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Stimati Associati e gentili Lettori, dedichiamo questo comunicato alla pace, quindi alla concordia. Papa Pio XII auspica che tutti «si stringano nell’unica Chiesa di Gesù Cristo, affinché quasi uniti in una sola falange, compatta, concorde, stabile, resistano contro gli sforzi dell’empietà ogni giorno più minacciosi» (Orientalis Ecclesiæ, 9 aprile 1944). Difatti la Chiesa di Gesù Cristo è una, non più di una, non molte, come ci insegna san Pio X: «Da tante società o sette fondate dagli uomini, che si dicono cristiane, si può facilmente distinguere la vera Chiesa di Gesù Cristo per quattro contrassegni. Essa è Una, Santa, Cattolica e Apostolica. [...] Non vi possono essere più Chiese, perché siccome vi è un solo Dio, una sola Fede e un solo Battesimo, così non vi è, e non vi può essere che una sola vera Chiesa» (Catechismo, 1905 ca). Poi ci erudisce che «si trovano fuori della vera Chiesa gli infedeli, gli ebrei, gli eretici, gli apostati, gli scismatici e gli scomunicati» (Ivi.). Per conseguire la concordia, che viene a mancare ovunque proliferino protestantesimo, ateismo e paganesimo, e per contrastare la minacciosa empietà «è assolutamente necessario che tutti [...] raggiungano quella concordia di animi, che dev’essere munita di quel triplice legame con cui Cristo Gesù, fondatore della Chiesa, volle che essa fosse stretta e tenuta insieme, quasi in superno infrangibile vincolo, da Lui stabilito; vale a dire nell’unica fede cattolica, nell’unica carità verso Dio e verso tutti, e infine nell’unica obbedienza e soggezione alla legittima gerarchia costituita dal divin Redentore medesimo». Questi tre vincoli, unità di fede - di amore - di obbedienza, prosegue Papa Pio XII nella Orientalis, «sono tanto necessari, che se l’uno o l’altro di essi viene a mancare, non si può più neppure comprendere nella Chiesa di Cristo vera unità e concordia». Quando i modernisti del vaticanosecondo parlano di “ecumenismo”, di “realtà e sensibilità ecclesiali”, o addirittura di “chiese”, essi hanno evidentemente dimenticato o negano apertamente tutti e tre questi «legami». Si tratta di un «triplice legame» essenziale, ovvero «vincolante» (dogmatico), e non semplicemente accidentale, tanto che nella mentovata Enciclica il Pontefice emette l’infallibile sentenza: «Non è lecito, neppure sotto il pretesto di rendere più agevole la concordia, dissimulare neanche un dogma solo; giacché, come ammonisce il patriarca alessandrino [san Cirillo, ndR]: “Desiderare la pace è certamente il più grande e il primo dei beni, però non si deve per siffatto motivo permettere che ne vada di mezzo la virtù della pietà in Cristo”. Perciò non conduce al desideratissimo ritorno dei figli erranti alla sincera e giusta unità in Cristo, quella teoria, che ponga a fondamento del concorde consenso dei fedeli solo quei capi di dottrina, sui quali o tutte o almeno la maggior parte delle comunità, che si gloriano del nome cristiano, si trovino d’accordo, ma bensì l’altra che, senza eccettuarne né sminuirne alcuna, integralmente accoglie qualsiasi verità da Dio rivelata». Papa Pio XII usa esplicitamente dire che è necessario «accogliere integralmente». Oggi sarebbe etichettato con l’infamia di essere un integralista o un fondamentalista. In ambito sociale, ci avverte Papa san Pio X, è bene fare attenzione a quella «deformazione del Vangelo e del carattere sacro di Nostro Signore Gesù Cristo, Dio e Uomo», oggi largamente praticata (il Pontefice sta condannando il Sillon, ovvero i “parenti” francesi della sedicente “Democrazia” “Cristiana” italiana). è «di moda», afferma il Papa, «quando si tocca la questione sociale, mettere anzitutto da parte la Divinità di Gesù Cristo, e poi parlare soltanto della sua sovrana mansuetudine, della sua compassione per tutte le miserie umane, delle sue pressanti esortazioni all’amore del prossimo e alla fraternità. Certo, Gesù ci ha amati di un amore immenso, infinito, ed è venuto sulla terra a soffrire e a morire affinché, riuniti attorno a Lui nella giustizia e nell’amore, animati dai medesimi sentimenti di carità reciproca, tutti gli uomini vivano nella pace e nella felicità».
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Stimati Associati e gentili Lettori, oggi parliamo di matrimonio, del vero vincolo e della vita coniugale secondo il dogma cattolico. Lo facciamo, senza alcun timore di sbagliare, studiando l’Enciclica Casti Connubii di Papa Pio XI, Vicario di Cristo in terra, infallibile nella docenza (cf. Pastor æternus), certissimi della solenne promessa di Nostro Signore Gesù Cristo: «Qui vos audit, me audit; et, qui vos spernit, me spernit; qui autem me spernit, spernit eum, qui me misit», ovvero: «Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza Colui che mi ha mandato» (Lc. X, 16). L’Enciclopedia Cattolica, Vaticano 1952, vol. III, coll. 1033 e 1034, ci riferisce: «Casti Connubii è un’Enciclica di Papa Pio XI, del 30 dicembre 1930, sul matrimonio cristiano (AAS, 22 [1930] pp. 539-90). L’argomento, sempre della più viva e vasta attualità in ogni tempo, riveste un’importanza tutta particolare ai nostri giorni. Per una parte, infatti, il divorzio è accolto in quasi tutte le legislazioni e praticato con la più scanzonata disinvoltura; l’adulterio è esaltato, o almeno trattato con un senso di deprecabile agnosticismo nei romanzi, nei teatri, nelle sale cinematografiche, nelle cronache giornalistiche; per l’altra, nuove teorie pseudoscientifiche si vanno diffondendo sotto pretesto di rinsaldare la razza o la salute pubblica, e un senso di malcompresa compassione pone nell’ombra verità sostanziali, conseguenze deplorevoli e fatali, dottrine inconcusse della rivelazione. In realtà tutto concorre a deprimere l’istituto familiare, compromettendo la pace e la serenità della casa, l’educazione dei figli e finisce con lo schiantare quella compagine che è la famiglia, frutto della natura e della Grazia santificante, voluta da Dio salda e inscindibile. Questo l’argomento, su cui verte l’Enciclica. La quale, richiamata quella di Leone XIII, Arcanum, del 10 febbraio 1880, entra nel vivo delle questioni, dividendo la trattazione in tre parti: 1. I tre beni del matrimonio: il bene della prole, che ne costituisce il fine primario, e dà ai genitori il diritto e il dovere grave di “accoglierla amorevolmente, nutrirla benignamente, educarla religiosamente”; il bene della fede, che costituisce l’unità dei coniugi, fondandolo su di un amore santo e puro, sull’aiuto vicendevole, morale e materiale, su di una gerarchia bene ordinata e compresa, secondo la quale il marito è il capo della famiglia, la moglie il cuore; il bene del Sacramento, che rappresenta l’unione inscindibile fra Cristo e la Chiesa, la quale inscindibilità arreca i migliori vantaggi per i coniugi stessi, i figli, la società. 2. La tempesta contro la santità del matrimonio, scatenata dagli egoismi e dalle passioni, accarezzati e coadiuvati dalla pseudoscienza: matrimoni temporanei, amichevoli, di esperimento; controllo delle nascite; aborto terapeutico, eugenica, sterilizzazione, difficoltà di convivenza; matrimoni misti, sopraffazione da parte di presunta autorità dello Stato. La condanna della Chiesa, su tutte queste aberrazioni, è chiara e inesorabile, fondata com’è e sull’aperta volontà di Dio, manifestata dalla rivelazione, e sulle fatali conseguenze che da quelle derivano. [Oggi rivolgiamo le nostre attenzioni a questa parte (la n° 2) prettamente apologetica, ndR] 3. La restaurazione della famiglia, ottenuta mediante il ritorno a quelle che sono le intenzioni divine: perciò i coniugi devono sempre pensare che la loro unione è il Sacramento di Cristo e della Chiesa; cercare di dominare le passioni con l’acquisto della padronanza di sé e soprattutto con la preghiera, apportatrice di forza e di luce. Occorre pure preparare i futuri sposi alle nozze; assistere le classi povere, praticare da parte dei privati e soprattutto dello Stato quelle provvidenze sociali, che assicurino a tutti un tranquillo e sereno benessere. Mezzo utile e desiderabile: la reciproca intesa fra Stato e Chiesa, da cui lo Stato non deve temere alcuna menomazione di diritti; esempio illustre: i Patti Lateranensi».
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Stimati Associati e gentili Lettori, per qualche tempo sospenderemo le consuete lezioni di dottrina commentata dagli eruditi e di esegesi per dare, con puntuale opportunità, spazio al Magistero della Chiesa su alcuni temi particolarmente necessari per la salvezza dell’anima alla maggior gloria di Dio. La scorsa settimana abbiamo pubblicato la Humani Generis di Papa Pio XII: conto gli errori moderni; oggi è il momento della Mortalium Animos del suo predecessore Pio XI, contro l’ecumenismo. La nostra fede non è un’opinione, un dubbio o un’esperienza soggettiva (io penso che ..., io sento che ..., io suppongo che ...) ma è la certezza di glorificare Dio e di salvarsi l’anima credendo fermamente tutto quanto la Chiesa ci insegna (io credo nella Chiesa una, santa, cattolica, apostolica ... romana). La Chiesa, difatti, non può contraddire se stessa nella trasmissione della fede, dunque ne è l’infallibile regola prossima: 1° «La dottrina della fede che Dio rivelò non è proposta alle menti umane come una invenzione filosofica da perfezionare, ma è stata consegnata alla Sposa di Cristo come divino deposito perché la custodisca fedelmente e la insegni con magistero infallibile. Quindi deve essere approvato in perpetuo quel significato dei sacri dogmi che la Santa Madre Chiesa ha dichiarato, né mai si deve recedere da quel significato con il pretesto o con le apparenze di una più completa intelligenza» (Dei Filius, Concilio Vaticano, Pio IX, 24 aprile 1870); 2° «Lo Spirito Santo infatti, non è stato promesso ai successori di Pietro per rivelare, con la sua ispirazione, una nuova dottrina, ma per custodire con scrupolo e per far conoscere con fedeltà, con la sua assistenza, la rivelazione trasmessa dagli Apostoli, cioè il deposito della fede. Fu proprio questa dottrina apostolica che tutti i venerabili Padri abbracciarono e i santi Dottori [...] venerarono e seguirono, ben sapendo che questa Sede di San Pietro si mantiene sempre immune da ogni errore in forza della divina promessa fatta dal Signore, nostro Salvatore, al Principe dei suoi discepoli: “Io ho pregato per te, perché non venga meno la tua fede, e tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli”» (Pastor æternus, Concilio Vaticano, Pio IX, 18 luglio 1870); 3° «[...] i padri del concilio Vaticano nulla hanno decretato di nuovo, ma solo ebbero in vista l’istituzione divina, l’antica e costante dottrina della Chiesa e la stessa natura della fede, quando decretarono: “Per fede divina e cattolica si deve credere tutto ciò che si contiene nella parola di Dio scritta o tramandata, e viene proposto dalla Chiesa o con solenne definizione o con ordinario e universale magistero come verità da Dio rivelata”. Pertanto essendo chiaro che Dio vuole assolutamente nella sua Chiesa l’unità della fede, e sapendosi quale essa sia e con quale principio deve essere tutelata per divino comando, ci sia permesso d’indirizzare a quanti non persistono nel voler chiudere gli orecchi alla verità, le seguenti parole di sant’Agostino: “Vedendo noi tanta abbondanza di aiuti da parte di Dio, tanto profitto e frutto, dubiteremo di chiuderci nel seno di quella Chiesa, la quale, anche per confessione del genere umano, dalla Sede apostolica per la successione dei vescovi, nonostante che intorno a lei latrino vanamente gli eretici, già condannati sia dall’opinione popolare, sia dal grave giudizio dei concili, sia dalla grandezza dei miracoli, è giunta all’apice dell’autorità? Il negarle il primato, è proprio o di una somma empietà, o di una precipitosa arroganza. [...]”» (Satis Cognitum, Leone XIII, 29 giugno 1896). In passato abbiamo citato numerosi altri Pontefici che, professanti la medesima fede, si sono espressi a tal proposito. Veniamo al tema del giorno: l’ecumenismo, la tolleranza ed il dialogo interreligioso. Sant’Alfonso commenta:
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Commenta il cardinal Pietro Parente (Casalnuovo Monterotaro, 16 febbraio 1891 - Città del Vaticano, 29 dicembre 1986): «Humani Generis è un’Enciclica di Papa Pio XII, del 12 agosto 1950, riguardante false opinioni, che minacciano di sovverti re i fondamenti della dottrina cattolica (AAS, 42 [1950], pp. 561-78)». Scrive, sempre nell’Enciclopedia Cattolica (Città del Vaticano, 1951, Vol. VI, coll. 1502 e 1503): «Questo insigne documento spontaneamente richiama il modernismo, che affonda le sue radici nel divorzio tra ragione e fede, nato al tempo dell’umanesimo e maturato attraverso l’illuminismo, l’enciclopedismo e il criticismo kantiano, da cui scaturirono il liberalismo, il marxismo ed il razionalismo. Verso la fine dell’Ottocento si acuì il contrasto e si prospettò il problema di una conciliazione. Il Concilio Vaticano [ovviamente il Primo, ndR] tracciò la via di una giusta soluzione: dal divino all’umano attraverso la Chiesa. Il modernismo invece volle andare dall’umano al divino senza la Chiesa. E fu la rovina. La storica Enciclica Pascendi Dominici gregis [san Pio X, 8 settembre 1907, ndR] stroncò la crisi, liberando il pensiero cristiano dal grave pericolo. Ma in questi ultimi anni si sono visti affiorare qua e là, nel vasto campo della cultura sacra, motivi, atteggiamenti e tendenze, che hanno un’evidente affinità con la crisi modernistica e costituiscono un nuovo disagio e un nuovo pericolo. Pio XII, ha avuto la sensazione pronta e precisa del pericolo, e nella Humani Generis ha diagnosticato il morbo in via di sviluppo ed ha apprestato gli efficaci rimedi, individuando anzitutto le direttive di marcia della cultura moderna [o Nouvelle Théologie, ndR] nell’evoluzionismo universale, nell’esistenzialismo e nello storicismo, che portano alla negazione o svalutazione dell’assoluto nell’essere e nel pensiero, a beneficio di un contingentismo, di un positivismo e di un relativismo, che rendono impossibile una metafisica e quindi una teologia. Di fronte a queste correnti minacciose il Papa non decreta l’isolazionismo della cultura cattolica, anzi esorta gli studiosi a rendersi conto delle nuove dottrine, che pongono problemi nuovi da approfondire e spesso racchiudono germi di verità; ma deplora l’imprudenza di certi cattolici che, smaniosi di aggiornarsi, si abbandonano all’irenismo [che è falso, ndR], compromettendo l’integrità della fede e di tutta la dottrina [...] della Chiesa. [Il cardinal Parente scrive: ‘‘di tutta la dottrina tradizionale della Chiesa’’, noi preferiamo omettere la parola ‘‘tradizionale’’, poiché riteniamo che sia superfluo specificare, ndR]. Segue un’acuta analisi delle morbose tendenze in teologia, in filosofia e nella zona di confine con le scienze positive [Nouvelle Théologie, ndR]. Con il pretesto di ritornare alle fonti [strumentalizzandole o interpretandole con profonda ignoranza, ndR], si disprezza la teologia sistematica con le sue nozioni e la sua terminologia tecnica e si preferisce il linguaggio più semplice e più elastico [di alcuni, ndR] Padri; si trascura il saldo complesso dottrinale definito [v. dogma] dalla Chiesa nel corso dei secoli e si fa appello alla Sacra Scrittura, interpretandola per via di arbitrario simbolismo, come se Gesù Cristo non avesse costituito la Chiesa unica depositaria e interprete della parola di Dio. In tal modo si svalutano le formule dogmatiche, riducendone il contenuto a un minimo che può adattarsi a qualunque sistema filosofico o religioso. Relativismo dogmatico, che ha cominciato già a dare i primi frutti velenosi [correva l’anno 1951, ndR]. Più audace ancora è l’attacco alla filosofia scolastica, che, secondo i novatori, non risponde[rebbe] più alle esigenze del pensiero moderno impaziente di metafisica rigida e di schemi fissi, nemico della verità immutabile e tutto proteso sul flusso della vita in divenire. Svalutazione della ragione e dei principi supremi, della teodicea [dal greco Theos (Dio) e dike (giustizia), studio di Dio rispetto all’evidenza dell’esistenza del male nel mondo e del libero arbitrio umano, ndR] e dell’etica, opzione fideistica della verità per via di volontà e di sentimento, connubio dei sistemi più opposti nello sforzo di esprimere una verità inafferrabile.
