 61. D’altra parte Luca ha scritto il Vangelo prima degli Atti degli Apostoli, i quali nel prologo stesso si richiamano esplicitamente al precedente Vangelo (Atti, 1, 1). Alla loro volta gli Atti, secondo ogni verosimiglianza e conforme al parere largamente predominante fra gli studiosi moderni, sembrano scritti avanti alla liberazione di Paolo dalla sua prima prigionia romana (cfr. Atti, 28, 30), e quindi anche avanti alla grande persecuzione di Nerone del 64, cioè, tutto considerato, fra gli anni 63 e 64. Anteriore agli Atti, sebbene di poco tempo, sarebbe dunque il Vangelo di Luca. È assai probabile che il Vangelo ricevesse forma definitiva e vedesse la luce in Roma, piuttosto che in Acaia, o in Egitto, o altrove, come vorrebbero altre oscillanti tradizioni antiche. Pare certo, infatti, che Luca abbia conosciuto ed impiegato il Vangelo di Marco, comparso a Roma poco prima che Luca vi giungesse insieme col prigioniero Paolo (cfr. Coloss., 4, 10.14; Filem., 24). D’altra parte Luca da lungo tempo stava preparandosi alla composizione del suo Vangelo e andava raccogliendo materiali per esso, come risulta dal prologo. La sua assistenza al venerato prigioniero, prolungatasi non meno d’un biennio, e la conoscenza del recente scritto di Marco cordialmente accolto dalla cristianità di Roma, dovettero essere due opportune occasioni per Luca onde colorire il suo antico disegno, spingendolo a scrivere in Roma stessa il suo Vangelo.

• § 140. Luca indirizza il suo Vangelo a una determinata persona, Teofilo, a cui in seguito indirizzerà anche gli Atti; era un attestato di deferenza dedicare uno scritto ad un uomo insigne, e l’uso sarà seguito un trentennio più tardi in Roma stessa anche da Flavio Giuseppe, che dedicherà ad Epafrodito le sue Antichità giudaiche (I, 8) e il suo Contra Apionem (I, 1; II, 1). Il Teofilo di Luca è chiamato (...) «eccellentissimo» (abbiamo omesso il greco, ndR) e designerebbe il grado insigne dell’uomo: ma altro non sappiamo di lui, nonostante le molte congetture antiche e moderne. Ad ogni modo, se lo scritto è dedicato a Teofilo, Luca scorge anche dietro a costui molti altri lettori ai quali egualmente s’indirizza. Il prologo a Teofilo, dando occasione a Luca d’esporre le circostanze, lo scopo e il metodo del suo scritto, è di sommo valore storico; si può ben chiamare il più importante documento che riguardi direttamente il periodo di composizione dei Vangeli sinottici. È quindi opportuno riportarlo per intero in traduzione che sia fedele, per quanto è possibile, anche etimologicamente (Luca, 1, 1-4): «Poiché molti misero mano a riordinare una narrazione circa i fatti compiutisi fra noi, secondo che tramandarono a noi coloro che dall’inizio furono testimoni oculari e inservienti della parola: parve bene anche a me, che sono riandato appresso dal principio (o anche da lungo tempo) a tutte le cose diligentemente, scrivere a te secondo consecuzione, eccellentissimo Teofilo, affinché tu riconosca la stabilità dei discorsi circa i quali fosti catechizzato». Non torniamo sopra alcune notizie che già estraemmo da questo passo: fra cui, che già prima di Luca molti avevano scritto sui fatti di Gesù; che siffatti scritti dipendevano dalla trasmissione orale dei testimoni oculari e degli inservienti della parola, ossia dalla primitiva catechesi della Chiesa (§ 106 segg.). Qui, come fatti nuovi, rileviamo che Teofilo già era stato edotto in quella catechesi, e forse in maniera compiuta (come sembra indicare l’aoristo fosti catechizzato): e perciò, probabilmente, già era battezzato. Inoltre Luca, per fornire a Teofilo una conferma ed una conoscenza più profonda dei discorsi in cui è stato catechizzato, gli offre il suo scritto, frutto di ricerche che sono state fatte diligentemente su tutte le cose trattate e che sono state condotte fin dal principio dei fatti (o almeno da lungo tempo). Infine la narrazione dei fatti sarà condotta secondo consecuzione. I molti che hanno preceduto Luca non possono essere due soltanto, cioè Matteo e Marco noti a noi: il termine molti può far pensare, all’ingrosso, anche a una decina di scritti, benché in questo numero possano benissimo esser compresi anche i due noti a noi. Ma, anche fra questa abbondanza, Luca ha creduto di poter esser utile con un nuovo scritto: egli non è stato testimone dei fatti, ma le diligenti e lunghe ricerche che ha condotte nell’unica miniera di notizie, cioè la trasmissione dei testimoni oculari e degli inservienti della parola, gli fanno sperare che il suo nuovo scritto gioverà ad altri per approfondire la stabilità dei discorsi catechetici. Il tipo di catechesi seguito da Luca è, come già sappiamo, quello di Paolo. Perciò egli aggiungerà qualche cosa al quadro ordinario della catechesi di Pietro, che cominciava col battesimo di Gesù da parte di Giovanni il Battista; e poiché è riandato appresso dal principio agli avvenimenti, premetterà la narrazione dell’infanzia di Gesù, come già aveva fatto in misura minore anche Matteo. Tutta l’esposizione, poi, sarà secondo consecuzione, comprendendo in questa parola - a quanto pare - sia la connessione cronologica dei singoli fatti tra loro e con altri fatti più eminenti nella storia profana, sia anche la connessione logica tra cause ed effetti e tra argomenti affini. Per quanto possiamo comprendere noi oggi, con la nostra mentalità e con le scarse informazioni che abbiamo, Luca si è attenuto effettivamente a questo suo programma.

• § 141. Egli solo, fra tutti gli evangelisti, ha cura di riconnettere la narrazione con le principali date della storia profana contemporanea (cfr. 2, 1-2; 3, 1-2), inquadrando il fatto cristiano nella visione dell’umanità intera. In ciò egli si dimostra d’ampia visione, che acutamente percepisce come il cristianesimo apra una nuova epoca nelle vicende dell’umanità: nella stessa guisa, già due secoli prima, Polibio aveva fatto rilevare proprio al principio delle sue «Storie» (I, 1 segg.) come il dominio di Roma iniziasse un nuovo periodo nella storia della civiltà. Ma, insieme, Luca si dimostra nuovamente discepolo di quel Paolo, che nell’espansione della «buona novella» fra tutte le genti aveva scorto il mistero occultato ai secoli ed alle generazioni, ma che adesso è stato svelato ai santi (Coloss., 1, 26). Quanto alla serie cronologica dei fatti in se stessi Luca segue di solito Marco, tanto da sembrare che il brevissimo scritto di Marco sia servito a Luca come trama generale: infatti, circa i tre quinti di Marco si ritrovano in Luca. Tuttavia, pur seguendo la trama di Marco, Luca vi opera talune trasposizioni ed omissioni, e soprattutto vi apporta ampie aggiunte: infatti, circa la metà di Luca è propria a questo Vangelo, né si ritrova negli altri due Sinottici. In queste aggiunte sono inclusi sette miracoli ed una ventina di parabole che non hanno riscontro negli altri Vangeli, e soprattutto il racconto della nascita ed infanzia di Gesù ch’è diverso da quello di Matteo. Evidentemente queste novità sono frutto delle diligenti ricerche a cui Luca allude nel prologo: ma donde ha egli ricavato tali notizie?

• § 142. Lo stesso prologo indica come fonte la tradizione, senza però specificare; non è difficile tuttavia scorgere, fra i testimoni oculari e gli inservienti della parola, in primo luogo il venerato maestro Paolo, e poi anche altre insigni persone che Luca, viaggiando con Paolo, può avere incontrato ad Antiochia, in Asia Minore, in Macedonia, a Gerusalemme, a Cesarea ed a Roma: fra questi autorevoli informatori non è arrischiato annoverare gli apostoli Pietro e forse anche Giacomo (cfr. Atti, 21, 18), nonché l’«evangelista» Filippo presso cui in Cesarea dimorò Luca (cfr. Atti, 21, 8); non sono esclusi anche altri, circa i quali tuttavia sarebbe inutile perdersi in semplici congetture. Notevole è la menzione particolareggiata di donne: avevano seguito Gesù talune donne ch’erano state curate da spiriti maligni e infermità, Maria quella chiamata Magdalena, dalla quale erano usciti sette demoni, e Giovanna moglie di Chuza sovrintendente di Erode, e Susanna e molte altre, le quali ministravano ad essi dalle loro proprie sostanze (Luca, 8, 2-3; cfr. 24, 10). Né Giovanna né Susanna sono nominate da altri evangelisti, benché fossero donne di alto grado sociale e facoltose; probabilmente Luca, menzionandole, vuole con discrezione indicare una fonte delle sue informazioni. Non meno discreta, ma assai più precisa, è l’allusione a un’altra donna d’incomparabile dignità e importanza, cioè alla stessa Madre di Gesù. Di parecchi fatti narrati da questo Vangelo circa il concepimento, la nascita e l’infanzia di Gesù, soltanto sua madre Maria poteva essere testimone ed informatrice; ed ecco che Luca durante quella narrazione, per due volte, e a breve distanza, e quasi con gli stessi termini, ammonisce che Maria conservava tutte queste parole, convolgendole nel suo cuore (2, 19), e poco appresso che la madre di lui serbava tutte le parole nel suo cuore (2, 51). Questa insistenza di pensiero e di espressione è eloquente nella sua ponderata discrezione. Se Luca abbia conosciuto o no Maria personalmente, non risulta: ma anche nel caso che non le abbia parlato, precise informazioni fornite da lei gli possono essere pervenute attraverso l’apostolo Giovanni, il figlio adottivo assegnato a Maria da Gesù morente e nella cui casa ella dimorò dopo la morte del figlio vero (Giovanni, 19, 26-27). Una tardiva tradizione, non attestata prima di Teodoro il Lettore (secolo VI), presenta Luca come pittore d’un ritratto di Maria, il quale dalle leggende posteriori fu largamente moltiplicato: ma il ritratto della madre di Gesù fu in realtà dipinto dal calamo, non dal pennello, di Luca nella sua descrizione dell’infanzia di Gesù, che si svolse sotto lo sguardo della madre sua e i cui vari episodi divennero più tardi temi classici dei pittori cristiani. È inoltre assai probabile che per il racconto dell’infanzia, il quale contiene fra altro carmi metrici, Luca si sia servito anche di documenti ebraici o aramaici; la sua stretta dipendenza da essi spiegherebbe adeguatamente la straordinaria frequenza di semitismi nel greco di questo racconto. Ma pure sull’indole e provenienza di questi documenti nulla si può affermare di sicuro, oltre a ciò che Luca stesso dice vagamente nel prologo; né le varie congetture moderne possono supplire a questa mancanza di dati antichi.

• § 143. Luca non scrive soltanto per Teofilo, ma anche per i cristiani che si trovano più o meno nelle condizioni di spirito del destinatario. Sono i cristiani delle chiese fondate da Paolo, composte in prevalenza da fedeli provenienti dal paganesimo; del resto già Origene aveva notato che il Vangelo di Luca era per quelli (provenienti) dai gentili (in Eusebio, Hist. eccl., VI, 25, 6). Aggiunge infatti spiegazioni che sarebbero state superflue per lettori giudei, ad esempio che la festa giudaica degli Azimi si chiamava Pasqua (Luca, 22, 1); e invece tralascia cose che sarebbero state fraintese da chi proveniva dal gentilesimo, come il precetto dato da Gesù agli Apostoli di non andare per la via dei gentili (Matteo, 10, 5: precetto non riportato neppure da Marco, per la stessa ragione di Luca). Altre volte attenua espressioni che suonavano troppo dure per i gentili, come quando invece di dire non fanno ciò anche i gentili? (Matteo, 5, 47) dice fanno ciò anche i peccatori (Luca, 6, 33); per la stessa preoccupazione di delicatezza aggiunge, invece, fatti particolari che risultavano a onore dei gentili, come la buona accoglienza fatta da Giovanni il Battista ai soldati (3, 14), la generosità del centurione verso i Giudei (7, 4-5), e perfino la carità e la gratitudine che si potevano ritrovare presso gli aborriti Samaritani (10, 33-35; 17, 15-18). Soprattutto poi, lo scritto di Luca vuol essere la «buona novella» della bontà e della misericordia. Il discepolo di Paolo, che si rivolge ai cristiani di Paolo, dipinge Gesù non solo come salvatore di tutti gli uomini indistintamente, ma come amico in modo particolare dei più traviati, dei più umili e diseredati sulla terra. Se questa presentazione di Gesù quale supremo medico spirituale indusse Dante a designare Luca quale scriba mansuetudinis Christi (§ 138), indusse pure il Renan a definire questo Vangelo il più bel libro che esista: nella quale definizione l’iperbole abituale nello scrittore francese ha molto minor parte che in altri giudizi di lui. La parabola del figliuol prodigo, miracolo letterario di potenza psicologica, è riferita dal solo Luca. Soltanto Luca fa che il pastore si metta proprio sulle spalle la ritrovata pecora perduta e giunto a casa ne faccia gran festa con gli amici (15, 5-6; mancante in Matteo, 18, 13); come pure soltanto Luca parla della donna che ritrova la dramma perduta, e che se ne rallegra con le amiche come si fa gaudio al cospetto degli angeli d’Iddio per un solo peccatore che si penta (Luca, 15, 8-10). Non altri che Luca riporta le parole di Gesù morente «Padre, perdona loro, perché non sanno che cosa fanno!», e subito appresso quelle altre con cui il morente promette il Paradiso al ladrone pentito che gli agonizza a fianco (23, 34.43).

• § 144. Anche da un altro aspetto appare l’indole vera dello scritto di Luca. Si ripensi qual era, nella sua realtà, la società in mezzo a cui vivevano i lettori di questo Vangelo. A Roma stessa insieme con Luca abitava Seneca, il quale tranquillamente affermava che la donna impudens animal est et... ferum, cupiditatum incontinens (De constantia sapientis, XIV, 1 - La lezione impudens è quella dei codici, e confermata dagli attributi che seguono; qualche editore, tuttavia, ha pietosamente supposto imprudens) - (la donna è «un animale impudico e selvatico, colmo di insaziabili brame», ndR); un altro contemporaneo abitante dell’Urbe era Petronio l’Arbitro autore di quel Satiricon che, se è il libro più cinicamente osceno trasmessoci dalla romanità classica, è anche fedele specchio del fasto orientalesco riserbato in quella società ad alcuni pochi, fra moltitudini sterminate di proletari e di schiavi. Eccezioni non saranno mancate: ma non potevano esser molte, e ad ogni modo erano più teoretiche che pratiche. Appunto il «Seneca morale», mentre ragionava egregiamente di virtù civili ed umane, definiva la donna nella maniera testé vista; e mentre dettava la sentenza di sapore cristiano parem autem deo pecunia non faciet: deus nihil habet... nudus est (Epist., 31, 10), confessava davanti a Nerone di possedere immensam pecuniam e di fare l’usuraio (Tacito, Annal., XIV, 53), dimostrando di non avere alcuna voglia di restare nudo come il suo Dio. Era insomma la società esattamente riassunta da quel Claudio Secondo, che aveva scritto sulla propria tomba: Balnea vina venus corrumpunt corpora nostra, sed vitam faciunt balnea vina venus (Corpus Inscr. Lat., VI, 3, n. 15258). Era la società in cui imperava, quasi assoluto, il binomio «lussuria e lusso». In antitesi perfetta all’indole di quella società è l’indole dello scritto di Luca, che è il Vangelo di esaltazione per la donna, di encomio per la povertà, di laude per la giocondità della vita semplice ed umile: uno scritto che si può riassumere nel binomio «purità e povertà», non senza aggiungervi quello spirito di perfetta letizia che si sarebbe tentati di definire francescano, se già dapprima non fosse stato tipicamente lucano. Le donne del Vangelo di Luca, mentre hanno una probabile parte come informatrici, ne hanno certamente una molto onorevole come attrici. Oltre a figure di primo piano, quali Maria madre di Gesù ed Elisabetta madre di Giovanni il Battista, il solo Luca presenta la profetessa Anna (2, 36-38), la vedova di Naim (7, 11 segg.), la peccatrice anonima (7, 37 segg.), la donna ricurva (13, 10 segg.), l’altra donna che proclama beata la madre di Gesù (11, 27-28), la massaia Marta (10, 38 segg.), le donne della via dolorosa (23, 27 segg.): i quali ritratti femminili saranno di molto accresciuti nei successivi Atti, costituendo nell’insieme una pinacoteca che mette la donna in una luce affatto diversa da quella della contemporanea società pagana.

• § 145. Insieme con la purità, il Vangelo di Luca esalta la povertà. Mentre il Discorso della montagna in Matteo ripete nove volte la felicitazione Beati...!, Luca la ripete solo quattro volte, ma in compenso aggiunge quattro volte la maledizione Guai...!, che è indirizzata tutte e quattro le volte ai ricchi e gaudenti (6, 20-26); così pure, mentre la prima felicitazione è rivolta in Matteo ai poveri in ispirito, da Luca è rivolta ai poveri semplicemente. In armonia con ciò il solo Luca ricorda espressamente la bassezza (umiltà, ndR) della madre di Gesù (1, 48) e la povertà della sua offerta al Tempio (2, 24), la squallida nascita di Gesù a Bethlehem e la miseria dei garzoni di greggi che furono i suoi primi adoratori; dal solo Luca è riferito che Gesù, parlando nella sinagoga di Nazareth, applicò a se stesso le parole di Isaia: «Lo spirito del Signore è su me: perciò mi unse per evangelizzare ai poveri» (4, 18); e se Luca riporta insieme con Matteo le parole di Gesù: «Le volpi hanno le tane... ma il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (9, 58), egli solo ci dice che alcune facoltose donne gli apprestavano il necessario dalle proprie sostanze (8, 3). Anzi nello scritto di Luca affiora così frequentemente l’esaltazione della povertà, che qualche studioso moderno ha creduto riscontrarvi l’influenza della antica setta degli Ebioniti («poveri»), costituita da cristiani provenienti dal giudaismo; ma appunto tale provenienza basterebbe ad escludere quell’influenza da uno scritto come questo, del tutto alieno dallo spirito giudaico e animato invece da spirito universalistico, mentre l’avversione alle ricchezze è adeguatamente spiegata dalla reazione all’indole della contemporanea società pagana. Conseguenza della predilezione per la purità e per la povertà sembra essere quello spirito di giocondità serena, quasi poetica, che aleggia su questo Vangelo. Già San Paolo aveva raccomandato ai suoi fedeli: Gioite nel Signore sempre; nuovamente dico: Gioite! (Filipp., 4, 4), tornando anche altrove con parole identiche o equivalenti sulla stessa raccomandazione: Gioite sempre! (I Tessal., 5, 16; cfr. Romani, 12, 12; ecc.). La ragione di questa gioia era che il regno di Dio... è giustizia e pace e gaudio nello Spirito santo (Rom., 14, 17), e che il frutto dello Spirito è amore, gaudio, pace, ecc. (Galati, 5, 22). Anche in ciò il discepolo va appresso al maestro. Il Vangelo di Luca, nei due primi capitoli, contiene singolari espressioni di questo gaudio spirituale, cioè quattro composizioni metriche (Magnificat; Benedictus; Gloria in altissimis; Nunc dimittis) non reperibili negli altri Vangeli; infine tutto lo scritto termina narrando come gli Apostoli, dopo aver assistito all’ascensione di Gesù, tornarono a Gerusalemme con gaudio grande, e stavano del continuo nel tempio benedicendo Iddio (24, 52-53). E così lo scriba mansuetudinis Christi diventa anche il giullare di Dio nella perfetta letizia. FINE.

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.

Comunicato numero 87. Il Vangelo secondo San Marco

Stimati Associati e gentili Sostenitori, oggi, per grazia di Dio, studieremo «Il Vangelo secondo San Marco». Abate Giuseppe Ricciotti («Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, 7a Edizione, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941),

• § 127. Il secondo Vangelo è attribuito a Marco. Gli Atti parlano più volte di un Giovanni chiamato Marco (12, 12.25; 15, 37), la cui madre si chiamava Maria ed aveva una casa a Gerusalemme, come altrove si parla di un Giovanni (Atti, 13, 5.13), e di un Marco (ivi, 15, 39; Coloss., 4, 10; Filem., 24; I Pietro, 5, 13): in tutti e tre i casi deve ben trattarsi della stessa persona, essendo usanza comunissima presso i Giudei di quel tempo di assumere un nome greco-romano oltre a quello giudaico. È certo, poi, che a questo Giovanni Marco fu attribuito nell’antichità il secondo Vangelo. La casa della madre di Marco, a Gerusalemme, era luogo d’adunanza per i cristiani della città; ivi anche si rifugiò Simone Pietro quando fu liberato miracolosamente dal carcere nell’anno 44. Marco era cugino dell’insigne Barnaba, e da esso e da Paolo insieme fu condotto ad Antiochia. Ma dai due si staccò Marco durante il primo viaggio missionario di Paolo, a Perge di Pamfilia, tornandosene a Gerusalemme. Il distacco dispiacque a Paolo, che nel suo secondo viaggio si rifiutò di condurre seco Marco, mentre il cugino Barnaba desiderava condurlo: perciò Barnaba a sua volta si staccò da Paolo, recandosi con Marco nell’isola di Cipro sua patria. La fermezza di Paolo non gli alienò però l’animo di Marco; una decina d’anni più tardi, verso il 61-62, Marco era di nuovo presso Paolo a Roma, e gli fu d’aiuto e di conforto mentre l’apostolo aspettava d’esser giudicato da Nerone (Coloss. 4, 10-11; Filem., 24). Fra gli anni 63 e 64 Marco era a Roma a fianco a Pietro, che trasmetteva da Babilonia (Roma) i saluti del suo figlio Marco (I Pietro, 5, 13). Nell’anno 66 Marco era in Asia Minore, perché Paolo scrivendo da Roma a Timoteo in Efeso gli raccomandava: Prendi Marco e conducilo teco; mi è infatti utile per il ministero (II Timoteo, 4, 11). In questi dati, offerti dal Nuovo Testamento, le relazioni di Marco con Paolo sono più numerose ed importanti delle sue relazioni con Pietro: tuttavia la concorde tradizione successiva mette in rilievo assai maggiore le relazioni di Marco con Pietro, mostrando con ciò che le proprie informazioni non dipendono dalle notizie occasionali del Nuovo Testamento. Se Pietro, in realtà, chiama Marco suo figlio è probabile che lo avesse battezzato: è anche molto verosimile che, per la famiglia di Marco, Pietro avesse una particolare affezione, giacché diretta-mente in casa di lui si rifugiò ancora sbalordito per la propria miracolosa liberazione dal carcere. Tuttavia queste notizie non alludono ad una qualsiasi collaborazione di Marco al ministero apostolico di Pietro; la quale, invece, è attestata fermamente dalla tradizione successiva, soprattutto riguardo alla composizione di uno scritto evangelico.

• § 128. Anche qui, come per il Vangelo di Matteo, la testimonianza più antica e autorevole è offerta da Papia (§ 114), il quale scrive: Anche questo diceva il Presbitero: Marco, divenuto interprete di Pietro, scrisse esattamente, ma non già con ordinamento, quanto si ricordò delle cose o pronunziate o operate dal Signore. -Egli, infatti, né udì il Signore né fu al seguito di lui, bensì più tardi, come ho detto, di Pietro. Costui secondo le necessità faceva le istruzioni, ma non quasi mirando a fare una coordinazione dei detti del Signore; cosicché Marco non è incorso in alcun difetto, scrivendo talune cose così come si ricordò. Ad un solo punto egli fece attenzione, a non tralasciare nulla di quelle cose che udì e a non mentire in nulla in esse (in Eusebio, Hist. eccl., II, 39, 15). Questa testimonianza è più antica di Papia stesso, perché egli nel primo periodo - cioè fino a pronunziate o operate dal Signore - riporta l’affermazione del Presbitero Giovanni. Se questo Giovanni sia l’Apostolo ed evangelista, ovvero sia una persona differente da lui, è questione qui secondaria (§ 158), giacché nel caso presente basta assicurarsi che la relativa affermazione risale al secolo I. È anche superfluo ricordare che le osservazioni già fatte (§ 114 segg.) a proposito di Matteo, circa il valore delle parole «ordinamento», «coordinare» e «detti» presso Papia, conservano anche qui il loro pieno valore. In quale senso Marco divenne «interprete» di Pietro? La voce in sé può significare sia l’interprete delle parole, cioè il traduttore, sia più genericamente l’interprete del pensiero, cioè quasi un amanuense o un segretario. Ambedue queste interpretazioni sono sostenibili, e di fatto sono state sostenute: del resto, ambedue possono corrispondere ad una realtà successiva, in quanto che Pietro - il quale nei primi anni del suo apostolato fuor dalla Palestina doveva essere tuttora poco esperto nella lingua greca e ancor meno nella latina - potè servirsi di Marco dapprima come vero traduttore estemporaneo, e più tardi come amanuense e segretario. Lo scritto di Marco, secondo le affermazioni del Presbitero e di Papia, è dunque un’«esatta» copia della catechesi orale di Pietro: perciò anche è privo di «ordinamento», perché Pietro parlava occasionalmente «secondo le necessità» degli ascoltatori, ma senza voler «fare una coordinazione», né metodica né compiuta, delle cose «o pronunziate o operate» da Gesù.

• § 129. Questi dati si ritrovano tutti nel nostro Vangelo di Marco. Esso si restringe entro i limiti che già riscontrammo esser abituali alla catechesi di Pietro (§ 113), perché comincia col battesimo di Gesù da parte di Giovanni il Battista e termina con le apparizioni di Gesù dopo la resurrezione (cfr. Atti, 10, 37-41). Inoltre, è uno scritto che non ha «ordinamento», secondo il rilievo fatto dal Presbitero e poi confermato da Papia. Se il Presbitero è Giovanni l’evangelista, si può pensare che l’«ordinamento» mancante sia quello cronologico, giacché il Vangelo di Giovanni è il più accurato dei quattro nel fissare la cronologia dei fatti di Gesù (§ 163), mentre in Marco la consecuzione cronologica è in realtà talvolta generica e talvolta mancante. Ma, qualunque sia il giudizio del Presbitero, Papia non può aver pensato che all’«ordinamento» logico, perché egli confrontando Marco con Matteo preferisce quest’ultimo, come già rilevammo, sebbene l’«ordinamento» di Matteo sia meno cronologico anche di quello di Marco. La spiegazione di questa mancanza d’«ordinamento» è fornita dallo stesso Papia. Marco nel suo scritto ha seguito la predicazione di Pietro; il quale, parlando occasionalmente, sceglieva alcuni temi isolati della sua abituale catechesi, e indirizzandosi a pagani preferiva ai discorsi di Gesù i fatti biografici di lui come più adatti a quegli uditori. E infatti Marco ha per buona parte l’aspetto di una raccolta di aneddoti biografici, che corrispondono alle «talune cose» di cui, secondo Papia, l’autore si ricordava: mentre poi è privo degli ampi discorsi di Matteo, pur essendo designato come una raccolta «non coordinata».

• § 130. Le attestazioni successive confermano e precisano quella del Presbitero e di Papia. A mezzo il secolo II Giustino martire, citando una notizia ch’è particolare a questo Vangelo (Marco, 3, 17), la dice contenuta nelle «Memorie» dello stesso Pietro (Dial. cum Tryph., 106); la quale designazione non deve far pensare che Giustino si riferisca a qualche scritto apocrifo, del resto totalmente ignoto, bensì dimostra che egli ritiene lo scritto dell’«interprete» di Pietro come una fedele eco della catechesi di costui. Verso il 180 Ireneo, nel passo che già vedemmo (§ 123), attesta che Marco fu interprete di Pietro e scrisse secondo la predicazione di lui. Verso il 200 Clemente Alessandrino aggiunge importanti particolarità riguardo alle circostanze ed al luogo in cui fu scritto questo Vangelo. Parlando dell’apostolato di Pietro a Roma, Eusebio dice: Le menti degli ascoltatori di Pietro furono illuminate da un raggio di pietà sì grande, che non giudicarono sufficiente contentarsi di una sola ascoltazione né di una istruzione non scritta circa l’annunzio divino; bensì con esortazioni d’ogni genere insistettero presso Marco, di cui va in giro il Vangelo e che era seguace di Pietro, affinché lasciasse anche per iscritto una memoria dell’istruzione trasmessa loro a voce, e non cessarono fino a che quello ebbe compiuto: e così furono essi la cagione per cui fu scritto il Vangelo chiamato secondo Marco. Avendo poi risaputo l’accaduto l’apostolo (Pietro) - a quanto si dice - per una rivelazione fattagli dallo Spirito, si compiacque dello zelo di quei tali, e concesse lo scritto per la lettura nelle adunanze. Clemente riferisce questo fatto nel sesto delle Ipotiposi, e una testimonianza conforme alla sua fa il vescovo di Jerapoli chiamato Papia (Hist. eccl. II, 15, 1-2). Lo stesso fatto è ripetuto dal medesimo Clemente in un altro frammento (Hypotyp. ad I Petri, 5, 14), ove si aggiunge solo il particolare che coloro che a Roma indussero Marco a scrivere erano «cavalieri di Cesare». Un terzo riassunto, sempre dalle Ipotiposi, fa Eusebio: Inoltre in questi stessi libri Clemente espone, circa la serie dei Vangeli, la tradizione degli antichi presbiteri, che è questa. Egli dice che sono stati scritti dapprima i Vangeli che contengono le genealogie (Cioè Matteo e Luca; ma la priorità di Luca su Marco è insostenibile), e che quello secondo Marco ha avuto la seguente origine. Avendo Pietro predicato pubblicamente a Roma la parola (di Dio) ed esposto il Vangelo in virtù dello Spinto, i molti ch’erano stati presenti esortarono Marco, come colui che lo aveva seguito da gran tempo e si ricordava delle cose dette, di mettere in iscritto le cose pronunziate. Avendo fatto (ciò, Marco), consegnò il Vangelo a quelli che l’avevano pregato. Pietro, risaputo ciò non volle esplicitamente né impedire né incitare (Hist. eccl., VI, 14, 5-7). Come si vede, le tre attestazioni clementine concordano sul punto essenziale, che è di far comporre il Vangelo di Marco a Roma come prodotto diretto della catechesi di Pietro. Molte altre sono le attestazioni successive che confermano questo punto essenziale, ma possono considerarsi superflue (Tertulliano, Adv. Marcion., IV, 5; Origene, in Eusebio, Hist. eccl., VI, 25 ; ecc.). È invece di speciale importanza la notizia, del tutto inaspettata, secondo cui Marco sarebbe stato «dalle dita monche»; questo termine gli è applicato in greco da Ippolito (Refut., VII, 30, 1) e altrettanto fa in latino l’antico Prologo latino premesso al suo Vangelo, aggiungendovi una spiegazione (ideo quod ad ceteram corporis proceritatem digitos minores habuisset) nonché la solita conferma che Marco fu interprete di Pietro e che scrisse il suo Vangelo in Italia. Questa notizia delle dita monche è dimostrata autorevole dalla stessa sua stranezza: non c’era, infatti, alcun motivo per inventare arbitrariamente una particolarità fisica di questo genere, che nel campo morale non ha alcun valore; la notizia invece, del tutto corrispondente alla realtà, deve provenire dai ceti del cristianesimo di Roma, a cui apparteneva anche Ippolito. Tale corrispondenza geografica, sebbene a proposito di una minuzia, è eloquente.

• § 131. Quanto al tempo in cui Marco scrisse il suo Vangelo abbiamo come argomento certo la quasi costante attestazione dell’antichità, secondo cui egli è cronologicamente il secondo evangelista, e quindi anteriore a Luca: e ciò è confermato dalla critica odierna, che ammette concordemente che Marco sia stato conosciuto ed impiegato da Luca. Perciò il secondo Vangelo dovette essere scritto dopo l’anno 55, che già assegnammo come estremo limite inferiore di Matteo (§ 123), ma prima del 62, che è la data approssimativa di Luca (§ 139): nel periodo, dunque, fra gli anni 55 e 62 Marco dovette trovarsi a Roma insieme con Pietro. Ora, questa presenza di Marco a Roma è confermata, almeno nei suoi ultimi anni, dai passi già visti delle Lettere di Paolo ai Colossesi e a Filemone, se tali lettere furono scritte - com’è sommamente probabile - appunto verso gli anni 61-63 e precisamente da Roma. Che il Vangelo di Marco possa assegnarsi a tale periodo, sembra impedirlo il già citato passo di Ireneo (§ 123), in cui si dice che dopo la dipartita di costoro (cioè di Pietro e Paolo), Marco, il discepolo e l’interprete di Pietro, ci trasmise anch’egli per iscritto le cose predicate da Pietro. In questo passo il senso di dipartita (§ 403) è certamente quello di morte, e non di assenza per viaggio come taluni moderni hanno supposto: quindi bisognerebbe scendere a dopo l’anno 67 (o 64). Sarebbe anche artificioso e non persuasivo interpretare l’espressione ci trasmise nel senso che, solo dopo la morte di Pietro e Paolo, Marco «pubblicò» e «divulgò» il suo scritto composto già prima: al contrario le varie attestazioni antiche, e specialmente quelle di Clemente Alessandrino, s’interpretano in maniera spontanea solo ritenendo che lo scritto di Marco circolasse subito appena finito. Se pertanto non si vuol supporre che Ireneo parli in maniera solo approssimativa senza insistere sulla concomitanza cronologica, come osservammo anche a proposito di Matteo, bisognerà respingere la sua affermazione (seppure è trasmessa bene dai manoscritti) essendo in manifesto contrasto con testimonianze storiche antiche e con osservazioni critiche moderne.

• 132. L’esame interno dello scritto di Marco svela notevoli tracce della sua particolare origine. Brevissimo fra tutti i Vangeli, esso ha appena una decima parte del suo contenuto che gli è propria, mentre i restanti nove decimi si ritrovano tutti negli altri due Sinottici. Il contenuto poi, così breve, è impiegato a narrare molti miracoli di Gesù, poche parabole, pochissimi discorsi. I miracoli narrati negli altri due Sinottici si ritrovano tutti, salvo quattro, in Marco, ma esso per conto suo ne aggiunge pure degli altri; per contrapposto non vi si ritrovano discorsi d’importanza fondamentale, quale il Discorso della montagna, come pure manca la cura, vivissima in Matteo, di far notare che in Gesù si sono adempiute le antiche profezie messianiche. La descrizione poi dei fatti è vivida, immediata, e scende a minuzie inaspettate che spesso mancano negli altri due Sinottici; ma anche qui, per contrapposto, la lingua greca è povera e grezza, il periodare disadorno e anche duro, i procedimenti stilistici elementari e uniformi. Sembra leggere la lettera di un intelligente campagnolo ove questi descriva avvenimenti meravigliosi di cui sia stato testimone oculare: la descrizione di siffatto narratore risulta tanto più vivida ed immediata, quanto più profonda è l’impressione ricevuta dagli avvenimenti e quanto più sono semplici e limitati gli argomenti letterari di cui il narratore dispone.

• § 133. Ebbene, questi rilievi quadrano perfettamente nella cornice offertaci dalla tradizione. Se Pietro aveva bisogno di Marco come di «interprete», costui a sua volta non doveva essere niente più che un empirico nel campo d’idiomi stranieri, non già un fine letterato da tavolino, e neppure uno scrittore fornito dell’esperienza di un Luca o di un Paolo o dello stilizzatore della Lettera agli Ebrei. Pietro dunque, nelle sue catechesi orali, aveva narrato con la semplice ma potente efficacia del testimone oculare: il suo interprete fissò in iscritto, con l’arte ingenua di cui disponeva, le narrazioni di lui. Pietro, inoltre, parlava in Roma, a uditori provenienti in maggioranza dal paganesimo, inesperti di dottrine e tradizioni ebraiche; e appunto per questo troviamo che in Marco Gesù è presentato, non tanto come il Messia atteso dagli Ebrei, quanto come il Figlio di Dio, signore taumaturgo della natura, dominatore delle potenze demoniache: mentre, al contrario, sono tralasciate questioni dottrinali che avrebbero interessato particolarmente uditori giudei, quali quelle sulle osservanze legali, sullo spirito dei Farisei, e simili. Vi si riportano, quasi per particolare riverenza, precise parole aramaiche pronunziate da Gesù, come (...) in Marco, 3, 17; 5, 41; 7, 34; ecc., ma subito appresso sono tradotte in greco, com’era necessario per ascoltatori o lettori di Roma; per la stessa ragione sono spiegate particolari usanze giudaiche, come quella della lavanda delle mani prima dei pasti (7, 3-4). Fiutando poi sagacemente, si percepisce nello scritto uno spiccato sentore di romanità: più frequenti che presso gli altri due Sinottici vi sono impiegati in greco vocaboli latini, come centurio (15, 39.44), spiculator (6, 27), sextarius (... 7, 4) e altri; affiorano anche espressioni che sono più latine che greche, tanto da sembrare italianismi, come quella che letteralmente dice lo presero a vergate [Cfr. la frase di Cicerone accipere aliquem verberibus (ad necem)] (in 14, 65; mentre in Matteo, 26, 67, lo vergarono) e qualche altra. Né si giustificherebbero, se non perché indirizzate a lettori latini, precisazioni come queste: due minuzzoli, che è (un) quadrante, in cui si nomina la moneta romana equivalente alle due greche (12, 42); oppure dentro l’aula, che è (il) pretorio, in cui il preciso termine militare romano è soggiunto a quello greco più generico (15, 16). Un tratto assai probabile di romanità si trova anche nell’episodio di Simone il Cireneo che aiutò Gesù a portare la croce: l’episodio è narrato anche dagli altri due Sinottici, ma il solo Marco aggiunge che Simone era il padre di Alessandro e di Rufo (15, 21). Perché questa inaspettata indicazione, se i due figli non sono mai più nominati in tutti i Vangeli? La spiegazione sembra offerta dalla chiusa della Lettera di Paolo ai Romani, ove l’apostolo incarica di salutare, certamente in Roma, Rufo l’eletto nel Signore e la madre sua e mia (Rom., 16, 13). È chiaro che questo Rufo era persona insigne nella cristianità di Roma, e altrettanto la madre di lui, che Paolo venera al punto di chiamarla madre propria ; ma anche la menzione di Rufo in Marco non si spiega se non perché riferita a persona notissima: è quindi del tutto spontaneo supporre che i due Rufi siano la stessa persona, tanto più che il nome di Rufo doveva essere ben raro a Gerusalemme, donde la persona proveniva (§ 604).

• § 134. Lo scritto di Marco, infine, ha un atteggiamento particolare di fronte alla persona di Pietro. Mentre in qualche episodio che lo riguarda ha talune notizie in più, come nella guarigione della suocera di lui (1, 29-31), giammai in nessun tratto lo adula, anzi tralascia fatti per lui onorifici narrati dagli altri Sinottici, quali il camminar sulle acque, il didramma trovato in bocca al pesce, e perfino il conferimento del primato. La ragione di questo atteggiamento, in conferma della tradizione, è che Pietro nelle sue catechesi orali non amava insistere su episodi onorifici a lui stesso, e il suo «interprete» ha fedelmente rispecchiato tale modestia nel suo proprio scritto. Ma esiste forse in questo scritto anche qualche allusione alla persona stessa di Marco? La tradizione antica s’accorda con Papia, al passo già visto (§ 128), nell’asserire che Marco non fu discepolo di Gesù: un paio di affermazioni contrarie (ad es. Epifanio, Hæres., XX, 4) rimangono solitarie e non autorevoli. Tuttavia questa tradizione non escluderebbe per se stessa che Marco, ancor giovanetto, abbia visto qualche volta di sfuggita Gesù, pur senza essere suo vero seguace: la circostanza già rilevata che la casa della madre di Marco era luogo d’adunanza per i cristiani di Gerusalemme, e che nell’anno 44 Pietro vi si rifugiò appena uscito di prigione (§ 127), fa supporre un’antica amicizia che poteva ben risalire a prima della morte di Gesù. Assicurata questa possibilità, entra in relazione con essa un singolare episodio della passione di Gesù, narrato dal solo Marco, episodio ben preciso anche nel suo arcano riserbo. Gabriele d’Annunzio ha scritto: Non avete mai pensato chi potesse mai essere quel giovine «amictus sindone super nudo», del quale parla il Vangelo di Marco? «E tutti, lasciatolo, se ne fuggirono. E un certo giovine lo seguitava, involto d’un panno lino sopra la carne ignuda, e i fanti lo presero. Ma egli, lasciato il panno, se ne fuggì da loro, ignudo». Chi era quel tredicesimo apostolo, che aveva preso il luogo di Giuda nell’ora dello spavento e della grande angoscia?... Era vestito d’un vestimento leggero. Si fuggì ignudo «reiecta sindone, nudus profugit ab eis». Nulla più si seppe di lui nel mondo (in Contemplazione della morte, cap. XV aprile MCMXII). Quest’episodio (14, 51-52) è, storicamente, un masso erratico: non ha alcuna colleganza con gli altri fatti della passione, tanto che si potrebbe sopprimere senza alterare la narrazione complessiva. Eppure il narratore è bene informato: sa che quel giovanetto, risvegliato forse improvvisamente dal frastuono notturno, non ha fatto in tempo a gettarsi addosso neppure un mantello, e con la sola sindone s’è messo a seguire; infine, catturato, lascia la sindone in mano ai catturatori, e fugge nudo (§ 561). I discepoli di Gesù erano già fuggiti tutti, come ha detto il narratore poco prima: anche Pietro, l’informatore principale di Marco, già era fuggito e non era più sul posto. Chi era dunque quel giovanetto, unico testimone amico fra tanti nemici? Perché Marco, che sa tutto di lui, non lo nomina, e preferisce presentarlo con la faccia occultata da un arcano velo? Quel giovanetto, forse, era Marco stesso, come pensano molti studiosi moderni. Nella stessa guisa che Pietro nella sua catechesi nascondeva fatti a sé onorifici, così anche Marco può aver velato qui la sua propria faccia, pur non volendo omettere del tutto questo episodio che nel suo scritto poteva valere come simbolico signaculum in sigillo. FINE.

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.

Comunicato numero 86. Il Vangelo secondo San Matteo

Stimati Associati e gentili Sostenitori, entriamo nel vivo delle fonti storiche che riguardano Nostro Signore Gesù Cristo. Oggi, per grazia di Dio, studieremo il capitolo: «Il Vangelo secondo San Matteo». Abate Giuseppe Ricciotti («Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, 7a Edizione, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941),

• § 114. Il primo Vangelo è attribuito all’apostolo Matteo, chiamato anche Levi e già pubblicano (§ 306), da una costante tradizione che risale al principio del secolo II. Il già allegato Papia di Jerapoli, che verso l’anno 120 scrisse cinque libri di Spiegazione dei detti del Signore, affermava in essi che: Matteo in dialetto ebraico coordinò i detti; ciascuno poi li interpretò com’era capace (in Eusebio, Hist. eccl., III, 39, 16). Altre testimonianze successive - quali quelle di Ireneo (Adv. hær., III, 1, 1), di Tertulliano (Adv. Marcion., IV, 2), di Clemente Alessandrino (Stromata, I, 21), ecc. - confermano più o meno esplicitamente la notizia di Papia. È anche certo che tutta l’antichità cristiana, in una gran quantità di attestazioni che sarebbe inutile elencare, ha attribuito a Matteo precisamente il primo dei nostri Vangeli canonici e non un altro scritto. Che cosa esattamente afferma Papia dello scritto di Matteo? Egli dice che in esso Matteo coordinò i detti di Gesù: ossia che, non solo raccolse insieme, ma anche secondo un dato ordinamento, i detti in questione. La lezione «coordinò» è data da cinque codici su sette, ed è certamente la giusta; soltanto due codici leggono «coscrisse», che è lezione meno attendibile. Gli antichi, infatti, badavano molto in un’opera letteraria all’«ordinamento»: secondo essi uno scrittore doveva in primo luogo provvedere al ritrovamento di un soggetto, quindi sottoporre il soggetto all’«ordinamento»; questo ordinamento, poi, non era sempre quello cronologico, bensì presso gli stessi storici era sovente l’ordinamento logico, fondato o sull’analogia delle varie trattazioni, o sulla congiunzione di causa ed effetto, o sull’unità di luogo e di persone, e simili. Questi precetti dei grammatici greci erano abbastanza noti e praticati anche presso i Giudei ellenisti. L’autore del II Maccabei, che ricapitola i cinque libri di Giasone di Cirene, rammenta ciò che si addice al principio del suo lavoro (segue citazione dal greco ... 2, 30); che dalla Vulgata (2, 31) è tradotto con larghezza più verbale che concettuale: «intellectum colligere, et ordinare sermonem, et curiosius partes singulas quasque disquirere». E che Papia abbia qui di mira questo ordinamento letterario, risulta da quanto egli ha detto immediatamente prima circa il Vangelo di Marco (citeremo l’intero passo al § 128), ove afferma che Marco scrisse esattamente, ma non già con ordinamento; al contrario, nello scritto di Matteo egli ritrova con soddisfazione questo «ordinamento».

• § 115. Ora, quali sono i detti contenuti nello scritto di Matteo? Etimologicamente il termine greco significa detti (sentenze, oracoli); ma particolarmente, presso scrittori giudei e cristiani, significava anche passi in genere della sacra Scrittura, che contenessero indifferentemente sia sentenze sia fatti. Papia stesso usa altrove il termine in questo secondo senso più ampio: nel già accennato passo ove parla del Vangelo di Marco, dice che questo contiene le cose o pronunziate o operate da Gesù; eppure, immediatamente appresso, egli designa questo complesso narrativo come detti di Gesù. Inoltre la stessa opera scritta da Papia era bensì intitolata Spiegazione dei detti del Signore, ma dagli accenni e citazioni che ne rimangono risulta che essa trattava, oltreché delle sentenze, anche dei fatti di Gesù e dell’età apostolica. Per conseguenza, non solo l’antichità cristiana, ma anche tutti gli studiosi indistintamente fino al secolo XIX inoltrato, ritennero che questi detti attribuiti da Papia a Matteo designino il primo dei nostri Vangeli canonici: tanto più che di un’opera assegnata a Matteo o ad altri Apostoli, conteneva solo sentenze di Gesù, non esiste né attestazione né traccia alcuna trasmessa dall’antichità. Se poi passiamo a confrontare questi dati, strettamente positivi, con il contenuto del nostro primo Vangelo, troviamo una adeguata corrispondenza alle due caratteristiche rilevate da Papia: quella dell’appellativo di detti, e quella dell’«ordinamento» letterario.

• § 116. E in primo luogo, fra i Vangeli sinottici, Matteo è quello che concede il più ampio spazio alle parole di Gesù, le quali occupano circa tre quinti dell’intero scritto: perciò con particolare ragione esso poteva esser designato come una raccolta di detti, pur conservandosi a questa parola il significato usuale meno rigoroso che includeva anche la narrazione di fatti. Inoltre, la raccolta dei discorsi di Gesù ivi riferiti è stata ripartita in cinque gruppi, secondo quella norma di «ordinamento» letterario che stava a cuore a Papia. Il primo gruppo contiene ciò che si potrebbe definire lo statuto del regno fondato da Gesù, cioè il Discorso della montagna (Matteo, capp. 5-7); il secondo contiene le istruzioni date agli Apostoli per diffondere il regno (cap. 10); il terzo, le parabole del regno (cap. 13); il quarto, i requisiti morali per appartenere al regno (cap. 18); il quinto, il perfezionamento del regno e la sua consumazione nei fini estremi (capp. 23-25). Notevole è che ognuno di questi gruppi è preceduto da poche parole d’introduzione, ed è poi seguito da una conclusione, la quale tutte le volte è, con minime mutazioni, questa: «E avvenne che, quando Gesù ebbe terminato o questi discorsi o queste parabole», ecc. (7, 28; 11, 1; 13, 53; 19, 1; 26, 1). Notevole è anche che siffatto «ordinamento» in cinque gruppi, certamente non fortuito, corrisponde numericamente ai cinque libri in cui Papia aveva diviso la sua opera di Spiegazione dei detti del Signore; il che potrebbe far sospettare, benché la cosa non sia punto certa, che Papia avesse seguito nella sua opera l’«ordinamento» da lui segnalato nello scritto di Matteo, se in essa egli si era occupato soprattutto dei discorsi di Gesù.

• § 117. L’antico pubblicano Matteo, quando mise mano a questa sua opera, era certamente uomo abituato da gran tempo a scrivere, perché senza la quotidiana scrittura non avrebbe potuto nel passato tenere in bell’ordine nel suo tavolo da gabelliere le note dei pagamenti; al contrario gli altri Apostoli, sebbene non fossero privi di lettere, dovevano avere in genere più familiarità con remi e reti da pescatori che non con pergamene e calami da scrittori (salvo forse i due benestanti figli di Zebedeo), e ciò specialmente subito dopo la morte di Gesù quando iniziarono da soli la loro missione. Testimoni oculari delle azioni di Gesù erano stati tutti egualmente, ma l’abilità scritturale di Matteo era un vantaggio tecnico sugli altri Apostoli, e questo dovette far sì che fosse assegnato di preferenza a lui l’incarico di mettere in iscritto la catechesi orale degli stessi Apostoli. Quando Matteo si mise all’opera è possibile, sebbene non dimostrato, che già circolasse qualche scritto contenente detti o fatti di Gesù; ma anche se ciò potesse dimostrarsi, si tratterebbe certamente di saggi ancora scarsissimi sia per numero sia per contenuto, composti inoltre per iniziativa privata e privi d’ogni carattere ufficiale. Al contrario, l’incarico dato a Matteo rispondeva all’opportunità che la catechesi orale degli Apostoli fosse ampiamente e ufficialmente riecheggiata in un documento scritto, ricevendone quel sussidio pratico che era richiesto, come vedemmo (§ 106), dalla crescente diffusione della buona novella. Il tipo di catechesi da mettersi in iscritto non poté essere se non quello già collaudato dalla pratica della Chiesa, e le cui linee maestre erano state tracciate da chi aveva la sovreminenza sui banditori ufficiali della buona novella: fu perciò il tipo di catechesi che metteva capo a Pietro (§ 113), senza però escludere il sussidio di altri elementi provenienti dal collegio apostolico che non entravano ordinariamente nel quadro di quella predominante catechesi. In conclusione lo scritto riassunse il pensiero dell’intero collegio apostolico, pur attenendosi alle linee principali della catechesi di Pietro.

• § 118. Un documento quale quello di Matteo, composto da un testimone dei fatti, garantito e sussidiato da altri testimoni, inquadrato entro le linee maestre di un insegnamento ufficiale, esteso su un’ampiezza che non fu mai più raggiunta da scritti dello stesso genere, era destinato immancabilmente ad acquistare un valore singolare. Troviamo infatti che il Vangelo di Matteo, come ci viene presentato dalla concorde antichità quale primo in ordine di tempo, cosi è primo quantitativamente per impiego fattone fin dai primi tempi: basti ricordare che, da parte cattolica, Giustino martire, alla metà del secolo II, impiega il nostro Matteo non meno di centosettanta volte, e che prima di lui gli antichissimi eretici Ebioniti impiegavano il solo Vangelo di Matteo, a detta di Ireneo (Adv. hær., III, 11, 7), ma probabilmente alterato come già accennammo (§ 96).

• § 119. Tuttavia, da principio, all’impiego ed all’ampia diffusione dello scritto di Matteo si opponeva il grave ostacolo della lingua in cui era stato composto. La notizia già comunicataci da Papia, che Matteo scrisse in dialetto ebraico - è in realtà confermata da altri antichi - quali Ireneo, Origene, Eusebio, Girolamo i quali egualmente parlano di lingua ebraica o paterna: quasi certamente il termine ebraico designa qui l’aramaico (come nel contemporaneo Flavio Giuseppe, Guerra giud., VI, 96; cfr. V, 272, 361; ecc.), giacché ai tempi di Matteo in Palestina si parlava aramaico; ad ogni modo, ebraico o aramaico che fosse, la lingua primitiva semitica era inaccessibile ai cristiani di stirpe non giudaica ed anche a moltissimi altri provenienti dal giudaismo della Diaspora, i quali non conoscevano altro che il greco. Ma l’ostacolo fu superato, bene o male, nella maniera accennata dallo stesso Papia: i detti, nel loro testo originale semitico, andarono in mano ai vari lettori e catechizzatori, ciascuno poi li interpretò com’era capace. Le quali parole lasciano intravedere un ampio lavorio sorto ben presto attorno a un testo così opportuno e autorevole: alcuni catechizzatori ne avranno tradotto oralmente, in maniera estemporanea, quegli squarci che volta per volta occorrevano al loro ministero; altri avranno anche apprestato traduzioni scritte, e queste poterono essere sia parziali sia, più raramente, totali; non dovettero anche mancare scritti che, come la Spiegazione dello stesso Papia, erano piuttosto di esegesi illustrativa che di semplice traduzione. Ma l’osservazione di Papia, che ciascuno interpretò com’era capace, fa anche comprendere che in tutto quel lavorio la buona volontà spesso non era accompagnata da un’adeguata perizia, soprattutto riguardo alla conoscenza della lingua da cui si traduceva o anche in cui si traduceva. Sant’Agostino segnala il caso analogo delle traduzioni latine della Scrittura fatte dal testo greco dei Settanta: «Qui enim Scripturas ex hebræe lingua in græcam verterunt, numerari possunt, latini autem interpretes nullo modo. Ut enim fidei temporibus in manus venit codex græcus et aliquantum facultatis sibi utrisque linguæ habere videbatur, ausus est interpretari» (De doctr. christ., II, 11). [Traduzione: Si possono infatti contare coloro che tradussero le Scritture dall’ebraico in greco, ma è impossibile contare i traduttori latini. Fin dai primi tempi della fede, infatti, man mano che uno veniva in possesso d’un codice greco ed era convinto di possedere un po’ di conoscenza dell’una e dell’altra lingua, subito si metteva a tradurre, ndR]. È anche del tutto possibile che i molti, che nel sesto decennio del secolo I avevano già scritto sui fatti di Gesù (§ 110), usufruissero ampiamente della composizione di Matteo, pur unendola con altri elementi desunti dalla tradizione di testimoni o di loro discepoli.

• § 120. Ma la Chiesa, che aveva adombrato della sua autorità la catechesi scritta in semitico da Matteo, dovette a un certo punto estendere la sua vigilante cura anche alle traduzioni del testo originale, per timore che quell’autorità ufficiale fosse indebitamente invocata ad adombrare traduzioni che non meritavano tanto onore. Ciò che precisamente avvenisse non ci è noto, ma le conseguenze sono chiare ed eloquenti. Le traduzioni puramente orali ed estemporanee dovettero sempre più diminuire, col diminuire dei catechizzatori ch’erano in grado di intendere l’originale semitico; le traduzioni scritte, parziali o totali che fossero, rimasero nell’ombra, cioè nell’uso privato e non ufficiale, e perciò destinate prima o dopo a perdersi. Una sola traduzione non andò perduta e giunse fino a noi, ma appunto perché fu adottata ufficialmente dalla Chiesa in sostituzione del troppo arduo testo semitico originale: è il testo greco del nostro Matteo canonico. Da chi sia stata fatta questa traduzione noi non sappiamo, come ai suoi tempi confessava di non saperlo San Girolamo. Certamente fu compiuta qualche decennio dopo ch’era apparso lo scritto di Matteo, quando cioè effondendosi sempre più il cristianesimo fuori della Palestina, diventava sempre meno usabile il testo originale semitico: risulta anche, da accurati raffronti letterari, che la traduzione fu compiuta dopo ch’erano apparsi gli altri due Vangeli sinottici, delle cui espressioni letterarie essa risente. Il traduttore, infatti, non limitò il suo lavoro ad una semplice trasposizione delle parole da una lingua all’altra: bensì, oltre a ricercare una certa spigliatezza letteraria e quindi a non seguire servilmente la lettera anche per questa ragione, egli nello stesso tempo ebbe di mira la catechesi pratica. Poiché nel frattempo erano apparsi i due Vangeli di Marco e di Luca, scritti originariamente in greco e rispecchianti in maniera più diretta le catechesi rispettivamente di Pietro e di Paolo, il traduttore li tenne sott’occhio durante il suo lavoro, e nel rendere in greco il testo semitico si avvicinò per la scelta delle espressioni a quelle che trovava già impiegate in passi paralleli dei due nuovi Vangeli greci: con ciò egli volle imprimere una certa uniformità letteraria a quei tre documenti, che rispecchiavano la catechesi fondamentalmente unica.