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Stimati Associati e gentili Lettori, impariamo nella Ad Beatissimi Apostolorum (1 novembre 1914) di Papa Benedetto XV: «[...] Ben comprendono i nemici di Dio e della Chiesa che qualsiasi dissidio dei nostri [dei Cattolici] nella propria difesa, segna per essi [per i nemici di Dio] una vittoria; pertanto usano assai di frequente questo sistema che, allorquando più vedono compatti i cattolici, proprio allora, astutamente gettando tra di loro i semi della discordia, maggiormente si sforzano di romperne la compattezza». Questa scaltrezza è goduria dei modernisti, i quali incarnano l’astuzia e la cattiveria di ogni epoca e filosofia contro Gesù, e dei loro alleati che, tutti insieme, sebbene i modernisti (con Giuda Iscariota) solo per raccogliervi le briciole (30 denari), siedono alla mensa di Satana in compagnia di Caifa, Pilato, Erode Antipa, Lutero e dei loro baldanzosi emuli. Prosegue il Pontefice: «Quindi, qualora la legittima autorità impartisca qualche ordine, a nessuno sia lecito trasgredirlo, perché non gli piace; ma ciascuno sottometta la propria opinione all’autorità di colui al quale è soggetto, ed a lui obbedisca per debito di coscienza. Parimenti nessun privato, o col pubblicare libri o giornali, ovvero con tenere pubblici discorsi, si comporti nella Chiesa da maestro. Sanno tutti a chi sia stato affidato da Dio il Magistero della Chiesa [al Papa]». All’origine del modernismo individuiamo, per l’appunto, quei privati che non sottomettono la propria opinione all’autorità di colui (immediatamente al Pontefice, remotamente a Dio) al quale si dichiarano soggetti, perché non gli piace. Noi, al contrario, pieghiamoci volentieri alla sentenza divina che Papa Pio XI richiama nella Mortalium Animos (6 gennaio 1928): «In materia di fede, non è lecito ricorrere a quella differenza che si volle introdurre tra articoli fondamentali e non fondamentali, quasi che i primi si debbano da tutti ammettere e i secondi invece siano lasciati liberi all’accettazione dei fedeli [... es. il Primato di Pietro ...]. Nessuno certamente ignora che lo stesso apostolo della carità, san Giovanni, ha vietato assolutamente di avere rapporti con coloro i quali non professano intera ed incorrotta la dottrina di Cristo: ‘‘Se qualcuno viene da voi e non porta questa dottrina, non ricevetelo in casa e non salutatelo nemmeno’’». Precisa Papa Benedetto XV nella mentovata sua prima Enciclica: «È dovere degli altri prestare a lui [al Papa], quando parla, ossequio devoto, ed ubbidire alla sua parola. Riguardo poi a quelle cose delle quali - non avendo la Sede Apostolica pronunziato il proprio giudizio - si possa, salva la fede e la disciplina, discutere pro e contro, è certamente lecito ad ognuno di dire la propria opinione e di sostenerla. [...] Vogliamo pure che i nostri si guardino da quegli appellativi, di cui si è cominciato a fare uso recentemente per distinguere cattolici da cattolici; e procurino di evitarli non solo come ‘‘profane novità di parole’’, che non corrispondono né alla verità, né alla giustizia, ma anche perché ne nascono fra i cattolici grave agitazione e grande confusione. Il cattolicesimo [...] non può ammettere né il più né il meno: ‘‘Questa è la fede cattolica; chi non la crede fedelmente e fermamente non potrà essere salvo’’(Symb. Athanas.); o si professa intero, o non si professa assolutamente. Non vi è dunque necessità di aggiungere epiteti [es. tradizionalista] alla professione del cattolicesimo; a ciascuno basti dire così: ‘‘Cristiano è il mio nome, e cattolico il mio cognome’’; soltanto, si studi di essere veramente tale, quale si denomina». Intento di SVRSVM CORDA® è, esplicitamente e dal principio (v. Comunicato n° 1), quello di studiare la vera dottrina cattolica, di farla propria in foro interno ed esterno, di pregare e di esortare alla frequenza dei Sacramenti, per poter dire, con la legittima autorità, quando questo sia possibile, e con sant’Atanasio: ‘‘Cristiano è il mio nome, e cattolico il mio cognome’’. Come sempre, ecco la consueta comunicazione di carattere personale ma non troppo. Ne approfitto di questo spazio per rispondere, visti i doveri morali del mio stato di lavoro, ad una domanda che riguarda anche la mia sfera pubblica di giornalista e scrittore. Dei lettori ed amici mi hanno domandato se fossi ancora un collaboratore di Radio Spada e della omonima Casa editrice: la risposta è NO!, come ho indicato, sin da subito, nella mia biografia consultabile sul web!
di Carlo Di Pietro
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Stimati Associati, gentili Lettori, il 21 di agosto del 2016 abbiamo pubblicato sul numero 22 della nostra Rivista l’articolo di don A. Bussinello intitolato: Il Credo all’oratorio. «Discese all’inferno, il terzo dì risuscitò da morte». Gesù risorto. Il molto reverendo don Albano, nel testo da noi utilizzato per l’articolo - Fortes in Fide, Vicenza, 1922, Imprimatur: Vicentiæ, VII Novembris MCMXXII, Sac. Titanius Doct. Veggian, Prov. Gen. - alla pagina 144, scriveva: «Prima di N. S. Gesù Cristo altri risorsero da morte: alcuni per morire ancora, altri per non più morire; tutti costoro però risorsero per la potenza di Dio, Gesù invece risuscitò per virtù propria. Così risorse Lazzaro dopo quattro giorni dalla morte, così il figlio della vedova di Naim e la figlia di Giairo, ma poi morirono ancora. Invece risorsero, per non più morire, quei giusti che uscirono dal sepolcro alla morte del Salvatore e la Vergine Santissima che venne portata in Cielo tre giorni dopo la sua morte: costoro ebbero anticipatamente quella resurrezione che noi avremo alla fine del mondo; essi sono già in Cielo con l’anima e col corpo». Noi abbiamo ripreso integralmente il suo pensiero nell’articolo mentovato all’inizio del Comunicato 24, del quale riportiamo qui un estratto che, per scrupolo, commenteremo più a fondo. Purtroppo don Albano Bussinello non è più con noi, pertanto, oltre ad invitare i lettori a pregare il Requiem ... per la sua anima, ci permettiamo di meglio precisare il suo pensiero (parole sottolineate), forse mal espresso in quelle poche righe, comunque coperte da Imprimatur. O forse lo abbiamo noi mal interpretato accostando il «Prima di N. S. Gesù Cristo» a «costoro ebbero anticipatamente quella resurrezione (gloriosa)». A nostro avviso, studiato il contesto, la parola «prima», lì posta, ci sembra teologicamente problematica. Fatto sta che, nel dubbio, ci teniamo a precisare quanto segue, senza nulla togliere al validissimo autore. Insegna il Dottore Utilissimo (sant’Alfonso Maria de’ Liguori) in Riflessioni sulla Passione di Gesù Cristo, CAPO VI - Riflessioni sui prodigi avvenuti nella morte di Gesù Cristo: «Seguita san Matteo a descrivere i prodigi accaduti nella morte di Cristo, e dice: Et monumenta aperta sunt, et multa corpora sanctorum qui dormierant surrexerunt; et exeuntes de monumentis post resurrectionem eius venerunt in sanctam civitatem, et apparuerunt multis (Matth. XXVII, 52 et 53). Scrive su di ciò sant’Ambrogio (L. X in Luc.): Monumentorum reseratio quid aliud, nisi, claustris mortis effractis, resurrectionem significat mortuorum? [‘‘Monumentorum autem reseratio (Matt. XXVII, 52) quid aliud, nisi, claustris mortis effractis, resurrectionem significat mortuorum? Quorum in aspectu fides, in processu typus, quod in sanctam prodeundo civitatem, praesentium specie declarabant in illa Hierusalem quae in caelo est, futurum perenne diversorium resurgentium?’’]. Sicché l’apertura dei sepolcri significò la sconfitta data alla morte e la vita restituita agli uomini col lor risorgimento. Avvertono poi san Girolamo, il venerabile Beda e san Tommaso [‘‘Et multa corpora sanctorum, etc. (Matt. XXVII, 53). Quomodo Lazarus mortuus resurrexit , sic et multa corpora sanctorum resurrexerunt, ut Dominum ostenderent resurgentem. Et tamen cum monumenta aperta sint, non antea resurrexerunt quam Dom nus resurgeret, ut esset primogenitus resurrectionis ex mortuis’’: S. Hieronymus, Commentar, in Evang. Matthaei, lib. 4, (in Matt. XXVII, 53). ML 26-213. ‘‘Et multa corpora sanctorum, etc. Sanctorum corpora surrexerunt, ut Dominum ostenderent resurgentem; et tantum (lege: tamen) cum monumenta aperta sunt, non ante surrexerunt quam Dominus, ut esset primogenitus ex mortuis’’: S. Beda Venerabilis, In Matthaei Evangelicum expositio, lib. 4 (in Matt. XXVII, 52, 53). ML 92-125. ‘‘Et exeuntes de monumentis post resurrectionem eius, etc. Et notandum quod licet istud dictum sit in morte Christi, tamen intelligendum est per anticipationem esse dictum, quia post resurrectionem actum est; quia Christus primogenitus mortuorum (Apoc. I, 5)’’: S. Thomas, In Matthaeum Evangelistam expositio, cap. XXVII, 53] che quantunque nella morte di Cristo si aprissero i sepolcri, nondimeno i morti non risorsero se non dopo la risurrezione del Signore, come specialmente scrive san Girolamo: Tamen cum monumenta aperta sunt, non antea resurrexerunt, quam Dominus resurgeret, ut esset primogenitus resurrectionis ex mortuis [Vedi parentesi precedente] E ciò è secondo quel che dice l’Apostolo (Coloss. I, 18) [Quando sant’Alfonso dice ‘‘l’Apostolo’’, generalmente intende indicare san Paolo, ndR], dove Gesù Cristo è chiamato primogenito dei morti e il primo dei risorgenti: Principium, primogenitus ex mortuis, ut sit in omnibus ipse primatum tenens (Loc. cit.): poiché non era conveniente che altr’uomo risorgesse prima di colui che aveva trionfato della morte. Dicesi in san Matteo che molti santi risorsero allora ed, uscendo dai sepolcri, apparvero a molti. Questi risorti furono già quei giusti che avevano creduto e sperato in Gesù Cristo; e Dio volle così onorarli in premio della loro fede e confidenza nel futuro Messia, secondo la predizione di Zaccaria, nella quale il profeta parlando al futuro Messia disse: Tu quoque in sanguine testamenti tui emisisti vinctos tuos de lacu in quo non est aqua (Zach. IX, 11). Cioè: tu ancora, o Messia, per lo merito del tuo sangue scendesti nel carcere e liberasti quei santi carcerati da quel lago sotterraneo - cioè dal Limbo dei Padri in cui non vi era acqua di gaudio - e li portasti nella gloria eterna». ...