• § 121. La stessa mira della catechesi influì anche in altre maniere sulla traduzione. Trasportato in greco, lo scritto di Matteo allargava enormemente il suo campo d’azione e poteva raggiungere lettori non giudei, cioè non abituati a idee ed espressioni tipicamente semitiche; d’altra parte il testo semitico di Matteo doveva avere (come risulta dal confronto con gli altri due Sinottici) talune espressioni che potevano o essere fraintese o suscitare meraviglia presso gli accennati lettori. Perciò il traduttore, per adattare meglio lo scritto al nuovo campo di catechesi, rimosse queste occasioni di errore e di meraviglia, e pur conservando il senso fondamentale attenuò la forza di certe frasi. Sembra anche probabile che egli abbia spostato taluni passi del testo originale raggruppandoli differentemente, conforme ai modelli di Marco o di Luca, ancora perché questo nuovo raggruppamento gli parve opportuno per l’uso catechetico. Questi criteri larghi non erano affatto inconciliabili con l’idea di «traduzione» presso gli Ebrei, come appare chiaramente da vari casi dell’Antico Testamento; per limitarsi al solo Ecclesiastico, le antiche versioni di questo libro fatte direttamente dal testo ebraico originale (sia esso, o no, quello ritrovato un quarantennio addietro) mostrano che i vari traduttori seguirono criteri d’una libertà estrema. Molto più discreto di essi fu invece il traduttore di Matteo; egli seguì criteri che, pur non essendo i rigorosi odierni, s’ispirano a quella libertà ch’era vantaggiosa allo scopo supremo della catechesi. Ma il fatto stesso che la Chiesa approvò e adottò la traduzione da lui apprestata, e che i più antichi scrittori ecclesiastici la impiegarono come testo di Vangelo canonico, dimostra che quella traduzione riproduceva in maniera «sostanzialmente identica» l’originale semitico. Troppo gelosa era la vigilanza della Chiesa per tollerare che il maestoso nome assegnato alla più antica e autorevole scrittura del suo insegnamento ufficiale, venisse attribuito a una traduzione che di quella scrittura fosse soltanto un evanescente simulacro; il rigore usato più tardi dalla stessa Chiesa contro gli scritti apocrifi, i quali parimenti si rifugiavano sotto gloriosi ma mentiti nomi e talvolta erano perfino libere rimanipolazioni di libri canonici, conferma la suddetta vigilanza abituale ed è una garanzia anche per quanto riguarda la traduzione greca di Matteo.

• § 122. L’indipendenza da un servilismo verbale, testé rilevata nel traduttore di Matteo, offre anche occasione a metter bene in luce un principio importantissimo per l’interpretazione dei racconti evangelici in genere. Troviamo, cioè, che un’eguale indipendenza dal servilismo verbale è mantenuta dagli evangelisti stessi nelle loro narrazioni, sì, da discordare verbalmente fra loro anche nel riferire testi rigorosamente fissati alla lettera ovvero parole di specialissimo valore dottrinale. [A proposito del traduttore di Matteo, dove diciamo che questi «attenuò la forza di certe frasi», proviamolo con alcuni esempi, ne bastino un paio. In Marco, 6, 5, è detto che Gesù non poteva colà fare alcuna potenza (miracolo), salvo che curò pochi malati ecc.; in Matteo 13, 58, l’espressione è attenuata, e suona : Non fece colà molte potenze, a causa dell’incredulità di quelli. Più complicato è il caso del dialogo del giovane ricco con Gesù. In Marco, 10, 17-18 (cfr. Luca, 18, 18-19), il giovane dice: Maestro buono, che cosa farò perché (io) possa ereditare (la) vita eterna? Ma Gesù gli disse: Perché mi dici buono? Nessuno (è) buono se non uno, Iddio. In Matteo, 19, 16-17 (greco) il dialogo è attenuato in questo modo: Maestro, che cosa dì buono farò perché (io) abbia (la) vita eterna? Ma egli disse: Perché mi interroghi circa il buono? Uno è il buono]. Torniamo, adesso, alla indipendenza dal servilismo verbale. Ad esempio, la tavoletta di condanna fatta apporre da Pilato sulla croce di Gesù recava senza dubbio un testo rigorosamente fissato alla lettera; eppure quest’unico testo è riportato con le seguenti divergenze verbali: Gesù il Nazareno, il re dei Giudei (Giovanni, 19, 19); Costui è Gesù, il re dei Giudei (Matteo, 27, 37); Il re dei Giudei, costui (Luca, 23, 38); Il re dei Giudei (Marco, 15, 26). Più grave ancora è il caso dell’Eucaristia, istituita una sola volta da Gesù e con parole ben precise; eppure anche qui se confrontiamo la materialità delle parole, riferite sia dai tre Sinottici sia da San Paolo (I Corinti, 11), troviamo nette divergenze. Ora, tutto ciò dimostra che la preoccupazione della catechesi antica, e quindi anche degli evangelisti canonici che dipendono da essa, era la fedeltà sostanziale non già quella grettamente verbale, e che essi ricercavano l’adesione alla verità del senso non già alla materialità della lettera. Il culto della lettera materiale apparirà solo 16 secoli più tardi, quando la [cosiddetta] Riforma protestante dimenticherà che i Vangeli dipendono dalla catechesi e li giudicherà basati in maniera autonoma sulla pura lettera; ma gli evangelisti stessi, con la loro indipendenza dalla lettera, danno una formale smentita storica al giudizio della [pretesa] Riforma, e il traduttore greco di Matteo conferma questa smentita imitando gli evangelisti nella libertà verbale.

• § 123. Riguardo al tempo in cui Matteo scrisse in semitico il suo Vangelo, abbiamo un solo argomento ben certo, ma oltre a questo soltanto delle probabilità. La certezza è data dalla uniforme e costante attestazione degli antichi documenti, secondo cui Matteo fu cronologicamente il primo evangelista canonico: è quindi anteriore a Luca che fu scritto non dopo l’anno 62, come pure è anteriore a Marco scritto poco prima di Luca. Più in su di questo estremo limite abbiamo solo delle probabilità: se i molti che scrissero circa i fatti di Gesù lungo il sesto decennio trassero parecchio del loro materiale dall’opera di Matteo, come sopra supponemmo (§ 119), questa autorevole fonte deve risalire ai primi anni di quel decennio, ossia circa al 50-55. A questa conclusione sembra opporsi il noto passo di Ireneo (Adv. hær., III, 1, 1), che nel testo greco (in Eusebio, Hist. eccl., V, 8, 2) suona letteralmente cosi: Matteo fra gli Ebrei nella propria lingua di essi produsse anche una scrittura di vangelo, evangelizzando Pietro e Paolo in Roma e fondando la chiesa; quindi, dopo la dipartita di costoro, Marco, il discepolo e l’interprete di Pietro, ci trasmise anch’egli per iscritta le cose predicate da Pietro, ecc. Il tratto che riguarda Matteo contrappone la pubblicazione del suo scritto semitico alla evangelizzazione di Pietro e Paolo a Roma, e sembra ben supporre che i due fatti fossero contemporanei: quindi Matteo avrebbe scritto dopo l’inizio dell’anno 61, nel qual tempo Paolo giunse a Roma secondo il noto racconto degli Atti, 28, 14 segg. Si è tentato spiegare questo tratto supponendo che Ireneo non s’occupi ivi della cronologia, ma solo contrapponga l’operosità anche letteraria di Matteo in Palestina a quella soltanto orale di Pietro e Paolo a Roma: tuttavia la spiegazione non ha persuaso, specialmente per le limitazioni cronologiche che seguono (dopo la dipartita di costoro; ecc). D’altra parte Ireneo, ottimo conoscitore del Nuovo Testamento e delle sue origini, non poteva ignorare che anche prima dell’arrivo di Paolo esisteva a Roma una fiorente chiesa, come risulta sia dagli Atti (ivi) sia dall’anteriore lettera di Paolo ai Romani; perciò la menzione di Paolo, a proposito della fondazione della chiesa di Roma, non può essere interpretata nel senso di una rigorosa simultaneità cronologica. Ciò probabilmente offre la chiave di spiegazione. Ireneo, che abitualmente considera la chiesa di Roma come una fondazione collettiva di Pietro e di Paolo insieme, la ricorda come tale anche nel nostro passo, astraendo dalla esatta precedenza dell’uno sull’altro; egli perciò fissa la simultaneità cronologica tra la fondazione, presa in se stessa, e la composizione dello scritto di Matteo. In questa interpretazione il periodo degli anni 50-55, che assegnammo allo scritto di Matteo, sarebbe confermato, essendo appunto quello il periodo di pieno stabilimento e sviluppo della chiesa di Roma. [Torniamo, per un attimo, alla «libertà verbale degli evangelisti» ed agli errori della pretesa Riforma protestante: Già Sant’Agostino, col suo acume abituale, aveva richiamato l’attenzione su questo importantissimo criterio: «Da siffatte locuzioni degli evangelisti, differenti ma non contrarie, apprendiamo una cosa davvero utilissima e necessarissima: che cioè nelle parole di ciascuno non dobbiamo badare ad altro che all’intenzione (voluntatem), e che uno non mentisce se dice con altre parole ciò che ha voluto dire quell’altro di cui non dice le parole. Non vi siano perciò dei gretti uccellatori di vocaboli, i quali credano che la verità sia in qualche modo da incatenarsi con svolazzi di lettere, mentre certo è da ricercarsi unicamente il senso (animus), non soltanto nelle parole, ma anche in tutti gli altri segni dello spirito (De consensu evangel., II, 28)].

• § 124. L’esame interno dello scritto di Matteo conferma e schiarisce le notizie trasmesse dalla tradizione. Minuziosi e lunghi confronti, fatti recentemente e che sarebbe qui fuor di luogo riprodurre, hanno messo in luce i molti elementi tipicamente semitici, sia stilistici sia lessicali, che sono passati dal testo originale nella versione greca. Principale fra tutti è l’espressione regno dei cieli, che si ritrova soltanto in Matteo e certamente riproduce alla lettera la formula usata da Gesù in aramaico: questa espressione era sorta per la preoccupazione rabbinica di evitare l’impiego del nome di Dio, ed era perciò una sostituzione dell’espressione equivalente regno di Dio, che è la sola usata dagli altri evangelisti. Regno di Dio si trova in Marco 14 o 15 volte, in Luca 33 volte; ma occorre eccezionalmente 4 o 5 volte anche in Matteo, che è il solo ad impiegare l’altra espressione regno dei cieli (32 o 33 volte), e queste poche eccezioni all’uso costante di Matteo sono forse dovute al traduttore greco.

• § 125. Che Matteo si rivolga a cristiani provenienti dal giudaismo, risulta anche dall’indole della sua trattazione. Senza dubbio la sua mira è storica, volendo egli riferire circa la dottrina ed i fatti di Gesù; tuttavia egli fa ciò nel modo che gli appare più efficace ed appropriato per lettori che già ebbero fede in Mosè. Nel Vangelo di Matteo, più che in ogni altro, Gesù appare come il Messia promesso nell’Antico Testamento e che ha realmente adempiuto in se stesso le profezie messianiche: di qui l’assidua cura dell’evangelista di concludere molte narrazioni con l’avvertimento che ciò avvenne affinché si adempisse quello ch’è detto, ecc., riferendosi a qualche passo dell’Antico Testamento (cfr. Matteo, 1, 22-23; 2, 15.17.23; ecc.). Anche la dottrina di Gesù è presentata con riguardo speciale alle sue relazioni sia con l’Antico Testamento, sia con le dottrine e lo spirito dei predominanti Farisei. Riguardo all’Antico Testamento la nuova dottrina è, non già un’abrogazione, bensì un perfezionamento e una integrazione: solo Matteo riporta le affermazioni di Gesù ch’egli non sia venuto a disfare la Legge e i Profeti bensì a compierli e che non passi dalla Legge un solo jota o un apice fino a che tutto s’adempia (ivi, 5, 17-18). Riguardo alle dottrine dei Farisei, quella di Gesù è in antitesi perfetta: non soltanto la minaccia Guai a voi (Scribi e Farisei ipocriti!)... è ripetuta per ben sette volte in un solo capitolo (cap. 23; il vers. 14 è un riporto fatto da altrove), ma in tutto il resto di questo Vangelo l’abisso che separa le due dottrine è messo in luce più che negli altri Sinottici. Parimente soltanto Matteo fa notare che la missione personale di Gesù era rivolta direttamente alla sola nazione d’Israele (ivi, 15, 24; cfr. 1, 21), come pure che la missione preparatoria degli Apostoli mirava al solo Israele con precisa esclusione dei pagani e dei Samaritani (ivi, 10, 5-6). Perfino la designazione dei pagani gentili, dell’Antico Testamento, risente ancora nelle espressioni di Matteo di quell’inveterato disprezzo che il giudaismo aveva decretato ai non giudei, per cui «gentile» era praticamente sinonimo dell’aborrito «pubblicano» (ivi, 5, 46-47; 18, 17) e la condizione di un gentile in confronto con quella di un giudeo era come quella di un cane di casa in confronto con quella di un figlio del padrone (ivi, 15, 24-27): le quali espressioni o saranno attenuate o scompariranno presso i successivi Sinottici, che s’indirizzeranno specialmente ai cristiani provenienti dal paganesimo. Tuttavia, oltrepassata questa scorza giudaica, il Vangelo di Matteo si manifesta come rigorosamente universalistico: esso è, più che ogni altro, il Vangelo della Chiesa, come già apparve al Renan. La parola «Chiesa» è impiegata, fra gli evangelisti, dal solo Matteo (16, 18; 18, 17); e questa istituzione di Gesù è, non già riservata ai soli Giudei, ma aperta a tutte le genti che vi accorreranno numerose dall’Oriente e dall’Occidente per assidersi a mensa insieme con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli (ivi, 8, 11), e i confini di questo regno saranno i confini stessi del mondo (ivi, 13, 38): anzi i pagani gentili sostituiranno praticamente gli Israeliti nel possesso del regno di Dio (ivi, 21, 43).

• § 126. L’ordine seguito da Matteo nella sua composizione è, come già sappiamo, l’«ordinamento» sistematico gradito da Papia (§ 114). Scrivendo per lettori educati nel giudaismo, e avendo a loro riguardo uno scopo ben definito, Matteo subordina spesso a quell’«ordinamento» la consecuzione cronologica, e ricorre a procedimenti letterari ch’erano comuni nelle scuole rabbiniche e miravano specialmente a una utilità pratica mnemonica. Come egli raccoglie nei 5 grandi gruppi già visti i detti di Gesù (§ 116), così altrove riunisce in gruppi di 5, o di 7 o di 10, ma soprattutto di 3, le singole sentenze o i singoli fatti. Frequente è pure l’applicazione della legge del «parallelismo», fondamentale nella poesia ebraica, e specialmente del «parallelismo antitetico», per cui a una data affermazione si fa seguire, a guisa di conferma, la negazione del suo contrario. L’intero Discorso della montagna (capp. 5-7), cioè proprio il primo dei 5 gruppi di detti, è tutto una concatenazione di tali procedimenti letterari (§ 320). FINE.

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.

Comunicato numero 85. Le fonti storiche su Gesù (Parte terza)

Stimati Associati e gentili Sostenitori, grazie a Dio oggi possiamo finalmente studiare il capitolo «Il Nuovo Testamento fuor dei Vangeli» e quello introduttivo su «I Vangeli». Abate Giuseppe Ricciotti («Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, 7a Edizione, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941),

• Il Nuovo Testamento fuor dei Vangeli. § 102. Passando agli scritti del Nuovo Testamento che non siano i Vangeli, l’orizzonte si allarga: ma anche qui non troviamo modo di accrescere le nostre notizie, salvo che con taluni solitari precetti dottrinali conservatici in casi rarissimi. In realtà, notizie strettamente biografiche su Gesù non mancano, ma esse confermano solo alcuni pochi, sebbene importanti, dati offerti dai Vangeli, senza aggiungerne di nuovi. Ad ogni modo questa conferma è preziosissima, specialmente se provenga da fonte che sia cronologicamente anteriore ai nostri Vangeli canonici e indipendente da questi. Tale è il caso di S. Paolo. Poco più d’un ventennio dopo la morte di Gesù cominciano le Lettere di S. Paolo, e si susseguono per un quindicennio, occupando il periodo approssimativo dall’anno 51 al 66, che è il periodo o di pubblicazione o di preparazione dei nostri Vangeli sinottici. Abbiamo perciò, in queste Lettere, documenti che sono senza dubbio letterariamente indipendenti dai Vangeli sinottici e in massima parte anteriori ad essi. Ora, queste Lettere sono scritti del tutto occasionali: con esse S. Paolo si rivolge ai vari destinatari mirando a scopi contingenti al suo ministero apostolico, ma non si propone mai in nessun modo di narrare una biografia di Gesù, né compiuta né parziale, perché parla a cristiani ch’egli conosce già edotti circa la vita di Gesù. Solo incidentalmente egli ricorda fatti e parole di Gesù, se questo ricordo serve all’argomento di cui sta trattando, come quando narra l’istituzione dell’Eucaristia (I Corinti, 11), perché colà egli mira a stabilire il buon ordine nelle adunanze religiose. Eppure, spigolando queste sparse notizie occasionali, si ottiene un manipolo non scarso: il Renan stesso riconosceva che si potrebbe ottenere una piccola «Vita di Gesù» ricavandone i dati dalle sole Lettere ai Romani, Corinti, Galati ed Ebrei. Qualche altra spiga si può raccogliere dagli altri scritti del Nuovo Testamento, specialmente dagli Atti degli Apostoli, i quali però hanno per autore un Evangelista sinottico, cioè S. Luca.

• § 103. Riassumendo schematicamente il tutto, otteniamo questa piccola «Vita di Gesù» extra-evangelica. Gesù fu, non già un eone celestiale, bensì «un uomo» (Romani, 5, 15) «fatto da donna» (Galati, 4, 4), discendente da Abramo (Gal., 3, 16) per la tribù di Giuda (Ebrei, 7, 14) e per il casato di David (Rom., 1, 3). Sua madre aveva nome Maria (Atti, 1, 14); egli era chiamato Nazareno (Atti, 2, 22) «quello da Nazareth» (Atti, 10, 38) (§ 259, nota seconda), ed aveva dei «fratelli» (I Corinzi, 9, 5; Atti, 1, 14) di cui uno chiamato Giacomo (Gal., 1, 19) (§ 264). Fu povero (I Cor., 8, 9,) mansueto e dimesso (II Cor., 10, 1). Ricevette il battesimo da Giovanni Battista (Atti, 1, 22). Raccolse discepoli con cui visse in relazione assidua (Atti, 1, 21-22); dodici di essi furono chiamati «apostoli», ed a questo gruppo appartennero fra altri Cefa, ossia Pietro, e Giovanni (I Cor., 9, 5; 15, 5-7; Atti, 1, 13. 26). In vita sua operò molti miracoli (Atti, 2, 22) e passò beneficando (Atti, 10, 38). Una volta apparve ai suoi discepoli gloriosamente trasfigurato (II Pietro, 1, 16-18). Fu tradito da Giuda (Atti, 1, 16-19). Nella notte del tradimento istituì l’Eucaristia (I Cor., 11, 23-25), agonizzò pregando (Ebrei, 5, 7), fu oltraggiato (Rom., 15, 3) e posposto ad un assassino (Atti, 3, 14); patì sotto Erode e Ponzio Pilato (I Timoteo, 6, 13; Atti, 3, 13; 4, 27; 13, 28). Fu crocifisso (Gal., 3, 1; I Cor., 1, 13. 23; 2, 2; Atti, 2, 36; 4,10) fuori della porta della città (Ebrei, 13, 12); fu sepolto (I Cor., 15, 4; Atti, 2, 29; 13, 29). Risorse dai morti il terzo giorno (I Cor., 15, 4; Atti, 10, 40); quindi apparve a molti (I Cor., 15, 5-8; Atti, 1, 3; 10, 41; 13, 31) ed ascese al cielo (Rom., 8, 34; Atti, 1, 2. 9-l0; 2, 33-34).

• § 104. Se confrontiamo questa ristretta biografia di Gesù extraevangelica con quella ampia offerta dai Vangeli, troviamo bensì una differenza quantitativa ma non una divergenza qualitativa. Nella biografia ristretta c’è già l’impalcatura di quella ampia: impalcatura tenue e lineare nel primo caso, variamente arricchita e colorita nel secondo, ma in entrambi i casi costruita secondo un solo disegno e ripartita in piani architettonici eguali. In altre parole il cristianesimo delle prime generazioni non ha avuto tipi differenti di biografie di Gesù, ma un solo tipo; e ciò è tanto più importante, in quanto i documenti di quelle generazioni, confluiti nel Nuovo Testamento, provengono da persone che furono distanti fra loro per tempo e per luogo, e che rispetto alle informazioni in questione furono in massima parte indipendenti fra loro.

• I VANGELI. § 105. La parola «evangelo» significò originariamente la ricompensa data a un messaggero che rechi una buona novella, o anche la buona novella in se stessa; il cristianesimo, fin dai suoi primi tempi, impiegò questa parola per designare la più importante e preziosa «buona novella», quella annunziata da Gesù all’inizio del suo ministero, allorché venne Gesù nella Galilea annunziando la «buona novella» d’iddio e dicendo: Si è compiuto il tempo e si è avvicinato il regno d’Iddio; pentitevi e credete nella «buona novella» (Marco, 1, 14-15). Quindi, la «buona novella» annunziata in principio da Gesù fu essenzialmente questa: Si è avvicinato il regno di Dio. Ma a questo primo annunzio seguì uno sviluppo, il quale tradusse in atto il contenuto della «buona novella» mediante gli insegnamenti, la vita e la morte redentrice di Gesù. Quindi, a tutto questo complesso di fatti che costituivano la salvezza apprestata da Gesù al genere umano fu in seguito applicata la designazione di «buona novella», in quanto era annunzio della salvezza già attuata e compiuta. In questo senso S. Paolo si presenta come ministro... della «buona novella» (Colossesi, 1, 23; ecc.), in corrispondenza all’espressione usata dal suo discepolo Luca, che parla di inservienti della parola (Luca, 1, 2); egualmente in questo senso fu scritto in principio ad uno dei Vangeli canonici: inizio della «buona novella» di Gesù Cristo (Marco, 1, 1).

• § 106. Quest’ultimo esempio già prelude ad un’applicazione ulteriore che ricevette più tardi la parola. Per alcuni anni dopo la morte di Gesù la diffusione della «buona novella» avvenne in maniera esclusivamente orale; il quale metodo era quello stesso seguito da Gesù, che aveva soltanto parlato senza lasciare alcun scritto, ed era anche conforme a quello dei dottori giudaici contemporanei, le cui sentenze furono tramandate oralmente ancora per molto tempo fino a quando furono messe in iscritto nel Talmud (§ 87). Era il metodo chiamato dai cristiani «catechesi», ossia «risonanza» perché consisteva nel «far risonare» (greco katechèo) la voce alla presenza dei discepoli; di guisa che il discepolo, che avesse compiuta la sua istruzione, era il «risonato», ossia il «catechizzato» (Galati, 6, 6; Luca, 1 4; Atti, 18, 25). Sennonché la rapida e vasta diffusione della «buona novella» non poteva permettere, praticamente, che questa restasse affidata per lungo tempo soltanto alla viva voce. Lo sprigionarsi della «buona novella» dalla Palestina e dal mondo giudaico; il suo penetrare in regioni d’altri linguaggi, come nella Siria, nell’Asia Minore e fino in Italia e a Roma; il suo irrompere nelle accademie e negli altri cenacoli del mondo greco-romano; e infine l’effettuarsi di questa avanzata trionfale nel giro di pochi anni, richiesero entro breve tempo che la viva voce fosse corroborata dallo scritto per raggiungere più facilmente e più efficacemente nuove mete. Sappiamo infatti che, già lungo il sesto decennio del secolo I, circolavano scritti contenenti la «buona novella», e che tali scritti erano molti (Luca, 1, 1-4). Questo nuovo sussidio, fornito al diffondersi del messaggio cristiano, fu come una seconda strada aperta parallelamente alla prima: da allora la «buona novella» s’avanzò su ambedue le strade, la catechesi risonante e la catechesi scritta. Ciò appunto spiega l’ulteriore applicazione che ricevette la parola. Da questo tempo «buona novella» fu, non soltanto l’annunzio della salvezza umana, ma anche lo scritto che conteneva quell’annunzio: il contenente fu designato col nome del contenuto, cioè fu chiamato «vangelo». Ad ogni modo, anche se la «buona novella» orale aveva perduto la sua sonorità materiale diventando vangelo scritto, l’una e l’altro rimanevano in sostanza una catechesi: non altramente le orationes di Cicerone, essenzialmente orali, rimasero orationes anche quando circolarono in iscritto.

• § 107. È però di somma importanza rilevare che la «buona novella» scritta non pretese mai né di soppiantare né di sostituire adeguatamente la «buona novella» orale; e ciò, oltreché per altre ragioni morali, anche perché la «buona novella» orale era molto ricca e conteneva assai più elementi di quella fissata in iscritto. Abbiamo su questo proposito una preziosa testimonianza di Papia di Jerapoli, il quale, scrivendo verso l’anno 120, afferma di aver ricercato ansiosamente ciò che avevano insegnato di viva voce gli Apostoli e gli altri discepoli immediati di Gesù, ch’egli nomina individualmente, apportando infine questa ragione: Giudicavo infatti che le cose contenute nei libri non mi avrebbero giovato tanto, quanto le cose (comunicate) da una voce viva e permanente (in Eusebio, Hist. eccl., III, 39, 4). E parlando di libri e di voce allude indubbiamente alle fonti della vita e della dottrina di Gesù, perché poco dopo tratta espressamente dei Vangeli di Marco e di Matteo. Presso gli scrittori cristiani del secolo II l’uso del termine «vangelo» è ancora promiscuo. Talvolta conserva il senso più antico, e perciò designa la «buona novella» in sé, ossia la salvezza umana operata da Gesù, come si ritrova ancora presso Ireneo (Adv. hær., IV, 37, 4); ma già lo stesso Ireneo (ivi, III,11, 8; ecc.); e anche prima di lui Giustino (Apol., I, 66), impiegano il termine per designare determinati scritti, cioè i nostri Vangeli. Anche l’eretico Marcione, verso il 140, prefisse il titolo di «vangelo» al suo scritto derivato dal terzo dei Vangeli canonici ed accomodato conforme alle dottrine di lui (Tertulliano, Adv. Marcion., IV, 2).

• § 108. Qual era il primo e principale argomento della catechesi, orale o scritta che fosse? Su ciò non può esservi dubbio. Se la fede cristiana aveva per suo fondamento la persona di Gesù, il primo passo sulla strada di questa fede doveva necessariamente essere la conoscenza dei fatti di Gesù; ci viene infatti attestato esplicitamente che si cominciava con l’istruirsi o con l’istruire sulle cose riguardo a Gesù (Atti, 18, 25; cfr. 28, 31), come pure ci vengono occasionalmente comunicati brevi abbozzi di catechesi che comprendono appunto i fatti di Gesù (Atti, 1, 22; 2, 22 segg.; 10, 37 segg.). E in realtà un cristiano non sarebbe stato cristiano se non avesse saputo che cosa aveva fatto il Cristo, ossia Gesù, quali dottrine aveva insegnato, quali stabili Riti aveva istituito, quali prove avevano dimostrato l’autorità della sua missione, insomma se non possedeva una notizia almeno sommaria della biografia di lui: senza questa notizia la «buona novella » non poteva diffondersi, giacché gli uomini come invocherebbero colui nel quale non credettero? E come crederebbero in colui che non udirono? E come udirebbero senza un banditore? (Romani, 10, 14).

• § 109. Ora, fra i banditori orali della «buona novella» vi fu una classe speciale, a cui sembra che fosse affidata in modo particolare la missione di trasmettere la narrazione e testimonianza dei fatti di Gesù: per conseguenza questi particolari banditori furono designati, con termine spontaneo, come i «buoni-novellisti» ossia gli « evangelisti » (Efesini, 4, 11; II Timoteo, 4, 5; Atti, 21, 8). Senza dubbio la catechesi in genere, che mirava all’edificazione e formazione spirituale dei credenti, era favorita indistintamente da tutti quei carismi di cui parla più volte S. Paolo esaltando la loro efficacia parenetica (I Cor., 12, 8-10. 28-30; 14, 26; Rom., 12, 6-8; ecc.); tuttavia il carisma dell’«evangelista», insieme con quello dell’«apostolo», era all’avanguardia ed apriva la strada agli altri carismi, appunto perché gettava il primo seme della fede in Gesù e narrando la biografia di lui. Ecco pertanto come la missione degli «evangelisti» è descritta da Eusebio: Essi avevano il primo ordine nella successione degli apostoli. Essendo discepoli meravigliosi di tali maestri, essi costruivano sopra i fondamenti delle chiese che erano stati dapprima gettati in ogni luogo dagli apostoli, dilatando sempre più il messaggio e disseminando la salutare semenza del regno dei cieli in largo su tutta la terra... Usciti di patria, compivano l’opera di evangelisti ansiosi di bandire il messaggio a coloro che non avevano udito affatto nulla della parola della fede e di trasmettere la scrittura dei divini vangeli. Essi, dopo aver gettato solo i fondamenti della fede in taluni luoghi stranieri, vi stabilivano altri pastori ai quali affidavano la cura di coloro ch’erano stati testé introdotti: di nuovo, poi, si trasferivano in altre contrade e nazioni con la grazia e cooperazione di Dio (Hist. eccl., III, 37). Questa descrizione è opportunamente provocata dalla menzione di Filippo, che è il solo «evangelista» nominato nel Nuovo Testamento (Atti, 21, 8) e che difatti aveva evangelizzato Samaria (Atti, 8, 5 segg.) e altre regioni (Atti, 8, 40).

• § 110. Con ciò siamo penetrati in quella miniera da cui estrassero i loro materiali quei molti scrittori che, come vedemmo sopra (§ 106), avevano composto narrazioni dei fatti di Gesù già nel sesto decennio del secolo I, e la cui opera fu o contemporanea o anche parzialmente anteriore alla composizione dei Vangeli canonici. Quella grande miniera comune si chiama «catechesi»; e la catechesi senza dubbio era sostanzialmente unica, sebbene potesse venir presentata sotto forme o tipi alquanto differenti che mettessero capo ai vari e più autorevoli banditori della «buona novella». D’altra parte la Chiesa primitiva non si è curata di tutti indistintamente i molti scritti apparsi lungo il secolo I, ma solo di quattro fra essi: degli altri si è disinteressata, e perciò sono andati perduti, mentre i quattro prescelti divennero le quattro colonne basilari dell’edificio della fede. Ad essi soli la Chiesa attribuì un valore di storiografia ufficiale; in essi ella riconobbe l’ispirazione di Dio, e perciò li incluse nell’elenco di Scritture sacre chiamato Canone: sono appunto i quattro Vangeli canonici, ossia le quattro «Buone novelle» del Nuovo Testamento. Ma la Chiesa non perse mai di vista l’origine unitaria dei suoi quattro Vangeli. Se gli scritti erano quattro, la fonte era una sola, cioè la catechesi. Onde, con perfetta aggiustatezza storica, nel secolo II Ireneo parla di un solo vangelo quadriforme, come nel secolo seguente Origene afferma che il Vangelo, certamente attraverso quattro, è uno solo (in Joan., V, 7), ai quali, ancora nel secolo IV, fa eco S. Agostino parlando dei quattro libri d’un solo Vangelo (in Joan., 36, 1).

• § 111. E dell’antico sentimento della Chiesa circa questa comune origine dei quattro Vangeli si ha una riprova nei titoli sotto cui essi sono giunti fino a noi. I titoli suonano in greco χατά Matteo, χατά Marco, χατά Luca, χατά Giovanni, le quali espressioni si trovano trasportate di peso in latino da scrittori del secolo II, come Cipriano, e da antichi codici latini, ove si legge cata Matteo, cata Marco, ecc., pur conservandosi il significato originario di secondo Matteo, secondo Marco, ecc. Questi titoli non provengono certo dai rispettivi autori, benché designino coloro che secondo la tradizione erano gli autori; ad ogni modo negli antichi codici il titolo di Vangelo si trovava originariamente una sola volta, cioè in cima alla collezione di tutti e quattro insieme, mentre in cima ai singoli si trovava il rispettivo titolo di secondo Matteo, secondo Marco, ecc. Questa norma pratica fu dettata dall’idea che il Vangelo era in realtà uno solo, quello estratto dalla catechesi, sebbene tale unità apparisse sotto quattro forme, quella secondo Matteo, quella secondo Marco, ecc. I precedenti rilievi sono della massima importanza per comprendere quale fosse per i cristiani la vera base su cui poggiava l’autorità storica dei Vangeli. Quella base era l’autorità della Chiesa, della cui catechesi era genuino e diretto prodotto l’unico quadriforme Vangelo. I singoli autori delle quattro forme del Vangelo in tanto valevano, in quanto erano rappresentanti della Chiesa, dalla cui autorità essi erano adombrati: ma credendo ai quattro autori, il cristiano credeva in realtà all’unica Chiesa, mentre se attraverso ad essi il cristiano non fosse potuto giungere fino alla Chiesa, non avrebbe creduto al loro Vangelo. Tutto ciò è espresso nitidamente da S. Agostino col suo celebre aforisma: Ego vero evangelio non crederem, nisi me catholicæ Ecclesiæ commoveret auctoritas (Contra epist. Manich., V, 6). In conclusione, il processo storico dell’origine dei Vangeli fu il seguente. La «buona novella» orale fu più antica e più ampia della «buona novella» scritta: l’uno e l’altra furono produzioni della Chiesa, e dall’autorità di questa furono adombrate. Il che equivale a dire che il Vangelo scritto presuppone la Chiesa e si basa su essa.

• § 112. Questa conclusione è in assoluto contrasto con l’antico concetto che la Riforma luterana si fece dei Vangeli canonici, e taluno potrebbe forse sospettare che sia una conclusione ispirata da mire polemiche più che fondata sulla pura documentazione storica. Senonché alla stessa conclusione sono giunti recentemente anche studiosi che, non solo non hanno alcuna preoccupazione di apologia cattolica, ma sono invece seguaci dei metodi più radicali e più demolitori riguardo alla critica dei Vangeli. Basterà riportare il giudizio di uno solo fra essi: In seguito alla fissazione del canone del Nuovo Testamento alla fine del secolo II si finì per dimenticare che i nostri Vangeli hanno una preistoria importantissima e che bisogna collocarli, non già all’inizio, ma al termine di un lungo processo anteriore. Perciò nella sua nozione della tradizione il cattolicismo si è sempre guardato da una considerazione esagerata ed esclusiva della lettera scritta... Con la Riforma il nostro concetto sull’origine dei Vangeli venne falsato. La Riforma tirò le ultime conseguenze dalla canonizzazione del Nuovo Testamento, facendo dell’ispirazione verbale il suo dogma essenziale. Mentre il cattolicismo non dimenticò mai completamente che la tradizione precede la Scrittura, i teologi sorti dalla Riforma non tennero più alcun conto del fatto che, fra l’epoca in cui è vissuto Gesù e quella della composizione dei Vangeli, corre un periodo di almeno trent’anni nel quale non esisteva una «Vita di Gesù» scritta. È strano rilevare che proprio i teologi più liberali della seconda metà del secolo XIX hanno subito inconsciamente l’influenza della teoria dell’ispirazione verbale, non badando che alla lettera scritta, senza preoccuparsi dell’importante periodo in cui il Vangelo non esisteva che sotto forma di parola viva (O. Cullmann, Les récentes études sul la formation de la tradition évangélique, in Revue d’histoire et de philosophie relig., 1925, pagg. 459-460).

• § 113. Di quale ampiezza, e anche di quale particolare indole, fossero gli scritti andati perduti fra i molti che circolavano lungo il sesto decennio del secolo I, non possiamo dire con sicurezza. È ben verosimile che in massima parte fossero d’ampiezza assai limitata, minore anche di quella di Marco che è il più breve dei nostri Vangeli. Quanto all’indole, dovevano essere di tipo vario: pur trattando tutti della vita di Gesù, taluni potevano occuparsi specialmente dei fatti, altri specialmente degli insegnamenti e delle parole; tra gli scritti sui fatti, chi prendeva di mira specialmente il ministero in Galilea, chi il ministero in Giudea, chi gli avvenimenti della passione e morte, qualcuno anche i fatti dell’infanzia precedenti al ministero pubblico; tra gli scritti sugli insegnamenti, uno preferiva le parabole, un altro i comandamenti fondamentali della nuova Legge (quali si ritrovano nel Discorso della montagna), un terzo le profezie sulla fine di Gerusalemme e del mondo intero, e così di seguito. Riscontriamo, pertanto, che questi elementi sparsi si ritrovano tutti complessivamente nei nostri tre primi Vangeli chiamati Sinottici (Giovanni, sotto questo aspetto, fa parte a sé), come pure troviamo che i Sinottici alla loro volta mostrano una trama generica comune. Le linee costanti di questa trama sono: il ministero di Giovanni il Battista e il battesimo di Gesù; il ministero di Gesù in Galilea; il ministero di Giudea; la passione, morte e resurrezione. A queste linee costanti può esser premessa la narrazione, più o meno ampia, dei fatti dell’infanzia, come in Matteo e Luca: ad ogni modo tale narrazione serve quasi da preambolo alla trama costante, mentre il vero corpus del racconto comincia col ministero di Giovanni il Battista, abbracciando cioè il periodo quo intravit et exivit inter nos Dominus Jesus, incipiens a baptismate Joannis usque in diem qua assumtus est a nobis. Pronunciando queste parole (Atti, 1, 21-22), sembra che Pietro abbia delineato un programma generico; egli stesso mostra di attenersi a tale programma, giacché in un suo discorso segue sommariamente le quattro linee della suddetta trama, incipiens a Galilea post baptismum quod predicavit Joannes e finendo con le apparizioni di Gesù dopo la resurrezione (Atti, 10, 37-41). Siffatta corrispondenza fra il programma e l’azione di Pietro (cfr. anche Atti, 2, 22-24), e inoltre il posto sovreminente da lui tenuto fra i primissimi banditori della «buona novella», rendono legittima la supposizione che appunto a Pietro risalga la trama di quella catechesi le cui linee generali si ritrovano complessivamente seguite dai nostri tre primi Vangeli, come dovevano esser seguite isolatamente dal più dei molti scritti andati perduti. Chi fossero poi gli autori degli scritti perduti, noi non sappiamo affatto. Poterono benissimo appartenere al numero di coloro ch’erano insigniti dal carisma dell’«evangelista»; taluno poté anche essere testimone personale dei fatti narrati, in quanto era stato discepolo immediato di Gesù morto un ventennio prima: tuttavia dal confronto di Luca, 1, 1 con 1, 2, sembra risultare una contrapposizione tra scrittori e testimoni, per cui i primi dipenderebbero dai secondi e non sarebbero - almeno nella maggioranza - testimoni essi stessi. Quanto agli autori dei Vangeli canonici, e al tipo di catechesi da cui ciascuno di essi dipende, non resta che ricercare le testimonianze della tradizione, passando così dal periodo di preparazione a quello di composizione dei quattro Vangeli.

Dalla prossima settimana inizieremo a studiare i Vangeli...

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.

Comunicato numero 84. Le fonti storiche su Gesù (Parte seconda)

Stimati Associati e gentili Sostenitori, grazie a Dio oggi proseguiamo lo studio di alcune «Fonti storiche» che riguardano Gesù. Abate Giuseppe Ricciotti («Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, 7a Edizione, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941),

• FONTI CRISTIANE. Documenti estranei al Nuovo Testamento. § 94. Di Gesù trattano molti scritti cristiani composti nei primi secoli, ma che non fanno parte del Nuovo Testamento: essi talvolta si presentano sotto forme analoghe a quelle del Nuovo Testamento, come Vangeli, Atti, Lettere, Apocalissi, costituendo i cosiddetti libri Apocrifi, talvolta sotto forma di scritti ecclesiastici, come Costituzioni, Canoni, ecc., costituendo i cosiddetti libri Pseudo-epigrafi; talvolta, infine, consistono in piccoli detti o fatti attribuiti a Gesù i quali, senza aver riscontro nel Nuovo Testamento, si ritrovano in maniera staccata o in opere di antichi Padri, o in codici particolari del Nuovo Testamento, oppure in frammenti di papiri antichi recentemente scoperti, e tali minime particelle sono designate con nomi di Agrafa o di Logia. Gli studiosi recenti si sono molto occupati di queste diverse serie di scritti, ai quali invece nel secolo passato si prestava scarsa attenzione; ma queste nuove indagini, se hanno indubbiamente contribuito a far conoscere sempre meglio i vari ceti cristiani che produssero quegli scritti, hanno messo in luce sempre più chiara la deficienza d’autorità storica ch’è alla base degli scritti apocrifi, e per contrapposto la sodezza su cui poggiano quelli del Nuovo Testamento. Fra le due categorie di scritti, in realtà, c’e un abisso, come già ai suoi tempi giudicò il Renan; il quale, istituendo un confronto fra esse sotto l’aspetto puramente storico, trovava che i vangeli apocrifi sono volgari e puerili amplificazioni fatte sulla trama dei Vangeli canonici, senza aggiungervi alcunché di serio. Né a questo antico giudizio hanno apportato alcuna modificazione sostanziale gli studi recenti.

• § 95. In generale i vangeli apocrifi devono la loro origine al desiderio o di presentare alcune particolari dottrine come giustificate dalla vita e dall’insegnamento di Gesù stesso, oppure di accrescere con altri particolari biografici le notizie che i Vangeli canonici comunicano su Gesù, e che alle plebi cristiane sembravano troppo parsimoniose; nel primo caso si hanno gli scritti d’origine eretica o almeno tendenziosa, che sono i più numerosi: nel secondo i racconti di carattere popolare, amanti del meraviglioso. I due casi spesso si fondono insieme, senza che oggi si possano separare con certezza. Occasione a coteste fantastiche costruzioni era fornita sia dalle ammonizioni di uno degli stessi Vangeli canonici, il quale avverte che molti altri fatti di Gesù non sono contenuti in esso (Giovanni, 20, 30) e che a contenerli sarebbero necessari infiniti altri libri (ivi, 21, 25), sia anche dall’aver osservato che S. Paolo in un suo discorso riporta un aforisma di Gesù non contenuto in nessuno dei Vangeli canonici (Atti, 20, 35). Questo ampio ricamo immaginativo cominciò ben presto, già nel secolo II, per accrescersi sempre più in seguito e prolungarsi fino al Medioevo; ma a noi ne è pervenuta solo una minor parte, della quale spesso è difficile definire, oltreché la tendenza dottrinale, anche il tempo preciso. Essendo pertanto inutile scendere a molti particolari, ci limiteremo a brevi cenni sulle più antiche di queste composizioni.

• § 96. Di un Vangelo secondo gli Ebrei parlano vari scrittori antichi, che ce ne hanno pure trasmesse alcune poche citazioni ma per questa scarsezza e per confusioni sorte più tardi è difficile farsi un concetto approssimativo dello scritto. Certamente era redatto in aramaico, e doveva circolare già nel secolo I. Pare che avesse stretta affinità col Vangelo canonico di S. Matteo, se pure non era in sostanza questo stesso vangelo rimanipolato in varie maniere, con accorciamenti e con aggiunte di provenienza incerta. Una di queste aggiunte, ad esempio, diceva che Gesù era stato trasportato, sospeso per uno dei suoi capelli, al monte Tabor per opera di sua madre, che sarebbe stato lo Spirito santo: in aramaico, infatti, «spirito» è voce di genere femminile, come giustamente ricorda S. Girolamo (in Michaeam, VII, 6), il quale riporta l’aggiunta dopo Origene (in Joan, II, 12). Non risulta con sicurezza se recensione particolare di questo apocrifo, ovvero opera ben diversa, fosse il Vangelo dei Nazarei o Nazorei, ch’erano membri di una comunità giudeo-cristiana accentrata attorno a Berea (Aleppo). Il Vangelo degli Ebioniti era particolare a questa setta, di cui propugnava idee e norme, ad esempio quella del vegetarianismo. Fu composto nel secolo II, ma ne rimangono pochi frammenti in citazioni di Epifanio. Era chiamato dagli Ebioniti Vangelo secondo gli Ebrei, ma pare che fosse ben diverso dal precedente: ad ogni modo era certamente anch’esso una tendenziosa rimanipolazione del Matteo canonico. Il Vangelo degli Egiziani era usato dagli eretici Encratiti, Valentiniani, Naasseni e Sabelliani. Fu composto in Egitto, verso la metà del secolo II; dai pochissimi frammenti superstiti si rileva che l’istituzione del matrimonio vi era condannata, conforme ai principii degli Encratiti. Il Vangelo di Pietro, già noto agli antichi e del quale nel 1887 fu ritrovato un esteso tratto relativo alla morte e resurrezione di Gesù, sembra che fosse composto in Siria verso l’anno 130 o poco dopo. L’autore si serve sostanzialmente dei Vangeli canonici, né appare con sicurezza che mirasse a propugnare idee eretiche; tuttavia cade in errori storici grossolani (ad es. fa condannare e condurre al patibolo Gesù da Erode) e aggiunge vari particolari chiaramente fantastici.

• § 97. Assai importante ed uscito da ambiente ortodosso è il Protovangelo di Giacomo, che risale a circa la metà del secolo II. Si diffonde molto sui fatti di Maria e dell’infanzia di Gesù: nel ciclo liturgico della Chiesa sono tuttora rispecchiati taluni fatti da esso narrati, quale la presentazione di Maria al Tempio, di cui i Vangeli canonici non fanno parola. La trama fondamentale della narrazione è quella dei Vangeli canonici, ma arricchita specialmente da gran quantità di prodigi, sempre inutili, spesso anche indecorosi; ad esempio, si finge che la perpetua verginità di Maria, che l’ortodosso autore vuol mettere in sommo rilievo, sia sottoposta ad una prova tanto decisiva quanto sconveniente (cap. 20). Questo apocrifo fu molto diffuso nella Chiesa antica, e in tempi più recenti ricevette varie rimanipolazioni, quali lo pseudo Vangelo di Matteo, del secolo VI, e il Libro della natività di Maria, del secolo IX. Di un Vangelo di Tommaso parlano antichi scrittori, segnalandolo come opera di eretici gnostici, composto verso la metà del secolo II. Ma le due recensioni che sono pervenute a noi di questo scritto - una più ampia, l’altra meno - non mostrano alcuna idea gnostica, e contengono solo numerosi miracoli, quasi tutti puerili, attribuiti appunto alla puerizia di Gesù dall’età di cinque anni in su. Più recenti, ma non più autorevoli, sono altri apocrifi non sempre bene noti che basterà nominare: il Vangelo di Filippo, del secolo III; il Vangelo di Bartolomeo, del secolo IV; gli Atti di Pilato, in parte anteriori al secolo IV, che si presentano come un resoconto del processo e della resurrezione di Gesù; le Lettere tra Abgar re di Edessa e Gesù (in Eusebio, Hist. eccl., I, 13), e la Dottrina di Addai, d’origine siriaca, del secolo IV; altre narrazioni scendono dal secolo V in giù. Numerosi scritti apocrifi, sotto la denominazione di Atti, Lettere, Apocalissi, oppure di Costituzioni, Canoni, Didascalie, si riportano direttamente ai vari Apostoli più che a Gesù stesso; ma di lui parla molto la cosiddetta Lettera degli Apostoli, che contiene dialoghi di Gesù con i discepoli e che, scritta in greco nel secolo II, è giunta a noi in una recensione copta ed una etiopica (quest’ultima è incorporata nell’apocrifo Testamento di nostro Signore Gesù Cristo). Escludendo già anticamente dal canone delle Scritture sacre questa congerie di scritti apocrifi e pseudo-apocrifi, la Chiesa ha fatto un’opera eccellente anche dal semplice punto di vista della scienza storica; in essi infatti, anche quando non si riscontrano concetti apertamente ereticali o tendenziosi, si ritrovano quelli che già S. Girolamo chiamava i sogni degli apocrifi.

• § 98. Una classe particolare, che può richiedere un giudizio particolare, è costituita da quei brevissimi scritti che sopra chiamammo Agrafa o Logia. Per amor d’esattezza bisogna distinguere. Stando al significato delle rispettive parole gli Agrafa, cioè i «non scritti», sono quei brevi detti o aforismi attribuiti a Gesù che si ritrovano trasmessi fuori della sacra Scrittura (Grafè), o, secondo un’altra norma, fuori dei soli quattro Vangeli canonici. I Logia, cioè i «detti», sono egualmente brevi sentenze attribuite a Gesù e tutte appartenenti alla classe degli Agrafa; ma oggi questo termine è convenzionalmente riservato a designare quelle sentenze che si vengono man mano scoprendo, da un quarantennio in qua, nei frammenti di antichi papiri recuperati nell’inesauribile Egitto. Gli Agrafa invece si ritrovano in altri documenti antichi, anche fuori della letteratura apocrifa, come in opere di taluni Padri e in qualche singolare codice del Nuovo Testamento. Poiché S. Paolo stesso cita come parole di Gesù la sentenza ignota ai Vangeli: «È cosa più beata dare che ricevere» (Atti, 20, 35), non è astrattamente impossibile che altre di siffatte brevi sentenze si siano conservate a lungo oralmente nella Chiesa antica, per poi esser fissate in iscritto lungo i primi secoli del cristianesimo. Venendo poi al caso pratico, si riscontrano in realtà citazioni di questo genere in antichi Padri, lontani tra loro per tempo e per luogo. Così troviamo che, nel secolo I, Clemente romano attribuisce a Gesù il detto: «Come farete, così sarà fatto a voi; come darete, così sarà dato a voi; come giudicherete, così sarete giudicati; come sarete benigni, così si sarà benigni con voi» (I Corinti, 13); nel secolo II, il palestinese Giustino martire gli attribuisce la sentenza: «In quali (opere) io vi sorprenderò, in quelle vi giudicherò» (Dialog. cum Tryph., 47); nel secolo III, l’alessandrino Origene gli assegna l’aforisma: «Chi è vicino a me, è vicino al fuoco; chi è lungi da me, è lungi dal regno» (in Jer., XX, 3), aforisma che nel secolo successivo si ritrova in Didimo il cieco, egualmente alessandrino; e ancora nel secolo IV il siro Afraate, il «Sapiente Persiano», presenta come detta da Gesù la seguente ammonizione: «Non dubitate, sì che affondiate dentro il mondo, a somiglianza di Simone che dubitando cominciò ad affondare dentro il mare» (Demonstr., I, 17). E le citazioni, che talvolta contengono anche piccole particolarità della biografia di Gesù, potrebbero estendersi ad altre epoche e regioni. Che pensare di questi Agrafa di antichi scrittori cristiani?

• § 99. Un giudizio generale non si potrebbe dare, ed è necessario riportarsi a singoli casi. Molto spesso si tratta certamente di citazioni di Vangeli canonici fatte, non con quell’aderenza letterale che oggi sarebbe di rigore, bensì in maniera larga e oratoria, sì da mirare al concetto sostanziale più che alla parola materiale. Altre volte sembra che la citazione, specialmente se contiene una particolarità biografica, sia tolta da qualche scritto privato di edificazione, o anche da qualche apocrifo perduto. In altri casi potrà dipendere da una tradizione soltanto orale, senza però che oggi si possa decidere se quella tradizione risalisse veramente alle origini oppure fosse una pia elaborazione cristiana. In conclusione, pur rimanendo la possibilità astratta che taluni Agrafa siano autorevoli, la rispettiva dimostrazione è assai difficile a raggiungersi. Questa generica diffidenza è giustificata anche di fronte a taluni brevi tratti particolari, contenuti solo in qualche codice del Nuovo Testamento ma ignoti a tutti gli altri antichi documenti. Ad esempio, il codice D detto di Beza, del secolo VI, al passo di S. Luca, 6, 4, soggiunge questo tratto: «In questo stesso giorno, avendo (Gesù) visto un tale che lavorava di sabbato, gli disse: Uomo, se tu sai ciò che fai, sei beato; se poi non lo sai, sei maledetto e trasgressore della Legge». Tanto caratteristica è l’idea qui espressa, quanto è singolare il tratto che l’esprime, ignoto a tutti gli altri codici. Un’altra celebre aggiunta, caratteristica e del tutto solitaria, è quella contenuta nel manoscritto W (Freer) e messa appresso a S. Marco, 16, 14. Anche per questi tratti speciali di solitari codici, in forza delle stesse ragioni accennate sopra, sarà ben arduo dimostrare che l’autenticità astrattamente possibile debba considerarsi nei singoli.

• § 100. Una messe abbondante è fornita anche dai Logia, che si stanno ricuperando da un quarantennio e talvolta raggiungono una notevole ampiezza. Se ne ritrovarono già a Banhesa, l’antica Ossirinco (pubblicati da Grenfell e Hunt nella collezione Oxyrhynchus Papyri, dal 1897 in poi); in seguito l’Egitto ha largheggiato, oltreché con antichissimi papiri (Chester Beatty) strettamente neotestamentari, anche con altri che contengono sia brevi sentenze staccate, sia passi più ampi e ben connessi. Quest’ultimo è il caso del papiro (Egerton) pubblicato come «frammenti di un Vangelo sconosciuto» da Idris Bell e Skeat nel 1935, e che risale ad un’antichità eccezionale, essendo certamente non posteriore e forse anteriore alla metà del secolo II. Gli altri Logia si distribuiscono in genere fra i secoli II e III, ma sono costituiti da sentenze staccate e brevi che di solito cominciano con le parole: «Dice Gesù ...». È stato supposto che il papiro (Egerton) del «Vangelo sconosciuto» contenga una parte dell’apocrifo Vangelo degli Egiziani (§ 96); l’opinione è discutibile, mentre è certo che il suo contenuto dipende più o meno direttamente dai quattro Vangeli canonici, e specialmente da S. Giovanni. I restanti comuni Logia, invece, sono avanzi del naufragio che ha sommerso antiche raccolte di detti di Gesù: i cristiani dei primi secoli componevano quelle raccolte a proprio uso privato, estraendone il materiale da varie parti, anche dai vangeli apocrifi, non senza adattarlo e modificarlo secondo le attitudini e gli scopi personali. Quando i primi di tali Logia cominciarono a tornare alla luce, parecchi studiosi li giudicarono reliquie di antichi repertori anteriori ai Vangeli canonici, e da cui questi dipenderebbero: credettero quindi d’entrare in possesso parziale o dei Logia di S. Matteo, di cui parlerebbe Papia (§ 114 segg.), o degli scritti di quei molti che secondo S. Luca (1, 1-4) avevano narrato prima di lui i fatti di Gesù. Ma, purtroppo, quella rosea ipotesi e l’entusiasmo che l’accompagnava non erano giustificati. Oggi, che il materiale è notevolmente cresciuto e si può giudicare con migliore cognizione di causa, l’opinione quasi unanime è che la relazione fra i due gruppi di scritti sia l’inversa a quella allora supposta, ritenendosi cioè che questi Logia siano posteriori e dipendano dai Vangeli canonici, oltreché da altre fonti.