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Stimati Associati, gentili Lettori, avendo preso molto spazio, la scorsa settimana, per il Comunicato numero 22 - Sui diritti e doveri del suddito (volgarmente detto ‘‘cittadino’’), oggi sarò brevissimo nello scrivere di ‘‘migrazioni’’. Citiamo direttamente Papa Pio XII al Concistoro del 20 febbraio 1946: «L’uomo, quale Dio lo vuole e la Chiesa lo abbraccia, non si sentirà mai fermamente fissato nello spazio e nel tempo senza territorio stabile e senza tradizioni. Qui i forti trovano la sorgente della loro vitalità ardente e feconda, e i deboli, che sono la maggioranza, dimorano al sicuro contro la pusillanimità e l’apatia, contro il decadimento della loro dignità umana». Difatti: «La lunga esperienza della Chiesa come educatrice dei popoli lo conferma». La Chiesa «ha cura di congiungere in ogni modo la vita religiosa coi costumi della patria [...] Il naufragio di tante anime dà tristemente ragione a questa materna apprensione della Chiesa e obbliga a concludere che la stabilità del territorio e l’attaccamento alle tradizioni avite [dei propri antenati, ndR], indispensabili alla sana integrità dell’uomo, sono anche elementi fondamentali della comunità umana». Nello stesso discorso ai nuovi Cardinali, il Pontefice ribadisce una delle numerose differenze fra la Chiesa e gli imperialismi: «Tutti, i popoli e gli uomini singoli, sono chiamati a venire alla Chiesa. Ma questa parola ‘‘venire’’ non richiama allo spirito nessuna idea di migrazione, di espatriazione, di quelle deportazioni con le quali i pubblici poteri o la dura forza degli avvenimenti strappano le popolazioni dalle loro terre e dai loro focolari; non implica l’abbandono di salutari tradizioni, di venerandi costumi; non la permanente o almeno lunga separazione violenta di sposi, genitori e figli, fratelli, parenti e amici; non la degradazione degli uomini nella umiliante condizione di una ‘‘massa’’». Tuttavia «questa funesta specie di trasferimenti degli uomini è purtroppo oggi divenuta più frequente, ma anch’essa, nelle sue forme antiche e nuove, in molteplici modi direttamente e indirettamente si ricollega con le tendenze imperialistiche del tempo». Così conclude il paragrafo il Papa: «La Chiesa eleva l’uomo alla perfezione del suo essere e della sua vitalità per dare alla società umana uomini così formati: uomini costituiti nella loro inviolabile integrità come immagini di Dio; uomini fieri della loro dignità personale [...]; uomini stabilmente attaccati alla loro terra ed alla loro tradizione; uomini, in una parola, caratterizzati da quest[i] [...] element[i], ecco ciò che conferisce alla società umana il suo solido fondamento e le procura sicurezza, equilibrio, uguaglianza, normale sviluppo nello spazio e nel tempo. Tale è dunque anche il vero senso e l’influsso pratico della soprannazionalità della Chiesa, che, - ben lungi dall’essere simile a un Impero, - elevandosi al di sopra di tutte le differenze, di tutti gli spazi e i tempi, incessantemente costruisce sul fondamento inconcusso di ogni società umana [...]».
a cura di Carlo Di Pietro
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Stimati Associati, gentili Lettori, insegna Papa Pio XI: «Sta scritto nel Libro di Dio: quelli che abbandonarono il Signore andranno consunti; […] Gesù Redentore, Maestro degli uomini, ha detto: senza di me nulla potete fare; ed ancora: chi non raccoglie meco, disperde». Poste le ragioni della verità, analizzate le cronache dell’epoca, il Pontefice sentenzia: «Queste divine parole si sono avverate, ed ancora oggi vanno avverandosi sotto i nostri occhi. Gli uomini si sono allontanati da Dio e da Gesù Cristo e per questo sono caduti al fondo di tanti mali; per questo stesso si logorano e si consumano in vani e sterili tentativi di porvi rimedio, senza neppure riuscire a raccogliere gli avanzi di tante rovine». Poiché: «si è voluto che fossero senza Dio e senza Gesù Cristo le leggi e i governi, derivando ogni autorità non da Dio, ma dagli uomini; e con ciò stesso venivano meno alle leggi, non soltanto le sole vere ed inevitabili sanzioni, ma anche gli stessi supremi criteri del giusto, che anche il filosofo pagano Cicerone intuirà potersi derivare soltanto dalla legge divina. E veniva pure meno all’autorità ogni solida base, ogni vera ed indiscutibile ragione di supremazia e di comando da una parte, di soggezione e di ubbidienza dall’altra; e così la stessa compagine sociale, per logica necessità, doveva andarne scossa e compromessa, non rimanendole ormai alcun sicuro fulcro, ma tutto riducendosi a contrasti ed a prevalenze di numero e di interessi particolari» (Arcano Dei Consilio, 23.12.1922; cf. Appunti di teologia politica, n° 1, da Le Cronache Lucane, 02.2016). Sempre Papa Pio XI, il giorno 11 dicembre 1925, nella sua Quas Primas, proclamando la Regalità Sociale di Cristo, asserisce severo: «Noi scrivemmo circa il venir meno del principio di autorità e del rispetto alla pubblica potestà: Allontanato, infatti - così lamentavamo - Gesù Cristo dalle leggi e dalla società, l’autorità appare senz’altro come derivata non da Dio ma dagli uomini, in maniera che anche il fondamento della medesima vacilla: tolta la causa prima, non v’è ragione per cui uno debba comandare e l’altro obbedire. Dal che è derivato un generale turbamento della società, la quale non poggia più sui suoi cardini naturali» (cf. Appunti di teologia politica, n° 2, da Le Cronache Lucane, 02.2016). Ciò assunto, facilmente si comprende perché oggigiorno in tanti si scagliano contro l’autorità, purtroppo anche molti che si dicono cattolici ed agiscono, invece, da rivoluzionari o ragionano da anarchici. Dalla pagina 38 alla 42, nel suo Storia sociale della Chiesa (vol I, ed. CLS, Verrua Savoia, 2016), mons. Umberto Benigni scrive di Autorità e della Dottrina politica degli Apostoli. Cito: «Al principio cristiano che rende religiosamente morale (e, perciò stesso, superiormente civile) la fedele sudditanza politica, san Paolo apporta una magistrale esposizione in un noto passo della sua epistola ai Romani, in cui parla complessivamente del rispetto ed obbedienza alla legge e della passività economico-sociale o tributaria. ‘‘Ogni anima sia soggetta alle potestà superiori; imperocché non è podestà se non da Dio; e quelle che sono, sono da Dio ordinate. Per la qual cosa chi si oppone alla podestà, resiste all’ordinazione di Dio; e quei che resistono, si comperano la dannazione. Imperocché i principi sono il terrore non delle opere buone, ma delle cattive. Vuoi tu non aver paura della podestà? Opera bene e da essa avrai lode. Imperocché ella è ministra di Dio per te per il bene. Che se fai del male, temi; conciossiachè non indarno porta la spada: imperocché ella è ministra di Dio, vendicatrice per punire chiunque mal fa. Per la qual cosa siate soggetti com’è necessario, non solo per tema dell’ira ma anche per coscienza. Imperocché per questo pure voi pagate i tributi; giacché sono ministri di Dio che in questo stesso lo servono. Rendete dunque a tutti quel che è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi la gabella, la gabella; a chi il timore, il timore; a chi l’onore, l’onore»’’(Rom. XIII, 1-7). Riguardo alla fedeltà politica, che ora c’interessa, la dottrina generale di san Paolo è questa. Dio creatore e governatore del mondo ha stabilito un ordinamento per tutte le creature, ciascuna secondo la sua natura; l’uomo, essere ragionevole sociale (homo animal sociale, cf. san Tommaso), deve avere anche un ordinamento sociale. Dio ha disposto che la comunità sociale, la civitas, sia retta da alcune persone investite da una autorità che viene da Dio inquantochè essa realizza l’ordinamento voluto da lui. Perciò la ribellione contro l’autorità civile è una ribellione all’ordinamento sociale voluto da Dio. Ecco la ‘‘coscienziosità’’ della fedeltà politica che va dal rendere onore al pagare il tributo, cioè consiste nel riconoscimento morale e materiale dell’autorità. Conseguentemente a questo principio, l’Apostolo delle genti scrive a Tito per i fedeli: ‘‘Rammenta loro che siano soggetti ai principi ed alle podestà; che siano ubbidienti e pronti ad ogni buona opera’’ (Tit., III, 1). Ed a Timoteo aveva scritto di far pregare per le autorità affinché degnamente compiano il loro ufficio di giustizia e di civiltà, assegnato loro dall’ordinamento di Dio: ‘‘Raccomandando adunque prima di tutto che si facciano suppliche, orazioni, voti, ringraziamenti per tutti gli uomini: per i re e per tutti i costituiti in posto sublime, affinché meniamo vita quieta e tranquilla con tutta pietà ed onestà’’ (I Tim., II, 1-2). ...
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Stimati Associati, gentili Lettori, oggi pare che molti neghino la provvidenza di Dio e la Sua azione nel mondo e sul mondo. Questo modo di ragionare, ed eziandio di agire, può significare una sola cosa, che essi, in fondo in fondo, non credono in Dio: si dimostrano una sorta di atei che si dichiarano credenti per convenzione o per opportunità. Dobbiamo diffidare da simili commedianti, secondo l’anatema di Nostro Signore: «Duces caeci, excolantes culicem, camelum autem glutientes» - «Guide cieche, che filtra[no] il moscerino e ingoia[no] il cammello», le quali pagano «la decima della menta, dell’anèto e del cumìno», mentre trasgrediscono «le prescrizioni più gravi della legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà» - «Vae vobis, scribae et pharisaei hypocritae, quia decimatis mentam et anethum et cyminum et reliquistis, quae graviora sunt legis: iudicium et misericordiam et fidem!». Insegna Papa Leone XIII nella Arcanum Divinæ del 10 febbraio 1880: «[...] Cristo Signore cominciò ad eseguire il mandato che gli aveva dato il Padre, subito comunicò a tutte le cose una nuova forma e bellezza, dileguandone ogni squallore. Infatti, Egli sanò le ferite che il peccato del primo padre aveva cagionato alla natura umana; riconciliò con Dio tutti gli uomini, per natura figli dell’ira; ricondusse alla luce della verità coloro che erano oppressi dagli errori; riportò ad ogni virtù coloro che erano soggiogati da ogni impudicizia; [...] Affinché poi benefìci tanto singolari durassero sulla terra fintantoché vi fossero uomini, costituì la Chiesa vicaria di ogni sua potestà, e, guardando all’avvenire, volle che essa, se qualche turbamento si verificasse nella società umana, vi riportasse l’ordine e riparasse eventuali guasti. [...] Infatti, appena stabilita nel mondo la religione cristiana, a tutti e singoli gli uomini fu offerta la felice sorte di conoscere la paterna provvidenza di Dio, di avvezzarsi a porre in essa ogni loro fiducia, ed a nutrire quella speranza che non confonde, cioè la speranza dei celesti aiuti, dai quali derivano la fortezza, la moderazione, la costanza, l’equilibrio dello spirito e, infine, molte belle virtù e fatti egregi. È davvero meraviglioso quanta dignità, quanta stabilità e quanto decoro ne siano derivati alla comunità familiare e a quella civile. L’autorità dei Principi si è resa più ragionevole e più santa; l’obbedienza dei popoli più devota e più pronta; i vincoli di fratellanza fra i cittadini più stretti, i diritti di proprietà più garantiti. La religione cristiana provvide a tutte le cose che sono ritenute utili nello Stato, [...]». Sempre il mentovato Pontefice, nella Sapientiæ Christianæ del 10 gennaio 1890, profeticamente ci erudisce in tal guisa: «La Chiesa in nessun tempo e in nessun modo viene abbandonata da Dio: per questo non ha nulla da temere dalla malvagità degli uomini; ma le nazioni, degenerando dalla virtù cristiana, non possono avere la stessa sicurezza. “Infatti il peccato rende miseri i popoli” (Pr. XIV,34). E se ogni età anteriore ha sperimentato la forza e la verità di questa sentenza, per quale motivo non dovrebbe sperimentarla la nostra? Anzi, molti già affermano che il castigo è imminente e la condizione stessa degli Stati moderni lo conferma: infatti ne vediamo parecchi per nulla sicuri e tranquilli a causa delle discordie intestine. E se le fazioni dei malvagi continueranno spavaldamente per questa strada: se accadrà che coloro che già procedono sulla via del malaffare e dei peggiori proponimenti aumentino di potere e di mezzi, c’è da temere che demoliscano tutto l’edificio sociale fin dalle fondamenta poste dalla natura. E non è possibile che tanti pericoli possano essere allontanati con la sola opera degli uomini, soprattutto perché molta gente, abbandonata la fede cristiana, giustamente paga il fio (ovvero il castigo, ndR) della propria superbia; accecata dalle passioni, inutilmente cerca la verità; abbraccia come vero ciò che è falso, e crede di essere saggia “quando chiama bene il male e male il bene” e chiama “luce le tenebre e tenebre la luce” (Is. V,20). È necessario che Dio intervenga e, memore della sua benignità, rivolga uno sguardo pietoso sulla società civile. Per questo, come abbiamo altre volte esortato, è necessario adoperarsi con particolare zelo e costanza affinché la divina clemenza venga implorata con umile preghiera e siano richiamate quelle virtù che costituiscono l’essenza della vita cristiana».