• § 101. Diamo come saggio il primo frammento di papiro pubblicato nel 1897 (in Oxyrhynchus Papyri, I, n. 1), ricordando a fianco ai singoli detti i luoghi dei Vangeli canonici da cui dipendono: (Dice Gesù:) ... e allora tu vedrai bene d’estrarre la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello (cfr. S. Matteo, 7, 5; S. Luca, 6, 42). Dice Gesù: Se non digiunate dal mondo, non troverete il regno di Dio; e se non sabbatizzerete il sabbato (cioè, se non santificherete tutta la settimana) non vedrete il Padre. (Il concetto di digiunare dal mondo ritorna in Clemente Alessandrino, Stromata, III, 15, 99; al concetto del sabbato spirituale allude Giustino, Dialog. cum Tryph., 12). Dice Gesù: Stetti in mezzo al mondo e apparvi ad essi nella carne; e li trovai tutti ubriachi, e nessun assetato trovai fra loro; e l’anima mia è afflitta a causa dei figli degli uomini, perché sono ciechi nel loro cuore e non vedono... (?) e la povertà. Dice Gesù: Ove siano (due, essi non) sono senza Dio, e ove sia uno soltanto, dico che io sono con lui. Solleva la pietra, e là mi troverai; spacca il legno, e io sono colà (cfr. S. Matteo, 18, 20). Dice Gesù: Non c’è profeta accetto nella patria sua, né un medico opera guarigioni fra quei che lo conoscono (cfr. S. Matteo, 13, 57; S. Marco, 6, 4; S. Luca, 4, 23-24; S. Giovanni, 4, 44). Dice Gesù: Una città costruita su cima d’alto monte e rafforzata, non può crollare né restare occulta (cfr. S. Matteo, 5, 14). Dice Gesù: Tu ascolti con uno dei tuoi (orecchi), ma (l’altro tieni serrato?). In ultima conclusione, le fonti cristiane estranee al Nuovo Testamento - siano esse scritti apocrifi, o Agrafa, o Logia - sono prive nella loro enorme maggioranza di autorità storica riguardo alla biografia di Gesù. In qualche caso può rimanere una certa possibilità in loro favore: ma tali casi sono cosi rari, e la dimostrazione della loro autorità effettiva è così difficile, che praticamente non se ne può trarre alcun vantaggio apprezzabile. Questo vantaggio, nella migliore delle ipotesi, equivarrebbe ad una coppa d’acqua aggiunta in un lago: cioè, quand’anche i pochissimi passi meglio accreditati si potessero accettare come sicuramente autentici, acquisteremmo qualche decina di righe da aggiungere come appendice ai Vangeli canonici, senza per altro che tal minuscola appendice modificasse il contenuto di quelli o ne accrescesse notevolmente il patrimonio biografico o concettuale. Prosegue ...

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.

Comunicato numero 83.  Le fonti storiche su Gesù (Parte prima)

Stimati Associati e gentili Sostenitori, grazie a Dio oggi iniziamo lo studio di alcune «Fonti storiche» che riguardano Gesù. Abate Giuseppe Ricciotti («Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, 7a Edizione, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941),

• § 87. Di Gesù parlano numerosi scritti antichi, che spontaneamente si raggruppano in due categorie: scritti non cristiani, e scritti cristiani. Questo criterio morale di raggruppamento ha un’evidente importanza scientifica, per valutare l’imparzialità delle rispettive testimonianze; tuttavia non può essere l’unico, perché insieme con esso dovrà anche applicarsi il criterio cronologico, secondo il quale una testimonianza è di solito tanto più autorevole e preziosa, quanto più è antica e vicina ai fatti attestati. Nel caso nostro è praticamente più agevole seguire il criterio morale, che lascia campo a poche contestazioni, mentre l’assegnazione cronologica dei vari scritti implica questioni numerose assai dibattute: naturalmente di tali questioni bisognerà tener conto anche seguendo la ripartizione fra scritti non cristiani e cristiani.

• FONTI NON CRISTIANE. I Giudei, conterranei e coetanei di Gesù, dovrebbero offrirci riguardo a lui le prime testimonianze; ma purtroppo non è così, giacché le fonti giudaiche, pur non essendo del tutto mute in proposito, sono taciturne e avare di notizie attendibili, quasi quanto le fonti pagane.

• Giudaismo ufficiale. Con la distruzione di Gerusalemme e dello Stato giudaico avvenuta nel 70 dell’Era Volgare, cioè un quarantennio dopo la morte di Gesù, la vita spirituale del giudaismo palestinese rimase rappresentata esclusivamente dalla corrente dei Farisei; i quali, conforme ai loro principii, si dedicarono totalmente a raccogliere e perpetuare la «tradizione» orale che, insieme con la Bibbia, formava ormai l’unico patrimonio morale del giudaismo. I dottori farisei, datisi a questo lavoro lungo i secoli I-III, furono chiamati i Tannaiti, e ad essi tennero dietro gli Amorei, che operarono fino al termine del secolo V. Ai Tannaiti è dovuto il codice della Mishna; agli Amorei, il commento alla Mishna; dall’unione della Mishna col suo commento è sorto il Talmud, nella doppia recensione palestinese e babilonese. Ma il Talmud, pur contenendo materiali che possono risalire a prima della distruzione di Gerusalemme, non fu messo definitivamente in iscritto che tra i secoli V e VI, giacché in precedenza il suo contenuto era stato trasmesso solo oralmente, affidato alla memoria dei vari dottori, benché con fedeltà verbale. Il Talmud, così redatto, divenne la roccaforte spirituale del giudaismo e ricevette, insieme con la Bibbia, carattere ufficiale. Ma contemporaneamente al Talmud si elaborava altro materiale, che parimenti fu messo in iscritto soltanto dopo una lunga trasmissione esclusivamente orale, sebbene i suoi primi elementi possano risalire all’epoca dei Tannaiti. Gli scritti così sorti, fra cui primeggiano per estensione e numero i vari Midrashim, non rivestirono carattere ufficiale come il Talmud, tuttavia ricevettero un valore subordinato e complementare.

• § 88. Troviamo pertanto che, in questi scritti del giudaismo ufficiale, la persona e l’opera di Gesù sono certamente note, sebbene spesso si alluda ad esse solo indirettamente ed in maniera anonima e velata. Riunendo poi i dati precisi che se ne possono estrarre, si trova che essi non hanno riscontro in nessun altro documento antico, e non senza contraddizioni e incongruenze se ne ottiene il seguente schema biografico. Gesù il Nosri (Nazareno) nacque da una pettinatrice di nome Maria; il marito di questa donna è chiamato talvolta Pappos figlio di Giuda e talvolta Stada, sebbene si trovi anche la donna stessa chiamata col nome di Stada. Il vero padre di Gesù fu un certo Pantera; i perciò si trova che Gesù è chiamato tanto figlio di Pantera, quanto figlio di Stada. Di questo strano nome (Pantera), che appare anche sotto le varianti di Panteri, Pantori, Pandera, è stata data la seguente spiegazione. Dopo il definitivo distacco del cristianesimo dal giudaismo, i Giudei udivano dai cristiani di lingua greca asserire che Gesù era figlio di «parthènou», ossia d’una vergine; e quindi il nome comune fu creduto nome proprio, e da appellativo della madre divenne nome personale del padre illegittimo. Questa spiegazione è molto verosimile, e dimostrerebbe una volta di più che il giudaismo non ebbe un suo particolare patrimonio di notizie riguardo a Gesù, ma le prese dal cristianesimo deformandole tendenziosamente. Recatosi in Egitto, Gesù studiò colà magia sotto Giosuè figlio di Perachia. Quanto alla cronologia è da rilevare che, mentre questo Giosuè fiorì verso l’anno 100 avanti l’Era Volgare, il suddetto Pappos fiorì circa 230 anni più tardi. Tornato in patria e respinto dal suo maestro, Gesù esercitò la magia traviando il popolo. Per tali ragioni fu giudicato e condannato a morte. Prima che la condanna fosse eseguita, si attesero quaranta giorni durante i quali un araldo invitava la gente a esporre qualsiasi giustificazione in favore del condannato. Non essendosi presentato alcuno, il condannato fu lapidato e poi appeso al patibolo a Lydda, il giorno di preparazione alla Pasqua. Al presente egli si trova nella Gehenna, immerso in una melma bollente. In relazione con questi dati, e specialmente con la maniera velata con cui sono esposti, si trova che Gesù è designato con l’indicazione di un tale, o con l’epiteto di Balaam (l’antico mago di Numeri, 22 segg.), e con gli appellativi di pazzo, di bastardo, e con un altro anche più obbrobrioso. Per questi dati ed appellativi si vedano Stack e Billerbeck, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrasch, 4 voll., Monaco, 1922 - 1928; vol. I, pagg. 36 e segg., e i passi segnalati nel vol. IV, pag. 1240, col Ia. L’ultimo appellativo, qui sopra solo accennato, è nel vol. I, pagg. 42-43, e pag. 1040

• 89. Il seguente aneddoto può essere un esempio di come si alludeva a fatti e dottrine di Gesù in maniera anonima, ma non per questo meno precisa. A Rabbi Giosuè figlio di Anania, che fiorì verso l’anno 90 dell’Era Volgare, fu chiesto in Roma da alcuni sapienti: Raccontaci qualche cosa di favoloso! - Egli disse: Ci fu una volta una mula che fece un figlio; a questo fu appesa un’etichetta su cui era scritto che esso doveva ereditare dalla famiglia paterna 100.000 «zuz» (una moneta). - Gli fu risposto: Ma una mula può partorire? - Quello disse: Appunto si tratta d’una favola! - (Poi gli fu chiesto:) Se il sale diventa insipido, con che cosa si dovrà salarlo? - Quello rispose: Con la placenta d’una mula. - (Gli si disse:) Ma una mula (sterile qual è) ha la placenta? - (Quello rispose:) E il sale può diventare insipido? In questo aneddoto è evidente l’allusione al detto di Gesù: Se il sale sia diventato insipido, con che si salerà? (Matteo, 5, 13), di cui si vorrebbe far rilevare l’insensatezza; ma è anche chiaro che i due animali sono un beffardo adombramento di Maria e Gesù, e che tutto l’aneddoto vuol mostrare come il giudaismo sia il genuino sale che non diventerà mai insipido, e come ad ogni modo Gesù meno di ogni altro avrebbe potuto rendergli il naturale sapore. Il racconto di Rabbi Giosuè figlio di Anania è tratto da Bekoroth, 8 b; cfr. Stack e Billerbeck, Op. cit., vol. I, pag. 256. Anche fuori degli scritti giudaici, questi dati sono attestati parzialmente come provenienti dal giudaismo. A metà del secolo II il palestinese Giustino martire, nel suo Dialogo col (giudeo) Trifone, vi accenna più d’una volta, accusando i dottori giudei di diffondere ovunque calunnie e bestemmie a carico di Gesù. Più nettamente si ritrovano gli stessi dati impiegati dal pagano Celso nel suo Discorso veritiero scritto poco prima dell’anno 180, di cui si tratterà in seguito (§ 195); sembra certo che Celso abbia attinto questi dati ad una fonte scritta. Finalmente, ampliati sempre più, gli stessi dati costituirono il libello intitolato Toledoth Jeshua, «Generazioni (cioè, Storia) di Gesù», che circolava in varie recensioni già verso i secoli VIII-IX, e che per il giudaismo rimase quale ufficiosa biografia di Gesù fino a poche decine d’anni addietro. Ora, tutte queste affermazioni potranno attestare le disposizioni d’animo che il giudaismo aveva verso Gesù nei primi secoli cristiani; ma non sarebbe cosa né seria scientificamente né dignitosa moralmente anche solo discuterli quali autorevoli documenti per la biografia di Gesù. Del resto la discussione sarebbe oggi inutile: ormai gli stessi Israeliti dotti e coscienziosi considerano questi elementi come del tutto leggendari; altrettanto fanno dal canto loro gli studiosi razionalisti, che di solito aggiungono allo stesso verdetto parole molto severe, come ad esempio il Renan che definisce l’insieme di questi racconti una leggenda burlesca ed oscena.

• Flavio Giuseppe. § 90. Giuseppe, sacerdote gerosolimitano, figlio di Mattia, nacque tra il 37 e il 38 dell’Era Volgare. Scoppiata nel 66 la rivolta della sua patria contro Roma, egli fu a capo delle truppe insorte che per prime si scontrarono con i Romani nella Galilea; dopo alcune sconfitte ricevute, si consegnò al generale nemico, il futuro imperatore Vespasiano, del quale rimase poi sempre fedele servitore. Distrutta Gerusalemme sotto i suoi occhi, Giuseppe venne a Roma insieme col vincitore Tito, figlio di Vespasiano, ed alla loro gens Flavia - il cui nome egli, come liberto, aveva aggiunto al suo di Giuseppe - prestò i propri servizi di stipendiato storico aulico. Fra gli anni 75 e 79 Giuseppe pubblicò la Guerra giudaica, ove narra le vicende precedenti e tutto lo svolgimento della guerra di cui era stato attore e spettatore; la quale opera, pur essendo macchiata di moltissimi e gravissimi difetti, è insostituibile e di singolare utilità per conoscere lo sfondo storico dei tempi di Gesù. Fra gli anni 93 e 94 Giuseppe pubblicò le Antichità giudaiche, ove narra la storia della nazione ebraica dalle origini fino allo scoppio della guerra contro Roma, ricollegandosi perciò a questo punto con lo scritto precedente. Poco dopo l’anno 95 pubblicò il Contra Apionem ch’è uno scritto polemico in difesa del giudaismo, e dopo l’anno 100 pubblicò la Vita (propria) ch’è un’apologia della sua condotta politica. In tutti questi scritti Giuseppe, benché parli moltissimo di persone del mondo giudaico o romano nominate anche nei Vangeli, non nomina mai né Gesù né i cristiani, salvo in tre passi. In uno parla con onore di Giovanni il Battista e della sua morte (Antichità giud., XVIII, 116-119); in un altro riferisce, egualmente con onore, la morte violenta di Giacomo fratello di Gesù, chiamato il Cristo (ivi, XX, 200): e sull’autenticità di questi due passi, nonostante l’incertezza di pochi studiosi moderni, non vi sono ragionevoli dubbi.

• § 91. Diversamente stanno le cose riguardo al terzo passo ch’è il seguente, reso in traduzione letterale: Ora, ci fu verso questo tempo Gesù, un uomo sapiente, seppure bisogna chiamarlo uomo: era infatti facitore di opere straordinarie, maestro di uomini che accolgono con piacere la verità. E attirò a sé molti Giudei, e anche molti dei Greci. Costui era il Cristo. E avendo Pilato, per denunzia degli uomini principali fra noi, punito lui di croce, non cessarono coloro che da principio lo avevano amato. Egli infatti comparve loro al terzo giorno nuovamente vivo, avendo già detto i divini profeti queste e migliaia d’altre cose mirabili riguardo a lui. E ancora adesso non è venuta meno la tribù di quelli che, da costui, sono chiamati i Cristiani (Antichità giud., XVIII, 63-64). Questo passo, conosciuto comunemente come testimonium flavianum, è contenuto in tutti i codici delle Antichità giudaiche, e nel secolo IV era già noto ad Eusebio che lo cita più d’una volta (Hist. eccl., I, Il; Demonstr. evang., III, 3); né, fino al secolo XVI, alcuno studioso dubitò mai della sua autenticità. In quel tempo furono mossi i primi dubbi, ma fondati soltanto su ragioni interne, in quanto cioè sembrava che il giudeo e fariseo Giuseppe non potesse parlare in modo così onorifico di Gesù: si concluse, quindi, che il passo era stato interpolato da un’ignota mano cristiana. La questione si è prolungata fino ai nostri giorni, e oggi esistono sia fautori sia avversari dell’autenticità in ogni campo: ad esempio, il razionalista Harnack ha difeso l’autenticità, mentre il cattolico Lagrange ha supposto l’interpolazione. Una soluzione incontrastabile non si troverà probabilmente mai, sia per mancanza di documenti, sia perché le ragioni addotte contro l’autenticità sono soltanto di ordine morale e quindi variamente giudicabili. Non essendo qui il caso di sottoporre a nuovo esame i vari argomenti, rimandiamo il lettore a quello che ne facemmo noi stessi altrove, limitandoci a riportare qui il periodo finale: «In conclusione, a noi sembra che il testimonium com’è oggi possa essere stato interpolato da mano cristiana, benché il suo fondo sia certamente genuino; tuttavia la stessa possibilità, e anche una maggiore probabilità, concediamo all’altra opinione secondo cui esso sarebbe integralmente genuino e vergato, così come oggi, dallo stilo di Giuseppe» (Flavio Giuseppe tradotto e commentato, vol. I, pag. 185).

• Scrittori romani ed altri. § 92. Nel secondo decennio del secolo II tre scrittori romani parlano di Cristo e dei cristiani. La celebre lettera scritta verso il 112 da Plinio il Giovane all’imperatore Traiano (Epist., X, 96) non dice nulla circa la persona di Gesù; attesta soltanto che nella Bitinia, governata da Plinio, erano molto diffusi i cristiani, i quali erano soliti stato die ante lucem convenire carmenque Christo quasi deo dicere. Poco anteriori all’anno 117 sono gli Annali di Tacito, che è il meno avaro sull’argomento. Trattando di Nerone e dell’incendio di Roma dell’anno 64, egli dice che quell’imperatore, per dissipare le voci che l’incendio fosse stato comandato, ne presentò come rei e colpì con supplizi raffinatissimi coloro che il volgo, odiandoli per i loro delitti chiamava Cristiani. L’autore di questa denominazione, Cristo, sotto l’impero di Tiberio era stato condannato al supplizio dal procuratore Ponzio Pilato; ma, repressa per il momento, l’esiziale superstizione erompeva di nuovo, non solo per la Giudea, origine di quel male, ma anche per l’Urbe, ove da ogni parte confluiscono e sono esaltate tutte le cose atroci e vergognose (Annal., XV, 44); segue poi la descrizione dei supplizi usati contro i cristiani nella persecuzione neroniana. Come appare subito, questa testimonianza pagana della lontana Roma conferma alcune fondamentali notizie della vita di Gesù che circolavano in Palestina già nel secolo precedente. Qualche anno dopo, verso il 120, Svetonio conferma genericamente che sotto Nerone furono sottoposti a supplizi i Cristiani, razza d’uomini d’una superstizione nuova e malefica (Nero, 16); ma, quando tratta del precedente impero di Claudio, fornisce una notizia nuova, riferendo che costui espulse da Roma i Giudei i quali, ad impulso di Cresto, facevano frequenti tumulti (Claudius, 25). Questa espulsione, confermata da quanto dicono gli Atti, 18, 2, avvenne fra gli anni 49 e 50. Non si può ragionevolmente dubitare che l’appellativo di Cresto di Svetonio sia il termine greco «christòs», traduzione etimologica del termine ebraico «messia» (§ 81); tanto più che, come ha già fatto Tacito nel passo qui sopra riportato, anche in seguito i cristiani saranno chiamati crestiani (Tertulliano, Apolog., 3). Si può concludere quindi che a Roma, circa un ventennio dopo la morte di Gesù, i Giudei ivi dimoranti avevano assidui e clamorosi contrasti riguardo alla qualità di «Cristo», o Messia, attribuita allo stesso Gesù, la quale evidentemente da alcuni gli era riconosciuta e da altri negata: i primi erano senza dubbio i cristiani, specialmente quelli convertiti dal giudaismo. Svetonio, che scrive 70 anni dopo gli avvenimenti ed è ben poco informato del cristianesimo, s’immagina che il suo Cristo sia stato presente personalmente a Roma e vi abbia provocato i tumulti. Dell’imperatore Adriano abbiamo una lettera indirizzata verso l’anno 125 al proconsole d’Asia, Minucio Fundano, e conservataci da Eusebio (Hist. eccl., IV, 9): vi si impartiscono solo norme per i processi contro i cristiani. Allo stesso imperatore è attribuita una lettera indirizzata verso il 133 al console Serviano (Flavio Vopisco, Quadrigæ tyrannorum, 8, in Script. Hist. Aug.), ove sono incidentalmente nominati Cristo e cristiani. Si noti pertanto come questi scrittori romani non riportino mal il nome di Gesù, ma solo quello di Cristo (Cresto).

• § 93. Da scrittori non romani dei primi due secoli non si ricava di più. Il sarcastico Luciano, semita ellenizzato, beffeggia spesso i cristiani, ma fa rare allusioni a Gesù: le più sicure sono quelle contenute nel Peregrino (11 e 13), di circa l’anno 170, ove si ricorda che il primo legislatore dei cristiani, sofista e mago, fu crocifisso in Palestina. Di un altro semita, Mara figlio di Serapione, abbiamo una lettera in siriaco, indirizzata a suo figlio Serapione, che contiene un’allusione a Gesù (in Cureton, Spicilegium syriacum, pag. 43 segg.); insieme con Socrate e Pitagora vi è nominato, in maniera onorifica, un sapiente re dei Giudei messo a morte dalla propria nazione, la quale perciò è stata punita da Dio con la distruzione della capitale e con l’esilio. È chiaro, dunque, che la lettera fu scritta dopo gli avvenimenti palestinesi del 70; ma è impossibile una datazione più precisa della lettera, che può essere benissimo del secolo II molto inoltrato, come neppure risulta con sicurezza se l’autore sia un cristiano dissimulato oppure un pagano stoico ammiratore del cristianesimo. Prosegue ...

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.

Sursum Corda dona 20 copie del libro «Chi è Maria? Catechismo mariano» al carcere di Potenza

L’Associazione Sursum Corda ONLUS di Pignola (PZ) ha recentemente - il 19 ottobre 2017 - donato alla Casa circondariale di Potenza un congruo numero di copie del volume «Chi è Maria? Catechismo mariano». Già in passato aveva donato, alla stessa Struttura, 100 copie del «Catechismo di San Pio X», 200 tascabili di «Preghiere cristiane», svariate copie del libro «La Rivoluzione» commentata da Mons. De Ségur.

Questo Catechismo mariano è composto da 235 articoli, semplici ma eruditi. Un’esposizione chiara, ordinata e sintetica di tutto ciò che riguarda la storia, il dogma ed il culto mariano, secondo la forma classica di domande e risposte. Alessandro Roschini prese il nome di Gabriele Maria quando, giovanissimo, entrò nell’Ordine dei Servi di Maria. Teologo di fama mondiale, è considerato il mariologo per eccellenza. Egli scrive: «La parola Catechismo, in questo caso almeno, non è affatto sinonimo di insegnamento elementare e per bambini. Esso, quindi, può andare anche tra le mani degli adulti, ossia, di tutti coloro che vogliono procurarsi una cultura sinteticamente completa intorno alla Vergine Santa. È perciò una piccola Somma mariana».

Sommario: • Prefazione 7; • Necessità dello studio di Maria 9; • Fonti 11; • I princìpi della dottrina Mariana 13; • Vantaggi e Divisione 17; • Storia di Maria 19; • Il Dogma mariano 29; • La predestinazione di Maria 31; • Maria nella predizione profetica 35; • La missione di Maria nella sua attuazione 39; • La Madre di Dio 41; • La Mediatrice degli uomini 45; • La Corredentrice del genere umano 47; • La Madre spirituale degli uomini 51; • La Dispensatrice di tutte la grazie 53; • La Regalità di Maria 57; • I privilegi riguardanti l’anima di Maria 61; • Le perfezioni di cui fu ripiena l’anima di Maria 69; • I privilegi riguardanti il corpo di Maria 75; • I privilegi riguardanti sia l’anima che il corpo 77; • Natura del culto Mariano 83; • Legittimità del culto Mariano 87; • Elementi o atti del culto Mariano 89; • Utilità del culto Mariano 93; • Origine e sviluppo del culto Mariano 99; • Pratiche del culto Mariano 103; • Le principali preghiere a Maria Santissima 123; • Indice degli articoli con numero di pagina 135.

In sintesi: Alessandro Roschini nacque a Castel Sant’Elia (Viterbo) nell’anno 1900, prese il nome di Gabriele Maria quando, giovanissimo, entrò nell’Ordine dei Servi di Maria. Sacerdote nel 1924, dottore in Filosofia e maestro in sacra Teologia, consacrò l’intera sua vita alla Madonna, che amò con pietà profonda ed onorò con la predicazione, con l’insegnamento ininterrotto nell’arco di oltre mezzo secolo (anche presso le Università Pontificie di Roma Marianum e Lateranum), con fondamentali studi mariologici e con dotte pubblicazioni. Fu Consultore del Sant’Uffizio e Vicario Generale dell’Ordine (O. S. M.). Nel 1939 fondò la rivista Marianum. Morì a Roma il 12 settembre (Festa del Nome di Maria) del 1977. Teologo di fama mondiale, è considerato il mariologo per eccellenza. Il suo Catechismo mariano è composto da 235 articoli, semplici ma eruditi, ed è un’esposizione chiara, ordinata e sintetica di tutto ciò che riguarda la storia, il dogma ed il culto mariano, secondo la forma classica di domande e risposte. Leggiamo nella Prefazione: «La parola Catechismo, in questo caso almeno, non è affatto sinonimo di insegnamento elementare e per bambini. Esso, quindi, può andare anche tra le mani degli adulti, ossia, di tutti coloro che vogliono procurarsi una cultura sinteticamente completa intorno alla Vergine Santa. È perciò una piccola Somma mariana». Il libro è stato curato dal giornalista e saggista lucano Carlo Di Pietro.

L’Associazione ha, inoltre, confermato alla Direzione della Casa circondariale la disponibilità gratuita all’ascolto dei carcerati, al sostegno morale, alla spiegazione del «Catechismo di san Pio X», anche più volte a settimana.

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Comunicato numero 82. Pratiche e credenze del Giudaismo all’epoca di Gesù (seconda parte)

Stimati Associati e gentili Sostenitori, oggi terminiamo lo studio del capitolo: «Pratiche e credenze del Giudaismo» all’epoca di Gesù. Abate Giuseppe Ricciotti («Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, 7a Edizione, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941),

• § 79. Non meno dell’angelologia sono sviluppate, ai tempi di Gesù, le credenze nell’oltretomba. Su questo argomento l’antico ebraismo - stando almeno ai documenti pervenuti fino a noi - si era mantenuto in una grande imprecisione di concetti, sebbene qua e là alcune affermazioni solitarie inducano a sospettare che il relativo patrimonio concettuale fosse in realtà più ricco di quanto risulti a noi; ad ogni modo i concetti fondamentali dell’oltretomba erano stati anticamente i seguenti. La dimora dei morti era chiamata Sheol (sempre femminile), immaginata quale immensa caverna posta nei sotterranei del cosmo. Ivi i trapassati, i Rephaim «spossati», «assopiti» vagavano come ombre su una terra di tenebre e di oscurità, terra di buio e di caligine (Giobbe, 10, 21-22), sebbene altrove si parli di quelle ombre come tuttora animate da passioni umane (Isaia, 14, 9 segg.) e suscettibili di entrare in comunicazione con i viventi per mezzo dell’evocazione necromantica (I Samuele, 28, 8 segg.). Dalla Sheol nessuno, che vi sia disceso, può mai risalire (Giobbe, 7, 9-10; 10, 21; tuttavia cfr. il celebre e disputato passo di 19, 23-27). Nessuna sanzione morale di premio o di pena per gli abitatori della Sheol, quale conseguenza della condotta tenuta durante la vita terrena, è attestata in maniera ben chiara e con precisione inequivocabile nei documenti più antichi.

• § 80. Questi concetti vaghi ed incerti si mantennero a lungo anche dopo l’esilio di Babilonia, e li ritroviamo espressi ancora a principio del secolo II av. Cr. da un dotto Scriba quale il Siracida (Ecclesiastico, testo greco, 17, 22-23 al. 27-28; 41, 4 al. 6-7); tuttavia già nell’esilio erano stati sparsi i germi di un nuovo fermento, che doveva man mano trasformare l’aspetto della questione richiedendone una soluzione più adeguata ai tempi nuovi. Nell’esilio Ezechiele (18, 1 segg.) aveva asserito nel campo della morale il principio della retribuzione individuale, in contrapposto alla retribuzione collettivo-nazionale che aveva regolato l’antico ebraismo; e questo nuovo principio doveva necessariamente ripercuotersi anche nella questione dell’oltretomba. Un ignoto solitario di mente elettissima aveva agitato nell’intero libro di Giobbe la questione dei rapporti fra la bontà morale e la felicità terrena, ma era giunto ad una conclusione più negativa che positiva, perché riscontrando che fra i due termini non esiste sempre un collegamento infallibile aveva finito per rifugiarsi in un atto di fede nella somma giustizia di Dio. Tuttavia il fermento lavorava occultamente, e spingeva sempre più a congiungere la questione della retribuzione morale con quella dell’oltretomba, e a chiedersi se dopo la presente vita ottenebrata dall’ingiustizia non ne venisse un’altra illuminata dalla piena giustizia: in altre parole, dalla Sheol non si sarebbe un giorno usciti nuovamente attraverso una resurrezione che avrebbe riparato le ingiustizie presenti? Presso il giudaismo di Alessandria, ch’era in abituali relazioni con la platonizzante filosofia ellenistica, si fece a meno di ricorrere alla resurrezione dei morti: nella vita presente il corpo corruttibile era come una pesante catena imposta all’anima prigioniera (Sapienza, 9, 15), e quindi con la morte l’anima del giusto era liberata dal suo carcere e tornava a Dio presso cui trovava il meritato premio (Ivi, 3, 1 segg.). Ma per il giudaismo palestinese, ignaro di platonismo e invece abituato a vedere nel composto umano un quid unum, era necessaria una soluzione che corrispondesse compiutamente a siffatta visione unitaria dell’individuo umano, e che di questo investisse tanto l’anima quanto il corpo. Già nel passato si erano avute affermazioni della resurrezione dei morti (presso Henoch, 22, 10-13; 51, 1-2; 90, 33; ecc. IV Esdra, 7, 32; Apocalisse di Baruch, 30, 1 segg.; Testamenti dei XII Patriarchi: Giuda, 25; Beniamino, 10; Shemone’esre, 2a preghiera; ecc.), ma piuttosto d’indole poetica (Isaia, 26, 19) o simbolica (Ezechiele, 37, 1-14); in seguito essa è affermata nettamente (Daniele, 12, 1-3), e da parte dei Farisei si sosterrà in polemica contro i Sadducei che è utile pregare per i morti nella sicura attesa della loro resurrezione (II Maccabei, 12, 43-46; cfr. 7, 9). Ai tempi di Gesù la fede nella resurrezione era generale nel giudaismo palestinese, con la sola eccezione dei Sadducei (§ 34), ed è nettamente attestata sia presso vari apocrifi composti dal secolo II av. Cr. in poi, sia presso scritti rabbinici. Tuttavia nelle particolarità di questa fede esistevano divergenze: ad esempio, sembra che parecchi negassero la resurrezione degli empi, i quali invece sarebbero stati annientati. Negli stessi apocrifi troviamo divergenze anche più numerose quando passano a descrivere, con minuziosità interminabile, la topografia e l’apparato materiale dell’oltretomba, sia che trattino degli scompartimenti riservati ai giusti sia di quelli degli empi: ma, quasi in compenso, si assiste ad una vera fantasmagoria di labirintiche costruzioni innalzate dall’immaginativa di generazioni intere. Antichissimi concetti cosmologici sono confluiti in tali descrizioni, mentre poi molti loro elementi si trasmetteranno costantemente in seguito fino ad essere inclusi anche nella Divina Commedia.

• § 81. Ma il giudaismo palestinese insegnava che prima dell’oltretomba dovevano accadere due grandi fatti: la venuta del Messia e il dramma dei tempi estremi. Spessissimo poi i due fatti, che per sé apparivano distinti, furono congiunti e mescolati insieme, ed offrirono inesauribile materia alla letteratura apocalittica che fiori in pieno a quei tempi. Il grande Eletto in greco «unto», ch’era stato promesso dagli antichi profeti come liberatore e glorificatore d’Israele, era atteso nei due secoli anteriori e in quello posteriore a Gesù in maniera ansiosissima. La sua venuta era messa in relazione con le condizioni in cui si trovava la nazione. Questo Messia avrebbe dovuto instaurare in Israele un’epoca di felicità, la quale sarebbe stata anche una giusta ricompensa per le tante umiliazioni fino allora sofferte; il Dio Jahvè, liberando per mezzo del Messia la sua prediletta nazione e facendola trionfare di tutti i suoi nemici, avrebbe procurato anche il suo proprio trionfo: il dominio d’Israele su tutte le nazioni pagane sarebbe stato anche il dominio del vero Dio su tutti i figli dell’uomo, il Regno di Dio sulla terra. Perciò tutti gli sguardi erano protesi verso quel grande Venturo: si speculava sul tempo della sua venuta, sul modo della sua azione, sulle sue gesta fra le nazioni pagane, e anche sui rapporti che il regno messianico avrebbe avuto col mondo fisico odierno e con le leggi che lo governano. Ai tempi di Gesù si ritiene concordemente che il Messia discenderà dalla stirpe di David, come ha affermato l’antica tradizione; spesso lo si chiama «figlio d’uomo», come è stato chiamato in Daniele, 7, 13. Se quattro grandi regni si sono succeduti nel passato crollando tutti successivamente, il regno del Messia che sarà il quinto permarrà in eterno (Daniele, 2); se nel passato quattro regnanti in forma di quattro grandi fiere sono sorti dal mare e un corno della quarta fiera (Antioco IV Epifane) ha fatto strage dei santi dell’Altissimo, tutte queste forze ostili a Dio saranno distrutte da Uno che è «come figlio d’uomo», che riceve in cielo ogni potenza dall’«Antico dei giorni», e scende poi sulla terra a stabilirvi vittoriosamente il suo regno imperituro in cui domineranno i santi dell’Altissimo, e riceveranno l’omaggio di tutti gl’imperi (Daniele, 7). Su questi fondamentali temi biblici ricamano i vari scritti apocrifi, intrecciandovi molti altri elementi.

• § 82. Di particolare importanza è quella sezione del Libro di Henoch designata come «Libro delle parabole» (capp. 37-71), che fu scritta probabilmente verso l’80 av. Cr. Il Messia è l’Eletto di Dio, e presso Dio attualmente egli dimora; il nome del «figlio dell’uomo» è pronunziato davanti al Signore degli spiriti (cioè il Messia esiste effettivamente davanti a Dio) prima che siano creati il sole e le stelle. Egli sarà bastone di sostegno per i giusti, lume delle nazioni; davanti a lui si prostreranno tutte le genti (48, 2 segg.), in lui dimora lo spirito di sapienza e lo spirito che rischiara, lo spirito di scienza e di forza, e lo spirito di coloro che si sono addormentati nella giustizia (49, 3; cfr. Isaia, 11, 2); egli giudicherà tutte le genti, ripagando coloro che hanno oppresso i giusti, e alla sua venuta risorgeranno i morti (51, 1 segg.; 62), cielo e terra si trasmuteranno, e i giusti rimarranno insieme con lui nella vita eterna diventando angeli celestiali. Di poco posteriori a Henoch sono i cosiddetti Salmi di Salomone, i quali contemplano il Messia sotto una luce un po’ meno celestiale e un po’ più terrena. Essi, specialmente il XVII e il XVIII, pregano Dio d’inviare ad Israele il suo «re, figlio di David», affinché regni su di esso, schiacciando i dominatori ingiusti, purificando Gerusalemme dai pagani, mettendo in fuga le nazioni; dopo di ciò egli raccoglierà Israele, governandolo in pace e con giustizia, e allora tutti i pagani verranno dall’estremità della terra a contemplare la gloria di Gerusalemme. Egli è «puro da peccato», e «Dio lo renderà forte per mezzo dello Spirito santo». Concetti analoghi si ritrovano nei Testamenti dei XVI Patriarchi, nel IV Esdra (cap. 13), nell’Apocalisse di Baruch (39, 7 segg.; 70, 2 segg.), ecc.

• § 83. In queste elucubrazioni si ritrovano i tradizionali temi messianici dei profeti, ma adattati alle diverse circostanze storiche e tendenze spirituali. Lo speculativo scrittore di Henoch li impiega per dar corpo alla sua costruzione mistico-escatologica; il Fariseo autore dei Salmi di Salomone, che scrive sotto gli ultimi decadenti Asmonei, vi ricerca una specie di rivincita religioso-nazionale fra lo sbandamento dello Stato e dopo la conquista di Gerusalemme fatta da Pompeo nel 63 av. Cr. Da quel tempo, infatti, si pensò sempre più al Messia come a un vindice nazionale e a un conquistatore politico. Gli stessi Zeloti (§ 42), nel suscitare e condurre avanti la paradossale insurrezione degli anni 66-70 contro Roma, non furono sostenuti da speranze umane, bensì da quella del Messia, invincibile condottiero che sarebbe apparso improvvisamente a sbaragliare i Romani, per poi assidersi glorioso sul trono di Gerusalemme. A qualcosa di simile sembra che pensasse anche la madre dei due discepoli di Gesù, quando voleva assicurare ai suoi figli i due migliori posti, uno a sinistra e l’altro a destra di lui (Matteo, 20, 21). Lo stesso alessandrino Filone (De Proemis et Poenis, 15-20) pare che abbia condiviso, almeno parzialmente, l’idea del Messia conquistatore politico, senza però giungere all’aberrazione di Flavio Giuseppe; costui, nel suo servilismo verso i Romani, affermò che le sacre Scritture ebraiche, parlando del futuro Messia, avevano alluso all’imperatore Vespasiano (Guerra giud., VI, 312-313). È superfluo dire che della febbrile aspettativa comune s’approfittarono, ai tempi di Gesù e dopo, moltissimi ciurmadori ricordati occasionalmente da Flavio Giuseppe, i quali si spacciavano alle ansiose plebi come inviati di Dio. I loro tentativi finivano naturalmente in maniera o tragica, sotto le spade dei Romani, o ridicola, tra le beffe dei connazionali eppure, tanta era la fiducia riposta in essi dal popolino, che perfino quando Gerusalemme era già invasa dai Romani e il Tempio era già in fiamme, cotesti falsi profeti messianici trovavano seguaci disposti a credere imminente l’intervento taumaturgico di Dio (cfr. Guerra giud., VI, 285-288). Diffondendosi ulteriormente, il messianismo nazionalistico invase anche il campo dell’escatologia, e intrecciandosi più o meno strettamente con le credenze dei tempi estremi offrì ampio materiale alla letteratura apocalittica contemporanea.

• § 84. L’apocalittica è una particolare forma letteraria che si presenta - come dice il suo nome («svelo cose segrete» da parte di Dio) - quale rivelatrice di fatti futuri, specialmente delle ultime sorti dell’umanità intera e d’Israele. Ha perciò molte analogie con la letteratura «profetica», ma ha pure rilevanti divergenze da essa. L’apocalittica fu in realtà un succedaneo allo scritto «profetico», e mirò anch’essa ad assicurare il trionfo finale del bene sul male e d’Israele sulle nazioni pagane; ma si ritrovò in altre circostanze storiche, ed impiegò artifizi letterari differenti. L’antico profetismo si era proposto di correggere la nazione contemporanea, riferendosi ai tempi presenti e preparando i futuri: l’apocalittica invece fu più radicale, e con un pessimismo fondamentale proclamò il fallimento di tutto il mondo contemporaneo, che doveva essere rinnovato ab imis (totalmente, ndR) ed attraverso una palingenesi doveva far posto a nuovi cieli e nuova terra, in cui finalmente avrebbero trionfato il bene ed Israele. Il profetismo aveva bensì appellato all’epoca messianica ma in funzione correttiva dei tempi presenti, presentandola quale condizionato premio del rinsavimento d’Israele: l’apocalittica, al contrario, ne parlò incondizionatamente come di oggetto d’un assoluto decreto divino, e soprattutto contemplò quell’epoca come affatto indipendente dalla condotta attuale d’Israele. Siffatto atteggiamento, così sfiduciato del presente e così proteso verso il futuro, era conseguenza sia delle sciagure politiche, le quali dai tempi dei Seleucidi in poi si erano rovesciate periodicamente sulla nazione, sia della progressiva decadenza interna cagionata dal dilagante ellenismo. Evidentemente, un mondo - o come si diceva un «secolo» - così tenacemente iniquo non poteva sussistere più oltre; doveva ben venire dies irae, dies illa (Sofonia, 1, 15), che solvet saeculum in favilla, e appunto questa conflagrazione cosmica sarebbe stata l’inizio dell’auspicata palingenesi! Ma quanto alla data di questa palingenesi, l’apocalittica andò spesso a ritroso all’ansiosa attesa diffusa, relegando il solenne avvenimento in un vago ma remoto futuro; si mostrava con ciò nuovamente il pessimismo cagionato dalle circostanze storiche contemporanee, ma insieme la fiducia che le antiche promesse non sarebbero fallite.

• § 85. Letterariamente, l’apocalittica non inventò di sana pianta le sue forme, ch’erano già state impiegate parzialmente da precedenti scritti, ma le sviluppò ed accrebbe grandemente. Essa attribuisce quasi sempre le proprie rivelazioni a venerati personaggi dell’antichità (Henoch, Mosè, Elia, ecc.), e fa annunziare da essi in forma profetica avvenimenti apparentemente futuri, i quali sono in realtà avvenimenti passati per il vero compositore dell’apocalisse: questa falsa attribuzione era una commendatizia per lo scritto, conciliandogli in parte quell’autorità che non si poteva più avere dopo il tramonto del profetismo. Artifizi letterari frequentissimi dell’apocalittica sono la «visione» e il simbolo, che spesso si fingono rimanere incompresi dagli uditori a cui si rivolge il personaggio che parla (in Zacharia, cap. 4 segg., un angelo funge da interprete dei simboli), mentre per i contemporanei del vero autore sono allegorie ben chiare di avvenimenti passati. Le descrizioni escatologiche sono minuziose, e il «secolo futuro» è analizzato nelle minime particolarità. Assai sviluppata è pure l’angelologia, e gli spiriti buoni o cattivi appaiono in funzioni di cooperatori o di avversari di Dio nella sua lotta contro il male, che finirà sconfitto. I temi più frequenti, entro il gran quadro degli avvenimenti messianici, sono la lotta degli imperi pagani contro Dio e contro Israele, l’adunata delle dodici tribù disperse, il cataclisma dell’intero cosmo, il trionfo dei giusti nel regno del Messia, la resurrezione dei morti e il giudizio di tutto il genere umano, lo stato finale dei giusti e degli empi.

• § 86. Crediamo opportuno, per dare un’idea concreta, aggiungere qui un riassunto del più ampio ed antico scritto apocalittico apocrifo già più volte allegato, l’etiopico Libro di Henoch. È una produzione non di getto ma di compilazione, nella quale sono confluiti vari scritti precedenti, sorti fra il II e il I secolo av. Cr. in Palestina, in lingua ebraica od aramaica: l’intera compilazione fu poi tradotta in greco, e di qui in etiopico verso il secolo V. Servì da repertorio a scrittori di apocalissi posteriori Libro dei Giubilei; Testamenti dei XII Patriarchi; ecc.), fu allegata con venerazione da Padri cristiani, ed ha pure stretta parentela con un passo del Nuovo Testamento (cfr. Giuda, vers. 14-15, con Henoch, 1, 9). Eccome il riassunto. CAPP. 1-5: Servono da introduzione. Il protagonista Henoch descrive il giudizio futuro, secondo notizie comunicategli dagli angeli con l’incarico di trasmetterle agli uomini; nel giudizio si assegnano pene agli angeli prevaricatori e agli uomini empi, e premi ai giusti. CAPP. 6-16: Duecento angeli prevaricano avendo commercio con le figlie degli uomini, e svelano ad esse gran quantità di segreti magici, terapeutici, ecc.; perciò sono puniti. CAPP. 17-36: Henoch viaggia nel cosmo superiore e inferiore, guidato da un angelo che spiega le cose misteriose: fra altro, egli vede in alto i magazzini delle varie meteore, le camere degli astri, ecc.; visita il paradiso terrestre e il luogo dei dannati; conosce i nomi e gli uffici dei sette arcangeli, il peccato delle sette stelle incatenate per diecimila secoli, ecc. CAPP. 37-71: È il «Libro delle parabole». La prima descrive la lotta fra il mondo superiore e quello inferiore, che rimane sopraflatto nel giorno del giudizio quando si rivela il Regno dei santi; la seconda presenta l’avvento e il trionfo del «figlio dell’uomo» e la vittoria messianica sugli empi; la terza parabola descrive la beatitudine degli eletti dopo l’attuazione del Regno messianico; infine (CAPP. 70-71) Henoch è assunto in cielo ad ammirare le meraviglie. CAPP. 72-82: È il cosiddetto «Libro astronomico», che tratta del moto degli astri, delle varie leggi cosmiche e fisiche, ecc. CAPP. 83-90: Vi si contengono visioni avute in sogno: la prima tratta del diluvio universale; l’altra presenta personaggi e periodi della storia ebraica, da Adamo fino a Giuda Maccabeo, sotto simboli di animali: il Messia è simboleggiato in un toro bianco con grandi corna, emblema di potenza. CAPP. 91-105: Vi è contenuta dapprima (con alcuni spostamenti) una visione di dieci settimane corrispondenti a dieci periodi della storia del mondo, quindi una serie di esortazioni e minacce rivolte da Henoch ai suoi figli. FINE.

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti, 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.

Comunicato numero 81. Pratiche e credenze del Giudaismo all’epoca di Gesù (prima parte)

Stimati Associati e gentili Sostenitori, oggi diamo inizio allo studio del capitolo: «Pratiche e credenze del Giudaismo» all’epoca di Gesù. Abate Giuseppe Ricciotti («Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, 7a Edizione, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941),

• § 68. Fra tutte le prescrizioni esterne della religione giudaica le due principali ai tempi di Gesù erano il rito della circoncisione e l’osservanza del sabbato. Specialmente contro questi due pilastri del giudaismo aveva indirizzato la sua violenza la persecuzione scatenata in Palestina da Antioco IV Epifane nel 167 av. Cr.; ma i pilastri, sebbene scalfiti, avevano resistito. Succeduta la pace religiosa e l’autonomia nazionale, i due pilastri non solo furono anche più rafforzati, ma per naturale reazione furono fatti scendere tali quali dal cielo. Poco prima del 100 av. Cr. un Giudeo palestinese, molto zelante e forse Fariseo, l’autore dell’apocrifo Libro dei Giubilei, era in grado d’informare che gli angeli in cielo osservano ambedue queste prescrizioni del giudaismo, perché sono circoncisi (XV, 27) e rispettano il sabbato; anzi il sabbato è osservato in cielo da Dio stesso (II, 19, 21). La successiva tradizione rabbinica s’inoltrò su questa strada. Si affermò che nel mondo di là Abramo sederà all’ingresso della Gehenna e non permetterà che vi discenda alcun Israelita circonciso; tuttavia, qualora ad Abramo si presenti tale Israelita che in vita sua sia stato un insigne furfante, il patriarca degli Ebrei prima gli cancellerà miracolosamente le tracce della circoncisione, e solo dopo ciò lo caccerà nella Gehenna (Genesi Rabba, XLVII, 8): con la circoncisione, insomma, non si entrava nella Gehenna, e altrettanto - a quanto pare - si otteneva mediante l’osservanza del sabbato. Si tratta evidentemente di speciali credenze più o meno diffuse fra dotti e plebei, ma che ad ogni modo sono segnalazioni importanti di un dato stato d’animo.

• § 69. La circoncisione era il segno d’appartenere alla nazione prediletta del Dio Jahvè, l’attestato di partecipazione alla discendenza spirituale di Abramo e ai vantaggi dell’alleanza da lui stretta con Jahvè (Genesi, 17, 10 segg.). Perciò il massimo obbrobrio dei pagani, agli occhi di un Israelita, era quello di essere incirconcisi, e con questo appellativo erano essi chiamati quando si voleva infliggere loro la massima umiliazione. Il bambino riceveva la circoncisione l’ottavo giorno dalla sua nascita: l’operazione poteva essere compiuta da qualunque Giudeo, preferibilmente dal padre del bambino, e di solito si praticava in casa. In questa occasione s’imponeva ufficialmente il nome al bambino.

• § 70. L’osservanza del sabbato era soggetto di minutissime prescrizioni da parte dei rabbini: se ne può avere un concetto da molti passi del Talmud, e specialmente dai suoi due trattati Shabbath e Erubin (anche in questo scritto stiamo “accomodando” alcuni caratteri, ndR), dedicati quasi esclusivamente a quest’argomento. Il precetto del sabbato, applicato in tutto il suo rigore, avrebbe importato l’astensione da qualsiasi lavoro d’ogni genere: quindi anche l’astensione dal difendere la propria vita minacciata a mano armata, come non la difesero parecchi Giudei durante la persecuzione di Antioco IV Epifane (I Maccabei, 2, 31-38), e inoltre l’astensione da tutto ciò che è necessario per soddisfare le necessità corporali, come se ne astenevano gli Esseni (Guerra giud., II, 147); (§ 44). Ma, evidentemente, siffatto rigore non poteva conciliarsi con le esigenze della vita sociale: di qui le numerose norme rabbiniche, che cercavano di mantenere per quanto era possibile il principio teoretico pur non escludendo le urgenze pratiche. Sono elencati 39 gruppi di azioni con cui, secondo i rabbini, si violava il sabbato (Shabbath, VII, 2); tali erano i casi di sciogliere o stringere un nodo di fune, di spegnere una lampada, di eseguire due punti di cucito (numericamente due), di scrivere due lettere (d’alfabeto), ecc. Tuttavia la casuistica degli stessi rabbini alleggeriva spesso il rigore delle norme generiche: così, riguardo alla proibizione di sciogliere un nodo di fune, ad esempio della cavezza d’un cavallo, Rabbi Meir sentenziò che se un cammelliere poteva scioglierlo con una sola mano, non c’era violazione del sabbato; parimenti era proibito stringere un nodo per calare una secchia nel pozzo, ma fu sentenziato che se il nodo era fatto non con una fune ma con una benda qualsiasi, non c’era violazione del sabbato. E i casi d’interpretazione benigna si moltiplicarono grandemente. Ad essi è dedicato specialmente il trattato Erubin, che mediante artificiosità giuridiche mira a rendere lecito il trasporto fuor della propria casa o terra di un dato oggetto, mentre ogni trasporto sarebbe stato proibito anche se si trattava di un fico secco (Shabbath, VII, 3 segg.); lo stesso trattato mira anche ad aumentare la misura del passeggio o cammino permessi di sabbato, che regolarmente non doveva superare i 2000 cubiti, cioè circa 900 metri.

• § 71. Il sabbato giudaico cominciava, conforme al computo del calendario ebraico, dal tramonto del nostro venerdì e durava fino al tramonto del nostro sabbato. Il pomeriggio del venerdì era chiamato «vigilia del sabbato» o anche «parasceve» cioè «preparazione»; quest’ultimo appellativo era dovuto al fatto che in quel pomeriggio si preparava tutto l’occorrente per l’inoperoso sabbato, a cominciare dai cibi, giacché una delle 39 azioni proibite di sabbato era quella d’accendere il fuoco. Il rigore del riposo sabbatico poteva bensì cedere a ragioni di natura superiore, ma anche qui continuava la minuziosità casuistica dei rabbini. Di sabbato, quindi, era permessa la circoncisione, ma con talune limitazioni riguardo agli atti accessori; era lecito preparate il sacrificio della Pasqua, ma tralasciando ciò che non era strettamente necessario; il sacerdote di servizio nel Tempio poteva compiere gli atti materiali della liturgia prescritta, e se si feriva un dito poteva medicarselo dentro il Tempio stesso, ma non già fuori. Riguardo all’assistenza sanitaria si era stabilita la norma che il riposo del sabbato era superato dal pericolo di vita, ma come al solito la norma riceveva precisazioni di vario genere: il Talmud permette a chi abbia dolor di denti di sciacquarseli con aceto, purché dopo lo inghiottisca (giacché ciò è prender cibo), ma non gli permette di risputarlo fuori (giacché ciò sarebbe prendere una medicina) (Tosefta Shabbath, XII, 9): parimente permette a chi abbia la mano o il piede lussati di bagnarli nell’acqua fredda come al solito (lavanda quotidiana), ma non già di agitarveli dentro (lavanda medicinale) (Shabbath, XXII, 6). Astrazione fatta da questa soffocante legislazione, il sabbato era per il giudaismo giorno di letizia e di religiosa spiritualità. Il Talmud stesso prescrive di riserbare a questo giorno i cibi migliori, preparati però alla vigilia; si usavano anche ornamenti e vesti festive. Buona parte del tempo si impiegava in pratiche religiose alla sinagoga o in casa propria, o in pie letture favorite anche dalla forzata inoperosità.

• § 72. Se la circoncisione riguardava il Giudeo una sola volta nella vita e il sabbato una sola volta la settimana, esisteva un complesso di leggi che non lo lasciavano immune giammai, accompagnandolo in ogni sua azione e in ogni ora del giorno e della notte: erano le leggi sulla purità e l’impurità. Per il Giudeo la macchia morale del peccato non avveniva senza una specie di macchia anche fisica, come per contrario il contatto fisico con determinati oggetti ch’erano effetto di peccato o in qualche maniera rispecchiavano il peccato, produceva in chi li toccava una minorazione spirituale, una specie di macchia morale. I casi erano innumerevoli, e ben più del riposo del sabbato fornirono argomento inesauribile alla legislazione rabbinica. Dei sei «ordini» o grandi sezioni in cui è divisa la Mishna - cioè la parte fondamentale del Talmud e commentata da esso - un intero ordine, Tohoroth «purità», composto di 12 trattati, tratta di questo argomento. Per avere una vaga idea del contenuto, basterà citare i nomi dei trattati. Kelim, «vasi»; sui vasi e altri oggetti di famiglia e la loro purità. Ohaloth, «tende»; sulla purità delle abitazioni specialmente in caso della presenza d’un cadavere. Nega’im, «piaghe»; sulle manifestazioni della lebbra. Parah, «vacca»; sulla vacca rossa (cfr. Numeri, 19). Tohoroth, «purità»; sulle impurità che cessano col tramontare del sole. Miqwa’oth, «bagni»; sui requisiti dei serbatoi d’acqua. Niddah, «mestruazione»; su tale argomento. Makshirin, «preparazioni»; sui liquidi che comunicano impurità. Zabin, «effondenti»; su uomini affetti da perdite sessuali. Tebul’jom, «immerso nel giorno»; su chi ha subito l’immersione purificatrice, ma non è puro fino al tramonto. Jadajim, «mani»; sulle purità delle mani. Uqsin, «picciuoli»; sui picciuoli delle frutta come trasmettitori d’impurità. Ognuno di questi 12 trattati, contenenti da un minimo di 3 capitoli a un massimo di 30, scende a tale minuziosità di casi e di relativi precetti, che è impossibile riassumerli anche sommariamente. Né è da credere che siffatta congerie di prescrizioni fosse suggerita da mire semplicemente igieniche, o si potesse prendere alla leggiera; al contrario, lo spirito che le dettava era strettamente religioso e chi non le avesse osservate avrebbe violato precetti sacri. Troviamo infatti sentenze rabbiniche di questo genere: Chi mangia pane senza lavarsi le mani, è come uno che frequenta una meretrice; (...) chi trascura di lavarsi le mani, sarà sradicato dal mondo (Sotah, 4 b). Altrove si domanda chi sia uno del «popolo della terra», cioè uno di coloro che secondo il grande Hillel non temevano il peccato e non erano pii (§ 40), e si risponde che è tale chi mangia il suo cibo profano non in stato di purità, cioè senza lavarsi le mani (Berakhoth, 47 b). Altrove ancora sono riportate sentenze di scomunica pronunziate contro chi trascurava di lavarsi le mani prima del pasto (Berakhoth, 19 a; Edujjoth, V, 6). Si estendano queste prescrizioni, e le loro relative sanzioni, dalla lavanda delle mani alle varie specie di cibi puri o impuri, e alle mille altre azioni della vita quotidiana contemplate nei suddetti 12 trattati, e si avrà una qualche idea della rigidissima clausura che la casuistica dei rabbini imponeva alla vita sociale in forza d’un principio religioso. Su tutta quella fioritura di sentenze si adagiavano come su un letto di rose i legisti Farisei, i quali invitavano il pio Israelita a fare altrettanto se voleva osservare davvero i comandamenti del Dio Jahvè; ma il pio Israelita, che provava effettivamente ad adagiarvisi, ci si ritrovava come su un letto di spine, le quali laceravano ogni momento la sua ansiosa coscienza senza dargli alcun refrigerio di religiosità intima.

• § 73. Ciò avveniva nell’enorme maggioranza dei casi, in cui non si andava più in là del puro formalismo. Tuttavia non mancarono spiriti eletti che, scendendo più profondamente, raggiunsero la spiritualità religiosa da cui avrebbero dovuto essere animate le osservanze di quella purità legale che già era stata stabilita nell’Antico Testamento. In tal senso un maestro di poco posteriore a Gesù, cioè Johanan ben Zakkai morto verso l’80 dopo Cristo poté ammonire i suoi discepoli: Nella vostra vita né il morto rende impuro, né l’acqua rende puro, bensì è la prescrizione del Re dei re; Iddio ha detto: “Io ho stabilito una norma, io ho imposto una prescrizione; nessun uomo ha il diritto di trasgredire la mia prescrizione” (Pesiqta, 40 b). Disgraziatamente perle siffatte sono estremamente rare nell’oceano della causistica rabbinica.