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Stimati Associati, gentili Lettori, il 6 agosto dell’anno 523 moriva Papa sant’Ormisda. Ogni legittimo Pontefice ci ha lasciato in eredità il grande tesoro del suo Magistero, che, senza trascurare i nostri doveri di stato e senza travalicarne i limiti, faremmo bene a meditare con filiale attenzione. La Professione di fede che ci accingiamo a studiare era destinata al clero che rientrava dallo scisma acaciano. Oggi risulta insolito parlare di scisma, dato che ognuno sembra predicare e praticare la propria ‘esclusiva’ fede sentimentale, generalmente un misto di relativismo, naturalismo e fideismo, noncurante di qualsiasi autorità, nell’indifferenza di chi dovrebbe essere l’autorità, eppure la storia ci insegna che la Chiesa ha sempre e santamente vigilato sull’unità di fede e di governo. Tra le diverse versioni, di poco differenti l’una dall’altra, viene qui riportata quella che sant’Ormisda consegnò al suo legato l’11 agosto 515. Essa fu sottoscritta a Costantinopoli il 18 marzo 517. È molto vicina a questa versione della formula un’altra che fu allegata alla lettera Inter ea quae, indirizzata ai vescovi della Spagna in data 2 aprile 517. Il 16 marzo 536 l’imperatore Giustiniano ed il patriarca Menas di Costantinopoli (Collectio Avellana, Lettera 89 90) e più tardi anche il Concilio di Costantinopoli IV (Sessione 1) sottoscrissero una formula di questo tipo (cf. Denzinger, 363-365; pag. 208-209). Leggiamo: «(1) L’inizio della salvezza è custodire la regola della retta fede e non deviare in nessun modo da quanto stabilito dai Padri. E giacché non si può non tenere conto della sentenza del Signore nostro Gesù Cristo, che dice: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa [Mt 16,18], quanto fu detto vien dimostrato dai fatti che seguirono, giacché presso la Sede Apostolica la religione cattolica è sempre stata conservata immacolata. (2) Non desideriamo dunque affatto separar(ci) da questa speranza e (questa) fede e, seguendo in tutto quanto i Padri hanno stabilito, anatematizziamo tutte le eresie, particolarmente l’eretico Nestorio, che è stato a suo tempo vescovo della città di Costantinopoli, (e fu) condannato nel Concilio di Efeso da Celestino, papa della città di Roma e da san Cirillo, vescovo della città di Alessandria; assieme a costui, anatematizziamo Eutiche e Dioscoro d’Alessandria, condannati nel santo Concilio di Calcedonia, che seguiamo e abbracciamo [e che sulle orme del s. Concilio di Nicea proclamò la fede apostolica]. (3) Aggiungiamo a costoro [Detestiamo anche] il traditore Timoteo soprannominato Eluro, e il suo discepolo e in tutto (suo) seguace Pietro d’Alessandria; così pure condanniamo [anche] e anatematizziamo Acacio, vescovo di Costantinopoli, condannato dalla Sede Apostolica, loro complice e seguace, oppure coloro che sono rimasti nella condivisione di comunione con loro: giacché [Acacio] meritò nella condanna un giudizio simile (a quello) di coloro alla cui comunione si unì. Condanniamo non di meno Pietro d’Antiochia con i suoi seguaci e (i seguaci) di tutti i sopraddetti. (4) Conseguentemente accogliamo [invece] e approviamo tutte le lettere del beato papa Leone, da lui scritte circa la religione cristiana. Quindi, come abbiamo sopra detto, seguiamo in tutto la Sede Apostolica e proclamiamo tutto quanto è stato da essa stabilito, [E perciò] spero di meritare di essere nell’unica comunione con voi, (quella) proclamata dalla Sede Apostolica, nella quale c’è l’integra e verace [e perfetta] solidità della religione cristiana: promettiamo [prometto] anche [in futuro] di non leggere durante i misteri i nomi di coloro che sono stati allontanati dalla comunione con la Chiesa cattolica, cioè coloro che non sono d’accordo con la Sede Apostolica. [Che se cercherò in qualcosa di deviare dalla mia professione, professo che per il mio stesso giudizio sono complice di quanti ho condannato]. (5) Questa mia professione poi [io] (l’)ho sottoscritta di propria [mia] mano e (l’)ho consegnata [mandata] a te, Ormisda, santo e venerabile papa della città di Roma ...».
A cura di CdP
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Stimati Associati, gentili Lettori, se vi state domandando perché i nostri comunicati siano sempre densi di citazioni scelte e scarni di considerazioni personali, lo si deve al fatto che il settimanale SVRSVM CORDA tratta temi delicatissimi, i più delicati che esistano, dove potrebbe essere in giuoco l’anima delle persone, il bene più prezioso che tutti abbiamo; pertanto, non essendo noi all’altezza, altrimenti non sentiremmo neanche la necessità di formarci su SVRSVM CORDA ed altrove, lasciamo che sia SEMPRE e solo la Chiesa ad istruire. Poche considerazioni, così, ma tanti e tanti contenuti - di granito - che vengono dalla Bocca di Dio, dall’Oracolo del Signore, ovverosia dalla Chiesa cattolica. Scacciamo ogni istante la tentazione della setta protestantica del libero esame, che dalla mente perversa di Lutero, il quale, di dannata memoria, tutto voleva fare e solo secondo il proprio punto di vista, ci ha restituito molte mostruosità del pensiero e morbi sociali, fra cui il comunismo, il socialismo, il liberalismo e, abominevole più che mai, il rivoluzionarismo liberticida francese. Ciò premesso, veniamo al tema d’oggi: «Il buon costume e la diseducazione morale». Insegna Papa Leone XIII nella Immortale Dei del giorno 1 novembre 1885: «La sola vita virtuosa spiana la via al cielo, meta ultima dell’uomo; e perciò fallisce lo Stato a leggi prescritte dalla natura, ove tolto ogni freno all’errore e al male, lasci piena balia di travolgere le menti e di corrompere i cuori. Tener poi lontana dalla vita pubblica, dalle leggi, dall’insegnamento, dalla famiglia, la Chiesa da Dio stesso fondata, è grande e funestissimo errore. Società virtuosa non può essere, tolto il fondamento della Religione; ed ormai, forse più di quello che bisogni, si sa da tutti a che si riduca e dove vada a parare quella morale che chiamano civile. Maestra verace di virtù e tutrice del buon costume è la Chiesa di Cristo; è essa che mantiene incolumi i principii donde derivano i doveri, e messi dinanzi i più efficaci motivi a vivere rettamente, non solo vieta le reazioni esterne, ma comanda altresì di frenare i movimenti dell’animo contrarii alla ragione, ancorché puramente interni» (cf. Civiltà Cattolica, anno Trigesimosesto, vol. XII, della serie Duodecima, p. XXV). Papa Pio XI nella Divina Illustri Magistri, del giorno 31 dicembre 1929, asserisce: «Massimamente pericoloso è quel naturalismo, che, ai nostri tempi, invade il campo dell’educazione in argomento delicatissimo quale è quello dell’onestà dei costumi. Assai diffuso è l’errore di coloro che, con pericolosa pretensione e con brutta parola, promuovono una cosidetta educazione sessuale, falsamente stimando di poter premunire i giovani contro i pericoli del senso, con mezzi puramente naturali, quali una temeraria iniziazione ed istruzione preventiva per tutti indistintamente ed anche pubblicamente e, peggio ancora, con esporli per tempo alle occasioni per assuefarli, come essi dicono, e quasi indurirne l’animo contro quei pericoli». Ancora: «Costoro errano gravemente non volendo riconoscere la nativa fragilità della natura umana e la legge, di cui parla l’Apostolo, ripugnante alla legge della mente (San Paolo, ai Romani, VII, 23), e misconoscendo anche l’esperienza stessa dei fatti, onde consta che, segnatamente nei giovani, le colpe contro i buoni costumi non sono tanto effetto dell’ignoranza intellettuale quanto principalmente dell’inferma volontà, esposta alle occasioni e non sostenuta dai mezzi della Grazia». Papa Leone XIII nella sua Rerum novarum, del giorno 15 maggio 1891, riflette: «La prosperità delle Nazioni deriva specialmente dai buoni costumi, dal buon assetto della famiglia, dalla osservanza della Religione e della giustizia, dall’imposizione moderata e dall’equa distribuzione delle pubbliche gravezze, dal progresso delle industrie e del commercio, dal fiorire dell’agricoltura e da altre simili cose, le quali quanto maggiormente promosse, tanto più rendono felici i popoli».
A cura di CdP
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Stimati Associati, gentili Lettori, grazie a Dio, nonostante la ‘pausa’ estiva, fino ad ora siamo stati sempre puntuali nella stesura, stampa e distribuzione del nostro settimanale. Come avrete potuto notare, da questo numero ci concentreremo soprattutto sullo studio di alcuni libri, fra i quali: 1) «Fortes in Fide», don Bussinello; 2) «Il Sillabario del Cristianesimo», mons. Olgiati. Perché questa scelta? Per due ragioni. Lo scritto di don Bussinello è semplice ed immediato, adatto soprattutto ai giovanissimi ed agli ignoranti. Purtroppo, soprattutto nell’epoca moderna, se non si riparte dalla base, si rimane e si vive ignoranti. Quello di mons. Olgiati, invece, bene si presta a chi ha già acquisito, evidentemente studiando sui buoni libri, almeno i rudimenti della vera religione, la Cattolica, dunque apre ad approfondimenti filosofici e di anti modernismo. Quando avremo terminato lo studio di questi due libri, se Dio vorrà, pian pianino leggeremo e stamperemo altro. Cosa conta nella vita? Ciò che primariamente conta è la salvezza dell’anima. Commentando il Catechismo di san Pio X, padre Dragone riferisce al numero 132: «Chi è fuori dalla Chiesa si salva? Chi è fuori dalla Chiesa per propria colpa e muore senza dolore perfetto, non si salva; ma chi ci si trova senza propria colpa, e viva bene, può salvarsi con l’amore di carità, che unisce a Dio e, in spirito, anche alla Chiesa, cioè all’anima di lei». Il padre sta citando Papa san Pio X. Spiega, poi, Dragone: «La Chiesa ha un corpo formato dal Capo e dalle varie membra unite al Capo mediante il carattere battesimale; ha inoltre un’anima, che è lo Spirito Santo, che vivifica le membra con la grazia e la carità. Per salvarsi è necessario morire in grazia di Dio; perciò per entrare in cielo occorre essere uniti almeno all’anima della Chiesa, mediante la grazia. Orbene: 1) è unito al corpo e all’anima della Chiesa, e quindi si salva, colui che è battezzato e muore in grazia di Dio; 2) è unito al corpo e non all’anima della Chiesa, e quindi non si salva, chi è battezzato e muore in peccato mortale senza pentimento; 3) è unito all’anima e non al corpo della Chiesa, e quindi si può salvare, chi è senza battesimo, ma muore perdonato dei suoi peccati per il dolore perfetto con cui li ha detestati; 4) non è unito né al corpo né all’anima della Chiesa, e quindi non si salva, chi non è battezzato, vive in peccato e muore senza il dolore perfetto. Non si può salvare chi è fuori della Chiesa per propria colpa, cioè chi sa che soltanto nella Chiesa vi è possibilità di salvezza, trascura di entrarvi o di ritornarvi, e muore in peccato senza l’amore di carità o il dolore perfetto. Invece si salva colui che è fuori della Chiesa senza propria colpa, o perché non la conosce o pur conoscendola, non sa che bisogna farne parte, ma vive bene, o almeno prima di morire si pente dei suoi peccati col dolore perfetto» (Spiegazione del Catechismo di San Pio X. Per i catechisti, ed. CLS, Verrua Savoia, 2009, pag. 207). Leggendo padre Dragone, abbiamo capito quanto sia necessario detestare l’ignoranza ed essere umili come gli innocenti, sempre pronti a studiare i buoni libri. Se si desidera l’ignoranza, difatti, si è colpevoli e molto facilmente ci si danna l’anima. Ci erudisce sant’Alfonso Maria de’ Liguori che usa il sommo san Tommaso ed altri: «È regola certa che non può darsi ignoranza invincibile in quelle cose che l’uomo deve e può sapere. Quando dunque non sa quel ch’è tenuto a sapere ed all’incontro può vincere l’ignoranza colla sua diligenza (studio superare potest, come parla S. Tommaso, I, II, q. 76, a. 2) egli non può essere scusato da colpa. Quali cose poi siam tenuti noi a sapere, le spiega l’Angelico nello stesso luogo: Omnes tenentur scire communiter ea quæ sunt fidei, et universalia juris præcepta; singuli autem quæ ad eorum statum vel officium spectant. Sicché, parlando del dritto naturale, non può darsi ignoranza invincibile nei primi principi della legge [...] Così anche non può darsi nelle conclusioni immediate o sieno prossime a detti principi, quali sono i precetti del decalogo. Neppure può darsi negli obblighi spettanti al proprio stato o proprio officio; poiché chi assume qualche stato, per esempio, ecclesiastico o religioso, o pure chi prende ad esercitare qualche officio, come di giudice, di medico, di confessore o simile, è obbligato ad istruirsi dei doveri di quello stato o di quell’officio; e chi l’ignora, lasciando d’istruirsene, o per timore di non esser poi tenuto ad osservarli, o per mera ma volontaria negligenza, la sua ignoranza sarà sempre colpevole, e tutti gli errori che indi commetterà per cagione di tal negligenza saranno tutti colpevoli, quantunque egli, nel commetterli, non abbia avvertenza attuale della loro malizia; mentre basta a renderli colpevoli l’avvertenza virtuale ossia (come chiamano altri) interpretativa, ch’egli ha avuta in principio in tralasciare di sapere le proprie obbligazioni. [... San Tommaso scrive] che non può essere scusato quel giudice, se erra nel giudicare per non saper le leggi che doveva aver imparate» (cf. Dell’uso moderato dell’opinione probabile, CAPITOLO II).