• § 74. Oltre al sabbato, festa settimanale, il giudaismo osservava altre feste periodiche, di cui le principali erano la Pasqua, la Pentecoste e i Tabernacoli. Queste tre erano chiamate «feste di pellegrinaggio», perché ogni Israelita maschio giunto a una certa età (nel fissare la quale non erano ben d’accordo i rabbini) era obbligato a recarsi al Tempio di Gerusalemme. La solennità della Pasqua si celebrava nel mese chiamato Nisan, che andava circa dalla metà del nostro marzo alla metà di aprile. La Pasqua cadeva la sera del giorno 14 di detto mese, ma si riconnetteva immediatamente con «la festa degli azimi» che si celebrava nei sette giorni seguenti (15-21 Nisan); perciò praticamente questi otto giorni (14-21) erano chiamati sia Pasqua sia Azimi. Fin dalle ore 10 o 11 del giorno 14 Nisan ogni minimo frammento di pane fermentato era fatto scomparire da tutte le case giudaiche, essendo di stretto rigore per il resto di quel giorno e per tutti i sette giorni seguenti l’uso del pane azimo. Nel pomeriggio dello stesso giorno 14 avveniva l’immolazione delle vittime pasquali, cioè degli agnelli. L’immolazione era fatta nell’atrio interno del Tempio, dal capo di famiglia o di gruppo che recava l’agnello; il sangue delle vittime era raccolto e quindi consegnato ai sacerdoti, i quali lo spargevano presso l’altare degli olocausti; subito dopo l’immolazione, nell’atrio stesso del Tempio la vittima era spellata e privata di alcune parti interne, e dopo questa preparazione era riportata nella famiglia o nel gruppo a cui apparteneva. In quel pomeriggio del 14 Nisan gli atrii del Tempio diventavano necessariamente tutto un carnaio sanguinolento. Enorme, infatti, era l’affluenza di Giudei provenienti sia dalla Palestina sia dalla Diaspora, e non potendo l’atrio del Tempio contenere tutti insieme coloro che vi venivano a scannare l’agnello, si stabilivano da circa le 2 pomeridiane in poi tre turni d’accesso, e fra un turno e l’altro si chiudevano le porte d’entrata. Flavio Giuseppe ci fornisce occasionalmente un computo preciso fatto nell’interesse delle autorità romane ai tempi di Nerone, probabilmente nell’anno 65, da cui risulta che nel solo pomeriggio pasquale di quell’anno furono scannate ben 255.600 vittime (Guerra giud., VI, 424); un gregge siffatto, benché di agnelli, era bastevole a produrre come un lago di sangue da far rosseggiare tutti i lastricati e i muri del Tempio.

• § 75. Riportato in famiglia, l’agnello immolato era arrostito la sera stessa per il banchetto pasquale. Questo cominciava dopo il tramonto del sole per prolungarsi regolarmente fino alla mezzanotte, ma talvolta anche oltre. A ciascuna mensa partecipavano non meno di dieci persone e non più di venti, che prendevano posto su bassi divani sdraiandovisi per lungo in maniera concentrica alla tavola delle vivande. Era di prescrizione che vi circolassero almeno quattro coppe di vino rituali, tuttavia anche altre non rituali potevano circolare prima della terza rituale, ma non già fra la terza e la quarta: non risulta con sicurezza se tutti i commensali bevessero a una stessa coppa, d’ampie dimensioni, ovvero ciascuno avesse la propria; forse ambedue le usanze erano ammesse. Si cominciava mescendo la prima coppa e recitando una preghiera, con cui si benediceva in primo luogo la giornata festiva e poi il vino (o viceversa, secondo un’altra scuola rabbinica). Quindi si recavano in tavola, insieme con il pane azimo, erbe agresti e una salsa speciale (haroseth) nella quale s’intingevano le erbe; dopo ciò, si recava l’agnello arrostito. Si mesceva allora la seconda coppa, e il capo famiglia, di solito dopo una domanda convenzionale del figlio, faceva un piccolo discorso per spiegare il significato della festa, ricordando i benefizi del Dio Jahvè verso la prediletta nazione e la liberazione di questa dall’Egitto. Si consumava quindi l’agnello arrostito insieme con le erbe agresti, mentre circolava la seconda coppa. Si passava poi a recitare la prima parte dell’Hallel, inno costituito dai Salmi ebraici 113-118 (Vulgata 112-117); dopo di che si recitava una benedizione con cui cominciava un vero banchetto, preceduto dalla usuale lavanda di mani ma non regolato da particolari cerimonie e costituito da vivande varie. Si mesceva quindi la terza coppa, e si pronunziava una preghiera di ringraziamento; poi si recitava la seconda parte dell’Hallel, e infine si mesceva la quarta coppa. Questo è il rito della Pasqua giudaica qual è descritto, pur con talune imprecisioni, dalla tradizione rabbinica (Pesahim, X, 1 segg.); si può ritenere che esso rispecchi, almeno nelle linee generali, l’uso seguito ai tempi di Gesù dalla corrente dei Farisei, e perciò anche dalla gran maggioranza del popolo che le andava appresso.

• § 76. La festa successiva alla Pasqua era quella detta delle (sette) Settimane, o Pentecoste quest’ultimo appellativo è greco «cinquantesima giornata» e designa, come il precedente, lo spazio di tempo che divideva la Pentecoste dalla Pasqua. La festa durava un sol giorno, in cui si offrivano al Tempio i nuovi pani della messe testé compiuta, insieme con sacrifizi speciali; non era festa di carattere molto popolare, tuttavia era assai frequentata da Giudei che venivano dalle varie regioni lontane della Diaspora, cadendo la festa nella stagione propizia alla navigazione e ai lunghi viaggi. Circa sei mesi dopo la Pasqua veniva la festa detta dei Tabernacoli o delle Capanne, che cadeva ai 15 del mese Tishri, cioè tra la fine di settembre e il principio di ottobre, e durava otto giorni. Era festa gaia e popolarissima, e poiché ricordava la dimora degli antichi Ebrei nel deserto e insieme celebrava la fine della vendemmia e delle raccolte agricole, il popolo sulle piazze e sulle terrazze costruiva con verdi rami capanne a guisa di tabernacoli, e ivi s’intratteneva: donde il nome della festa. Inoltre si andava al Tempio recando con la mano destra un fascetto di palma con mirto e salice (il Lulab o Lolab, frequentemente raffigurato nelle catacombe giudaiche), e con la sinistra un frutto di cedro. Nella notte del primo giorno della festa il Tempio era illuminato sfarzosamente, e nelle mattine dei primi sette giorni un sacerdote spandeva sull’altare una piccola quantità d’acqua attinta processionalmente alla fonte di Siloe.

• § 77. Ai 10 dello stesso mese Tishri cadeva la solennità dell’Espiazione o del Kippur, ch’era di riposo e di digiuno assoluto. In essa officiava il sommo sacerdote in persona, che entrava - questa sola volta in tutto l’anno - nel «santo dei santi» del Tempio (§ 47), e compieva la simbolica liturgia del capro espiatorio (Levitico, 16; Ebrei, 9, 7). Feste di carattere popolare erano anche altre due. Quella delle Encenie o della Dedicazione, che cadeva ai 25 del mese Kislew (fine di dicembre), durava otto giorni e ricordava la riconsacrazione del Tempio fatta da Giuda Maccabeo nel 164 av. Cristo: si chiamava anche «festa dei lumi», per le grandi luminarie che vi si accendevano, ed aveva l’indole di un trionfo nazionalistico. La festa dei Purim «sorti», che scadeva ai 14 e 15 del mese Adar (febbraio-marzo), ricordava la liberazione dei Giudei per mezzo delle sorti ai tempi di Esther. Sebbene solo in occasione del Kippur fosse d’obbligo il digiuno per ogni Giudeo, tuttavia si osservavano anche altri digiuni pubblici o privati. Molti digiunavano spontaneamente quando cadevano gli anniversari di calamità passate, ad esempio della distruzione di Gerusalemme fatta da Nabucodonosor nel 586 av. Cr.; ma digiuni pubblici potevano essere anche prescritti dal gran Sinedrio in occasione di calamità presenti, come epidemie, siccità e simili. Frequenti erano anche i digiuni fatti per devozione privata; specialmente i Farisei tenevano molto al digiuno del lunedì e del giovedì.

• § 78. I concetti religiosi del giudaismo ai tempi di Gesù sono stati oggetto di ampi ed accurati studi recenti, i quali giustamente hanno messo a profitto i vari scritti apocrifi e rabbinici che nel passato erano di solito trascurati. Si ritrova pertanto che in quei concetti i princìpi fondamentali dell’antica religiosità ebraica sono generalmente conservati, ma spesso sono stati modificati, talvolta anche travisati, e soprattutto hanno ricevuto applicazioni e sviluppi di cui non esiste traccia negli antichi scritti dell’ebraismo. Esamineremo brevemente alcuni di quei concetti che abbiano più attinenza con la vita di Gesù. La fede nel mondo degli spiriti è assai più sviluppata che ai tempi immediatamente successivi all’esilio di Babilonia e più ancora che ai tempi ad esso anteriori. Occasione a questo sviluppo fu il contatto avuto durante e dopo l’esilio con i Persiani, il cui mazdeismo aveva un’ampia angelologia tuttavia la fede giudaica negli spiriti si contiene sempre dentro l’ortodossia di un rigoroso monoteismo, perché ignora il principio dualistico del mazdeismo, considera tutti gli spiriti come esseri subordinati all’unico Dio, né estende agli spiriti il culto proprio alla Divinità. Innumerevoli sono gli spiriti e distinti in due categorie, buoni e cattivi: i primi sono ministri particolari della Divinità e amici dell’uomo, i secondi sono subordinati alla potenza divina ma ostili ad essa e nemici dell’uomo. Gli uni e gli altri, benché spirituali, non sono totalmente immateriali, bensì provvisti come d’una sostanza eterea e fluente, che è luminosa od opaca a seconda delle qualità buone o cattive dei singoli spiriti. Specialmente gli scritti apocrifi, che rappresentano spesso le credenze più divulgate e popolari, sono informatissimi circa il mondo degli spiriti. Di quei buoni, alcuni sono chiamati «angeli della Faccia», perché stanno perennemente dinanzi alla faccia di Dio, altri sono gli «angeli del Ministero», perché inviati per ministero presso gli uomini. Di questi ultimi, una parte è addetta al governo degli astri e della terra, un’altra a quello delle varie stirpi e nazioni umane o anche dei singoli individui; taluni fanno da guida alle anime dei morti nel loro cammino d’oltretomba, altri hanno l’incarico di tormentare i demonii. Esiste anche una gerarchia fra gli spiriti buoni: oltre alle classi dei Seraphim e dei Kerubim, già note all’antico ebraismo, appare la classe degli Ophanim, i quali non dormono mai facendo la guardia al trono della maestà (divina) (Henoch, 71, 7 segg.). Sette particolari spiriti si tengono sempre alla presenza della Divinità, e quattro di essi sono Michele, Rafaele, Gabriele e Uriel: quest’ultimo è scambiato spesso con Fanuel (cfr. Henoch, 9, 1; 20, 1-8; 40, 9-10; ecc.). Ordinariamente Michele è il vindice della gloria di Dio; Rafaele è l’angelo delle guarigioni corporali; Gabriele è l’angelo delle rivelazioni particolari; UrieI è il conoscitore dei fatti occulti. Si era incerti a quale dei sei giorni della creazione assegnare la creazione degli angeli: taluni l’assegnavano al primo giorno, altri al secondo, altri al quinto. Incerta era anche l’origine degli spiriti cattivi: secondo alcuni, essi erano gli spiriti dei «giganti», nati dal commercio di alcuni angeli che si lasciarono sedurre dalle figlie degli uomini (cfr. Genesi, 6, 1 segg.); ma più attestata è l’altra opinione secondo cui gli spiriti cattivi sono antichi angeli decaduti dal loro stato di gloria. Loro capo è un essere che dapprima era stato chiamato con appellativo comune il satan, cioè «l’accusatore», «l’avversario», sempre preceduto dall’articolo: più tardi, invece, questo appellativo divenne nome proprio, perdendo l’articolo, Satan; altri suoi appellativi più recenti sono quelli di Belial (Beliar), Beelzebul (Beelzebub), Asmodeo, Mastema, e qualche altro di provenienza varia. Gli spiriti cattivi vagano negli strati aerei più bassi, o dimorano in luoghi deserti, fra ruderi, nelle tombe, in altri luoghi impuri, talvolta anche in edifici abitati dall’uomo: spesso prendono sede nel corpo stesso dell’uomo, impossessandosi di lui. Dentro e fuori queste dimore agiscono essi, a preferenza di notte, sempre per insidiare e danneggiare gli uomini. I mali, fisici o morali, sono causati o favoriti da essi, che arrecano malattie, infortuni, demenza, scandali, discordie, guerre: essi tentano i giusti, guidano gli empi, diffondono l’idolatria, insegnano la magia, si oppongono insomma sistematicamente alla Legge del Dio d’Israele. Prosegue ...

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti, 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.

Segnalazione: Modena, 14/10/2017. Seminario di studi:  «Della setta massonica»

Modena, 14/10/2017: «Della setta massonica». Sabato 14 ottobre 2017, presso il salone delle conferenze del Ristorante «Vinicio» (sito web) a Modena, in Via Emilia Est n° 1526, frazione Fossalta, la rivista «Sodalitum» (sito web) e il Centro Studi «Giuseppe Federici» (sito web) presentano la XIIa GIORNATA PER LA REGALITÀ SOCIALE DI CRISTO, col seminario di studi: «DELLA SETTA MASSONICA. 1717 – 2017: i tre secoli della massoneria moderna» (qui l'evento su Facebook).

Vi sarà un’esposizione di libri e oggettistica a cura di case editrici ed Associazioni culturali. A Dio piacendo, sarà distribuito in anteprima il Catechismo mariano di Padre Gabriele M. Roschini.

Programma della giornata: – ore 10:30 caffè di benvenuto; – ore 11:00 recita del «Veni Sancte Spiritus», presentazione della giornata e apertura dell’esposizione; – ore 11:15 prima lezione: «Le origini e la fondazione della setta»; – ore 12:15 pausa per il pranzo; – ore 15:00 seconda lezione: «L’enciclica Humanum Genus di Leone XIII»; – ore 16:00 pausa; – ore 16:30 terza lezione: «Massoni, modernisti, tradizionalisti»; – ore 17:30 conclusione della giornata con il canto del «Christus Vincit».

Le lezioni saranno tenute da don Francesco Ricossa, direttore della rivista «Sodalitium».

L’ingresso al seminario di studi e all’esposizione è libero. Non è permessa la distribuzione di materiale informativo da parte di Associazioni non accreditate con l’Organizzazione. La quota per il pranzo è di 30 euro a persona. È necessario iscriversi al pranzo entro giovedì 12 ottobre 2017 presso il Centro Studi «Giuseppe Federici». 

Il Ristorante «Vinicio», in Via Emilia Est, 1526, frazione Fossalta di Modena, tel. 059.280313, si raggiunge: – dal casello autostradale di Modena Sud seguendo le indicazione per Castelfranco Emilia; raggiunta la Via Emilia svoltare a destra; – dalla stazione ferroviaria di Modena con l’autobus n. 760 e 751.

Per informazioni e iscrizioni al pranzo: Centro Studi «Giuseppe Federici», Via Sarzana, 86 - 47822 Santarcangelo (RN), Tel. 0541.75.89.61, e-mail: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo..

 

Comunicato numero 80. Il grande Sinedrio e la Sinagoga all’epoca di Gesù

Stimati Associati e gentili Sostenitori, andiamo avanti nello studio dei capitoli: «Il gran Sinedrio» e «La Sinagoga» all’epoca di Gesù. Abate Giuseppe Ricciotti («Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, 7a Edizione, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941),

• § 57 Dopo il sommo sacerdozio, l’istituzione massima del giudaismo ai tempi di Gesù era il gran Sinedrio, supremo consesso nazionale-religioso. Sebbene la tradizione rabbinica ne attribuisca la fondazione a Mosè, le sue vere origini non risalgono più in su del secolo II av. Cristo, allorché i monarchi Seleucidi, che dominavano in Palestina, sancirono anche in Gerusalemme la forma di governo locale già in vigore in molte città ellenistiche: attribuirono, cioè, autorità legale al consiglio degli anziani che presiedeva agli affari della città, riconoscendo ad esso la potestà di legiferare in materia civile e religiosa subordinatamente al supremo potere monarchico; quindi le decisioni di quel consiglio, come della città principale del giudaismo, ebbero valore normativo anche per altri centri giudaici della monarchia Seleucida, sebbene questi avessero e conservassero i loro consigli locali chiamati anch’essi «sinedri» (cfr. Matteo, 10, 17; Marco, 13, 9). Il gran Sinedrio, dunque, sorse come forma di governo limitatamente autonoma concessa da monarchi stranieri: era perciò inevitabile che la sua autorità effettiva diminuisse, qualora sorgessero o una monarchia nazionale o un potere dispotico interno. Così, difatti, avvenne dapprima sotto i nazionali Maccabei-Asmonei, allorché il gran Sinedrio godé di vera potenza nei periodi in cui declinava quella della monarchia, e più tardi sotto il dispotico Erode, allorché al gran Sinedrio non rimase che un’ombra di potere. Al contrario, sotto i procuratori romani l’autorità del gran Sinedrio crebbe grandemente; i Romani, infatti, seguendo anche in Palestina la loro norma costante di lasciare ai popoli soggetti una libertà ch’era piena nel campo religioso e subordinata in quello degli affari civili interni, trovarono che al gran Sinedrio di Gerusalemme si poteva opportunamente affidare l’amministrazione di questa doppia libertà; inoltre il gran Sinedrio era composto in prevalenza di tre elementi aristocratici, che nelle province erano graditi ai Romani ben più degli innovatori rappresentanti del basso popolo.

• § 58. Il gran Sinedrio era composto di settantun membri, compreso il presidente ch’era il sommo sacerdote. I membri si spartivano in tre gruppi. Il primo gruppo era formato dai «sommi sacerdoti», e comprendeva sia coloro che erano già stati insigniti di tale ufficio, sia i membri principali delle famiglie da cui erano stati estratti i sommi sacerdoti; era dunque il gruppo dell’aristocrazia sacerdotale, seguace di princìpi sadducei, e il più potente ai tempi di Gesù. Il secondo gruppo era formato dagli Anziani, rappresentanti l’aristocrazia laica; erano quei cittadini che, per il loro censo o per altre ragioni, avevano acquistato un’autorità eminente nella vita pubblica e quindi potevano recare un contributo efficace nella direzione degli affari. Anche costoro appartenevano alla corrente sadducea. Il terzo gruppo era quello degli Scribi, o Dottori della Legge: formato in massima parte da laici e da Farisei (§ 41), contava tuttavia fra i suoi membri taluni sacerdoti e Sadducei. Era il gruppo popolare e dinamico per eccellenza, di fronte agli altri due aristocratici e statici: per conseguenza, con la catastrofe dell’anno 70, gli altri due gruppi scomparvero travolti dalla reazione popolare, e il gran Sinedrio restò costituito da soli Scribi. La giurisdizione del gran Sinedrio s’estendeva, in teoria, sul giudaismo di tutto il mondo: in pratica, ai tempi di Gesù, la sua autorità era ordinaria ed efficace in Palestina, straordinaria e fiacca nelle comunità giudaiche che stavano fuori della Palestina, e risultava tanto più debole quanto più queste comunità erano esigue o lontane. A quel supremo consesso nazionale i Giudei lontani ricorrevano solo eccezionalmente, di solito quando non potevano ottenere giustizia dai consessi o sinedri locali.

• § 59. Qualsiasi causa religiosa e civile, avente attinenza con la Legge giudaica, poteva essere giudicata dal gran Sinedrio; ma, nelle varie epoche, avvennero in pratica le limitazioni di potere che già rilevammo. All’epoca dei procuratori romani le sentenze del gran Sinedrio avevano senz’altro valore esecutivo, e potevano essere applicate anche con ricorso alle forze di polizia giudaica o romana: soltanto un caso Roma aveva sottratto alla potestà esecutiva del gran Sinedrio, ed era il caso di sentenza capitale, la quale poteva bensì essere pronunziata da quel consesso, ma non già eseguita se non fosse stata individualmente confermata dal magistrato rappresentante di Roma. Del resto era una solenne norma giudiziaria di evitare il più possibile sentenze capitali, e sembra che effettivamente questa norma fosse seguita e che condanne a morte fossero rarissime; rabbini affermarono che un Sinedrio era troppo severo e rovinoso se pronunziava una sentenza capitale ogni sette anni, anzi secondo Rabbi Eleazar figlio d’Azaria ogni settanta anni, mentre Rabbi Tarphon e Rabbi Aqiba asserivano: Se noi fossimo membri del Sinedrio, nessuno mai verrebbe messo a morte (Makkoth, 1, 10 - Anche in questo caso stiamo adattando alcuni caratteri, ndR). Il Sinedrio era convocato dal sommo sacerdote, e teneva le sedute in un luogo chiamato l’«aula della pietra squadrata», ch’era situato presso l’angolo sud-occidentale del Tempio interno, quello accessibile ai soli Israeliti (§ 47); da quell’aula, verso l’anno 30 dopo Cr., si sarebbe trasferito in un luogo chiamato «taverna» , ma della situazione di questo luogo non si sa nulla e forse la notizia è inesatta. In casi speciali d’urgenza il Sinedrio poteva essere convocato anche nella dimora del suo presidente, il sommo sacerdote. Nei giorni di sabbato o di festività non si tenevano sedute.

• § 60. Ecco poi alcune notizie rabbiniche circa le usanze delle sedute e le norme dei processi. Il Sinedrio sedeva a semicerchio, in modo che (i suoi membri) si potevano vedere fra loro. Il presidente sedeva nel centro e gli anziani sedevano (per anzianità) a destra ed a sinistra di lui (Tosefta Sanhedrin, VIII, 1). Due segretari dei giudici sedevano dinanzi a loro, uno a destra e l’altro a sinistra, e raccoglievano i voti di coloro che pronunciavano assoluzione e di coloro che pronunciavano condanna. Rabbi Giuda diceva che ce n’erano tre; (oltre ai due) ce n’era un terzo che raccoglieva i voti di chi assolveva ed anche di chi condannava. La corte dell’aula della pietra squadrata, sebbene fosse composta di settantun membri, non ne aveva (mai presenti) meno di ventitré. Se qualcuno doveva uscire, dava prima uno sguardo: se erano in ventitré, usciva; altrimenti non usciva fino a che fossero in ventitré. Sedevano essi dall’«olocausto perenne» del mattino fino all’«olocausto perenne» della sera (che si offrivano nel Tempio circa alle 9 antimeridiane e alle 4 pomeridiane) (Tosefta Sanh., VII, 1). Le cause civili possono iniziarsi con la difesa o con l’accusa; le cause penali possono aprirsi solo con la difesa. Nelle cause civili è sufficiente la maggioranza di uno, sia per l’attore sia per il convenuto; nelle cause penali la maggioranza di uno assolve, ma per condannare è necessaria la maggioranza di due. Nelle cause civili i giudici possono rivedere la sentenza in favore sia dell’attore sia del convenuto; nelle cause penali possono rivedere la sentenza per assolvere non per condannare. Nelle cause civili i giudici possono tutti [concordemente] addurre argomenti in favore sia dell’attore sia del convenuto; nelle cause penali possono addurre argomenti per l’assoluzione, non per la condanna. Nelle cause civili il giudice che adduce argomenti a carico del convenuto può addurre a carico dell’attore, e viceversa; nelle cause penali il giudice che ha addotto argomenti per la condanna può in seguito addurne per l’assoluzione, ma chi ne ha addotti per l’assoluzione non può disdirsi e addurne per la condanna. Le cause civili si discutono di giorno e si concludono di notte; le cause penali si discutono di giorno e si concludono di giorno. Le cause civili possono essere concluse lo stesso giorno, sia con una sentenza di assoluzione sia con una condanna; le cause penali possono essere concluse il giorno stesso purché la sentenza non sia di condanna; se la sentenza è di condanna, il giorno seguente: per questa ragione non si discutono la vigilia del sabbato e delle feste. Nelle cause civili e nelle questioni di purità ed impurità rituale i giudici esprimono la loro opinione cominciando dal più anziano; nelle cause penali cominciando dai lati (ov’erano i più giovani, affinché su essi non influisse la sentenza dei più anziani) (Sanhedrin, IV, 1 segg.). I testimoni erano interrogati su sette punti: (Il fatto avvenne) in quale ciclo sabbatico? In quale anno? In quale mese? In quale giorno del mese? In quale giorno della settimana? In quale ora? In quale luogo?... Riconosci tu quest’uomo? Lo preavvisasti?... (Escussi poi i vari testimoni, i giudici) ascoltano pure l’accusato che affermi d’avere alcunché da dichiarare in sua difesa, purché nelle sue parole vi sia qualche fondamento. Se i giudici lo riconoscono innocente, lo liberano; altrimenti rimandano la sentenza al giorno appresso. Si uniscono a due a due, prendono parco cibo senza bere vino per l’intero giorno, e discutono nell’intera notte; il mattino appresso vanno di buon’ora al tribunale. Chi è per l’assoluzione dice: «Ero per l’assoluzione e rimango nella stessa opinione». Chi è per la condanna dice: «Ero per la condanna e rimango nella stessa opinione». Il giudice che già sostenne la colpabilità dell’accusato può adesso sostenere l’innocenza, ma non viceversa. Se commettono un errore nell’opinione che esprimono (affermando il contrario di quanto hanno affermato prima), i due scrivani dei giudici li correggono. Se dodici assolvono e undici condannano, l’accusato è dichiarato innocente. Se dodici condannano, e undici assolvono; come pure se undici assolvono, undici condannano, e uno si astiene; ovvero se ventidue assolvono e condannano, e uno si astiene: si aumenti il numero dei giudici. Fino a che numero? Per coppia fino a settantuno in tutto (il numero del gran Sinedrio in pieno). Se trentasei assolvono e trentacinque condannano, si dichiara innocente; se trentasei condannano e trentacinque assolvono, discutono fino a che uno dei propensi a condannare muti sentenza (Sanhedrin, V, 1-5). Queste, e molte altre norme, valevano in teoria, e ad ogni modo furono messe in iscritto molto dopo l’epoca di Gesù. All’atto pratico, e all’epoca di Gesù, si può ben credere che le cose andassero diversamente, specie in tempi turbinosi, o anche in tempi normali quando i giudici erano sotto l’influenza di passioni varie. Per i tempi turbinosi abbiamo l’esempio del beffardo processo svoltosi, sulla fine del 67 dopo Cr., contro Zacharia figlio di Baris (Baruch) davanti ad un burlesco tribunale di settanta membri adunato nel Tempio; nel Tempio stesso l’imputato, sebbene dichiarato innocente, fu ucciso (Guerra giud., IV, 335-344). Per i tempi normali abbiamo l’esempio del processo di Gesù.

• § 61. Oltre al gran Sinedrio di Gerusalemme, esistevano i sinedri minori, propri alle singole comunità giudaiche di Palestina e dell’estero. Ogni comunità ben costituita doveva averlo. Ne facevano parte i Giudei più eminenti del luogo, sotto la presidenza dell’archisinagogo. Questo sinedrio locale provvedeva all’amministrazione degli affari particolari alla sua comunità, applicando però le norme generali stabilite dal gran Sinedrio di Gerusalemme. Poteva anche costituirsi in tribunale, giudicando cause di minor importanza riguardanti i soggetti di sua giurisdizione: il giudizio poteva concludersi con condanne a multe pecuniarie o anche a pene corporali, quali la flagellazione fino a trentanove colpi (cfr. II Corinti, 11, 24). Chi si fosse ribellato alla sentenza del sinedrio locale, era escluso dalla comunità per un tempo più o meno lungo; l’esclusione perenne, pronunziata in realtà assai raramente, importava la maledizione ufficiale del condannato e la sua esclusione dal giudaismo.