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Stimati Associati, gentili Lettori, dedichiamo questo comunicato al Capitolo IV della Pastor Aeternus. La Pastor Aeternus è una Costituzione dogmatica del Concilio Vaticano I sulla Chiesa di Cristo e sul Papato, approvata il 18 luglio 1870, essendo papa Pio IX. Leggiamo insieme: "Questa Santa Sede ha sempre ritenuto che nello stesso Primato Apostolico, posseduto dal Romano Pontefice come successore del beato Pietro Principe degli Apostoli, è contenuto anche il supremo potere di magistero. Lo conferma la costante tradizione della Chiesa; lo dichiararono gli stessi Concili Ecumenici e, in modo particolare, quelli nei quali l’Oriente si accordava con l’Occidente nel vincolo della fede e della carità. Proprio i Padri del quarto Concilio di Costantinopoli, ricalcando le orme dei loro antenati, emanarono questa solenne professione: La salvezza consiste anzitutto nel custodire le norme della retta fede. E poiché non è possibile ignorare la volontà di nostro Signore Gesù Cristo che proclama: Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, queste parole trovano conferma nella realtà delle cose, perché nella Sede Apostolica è sempre stata conservata pura la religione cattolica, e professata la santa dottrina. Non volendo quindi, in alcun modo, essere separati da questa fede e da questa dottrina, nutriamo la speranza di poterci mantenere nell’unica comunione predicata dalla Sede Apostolica, perché in lei si trova tutta la vera solidità della religione cristiana. Nel momento in cui si approvava il secondo Concilio di Lione, i Greci dichiararono: La Santa Chiesa Romana è insignita del pieno e sommo Primato e Principato sull’intera Chiesa Cattolica e, con tutta sincerità ed umiltà, si riconosce che lo ha ricevuto, con la pienezza del potere, dallo stesso Signore nella persona del beato Pietro, Principe e capo degli Apostoli, di cui il Romano Pontefice è successore, e poiché spetta a lei, prima di ogni altra, il compito di difendere la verità della fede, qualora sorgessero questioni in materia di fede, tocca a lei definirle con una sua sentenza. Da ultimo il Concilio Fiorentino emanò questa definizione: Il Pontefice Romano, vero Vicario di Cristo, è il capo di tutta la Chiesa, il padre e il maestro di tutti i Cristiani: a lui, nella persona del beato Pietro, è stato affidato, da nostro Signore Gesù Cristo, il supremo potere di reggere e di governare tutta la Chiesa. Allo scopo di adempiere questo compito pastorale, i Nostri Predecessori rivolsero sempre ogni loro preoccupazione a diffondere la salutare dottrina di Cristo fra tutti i popoli della terra, e con pari dedizione vigilarono perché si mantenesse genuina e pura come era stata loro affidata. È per questo che i Vescovi di tutto il mondo, ora singolarmente ora riuniti in Sinodo, tenendo fede alla lunga consuetudine delle Chiese e salvaguardando l’iter dell’antica regola, specie quando si affacciavano pericoli in ordine alla fede, ricorrevano a questa Sede Apostolica, dove la fede non può venir meno, perché procedesse in prima persona a riparare i danni . Gli stessi Romani Pontefici, come richiedeva la situazione del momento, ora con la convocazione di Concili Ecumenici o con un sondaggio per accertarsi del pensiero della Chiesa sparsa nel mondo, ora con Sinodi particolari o con altri mezzi messi a disposizione dalla divina Provvidenza, definirono che doveva essere mantenuto ciò che, con l’aiuto di Dio, avevano riconosciuto conforme alle sacre Scritture e alle tradizioni Apostoliche. Lo Spirito Santo infatti, non è stato promesso ai successori di Pietro per rivelare, con la sua ispirazione, una nuova dottrina, ma per custodire con scrupolo e per far conoscere con fedeltà, con la sua assistenza, la rivelazione trasmessa dagli Apostoli, cioè il deposito della fede. Fu proprio questa dottrina apostolica che tutti i venerabili Padri abbracciarono e i santi Dottori ortodossi venerarono e seguirono, ben sapendo che questa Sede di San Pietro si mantiene sempre immune da ogni errore in forza della divina promessa fatta dal Signore, nostro Salvatore, al Principe dei suoi discepoli: Io ho pregato per te, perché non venga meno la tua fede, e tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli. Questo indefettibile carisma di verità e di fede fu dunque divinamente conferito a Pietro e ai suoi successori in questa Cattedra, perché esercitassero il loro eccelso ufficio per la salvezza di tutti, perché l’intero gregge di Cristo, distolto dai velenosi pascoli dell’errore, si alimentasse con il cibo della celeste dottrina e perché, dopo aver eliminato ciò che porta allo scisma, tutta la Chiesa si mantenesse una e, appoggiata sul suo fondamento, resistesse incrollabile contro le porte dell’inferno. Ma poiché proprio in questo tempo, nel quale si sente particolarmente il bisogno della salutare presenza del ministero Apostolico, si trovano parecchie persone che si oppongono al suo potere, riteniamo veramente necessario proclamare, in modo solenne, la prerogativa che l’unigenito Figlio di Dio si è degnato di legare al supremo ufficio pastorale. Perciò Noi, mantenendoci fedeli alla tradizione ricevuta dai primordi della fede cristiana, per la gloria di Dio nostro Salvatore, per l’esaltazione della religione Cattolica e per la salvezza dei popoli cristiani, con l’approvazione del sacro Concilio proclamiamo e definiamo dogma rivelato da Dio che il Romano Pontefice, quando parla ex cathedra, cioè quando esercita il suo supremo ufficio di Pastore e di Dottore di tutti i cristiani, e in forza del suo supremo potere Apostolico definisce una dottrina circa la fede e i costumi, vincola tutta la Chiesa, per la divina assistenza a lui promessa nella persona del beato Pietro, gode di quell’infallibilità con cui il divino Redentore volle fosse corredata la sua Chiesa nel definire la dottrina intorno alla fede e ai costumi: pertanto tali definizioni del Romano Pontefice sono immutabili per se stesse, e non per il consenso della Chiesa. Se qualcuno quindi avrà la presunzione di opporsi a questa Nostra definizione, Dio non voglia!: sia anatema".
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Stimati Associati, gentili Lettori, dopo 4 mesi di attività siamo arrivati al n° 16 del Settimanale Sursum Corda. Grazie a Dio, anche il numero degli Iscritti è in crescita e, attualmente, possiamo contare su 27 Tesserati. Le pubblicazioni del piccolo libro "Catechismo cattolico sulle rivoluzioni", S. Sordi, De Agostini, Torino, 1854, sono terminate; lo scritto è interamente leggibile in questa sezione del sito. Facciamo presente che il "Catechismo cattolico sulle rivoluzioni" è stato ripubblicato in italiano dalle Edizioni Amicizia Cristiana e si può acquistare cliccando qui. Affermava don Bosco: "I tempi difficili, in cui viviamo, le calunnie, con cui i nemici della luce si adoperano per coprir la verità, persuadono la necessità di un catechismo, in cui si esponga la dottrina cattolica sulle rivoluzioni. La qual cosa certamente servirà di norma al cattolico, se mai tali tristi casi avvenissero, e servirà pure a far comprender a tutti gli uomini di senno, che il cattolicismo non deve, e non ha mai promosse, né promuoverà giammai le rivoluzioni. La ragione fondamentale, per cui il cattolicismo non verrà mai a favorire le rivoluzioni, consiste in ciò, che tutti i cattolici sono vincolali ad un’autorità certa, che è la Chiesa, e questa Chiesa, appoggiata alle Sacre Scritture, dice a tutti i fedeli: ubbidite alle legittime autorità; chi resiste all’autorità, resiste a Dio, da cui ogni autorità dipende. E poiché i fedeli devono uniformarsi a questa sentenza, ne segue che niun buon cattolico sarà partigiano delle rivoluzioni. È appunto per questo motivo che un dotto protestante d’oggidì, considerando l’uniformità di dottrina nella Chiesa Cattolica, giunse a dire: La sola Chiesa Cattolica è la scuola del rispetto (Guizot). Al contrario il protestantismo lasciando libero ciascuno d’interpretare la Bibbia come vuole, in esso l’uomo non ha più alcuna autorità che la propria ragione. Il protestante, se vuole essere conseguente a se stesso, deve dire: l’unica mia autorità è la mia ragione. Quindi via ogni dipendenza religiosa, via ogni convenzione sociale, via ogni ordine, ogni legge, via ogni autorità: la mia ragione e non altro: la sola forza mi farà ubbidire. Che anzi: se venisse a capriccio di uno o più protestanti di fare una congiura, di uccidere un loro superiore, fosse lo stesso sovrano, potrebbero farlo, purché loro sembri cosa buona. Noi intanto, mentre raccomandiamo ai cattolici di leggere attentamente questo catechismo, e di praticarne le massime ivi contenute, vorremmo altresì che servisse a far aprire gli occhi a tanti miseri sconsigliati, i quali o per malizia o per ignoranza si fanno promotori di una setta, il protestantismo, la quale, proponendo all’uomo di credere quel che vuole, e di fare quel che crede, apre uno spaventoso abisso alla società, e fa lecito ogni disordine, ogni misfatto. Ce ne scampi Iddio". Nel lavoro e nelle azioni del quotidiano ricordiamoci sempre di pregare così: "Misericordioso Iddio, concedete ch’io brami ardentemente ciò che Vi piace, lo investighi prudentemente, veracemente lo conosca e perfettamente lo compia a lode e gloria del Vostro Nome".