• § 62. L’edificio chiamato oggi «sinagoga» fu essenzialmente un luogo di preghiera e d’istruzione religiosa: giustamente i pagani usavano chiamare questo edificio, che ai tempi di Gesù si era largamente diffuso nelle loro regioni, col nome di «oratorio». La funzione della sinagoga fu della massima importanza nella storia del giudaismo. Il suo scopo non fu già quello di sostituire l’unico Tempio israelitico, bensì di confermare ed estendere la sua efficacia quando esso esisteva ancora e di compensarla parzialmente dopoché fu distrutto. La sinagoga dunque non fu un contraltare al Tempio: ne fu piuttosto quasi un pronao spirituale e una cappella sussidiaria. La liturgia sacrificale al Dio d’Israele non si poteva compiere legittimamente se non nel Tempio di Gerusalemme, e tale norma rimase sempre inconcussa per gli Israeliti ortodossi. Ma sta di fatto che quell’unico Tempio era troppo distante per molti Israeliti della Palestina stessa, e tanto più divenne remoto e difficilmente accessibile quando la nazione giudaica con la sua Diaspora cominciò a sciamare dalla Palestina e ad inserirsi nelle varie regioni straniere; questi lontani fedeli avranno potuto inviare frequentemente pensieri affettuosi ed offerte preziose al loro unico santuario, ma piuttosto raramente potevano visitarlo di persona e risentirne direttamente l’efficacia spirituale. Bisognava quindi estendere sempre più quell’efficacia fra i Giudei sia della Palestina sia della Diaspora, e inoltre trovare ad essa, quando eventualmente mancava, un qualche compenso che fosse compatibile con la più stretta ortodossia. Per tali ragioni sorse la sinagoga. Le sue prime origini, infatti, vanno ricercate fra i Giudei esuli in Babilonia, allorché il Tempio di Gerusalemme non esisteva affatto perché distrutto. A quei tempi certamente non si poté avere la sinagoga vera e propria (come pretenderebbe la tradizione rabbinica), tuttavia le varie riunioni che gli esuli facevano presso Ezechiele ed altri insigni personaggi lasciano intravedere già il nucleo della sinagoga futura. Ma in seguito, anche dopo la ricostruzione del Tempio, i Giudei sia fuori che dentro la Palestina usarono sempre più riunirsi in determinati luoghi o in appositi edifici, per praticarvi quella preghiera ed istruzione religiosa ch’era impossibile praticare nel lontano Tempio ed era meno opportuno praticare in un qualsiasi posto comune. Così nacque e prese fisionomia ben distinta l’istituto sinagogale. Già al secolo III av. Cristo si hanno sicure attestazioni archeologiche di edifici sinagogali, e nei secoli seguenti essi si moltiplicano a dismisura dentro e fuori la Palestina. Ai tempi di Gesù si può ritenere per certo che in Palestina nessun centro abitato, anche se di scarsa importanza, fosse sprovvisto di sinagoga; sarà poi una leggenda l’affermazione rabbinica che in Gerusalemme si contassero quattrocentottanta sinagoghe di cui una nel recinto del Tempio stesso, tuttavia la leggenda nacque da una buona dose di realtà. Fuori della Palestina, nelle varie regioni dell’Impero romano, sono noti circa centocinquanta centri abitati provvisti di sinagoga: la sola Roma nel secolo I dopo Cr. ha fornito la prova di tredici distinte comunità giudaiche, ciascuna delle quali aveva certamente almeno una sinagoga, ma in tutto le comunità dovevano essere più numerose di quelle oggi attestate.

• § 63. Sotto l’aspetto architettonico la sinagoga era essenzialmente costituita da una sala, che di solito era rettangolare e disposta in modo che i convenuti fossero rivolti con la faccia verso Gerusalemme e il suo Tempio: in Galilea, paese di Gesù, quasi tutte le sinagoghe di cui rimangono ruderi hanno l’ingresso al lato meridionale, cioè verso Gerusalemme, e perciò i convenuti erano rivolti verso l’ingresso. La sala poteva essere divisa in navate da colonne, e sopra queste poteva poggiare alla periferia un’impalcatura elevata, riservata forse alle donne (matroneo); talvolta avanti all’ingresso della sala s’apriva un atrio con una vasca in mezzo per le abluzioni, ed ai lati dell’edificio erano addossate stanze minori destinate a scuola dei fanciulli e ad ospizio dei pellegrini. La sala poteva essere decorata con pitture e mosaici; i motivi ornamentali nei templi più antichi si limitavano alla raffigurazione di esseri inanimati (palme, candelabro a sette bracci, stella a cinque o a sei punte, ecc.), ma più recentemente rappresentarono anche animali e uomini (Mosè, Daniele, ecc.), contro la nota proibizione in vigore ai tempi di Gesù. Nell’interno della sala l’oggetto principale era l’armadio sacro, ove si custodivano i rotoli delle Scritture sacre; era collocato in una specie di cappelletta, protetto da un velo, e ,davanti ad esso, sembra che ardessero una o più lampade. La sala era anche provvista di un pulpito, mobile o fisso, su cui saliva il lettore della Scrittura e poi il successivo oratore; lo spazio rimanente della sala era occupato da sgabelli, la cui prima fila era oggetto di comuni ambizioni da parte dei frequentatori come più onorifica: talvolta seggi speciali erano disposti a parte, fra l’armadio sacro e il pulpito, e destinati a personaggi insigni.

• § 64. L’edificio sinagogale era affidato ad un archisinagogo scelto fra gli anziani della comunità locale; egli curava sia la buona conservazione degli oggetti, sia il regolare svolgimento delle adunanze. Alle sue dipendenze stava un «ministro», quasi un sacrestano, che accudiva a varie faccende materiali, come suonare la tromba al principio ed alla fine del sabbato, estrarre i rotoli della Scrittura dall’armadio, eseguire la flagellazione di qualche colpevole condannato dal sinedrio locale (§ 61), e simili; talvolta questo sacrestano faceva anche da maestro di scuola per i fanciulli, che si adunavano in una stanza attigua.

• § 65. Nella sinagoga le adunanze si tenevano in tutti i sabbati mattina e pomeriggio, e negli altri giorni festivi, ma, oltre a queste adunanze di prescrizione, se ne potevano tenere altre specialmente il lunedì e il giovedi, e in occasioni particolari. La sinagoga, infatti, divenne sempre più la roccaforte spirituale del popolo: in essa si ravvivavano continuamente quei princìpi nazionali-religiosi che dovevano distinguere Israele da tutte le altre nazioni; in essa si leggevano quelle Scritture, si ricordavano quelle tradizioni, si recitavano quelle preghiere che sono rimaste, ancora oggi, il principale patrimonio morale del giudaismo; in essa si cementava l’unione, sia tra i Giudei di una stessa comunità, sia tra le varie comunità di una data regione e anche di tutto il mondo, la quale unione fu la massima forza del giudaismo specialmente dopo la catastrofe del 70. Perché un’adunanza fosse regolare dovevano essere presenti non meno di dieci uomini: per essere sicuri di tale numero, in tempi assai posteriori, si sussidiarono dieci Giudei della comunità affinché, anche fuori del sabbato e dei giorni festivi, si tenessero liberi da altre occupazioni onde intervenire alle adunanze.

• § 66. L’adunanza s’iniziava con la recita del tratto scritturale chiamato, dalla parola con cui comincia, Shema’ «Ascolta...». Era un tratto composto da tre passi del Pentateuco, nel primo dei quali (Deuteronomio, 6, 4-9) si comanda l’amore di Dio, nel secondo (Deuter., 11, 13-21) l’osservanza dei comandamenti di Dio, e nel terzo (Numeri, 15, 37-41) s’impone che anche le frange delle vesti rammentino i comandamenti di Dio. Questo tratto scritturale era come il primo e fondamentale atto religioso dell’Israelita, l’atto di fede con cui egli affermava solennemente di credere nel Dio unico e di amarlo: non diversamente Gesù, allo Scriba che gli aveva domandato quale fosse il primo dei comandamenti, rispose citando appunto l’inizio dello Shema’ (Marco, 12, 29). Dopo lo Shema’ si recitava lo Shemòne esré («Diciotto»), cioè una serie di diciotto brevi preghiere esprimenti adorazione, sudditanza e speranza verso il Dio d’Israele. È molto probabile che questa serie di preghiere fosse recitata nelle sinagoghe già ai tempi di Gesù; ma in tal caso essa doveva essere alquanto differente e più breve della recensione (babilonese) oggi ufficialmente in uso, la quale consta in realtà di diciannove preghiere ed è posteriore di molto alla catastrofe del 70, a cui pure allude. Più antica è un’altra recensione (palestinese) ritrovata da alcune decine d’anni, ma anch’essa non può risalire ai tempi di Gesù, perché la dodicesima preghiera contiene un’imprecazione contro i cristiani in questi termini: Per gli apostati non vi sia speranza, e il regno superbo (certamente l’Impero romano) sradica Tu ben tosto ai nostri giorni! E i nazareni (cristiani) e gli eretici periscano all’istante: siano essi cancellati dal libro della vita, e insieme con i giusti non siano iscritti. Benedetto sii Tu, o Jahvè, che curvi i superbi! Questa maledizione diretta espressamente contro i cristiani è scomparsa nella recensione posteriore (babilonese), in cui è stata sostituita con una maledizione contro i superbi e gli empi in genere; tuttavia l’impiego della formula di maledizione contro i cristiani è attestato ancora al secolo IV da San Girolamo (in Isaiam, 5, 18-19; 49, 7). Probabilmente la formula fu introdotta ai tempi di Rabbi Gamaliel II verso l’anno 100 (cfr. Berakoth, 28 b), mentre il testo complessivo presumibilmente in uso ai tempi di Gesù ne era evidentemente privo.

• § 67. Dopo lo Shemòne esré si procedeva alla lettura delle Scritture sacre. Si cominciava con la Torah (Pentateuco), la quale era divisa in 154 sezioni (eccezionalmente anche di più), in modo che la sua lettura continuativa si compiva interamente in tre anni; seguiva la lettura dei libri chiamati «Profeti» nel canone ebraico - cioè i libri da Giosuè fino ai Profeti minori - la quale era fatta con una certa libertà di scelta e di ampiezza. I testi si leggevano nella lingua originale ebraica: ma poiché ai tempi di Gesù il popolo parlava aramaico e ben pochi comprendevano l’ebraico, i singoli passi letti erano man mano tradotti in aramaico. Queste traduzioni, che già ai tempi di Gesù avevano assunto una forma tipica tradizionale, furono più tardi messe in iscritto e costituirono i Targum(im) biblici. Terminata la doppia lettura con traduzione, seguiva un discorso istruttivo che si aggirava su qualche tratto della lettura fatta, spiegandolo e traendone insegnamenti pratici. Questo discorso poteva essere tenuto da chiunque dei presenti; di solito l’archisinagogo invitava a tale incombenza i presenti da lui giudicati più adatti, ma chi lo desiderasse poteva anche offrirsi spontaneamente: in pratica gli oratori erano ordinariamente persone versate nella conoscenza delle Scritture e tradizioni sacre, cioè Scribi e Farisei. L’adunanza terminava con la benedizione sacerdotale contenuta in Numeri, 6, 22 segg. Se tra i presenti si trovava un sacerdote, egli recitava la benedizione e gli altri rispondevano Amen; altrimenti era recitata a guisa d’implorazione da tutti i presenti.

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti, 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.

Comunicato numero 79. Sadducei, Farisei, Scribi ed altri gruppi giudaici (Seconda parte)

Stimati Associati e gentili Sostenitori, continuiamo a studiare, con l’Abate Ricciotti («Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, 7a Edizione, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941), il capitolo: «Sadducei, Farisei, Scribi ed altri gruppi giudaici» all’epoca di Gesù. Prosegue dalla scorsa settimana (n° 78 di Sursum Corda).

• § 40. Tutti gli altri Giudei, che non appartenevano alla «colleganza» dei Farisei, erano chiamati da costoro il «popolo della terra». Il termine era dispregiativo, ma anche più dispregiativo era il contegno tenuto dai Farisei verso questi loro connazionali. Anche qui le testimonianze, da parte tanto cristiana quanto giudaica, sono concordi. In Giovanni, 7, 49, i Farisei esclamano: «Questa folla, che non conosce la Legge, sono maledetti»; ove la folla designa i non Farisei, cioè il «popolo della terra», il quale non conosce la Legge ed è tutto di maledetti. I documenti giudaici, poi, confermano questa maledizione. È sentenza appunto del grande Hillel che nessun tanghero teme il peccato, e il popolo della terra non è pio: ove tanghero è sinonimo di chi appartenga al popolo della terra. Quindi un vero Fariseo non doveva avere alcun contatto col «popolo della terra», bensì mostrarsi fariseo cioè «separato» nei riguardi di esso. Per questa ragione un rabbino sentenziava: «Partecipare ad un’assemblea del popolo della terra produce la morte» (Pirqe Aboth, III, 10); il celebre Giuda il Santo si rammaricava: «Ahimè! Ho dato del pane a uno del popolo della terra!» (Baba Bathra 8 a) e Rabbi Eleazar prescriveva: «È lecito trafiggere uno del popolo della terra anche nel giorno del Kippur che cadesse di sabbato» (Pesahim 49 b). In molti altri passi è proibito al Fariseo di vendere frutta a uno del «popolo della terra», di dargli ospitalità o riceverne, di contrarre parentela matrimoniale con lui, e simili (Demai, Il, 3; ecc.). È superfluo dire che, agli occhi dei Farisei, poteva essere «tanghero» e «popolo della terra» anche un Giudeo aristocratico e facoltoso, o un membro dell’alto sacerdozio: il criterio per giudicarlo era la pratica e la conoscenza della Legge secondo i princìpi farisei, e l’appartenenza alla eletta casta dei «separati». Solo raramente a siffatto disprezzo di casta si rispondeva da parte degli estranei col disprezzo e con l’ostilità. Il popolino, specialmente nelle città e soprattutto le donne, stavano cordialmente per i Farisei e nutrivano per essi una stima illimitata; ci si arriva a dire che i Farisei tanta potenza hanno sulla folla, che pure se dicano alcunché contro il re o contro il sommo sacerdote sono immediatamente creduti (Antichità giud., XIII, 288). Siffatta base democratica era la vera forza di cotesti aristocratici dottrinali.

• § 41. Resta da esaminare il preciso concetto di Scriba, e le sue relazioni con quello di Fariseo. I Vangeli accomunano spessissimo Scribi e Farisei, e giustamente sotto l’aspetto della realtà contemperanea; ma in teoria non tutti gli Scribi erano Farisei, come in pratica non ogni Fariseo era Scriba perché poteva non averne la scienza necessaria, ossia non essere un hakam (§ 39). Il concetto di Scriba era quello di essere per eccellenza l’uomo della Legge, astraendo dalla sua condizione sacerdotale o laica e dai suoi princìpi sadducei o farisei; ma in pratica, ai tempi di Gesù, solo pochissimi Scribi erano di condizione sacerdotale e di princìpi sadducei, mentre la stragrande maggioranza era costituita da laici di princìpi farisei. Di qui il pratico pareggiamento di Scribi e Farisei presso i Vangeli. Quando nell’esilio di Babilonia il popolo giudaico si trovò privato di tutti i suoi beni materiali e morali salvo che della Legge (Torah), già allora - prima cioè che esistessero le due correnti di Sadducei e Farisei - vi furono uomini che consacrarono tutta l’operosità e la vita loro all’unico bene superstite, alla Legge, onde conservarlo con ogni cura, trasmetterlo con tutta esattezza, investigarlo ed applicarlo con la più scrupolosa indagine. Un uomo siffatto fu per eccellenza l’uomo del libro (sepher), non soltanto perché ne era il diligentissimo scriba, ma soprattutto perché ne era nel più ampio senso il maestro. Egli fu dunque il legista ed a lui fu riserbato il titolo onorifico di Rab, Rabbi («grande», «mio grande»). Grandissima era l’autorità dello Scriba già verso il 200 av. Cr., come appare anche dal lirico encomio che ne fa il Siracida (Ecclesiastico, capp. 38-39); ma più tardi essa crebbe ancora, fino a diventare un vero trono di gloria contrapposto al trono del sacerdozio. Ai tempi di Gesù, infatti, il sacerdozio aveva bensì conservato il suo ufficio liturgico ed il suo grado gerarchico nella costituzione teocratica del giudaismo, tuttavia esso aveva perduto quasi ogni efficacia sulla formazione spirituale delle masse il vero «padre spirituale» del popolo, il suo catechista, la sua guida morale, non era più il sacerdote ma lo Scriba. Man mano che il sacerdozio si era disinteressato della Legge, il laicato lo aveva sostituito nella direzione spirituale del giudaismo; mano mano che il sacerdozio si era immedesimato con la corrente sadducea, il laicato legista era diventato sempre più fariseo: cosicché a un certo tempo l’azione del sacerdozio rimase circoscritta alla liturgia del Tempio ed ai maneggi della politica, mentre lo Scriba laico s’assise quale maestro nelle scuole della Legge, predicò quale rappresentante di Mosè nelle sinagoghe, s’aggirò quale modello di santità nelle vie e nelle case della venerabonda plebe. Scriba poteva divenire qualunque discendente d’Abramo, ma la via per toccare la mèta era lunga. Spesso si cominciava fin dalla puerizia a percorrerla, istruendosi - come fece San Paolo (Atti, 22, 3) – «ai piedi» di qualche autorevole maestro (che insegnava seduto, mentre i discepoli si accoccolavano ai suoi piedi). Difficilmente un discepolo aveva percorso tutta la sua via ed era in grado a sua volta d’insegnare, prima che fosse in età di quaranta anni e in tutto questo tempo egli, quasi sempre povero, aveva esercitato un mestiere manuale per vivere (§ 167). Ma quando l’amore per la conoscenza della Legge era entrato nel cuore di uno di questi uomini, non si badava a privazioni d’ogni genere, a veglie diuturne, a tirocini laboriosi, a esercitazioni mnemoniche estenuanti, pur di possedere la Legge. Il possessore di questo tesoro era più ricco d’ogni ricchissimo, più glorioso d’un re e d’un sommo sacerdote, come già vedemmo a proposito dei Farisei (§ 35).

• § 42. Della corrente dei Farisei, secondo ogni verosimiglianza, sono derivazioni le correnti degli Zeloti e dei Sicari. Flavio Giuseppe, troppo incline a ravvicinare il mondo giudaico a quello greco-romano, presenta la corrente degli Zeloti come una quarta filosofia (Antichità giud., XVIII, 9), dopo le tre degli Esseni, Farisei e Sadducei; ma in realtà gli Zeloti, oltre a non rappresentare una filosofia, non formavano neppure una quarta corrente, perché erano sostanzialmente Farisei. Lo stesso Flavio Giuseppe afferma poco appresso che gli Zeloti in tutto il resto s’accordano con l’opinione dei Farisei, solo che hanno un ardentissimo amore per la libertà ed ammettono come unico capo e signore Dio; non badano punto a subire le morti più straordinarie e punizioni di parenti e d’amici, pur di non riconoscere come signore alcun uomo (Ivi, 23). È evidente in questo atteggiamento l’adesione al principio nazionale-teocratico, ch’era essenziale nel fariseismo: ma la divergenza avveniva nella pratica, perché i Farisei comuni non applicavano quel principio nel campo politico, mentre gli Zeloti ve l’applicavano con rigore fino alle ultime conseguenze. E perciò si chiamarono «Zeloti», ossia zelanti applicatori della Legge nazionale-religiosa. Il termine era stato impiegato già da Mattatia, padre dei Maccabei, il quale in punto di morte aveva raccomandato ai suoi figli: «E ora, figli, siate gli zelanti della Torah e date le vostre vite per l’alleanza dei nostri padri» (I Macc., 2, 50). Infatti i cinque figli del morente finirono tutti uccisi per la causa nazionale-religiosa; e proprio dalla vittoria di questa causa uscirono gli Asidei, dai quali discesero i Farisei (§ 29). Ora, gli Zeloti ripresero in pieno il programma del padre dei Maccabei: vollero essere Farisei integralisti in ogni campo, anche in quello politico.

• § 43. E in realtà fu un’occasione politica che fece sorgere gli Zeloti. Quando nell’anno 6 dopo Cr., Sulpicio Quirinio iniziò il censimento della Giudea testé annessa all’Impero romano (§ 24), il popolo vide nel censimento la prova tangibile che la nazione eletta dai Dio Jahvè era sottoposta sacrilegamente al dominio di impuri stranieri; tuttavia la gran massa, persuasa anche da insigni sacerdoti, si sottomise e si lasciò censire, ed altrettanto fece la maggior parte dei Farisei. Resistette invece un certo Giuda di Gamala, detto il Galileo, che, unitosi con un autorevole Fariseo di nome Sadduc, indusse i paesani a ribellione insultandoli se... avessero tollerato, dopo Dio, padroni mortali (Guerra giud., II, 118). La rivolta fu domata dai Romani, ed una trentina d’anni appresso il Fariseo Gamaliel la ricordava ancora come un episodio celebre (Atti, 5, 37). Tuttavia, con questa prima sconfitta, gli Zeloti non cedettero. Dispersi ed occulti davanti alle autorità romane, essi mantennero sempre vivo lo spirito d’implacabile avversione politica contro gli stranieri, che poi divampò apertamente nella rivolta finale. Con ciò essi si distinsero sempre più dai Farisei comuni, che di fronte ai Romani si mostravano passivi e cedevoli. Più tardi, anzi, gli Zeloti fecero un ulteriore passo sulla via della ribellione operosa. Quando l’esperienza dimostrò che ogni sollevazione in massa non aveva alcuna probabilità di prevalere contro i Romani, i dissimulati Zeloti ricorsero alle congiure contro individui isolati e ai colpi di mano contro luoghi determinati, per toglier di mezzo i singoli dominatori se non l’intero dominio straniero, rimanendo essi stessi nell’ombra. In tali imprese l’arma più adoperata era il corto pugnale che i Romani chiamavano sica: perciò questi Zeloti si chiamarono «Sicari». Se dunque gli Zeloti furono i Farisei intransigenti anche nel campo politico, i Sicari alla loro volta possono considerarsi come le squadre volanti, le avanguardie d’assalto, mandate avanti dagli Zeloti. Supponendo al centro la massa del giudaismo comune, alla sua destra stavano schierati sempre più in là dapprima i tradizionalisti Farisei, poi gl’intransigenti Zeloti, infine gli aggressivi Sicari. Ma Zeloti e Sicari, che furono i principali responsabili dell’insurrezione degli anni 66-70, ne furono anche le vittime, perché scomparvero quando i Romani debellarono gli ultimi focolai della rivolta e specialmente la fortezza di Masada, la cui tragica fine è narrata con somma precisione archeologica da Flavio Giuseppe (Guerra giud., VII, 253 segg.). Invece i Farisei, loro padri spirituali, superarono la grande prova: il giudaismo superstite, riordinato secondo i princìpi delle scuole rabbiniche, fu genuina opera loro, e tale è rimasto fino ad oggi. Fra i discepoli di Gesù, l’apostolo Simone è chiamato lo Zelota (Luca, 6, 15; Atti, I, 13) o anche il Cananeo (Matteo, 10, 4; Marco, 3, 18). Questo secondo termine non proviene dal nome degli antichi abitatori della Palestina, i Cananei, bensì è la forma aramaica, qan’ana; e significa «zelante» ossia Zelota. I Sicari, nel Nuovo Testamento, sono menzionati solo incidentalmente in Atti, 21, 38 (per cui cfr. Guerra giud., II, 261-263; Antichità giud., XX, 169-172).

• § 44. Sia nel Nuovo sia nell’Antico Testamento non sono mai nominati gli Esseni, di cui parla a lungo Flavio Giuseppe Guerra giud., II, 119-161) oltre a Filone, a Plinio ed altri. Gli Esseni formavano una vera associazione religiosa, ch’esisteva già verso la metà del secolo II av. Cr. in vari luoghi della Palestina, ma col suo centro principale nell’oasi di En-gaddi sulla sponda occidentale del Mar Morto. Erano in tutto circa 4000. Le regole principali di questa associazione, molto simile agli ordini monastici del cristianesimo, erano le seguenti. Per esservi ammessi bisognava fare un noviziato di un anno, alla fine del quale si riceveva un battesimo; seguivano altri due anni di probandato, dopo dei quali avveniva l’affiliazione definitiva mediante solenni giuramenti. Tra gli affiliati e i novizi esisteva gran differenza quanto a dignità e a purità legale, tantoché se un novizio toccava per caso un affiliato, costui contraeva una certa impurità da cui doveva mondarsi. I beni materiali erano posseduti in comunismo perfetto ed amministrati da ufficiali eletti a tale scopo; tutti lavoravano, specialmente nell’agricoltura, ed i proventi andavano nel fondo comune. Erano proibite la mercatura, la fabbricazione d’armi, la schiavitù. Il celibato era lo stato normale: il solo Flavio Giuseppe dà notizia di un particolare gruppo di Esseni che contraevano matrimonio sotto condizioni speciali, ma il fatto non è ben certo, e ad ogni modo non sarà stato che una limitata eccezione alla norma comune: secondo Plinio gli Esseni sono una gens... in qua meno nascitur (in Natur. hist., V, 17). Questa mancanza di procreazione faceva si che accettassero a scopo di proselitismo anche fanciulli, come probabili candidati all’associazione. La giornata era divisa fra il lavoro e la preghiera. Di prima mattina una preghiera comune era rivolta al Sole. I pasti, consumati in comune, avevano un carattere di cerimonia sacra, perché erano presi in luogo speciale, dopo aver praticato particolari abluzioni e indossato abiti sacri, ed erano preceduti e seguiti da particolari preghiere; anche i cibi, semplicissimi, erano preparati da sacerdoti secondo regole speciali. In tutta la giornata si osservava abituale silenzio. Il rispetto per il riposo del sabbato era di un rigore singolare: tanto che per questo rispetto, come pure per un accresciuto riguardo alla purità legale, in detto giorno non si soddisfaceva alle necessità corporali maggiori (§ 70). Per Mosè si aveva somma venerazione e chi ne bestemmiava il nome era punito di morte. Di sabbato si leggeva in comune la Legge di lui, e se ne facevano spiegazioni; ma oltre ai libri di Mosè l’associazione usava altri libri segreti, ch’erano studiati egualmente di sabbato. D’altra parte non tutte le prescrizioni di Mosè erano praticate, perché al Tempio di Gerusalemme gli Esseni inviavano offerte di vario genere, ma non sacrifizi cruenti d’animali. Salvo il giuramento per l’affiliazione, ogni sorta di giuramento era rigorosamente proibita; ci si dice infatti: Ogni loro detto ha più forza d’un giuramento; ma dal giurare si astengono considerandolo peggiore dello spergiuro, giacché dicono che risulta già condannato colui che non è creduto senza (un appello a) Dio (Guerra giud., III, 135). È probabile che nelle consuetudini degli Esseni e nelle loro dottrine, il cui fondo principale proveniva certamente dal patrimonio ebraico, si fossero infiltrati elementi stranieri: tali ad esempio la dottrina loro attribuita della preesistenza delle anime, ignota all’ebraismo, e la pratica del celibato giammai tenuto in onore presso gli Ebrei. Ma la precisa provenienza di questi elementi non ebraici rimane dubbia, nonostante le molte congetture che si sono fatte in proposito. Sembra che gli Esseni esercitassero un’influenza scarsissima sul restante del giudaismo contemporaneo, dal quale erano segregati anche materialmente da tante norme di vita pratica. Essi dovevano apparire come un hortus conclusus, che si ammirava volentieri ma rimanendone al di fuori; tuttavia, oltre a coloro che entravano stabilmente nell’associazione, v’erano taluni che ne seguivano solo per qualche tempo il tenore di vita mossi da un vago desiderio ascetico, come narra d’aver fatto nella prima giovinezza Flavio Giuseppe (Vita, 10-12). Di questioni politiche gli Esseni ordinariamente non si occupavano, mostrandosi ossequenti verso le autorità costituite. Tuttavia nella grande rivolta contro Roma, alcuni di essi si lasciarono vincere dall’entusiasmo e presero le armi: un Giovanni Esseno è ricordato con funzioni di comando tra i Giudei insorti (Guerra giud., II, 567; III, 11,19). Dai vincitori Romani essi ebbero a soffrire gravissimi tormenti (Ivi, II, 152-153), ma non per questo violarono i giuramenti della loro associazione. Dopo questo tempo scompaiono del tutto dalla storia.

• § 45. Nei Vangeli sono nominati anche gli «Erodiani» (Marco, 3, 6; 12, 13; Matteo, 22, 16). Questi tuttavia non costituivano un vero e proprio partito politico, e tanto meno un’associazione o una corrente religiosa; piuttosto dovevano essere Giudei che apertamente sostenevano la dinastia degli Erodi in genere e particolarmente il suo più autorevole rappresentante d’allora, ch’era il tetrarca Erode Antipa (§ 15 segg.), seppure non erano proprio gente di sua corte. Numerosi non potevano essere, e neppur godere di gran credito sul popolo. (Abbiamo fatto un adattamento di alcuni caratteri, ndR).

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti, 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.

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