CdP
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Stimati Associati, gentili Lettori, per il periodo estivo il nostro bollettino sarà edito probabilmente a cadenza non settimanale, tuttavia, a Dio piacendo, faremo il possibile per garantire la consueta continuità. Al fine di rendere più agevole il lavoro di impaginazione, abbiamo leggermente modificato l'editing del settimanale che, ad un primo sguardo, risulta certamente più spartano e meno appetibile. Come ben sappiamo, però, a noi interessano i contenuti, quindi preghiamo affinché Sursum Corda possa continuare a fare informazione e formazione sulla base degli scritti di Papi, Santi ed eruditi. Oggi ricordiamo un breve passo tratto da Casti Connubii di Papa Pio XI: “Ma per venire ormai, Venerabili Fratelli, a trattare dei singoli punti che si oppongono ai diversi beni del matrimonio, il primo riguarda la prole, che molti osano chiamare molesto peso del connubio e affermano doversi studiosamente evitare dai coniugi, non già con l’onesta continenza, permessa anche nel matrimonio, quando l’uno e l’altro coniuge vi consentano, ma viziando l’atto naturale. E questa delittuosa licenza alcuni si arrogano perché, aborrendo dalle cure della prole, bramano soltanto soddisfare le loro voglie, senza alcun onere; altri allegano a propria scusa la incapacità di osservare la continenza, e la impossibilità di ammettere la prole a cagione delle difficoltà proprie, o di quelle della madre, o di quelle economiche della famiglia. Senonché, non vi può esser ragione alcuna, sia pur gravissima, che valga a rendere conforme a natura ed onesto ciò che è intrinsecamente contro natura. E poiché l’atto del coniugio è, di sua propria natura, diretto alla generazione della prole, coloro che nell’usarne lo rendono studiosamente incapace di questo effetto, operano contro natura, e compiono un’azione turpe e intrinsecamente disonesta. Quindi non meraviglia se la Maestà divina, come attestano le stesse Sacre Scritture, abbia in sommo odio tale delitto nefando, e l’abbia talvolta castigato con la pena di morte, come ricorda Sant’Agostino: «Perché illecitamente e disonestamente si sta anche con la legittima sposa, quando si impedisce il frutto della prole. Così operava Onan, figlio di Giuda, e per tal motivo Dio lo tolse di vita». Pertanto, essendovi alcuni che, abbandonando manifestamente la cristiana dottrina, insegnata fin dalle origini, né mai modificata, hanno ai giorni nostri, in questa materia, preteso pubblicamente proclamarne un’altra, la Chiesa Cattolica, cui lo stesso Dio affidò il mandato di insegnare e difendere la purità e la onestà dei costumi, considerando l’esistenza di tanta corruttela di costumi, al fine di preservare la castità del consorzio nuziale da tanta turpitudine, proclama altamente, per mezzo della Nostra parola, in segno della sua divina missione, e nuovamente sentenzia che qualsivoglia uso del matrimonio, in cui per la umana malizia l’atto sia destituito della sua naturale virtù procreatrice, va contro la legge di Dio e della natura, e che coloro che osino commettere tali azioni, si rendono rei di colpa grave. Perciò, come vuole la suprema autorità Nostra e la cura commessaCi della salute di tutte le anime, ammoniamo i sacerdoti che sono impegnati ad ascoltare le confessioni e gli altri tutti che hanno cura d’anime, che non lascino errare i fedeli loro affidati, in un punto tanto grave della legge di Dio, e molto più che custodiscano se stessi immuni da queste perniciose dottrine, e ad esse, in qualsiasi maniera, non si rendano conniventi. Se qualche confessore o pastore delle anime, che Dio non lo permetta, inducesse egli stesso in simili errori i fedeli a lui commessi, o, se non altro, ve li confermasse, sia con approvarli, sia colpevolmente tacendo, sappia di dovere rendere severo conto a Dio, Giudice Supremo, del tradito suo ufficio, e stimi a sé rivolte le parole di Cristo: «Sono ciechi, e guide di ciechi: e se il cieco al cieco fa da guida, l’uno e l’altro cadranno nella fossa» [Matth., XV, 14; S. Offic., 22 Nov. 1922]”.
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Perché talvolta è necessario percorrere molti chilometri per ricevere i Sacramenti? Ci risponde il Maccono nel suo Commento dogmatico-morale al Catechismo di san Pio X, Torino, 1928, vol. III, pag. 52 ss. Che cos’è la materia del Sacramento? Materia del Sacramento è l’elemento sensibile che si richiede per farlo, come l’acqua nel Battesimo. Che cos’è la forma del Sacramento? Forma del Sacramento sono le parole che il ministro deve proferire nell’atto stesso di applicare la materia. In senso volgare noi diciamo materia ciò che si vede, si tocca, si sente, ecc. e per forma intendiamo la figura delle cose materiali. Nel linguaggio filosofico la parola materia indica ciò che non esiste da sé, né può esistere, ma prende esistenza al sopravvenire di un altro principio detto forma; cosicché ogni cosa esistente è composta di due comprincipi detti materia e forma: la materia è un alcunché di indeterminato, atto a divenire questa o quell’ altra sostanza; ciò che fa sì che sia questa sostanza e non un’altra, è la forma. La Chiesa prese il linguaggio dei filosofi e lo usa in senso metaforico nel parlare dei Sacramenti, cioè: come tutte le cose constano di due parti, materia e forma, così ancora i Sacramenti; e per materia nei Sacramenti, intende la cosa che si adopera per farli o l’atto materiale e visibile, come l’acqua nel Battesimo, il pane e il vino nell’Eucaristia, ecc.; e per forma le parole che si pronunziano nell’atto stesso di applicare la materia o nel fare l’atto visibile. Nel linguaggio sacramentale ciò che determina la materia è la forma. Nel Battesimo, per esempio, la materia è l’acqua, ma io posso versare l’acqua su una persona per rinfrescarla, per lavarla, per ischerzo, per dispetto, ecc. Che cos’è che fa sì che io, nel versarla, faccia un Sacramento? Le parole in sequenza: Io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, ossia, la forma. Nell’amministrazione dei Sacramenti si deve usare la materia e forma stabilita da Gesù Cristo, secondo l’insegnamento della Chiesa. Ogni cambiamento o difetto sostanziale rende nullo il Sacramento; ogni cambiamento accidentale volontario, e non giustificato da necessità o da altra gravissima causa, lo rende illecito, ossia, pecca chi lo amministra in tal modo. Non comprendendosi bene se il difetto sia sostanziale o accidentale, il Sacramento è dubbio, e, pertanto, potendo, si ripete sotto condizione (sub condicione). Chi è il ministro del Sacramento? Ministro del sacramento è la persona capace (es. ministro validamente ordinato, ecc.) che lo fa o conferisce, in nome e per autorità di Gesù Cristo. Per la validità del Sacramento si richiede nel ministro l’intenzione, almeno virtuale, di fare ciò che fa la Chiesa, che è poi l’intenzione di Gesù Cristo, il quale è ministro primario; ma non lo stato di grazia né la fede, perché l’uomo è solo ministro secondario. Per la liceità si richiede lo stato di grazia, l’attenzione, l’osservanza delle cerimonie, ecc. Quesito. È lecito ricevere un Sacramento da un ministro eretico o scismatico? Risposta. - No, all’infuori del pericolo di morte e insieme dell’assenza del sacerdote cattolico e rimosso ogni scandalo e pericolo di perversione, perché fuori del caso di grave necessità non si può ricevere un Sacramento da un ministro indegno (mai da uno falso), e non si può comunicare, sia pure passivamente, nelle cose divine con gli eretici o scismatici. La communicatio in sacris pregiudica, difatti, l’unità della Chiesa, include formale adesione all’errore e/o pericolo di errare nella fede. è di scandalo e di indifferentismo; è proibita dalla legge divina (cf. CJC ‘17, can. 2316 e 1258). In futuro approfondiremo altri aspetti.
Carlo Di Pietro
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La buona fama, la buona stima, il buon nome, la buona reputazione - spiega il Maccono ne Il Valore della Vita vol. 2 - sono tutti sinonimi che indicano, in senso più o meno largo, la buona opinione dell’altrui eccellenza. «Il buon nome, dopo la vita, è il più grande dei beni naturali»; onde la Sacra Scrittura dice: «Abbi cura del buon nome, perché questo sarà più stabilmente tuo che mille tesori preziosi e grandi» (Eccl. XLI,15). Ed ancora: «Il buon nome è miglior cosa che le molte ricchezze» (Prov. XXII,1). Noi dobbiamo aver cura della nostra reputazione e non ledere quella degli altri. Poniamoci, dunque, la seguente domanda: «Come si lede la reputazione altrui?». Commentando il Catechismo di san Pio X, don Ferdinando Maccono - correva l’anno 1923 - risponde: «Esternamente con la contumelia, la detrazione, la calunnia; - internamente col dubbio, il sospetto e il giudizio temerario». La contumelia, l’insulto, l’ingiuria, l’affronto, la soverchieria, ecc., sono tutti sinonimi che significano, in modo più o meno grave, disprezzo verso una persona. «Il disprezzo, poi, si può dimostrare con la parola, col fatto o con lo scritto. Per sé, è peccato grave; può essere leggero secondo la persona che lo fa, e a chi lo fa, e il modo con cui vien fatto: altro è scherzare o deridere un compagno, e altra cosa un superiore». Chi ha offeso il prossimo, è tenuto alla riparazione. La detrazione «è la denigrazione della fama altrui; è il diminuire, oscurare, mettere in cattiva luce, e anche togliere, la fama del prossimo»; ossia, è il fare sì ch’egli scada dalla buona reputazione in cui è tenuto. «Vi sono due sorta di detrazione: la calunnia e la mormorazione o maldicenza». La calunnia «è l’imputare malignamente al prossimo difetti che non ha o colpe che non commise; o anche esagerare colpe e difetti veri. Quindi è calunniare il prossimo: 1° imputargli difetti o colpe che non ha; 2° ingrandirli; 3° interpretare in mala parte le sue parole, i suoi atti, ecc. ; 4° negare le sue buone qualità ; 5° diminuire il merito; 6° conservare il silenzio in tali circostanze che suona biasimo; 7° lodare uno freddamente in modo da far capire che non merita quelle lodi». Per sé, è peccato mortale, contrario: «1° alla verità, perché dice il falso; 2° alla carità, che vieta di fare del male al prossimo; 3° alla giustizia, che proibisce di ledere l’onore altrui». Il calunniatore è obbligato alla riparazione dell’onore, anche con suo grave incomodo; anche col dover confessare d’aver detto il falso; di più, è obbligato a risarcire i danni materiali, se ci furono. Il calunniato ha diritto di difendersi, qualche volta anche dovere; ha diritto alla riparazione dell’onore, al risarcimento dei danni, ed anche a far punire il calunniatore. Non ha diritto di odiarlo, ed è obbligato al perdono dell’ingiuria ricevuta. La maldicenza, detta anche semplicemente detrazione, «è il manifestare, senza giusti motivi, colpe o difetti veri del prossimo, ma occulti». Anche i morti hanno diritto alla fama, e non è lecito parlarne male: «All’assente e al morto non far torto», ricorda il Maccono. La Scrittura dice: «Il Signore ha in odio chi semina discordie tra i fratelli» (Prov. VI,19). «Il mormoratore e l’uomo di due lingue è maledetto, perché mette in scompiglio molti che stavano in pace» (Eccl. XXVIII,15). Noi - conclude il salesiano - teniamo il consiglio dello Spirito Santo: «Hai udito una parola cattiva contro il tuo prossimo? Fa che muoia in te. Non riportare una parola cattiva e offensiva, e non ne scapiterai niente»; anzi farai un atto di carità e di prudenza.
Carlo Di Pietro
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Da Dio abbiamo ricevuto molti doni, fra questi spicca l’intelletto che, particolarmente, ci distingue dalla bestia, insieme a molto altro. Ecco perché si usa dire dei bruti o di chi fa generalmente cattivo uso dell’intelligenza che essi «vivono come gli animali». Tutti questi doni gratuitamente ricevuti dal nostro Padre celeste, affinché giovino a qualcosa, dobbiamo coltivarli e farne buon uso. La Scrittura ci dice che i terreni, potenzialmente fruttiferi e produttivi, se lasciati incolti, abbandonati o mal utilizzati, ci restituiscono frutti selvatici, rovi, spine: «spinas et tribulos». Parimenti accadrebbe delle nostre anime, qualora le consegnassimo all’ozio, all’oblio dell’ignoranza, all’eresia, insomma a tutte le seduzioni del demonio. Ogni creatura ragionevole, una volta morta, quindi non appena l’anima è separata dal corpo, passa al giudizio particolare, dove il Signore ci giudica immediatamente, destinandoci o al Paradiso - iusti fulgebunt sicut sol in regno Patris eorum, o al Purgatorio, oppure all’Inferno - mittent eos in caminum ignis; ibi erit fletus et stridor dentium. Gesù, parlando del giudizio universale, aggiunge: Qui habet aures, audiat!, ossia: «Chi ha orecchi, intenda!». Al Limbo, invece, finiscono le anime dei bimbi (non in età di ragione) non battezzati. Insegna Papa Innocenzo III, Lettera Maiores Ecclesiae causas all’arcivescovo Imberto di Arles, anno 1201: «Noi diciamo, operando una distinzione, che vi è un duplice peccato, quello originale cioè, e quello attuale: il peccato originale che è contratto senza il consenso, e quello attuale che è commesso in virtù del consenso. Il peccato originale quindi, che è contratto senza il consenso, senza il consenso è rimesso in forza del sacramento; quello attuale infine, che è contratto in virtù del consenso, non viene affatto sciolto senza il consenso. [...] La pena del peccato originale è la mancanza della visione di Dio, mentre la pena del peccato attuale è il tormento dell’inferno eterno». Di questo ne abbiamo già parlato, citando Papa Pio XII, nei numeri precedenti. Al giudizio, si rende conto presso Dio dei doni ricevuti e di come sono stati utilizzati durante la vita; ognuno sarà giudicato con giustizia, quindi trattato secondo il frutto e le opere che ne avrà ricavato. I vecchi compendi di apologetica usavano spiegare che Dio ha dato a tutti le mani, che rappresentano l’azione viva ed intelligente, ma a condizione che non ritorniamo a Lui con queste mani vuote - et inutilem servum eicite in tenebras exteriores: illic erit fletus et stridor dentium. Ho, all’uopo, menzionato la parabola dei talenti, dove il Signore si esprime categoricamente ed annunzia che di tutto, talento per talento, Gli dovrà essere reso un rigoroso conto. Sant’Agostino asserisce che a nessuna creatura, alla quale Dio ha affidato la lampada dell’intelligenza, è permesso di comportarsi come le vergini stolte di cui ci parla il Vangelo - Novissime autem veniunt et reliquae virgines dicentes: “Domine, domine, aperi nobis”. At ille respondens ait: “Amen dico vobis: Nescio vos”. Alle vergini imprudenti che lasciarono finire l’olio delle lucerne, per non averle ben rifornite quando opportuno, facendo spegnere così il lume, il Signore dice: «non vi conosco [...] e la porta fu chiusa». Preghiamo Dio di essere sempre in Sua grazia, affinché possiamo utilizzare degnamente della nostra intelligenza. E adesso una comunicazione di carattere tecnico. Pare che alcuni stimati Abbonati non ricevano puntualmente, o non ricevano affatto, la rivista in cartaceo. Siamo rammaricati e non mancheremo di domandare conto alle Poste, affinché ognuno faccia il proprio dovere!
Carlo Di Pietro
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San Giovanni Bosco, in una sua lettera del 19 Marzo, festa di san Giuseppe, anno 1885, definisce la buona stampa «mezzo Divino», poiché, secondo il Santo, «Dio stesso se ne giovò a rigenerazione dell’uomo». Fra i mezzi che egli ritiene «migliori per ogni giorno più crescere in zelo ed in meriti al cospetto di Dio», si annoverano «i libri buoni, diffusi nel popolo, [che] sono uno dei mezzi atti a mantenere il regno del Salvatore in tante anime». Ci esorta, così, ad «imitare l’opera del Padre Celeste», diffondendo, attraverso i libri veramente cattolici, «i pensieri, i principii, la morale», che «sono sostanza tratta dai libri divini, dalla tradizione Apostolica, [... dal Magistero]». Sono essi tanto più necessari, in quanto «l’empietà e l’immoralità oggigiorno si attiene a quest’arma, per fare strage nell’ovile di Gesù Cristo, per condurre e per trascinare in perdizione gli incauti ed i disobbedienti». Pertanto, tuona don Bosco, «è necessario opporre arma ad arma», difatti «il buon libro entra persino nelle case ove non può entrare il sacerdote, è tollerato eziandio dai cattivi come memoria o come regalo. Presentandosi non arrossisce, trascurato non s’inquieta, letto insegna verità con calma, disprezzato non si lagna e lascia il rimorso che talora accende il desiderio di conoscere la verità; mentre esso è sempre pronto ad insegnarla». Allora, «quante anime furono salvate dai libri buoni, quante preservate dall’orrore, quante incoraggiate nel bene. Chi dona un libro buono, non avesse altro merito che destare un pensiero di Dio, ha già acquistato un merito incomparabile presso Dio. Eppure quanto di meglio si ottiene! Un libro in una famiglia, se non è letto da colui a cui è destinato o donato, è letto dal figlio o dalla figlia, dall’amico o dal vicino. Un libro in un paese talora passa nelle mani di cento persone. Iddio solo conosce il bene che produce un libro in una città, in una biblioteca circolante, in una società d’operai, in un ospedale, donato come pegno di amicizia». San Giovanni Bosco, in questa lettera, racconta di come fu faticoso per lui, fra i tanti improrogabili doveri propri della sua missione, dedicarsi anche alla pubblicazione e diffusione della buona stampa, nonostante «l’odio rabbioso dei nemici del bene, le persecuzioni - ci dice - contro la mia persona» che «dimostrarono, come l’errore vedesse in questi libri un formidabile avversario e per ragione contraria un’impresa benedetta da Dio». La nostra Associazione, che, grazie a Dio, in tre mesi di azione già conta 20 iscritti fra Associati e Simpatizzanti, sull’esempio di san Giovanni Bosco, sebbene indegnissimamente, si propone di diffondere il più possibile quei tanti autori e testi di vero cattolicesimo così osteggiati dai nemici di Dio che, purtroppo, rispetto ai tempi di don Bosco, oggi agitano le loro perverse mani ed eccitano le menti dei deboli non più solamente negli ambienti dichiaratamente anticlericali, atei, socialisti, liberali e settari in generale, ma soprattutto all’interno della Chiesa stessa, come ebbe a dichiarare nella Pascendi (1907), quasi profeticamente, il nostro san Pio X: «I consigli di distruzione [i modernisti] non li agitano [...] al di fuori della Chiesa, ma dentro di essa; [...] il pericolo si appiatta quasi nelle vene stesse e nelle viscere di lei [della Chiesa], con rovina tanto più certa, quanto essi la conoscono più addentro. Di più, non pongono già la scure ai rami od ai germogli; ma alla radice medesima, cioè alla fede ed alle fibre di lei più profonde». Con umiltà, preghiera e carità, diffondiamo il più possibile Sursum Corda. Informiamoci ed informiamo!
Carlo Di Pietro
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Alla pagina 168 della sua Spiegazione al Catechismo di san Pio X (CLS, Verrua Savoia, 2009), padre Dragone, con diligenza e grande carità, ci insegna: «Per essere buoni cristiani non basta aver ricevuto il Battesimo ed accostarsi ogni tanto agli altri sacramenti, assistere a qualche Messa e fare qualche altra pratica esteriore. Occorre viva fede nella parola di Cristo; occorre che la legge di Cristo guidi tutti i nostri passi; occorre che partecipiamo attivamente alla vita liturgica del sacrificio e dei sacramenti; occorre che obbediamo ai (legittimi) Pastori della Chiesa come obbediremmo a Cristo stesso». Successivamente espone il contenuto del n° 107 del Catechismo e lo commenta. Domanda: «Qual è la Chiesa di Gesù Cristo?». Risposta del Santo Pontefice: «La Chiesa di Gesù Cristo è la Chiesa Cattolica-Romana, perché essa sola è una, santa, cattolica e apostolica, quale Egli la volle». Facciamo attenzione!!! San Pio X insegna: «La Chiesa di Gesù Cristo è la Chiesa Cattolica-Romana», niente affatto semplicemente «sussiste nella...» (subsistit in), come invece vorrebbero alcuni recenti miasmi di modernismo. La Chiesa è una sola, perché unico è il suo fondamento. Gesù infatti disse a Pietro: Tu sei Pietro, e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa (Mt. 16,18), non «le mie Chiese». La Chiesa, inoltre, dev’essere santa, poiché è fondata da Cristo, che è il Santo dei santi e vivificata dallo Spirito Santo ed è destinata a condurre tutti gli uomini alla santità e alla vita eterna; dev’essere cattolica, perché destinata a ricevere tutti gli uomini come in un solo ovile che racchiude un solo gregge sotto un solo pastore; dev’essere apostolica, perché fondata su Pietro e gli altri apostoli. Quindi Gesù Cristo - prosegue il Dragone (pag. 169) - istituì una sola Chiesa, che deve essere una, santa, cattolica, apostolica. Attualmente vi sono molte ‘chiese’ che si dicono cristiane, e «ciascuna vuol essere l’unica chiesa di Gesù Cristo, la sola santa, cattolica, apostolica». In realtà abbiamo a che fare con simulacri della vera Chiesa di Gesù Cristo, che è la Cattolica-Romana, umani scimmiottamenti ispirati da Satana, difatti si tratta o di ‘chiese’ eretiche, o scismatiche, o di ‘chiese’ eretiche e scismatiche insieme. Papa Pio XI, nella sua Enciclica Mortalium Animos contro il falso ecumenismo, sentenzia: «Potrà sembrare che questi pancristiani, tutti occupati nell’unire le chiese, tendano al fine nobilissimo di fomentare la carità fra tutti i cristiani; ma come mai potrebbe la carità riuscire in danno della fede? Nessuno certamente ignora che lo stesso apostolo della carità, san Giovanni (il quale nel suo Vangelo pare abbia svelato i segreti del Cuore sacratissimo di Gesù che sempre soleva inculcare ai discepoli il nuovo comandamento: Amatevi l’un l’altro), ha vietato assolutamente di avere rapporti con coloro i quali non professano intera ed incorrotta la dottrina di Cristo: Se qualcuno viene da voi e non porta questa dottrina, non ricevetelo in casa e non salutatelo nemmeno (II Ioann., 10). Quindi, appoggiandosi la carità, come su fondamento, sulla fede integra e sincera, è necessario che i discepoli di Cristo siano principalmente uniti dal vincolo dell’unità della fede».
Carlo Di Pietro
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Gesù Cristo in una parabola volle rivelarci come la Chiesa sia simile a un campo nel quale germogliano semi buoni e cattivi, e come il divino giudizio - ci spiega padre Dragone (Op. cit., pag. 169) - scevererà il bene dal male. Propose loro un’altra parabola dicendo: Il regno dei cieli è simile ad un uomo, che aveva seminato nel suo campo del buon seme. Or mentre gli uomini dormivano, venne il suo nemico, seminò del loglio in mezzo al grano e se ne partì. Quando l’erba crebbe e produsse il suo frutto, allora apparve anche il loglio. E i servi del padrone vennero a dirgli: «Signore non hai tu seminato del buon grano nel tuo campo? Donde viene dunque che c’è il loglio?» Rispose il padrone: «è stato un nemico a far questo». «Vuoi che andiamo a raccoglierlo?», soggiunsero i servi. «No», rispose egli, «perché non avvenga che raccogliendo il loglio sradichiate anche il grano. Lasciate crescere l’uno e l’altro sino alla mietitura. Quando poi sarà tempo di mietere, io dirò ai mietitori: «Raccogliete prisma il loglio, legatelo in fasci, per bruciarlo; quindi radunate il grano nel granaio» (Mt. XIII, 24-30). Quando furono soli con il Maestro, i discepoli domandarono la spiegazione della parabola, che non avevano capito: «Spiegaci la parabola del loglio nel campo». Egli rispose: «Colui che semina il buon grano è il Figlio dell’uomo; il campo è il mondo; il buon grano sono i figli del regno (cioè della Chiesa, i veri cristiani); il loglio i figli del maligno (i falsi cristiani e tutti i nemici di Dio e della sua Chiesa); il nemico che lo ha seminato è il diavolo; la mietitura è la fine del mondo; i mietitori gli angeli. E come si raccoglie il loglio e lo si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo allora invierà i suoi angeli e toglieranno via dal suo regno tutti gli scandali e tutti gli operatori d’iniquità e li getteranno nella fornace del fuoco, dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti sfolgoreranno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi da intendere intenda» (Mt. XIII,36-43). Gesù Cristo, subito dopo la nostra morte, quando l’anima si separa dal corpo, ci giudicherà di tutti gli atti compiuti nella vita con responsabilità (Ivi., pag. 150). Saremo giudicati degli atti coscienti e liberi compiuti sin dal primo uso di ragione fino all’ultimo istante della vita: pensieri e desideri, che restano chiusi nel santuario dell’anima; parole, che sono l’espressione del pensiero; atti, che sono l’attuazione delle determinazioni della volontà, ed anche di ciò che non abbiamo fatto nonostante fosse nostro dovere farlo (omissioni). Alla pagina 151 della sua Spiegazione al Catechismo di san Pio X (CLS, Verrua Savoia, 2009), padre Dragone riflette: «Se ricordassimo più spesso che saremo giudicati di tutto quello che pensiamo, vogliamo, diciamo, operiamo o che non facciamo trascurando il dovere, saremmo assai più attenti a evitare il peccato e praticare la virtù». Grazie a Dio, la nostra Associazione sta crescendo, e sempre più persone ricevono il Settimanale e consultano il Sito internet. Uniti nella preghiera, impariamo, viviamo e diffondiamo la buona dottrina, senza esitazioni ed indifferenti al «rispetto umano».
Carlo Di Pietro
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La legge squisitamente umana, se ingiusta, non obbliga le coscienze. Spiega san Tommaso d’Aquino (S. Th. I,II, q. 96, a. 4): «Le leggi umane positive, o sono giuste, o sono ingiuste». Se sono leggi giuste, «ricevono la forza di obbligare in coscienza dalla legge eterna da cui derivano, secondo il detto dei Proverbi: Per me regnano i re e i legislatori decretano il giusto». Per essere giusta, una legge deve; 1) essere ordinata al bene comune; 2) essere emanata da chi ne ha legittima autorità; 3) non essere tirannica - abuso dell’autorità; 4) deve imporre ai sudditi dei pesi in ordine al bene comune secondo una proporzione di uguaglianza. Spiega l’Aquinate che, «essendo l’uomo parte della società, tutto ciò che ciascuno possiede appartiene alla società: così come una parte in quanto tale appartiene al tutto. Infatti anche la natura sacrifica la parte per salvare il tutto. Ecco perché le leggi che ripartiscono gli oneri proporzionalmente sono giuste, obbligano in coscienza, e sono leggi legittime». Le leggi sono ingiuste se si trovano «in contrasto col bene umano precisato (negli) elementi sopra indicati: sia per il fine, come quando chi comanda impone ai sudditi delle leggi onerose, non per il bene comune, ma piuttosto per la sua cupidigia e per il suo prestigio personale; sia per l’autorità, come quando uno emana una legge superiore ai propri poteri; sia per il tenore di essa, come quando si spartiscono gli oneri in maniera disuguale, anche se vengono ordinati al bene comune». Le leggi umane ingiuste o «norme inique», sono «piuttosto violenze che leggi»: poiché, come si esprime sant’Agostino, «non sembra possa esser legge quella che non è giusta». Perciò codeste leggi non obbligano in coscienza: «a meno che non si tratti di evitare scandali o turbamenti; nel qual caso l’uomo è tenuto a cedere il proprio diritto, secondo l’ammonimento evangelico: Con chi ti vuol obbligare a fare un miglio con lui, fanne due; e a chi vuol toglierti la tunica, cedigli anche il mantello». Le leggi umane possono essere ingiuste anche perché contrarie al bene divino: «come le leggi dei tiranni che portano all’idolatria, o a qualsiasi altra cosa contraria alla legge divina. E tali leggi in nessun modo si possono osservare; poiché sta scritto: Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini». Il Sommo san Tommaso precisa: «Codesto argomento parte dalle leggi umane che sono contrarie ai comandamenti di Dio. E fin là non può estendersi il loro potere. Perciò in questi casi non si deve ubbidire alla legge umana». Inoltre la legge che impone ai sudditi un onere ingiusto: «in simili casi l’uomo non è tenuto a ubbidire alla legge, se, come abbiamo notato, può disubbidire senza scandalo e senza un danno più grave». Spiega il Sommario di Teologia Morale (S.E.I., Torino, 1952, pag. 67, art. IV, n° 102): «§ I, Se la legge (umana) ingiusta è contraria alla legge divina, non solo non siamo legati ad essa, ma non possiamo nemmeno osservarla; § IV, (Solo) la legge umana giusta obbliga dinanzi a Dio». Ogni legge che, nella materia, violi la legge naturale o la legge divina, avendo sconfinato nell’oggetto, non vincola e non va osservata (Ivi., n° 96, §I, II, III).
Carlo Di Pietro
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San Pio X, al numero 86 del suo Catechismo, ci erudisce che «Gesù, nella Sua vita terrena, c’insegnò con l’esempio e con la parola a vivere secondo Dio, e confermò coi miracoli la Sua dottrina; finalmente per cancellare il peccato, riconciliarci con Dio e riaprirci il Paradiso, si sacrificò sulla Croce, unico Mediatore tra Dio e gli uomini (1 Tm. 2,5)». Per salvarsi occorre compiere la divina volontà «vivendo secondo Dio», commenta Padre Dragone (pag. 131). Il Redentore, che venne in questo mondo per salvare gli uomini, prima di tutto volle farsi nostro Maestro ed insegnarci a «vivere secondo Dio», facendoci conoscere, sottolinea prontamente il Dragone, prima con l’esempio e poi con la parola, quale sia la volontà divina a nostro riguardo e come si metta in pratica. San Luca racconta che Gesù prima cominciò a fare e quindi ad insegnare (At. I,1) - Primum quidem sermonem feci de omnibus, o Theophile, quae coepit Iesus facere et docere. Chi soltanto insegna è piccolo nel regno dei cieli; invece è grande colui che prima fa ciò che insegna, e quindi ammaestra (v. Mt. V,19) - Qui ergo solverit unum de mandatis istis minimis et docuerit sic homines, minimus vocabitur in regno caelorum; qui autem fecerit et docuerit, hic magnus vocabitur in regno caelorum. Il nostro commentatore ci fa presente che Gesù, per oltre trenta anni, nella povera casetta di Nazareth pratica la dottrina e la virtù che poi insegnerà con la predicazione durante la vita pubblica, in cui potrà proclamare la necessità e la bellezza della povertà e della castità da Lui praticate, l’obbedienza e la laboriosità, l’amore vissuto a Dio ed al prossimo. In ogni momento della Sua vita Gesù poteva dire: «Il mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato e di compiere l’opera Sua» (Gv. IV,34) - Dicit eis Iesus: Meus cibus est, ut faciam voluntatem eius, qui misit me, et ut perficiam opus eius. All’insegnamento dell’esempio seguì quello orale della vita pubblica, in cui Gesù Cristo fece conoscere le verità necessarie a credersi, le virtù da praticarsi, la legge divina da osservare per vivere secondo Dio. [...] Per dimostrare che la Sua dottrina era divina e veniva da Dio, e renderla credibile, Gesù operò molti miracoli, una parte dei quali fu registrata nei Vangeli e tramandata fino a noi, affinché anche noi crediamo (Gv. XIX,35) - Et qui vidit, testimonium perhibuit, et verum est eius testimonium, et ille scit quia vera dicit, ut et vos credatis. [...] Commettendo il peccato (originale ed attuale) l’uomo diviene nemico di Dio, debitore insolvibile della Sua giustizia e si chiude per sempre le porte del Paradiso (Spiegazione del Catechismo di san Pio X, Padre Dragone, 1963, ed. anastatica CLS, Verrua Savoia, 2009, pp. 131-132). La nostra Associazione si propone, anche attraverso il settimanale svrsvm corda®, di diffondere questi e tanti altri santi insegnamenti utilissimi alla conoscenza per la salvezza, oggi fortemente osteggiati e censurati dal modernismo e dai modernisti, ossia dai nemici di Dio, i quali dimostrano di avere pure in odio la grazia altrui. Diamo il benvenuto a cinque nuovi Associati ed a vari altri Simpatizzanti.
Carlo Di Pietro
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Confesso ad alta voce per la mia salvezza tutto quello che i cattolici hanno sempre a buon diritto creduto nel loro cuore. Ho in abominio Lutero, detesto Calvino, maledico tutti gli eretici; non voglio avere nulla in comune con loro, perché non parlano né sentono rettamente, e non posseggono la sola regola della vera Fede propostaci dall’unica, santa, cattolica, apostolica e romana Chiesa. Mi unisco invece nella comunione, abbraccio la fede, seguo la religione e approvo la dottrina di quelli che ascoltano e seguono Cristo, non soltanto quando insegna nelle Scritture ma anche quando giudica per bocca dei Concilii ecumenici e definisce per bocca della Cattedra di Pietro, testificandola con l’autorità dei Padri. Mi professo inoltre figlio di quella Chiesa romana che gli empii bestemmiatori disprezzano, perseguitano e abominano come se fosse anticristiana; non mi allontano in nessun punto dalla sua autorità, né rifiuto di dare la vita e versare il sangue in sua difesa, e credo che i meriti di Cristo possano procurare la mia o l’altrui salvezza solo nell’unità di questa stessa Chiesa. Professo con franchezza, con san Girolamo, di essere unito con chi è unito alla Cattedra di Pietro e protesto, con sant’Ambrogio, di seguire in ogni cosa quella Chiesa romana che riconosco rispettosamente, con san Cipriano, come radice e madre della Chiesa universale. Mi affido a questa Fede e dottrina che da fanciullo ho imparato, da giovane ho confermato, da adulto ho insegnato e che finora, col mio debole potere, ho difeso. A far questa professione non mi spinge altro motivo che la gloria e l’onore di Dio, la coscienza della verità, l’autorità delle Sacre Scritture canoniche, il sentimento e il consenso dei Padri della Chiesa, la testimonianza della Fede che debbo dare ai miei fratelli e infine l’eterna salvezza che aspetto in Cielo e la beatitudine promessa ai veri fedeli. Se accadrà che a causa di questa mia professione io venga disprezzato, maltrattato e perseguitato, lo considererò come una straordinaria grazia e favore, perché ciò significherà che Voi, mio Dio, mi date occasione di soffrire per la giustizia e perché non volete che mi siano benevoli quelle persone che, come aperti nemici della Chiesa e della verità cattolica, non possono essere vostri amici. Tuttavia perdonate loro, Signore, poiché, o perché istigati dal demonio e accecati dal luccichio di una falsa dottrina, non sanno quello che fanno, o non vogliono saperlo. Concedetemi comunque questa grazia, che in vita e in morte io renda sempre un’autorevole testimonianza della sincerità e fedeltà che debbo a Voi, alla Chiesa e alla verità, che non mi allontani mai dal vostro santo amore e che io sia in comunione con quelli che vi temono e che custodiscono i vostri precetti nella santa romana Chiesa, al cui giudizio con animo pronto e rispettoso sottometto me stesso e tutte le mie opere. Tutti i santi che, o trionfanti nel Cielo o militanti in terra, sono indissolubilmente uniti col vincolo della pace nella Chiesa cattolica, esaltino la vostra immensa bontà e preghino per me. Voi siete il principio e il fine di tutti i miei beni; a Voi sia in tutto e per tutto lode, onore e gloria sempiterna.
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Anche questa settimana è trascorsa, probabilmente fra alti e bassi, nella battaglia contro noi stessi, in un mondo sempre più perverso e refrattario al buon senso, contro le tante seduzioni di Satana e dei suoi adepti, in una deprimente voragine di illogica incredulità e di diffuse persecuzioni. Grazie a Dio, possiamo comunque parlarne in preghiera, sulle pagine del nostro settimanale, sul sito web dell’Associazione, sui tanti social network e blog (con notevolissima e prudente moderazione) ed in casa e strada; il che significa che non siamo morti, ovverosia che siamo ancora vivi ed abbiamo tante occasioni per fare bene e per rifuggire il male, per pentirci delle nostre miserie e per rimediare al male commesso, per impegnarci, con tutte le nostre forze, nella causa di Nostro Signore, affinché un domani possiamo, se Dio vorrà, esultare con gli angeli del Signore, con i santi beati e con i martiri: «Gloria a Dio nei luoghi altissimi, e pace in terra agli uomini di buona volontà» (San Luca II,14) - Gloria in altissimis Deo, et super terram pax in hominibus bonae voluntatis. «Sursum Corda» sta crescendo, abbiamo difatti un nuovo stimato associato, due simpatizzanti e vari altri interessati al nostro progetto di misericordia spirituale e di impegno concreto nella restaurazione dell’ordine sociale. Una nota preghiera così dice: «Signore, Vi supplico, prevenite le mie azioni, ispirandole, e dirigetele col Vostro aiuto: affinché ogni mia orazione e opera sempre da Voi cominci e per Voi finisca», ebbene recitiamola spesso affinché possiamo vivere tutti in Dio, attivandoci non per vanagloria ed interesse personale, avidità di successo e cupidigia di potere, bramosia di denari ed egoismo, bensì per cooperare, con i giusti di questo mondo, nella realizzazione dei progetti di Dio, poiché la strada per diventare giusti è davvero impervia e faticosa!
Carlo Di Pietro
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Essere misericordiosi non è affatto facile. Una delle opere di misericordia spirituale è: «insegnare agli ignoranti». Sursum Corda® vuol essere, a Dio piacendo, anche un presidio contro l’ignoranza, anzitutto contro la nostra ignoranza, sovente “figliastra” dell’intima superbia. Apologetica sì, ma prima di ogni cosa comprensione del Credo ed autentico studio del Catechismo. Ci siamo molto impegnati per ottenere il prefisso editoriale ISBN, quello ISSN per la rivista e l’iscrizione al Registro Operatori di Comunicazione, poiché dobbiamo usufruire di qualsiasi canale comunicativo possa essere utile alla causa e degli idonei riconoscimenti di scientificità delle nostre pubblicazioni. Nella settimana appena trascorsa anche le Poste Italiane ci hanno attivato i contratti di spedizione Stampe e Pieghi di Libri, per poter meglio distribuire, ed a prezzi vantaggiosi, i nostri prodotti editoriali di preparazione ed edificazione. Ciò detto, per vivere secondo Dio che cosa dobbiamo fare? Ci risponde san Pio X al n° 27 del suo Catechismo: «Per vivere secondo Dio dobbiamo credere le verità rivelate da Lui, e osservare i Suoi comandamenti, con l’aiuto della Sua grazia, che si ottiene mediante i Sacramenti e l’orazione». Vivere secondo Dio, commenta padre Dragone, significa «camminare nella Sua via spendendo la nostra vita nel compimento della divina volontà. Occorre prima di tutto che conosciamo questa volontà, che ci è stata rivelata da Dio stesso, e le verità dalle quali dipendono i divini comandamenti, che sono l’espressione del volere divino». Il Magistero della Chiesa ci comunica il volere divino, essendo regola prossima della fede: «Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me» (Lc. 10,16), dice il Signore. Per salvarci dobbiamo osservare i comandamenti: «Ecco avvicinarglisi uno che gli disse: Maestro buono, che farò io per ottenere la vita eterna? Gesù gli rispose: ... Se vuoi entrare nella vita eterna, osserva i comandamenti» (Mt. 19,16-17). Senza Dio e la Sua grazia non possiamo far nulla di bene soprannaturale, ecco perché sono indispensabili i Sacramenti e l’orazione, ovvero la preghiera.
Carlo Di Pietro
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Panzini racconta, in un suo libro di inizio 1900 citato da mons. Perardi, dell’esercito missionario, di quella che era, e preghiamo che oggi rinvigorisca, la schiera foltissima ed inarrestabile degli eroi della Chiesa, dei misericordiosi: «1. Consigliare i dubbiosi; 2. Insegnare agli ignoranti; 3. Ammonire i peccatori; 4. Consolare gli afflitti; 5. Perdonare le offese; 6. Sopportare pazientemente le persone moleste; 7. Pregare Dio per i vivi e per i morti» (Catechismo Maggiore, n° 944). Egli afferma: «È molto probabile che il segreto di queste alte gesta consista tutto in una cosa semplice: la ragione della vita è collocata fuori della vita. I soldati di questa battaglia possono essere uccisi, ma non uccidono (se non per legittima difesa - “È lecito uccidere il prossimo quando si combatte in una guerra giusta, quando si esegue per ordine dell’autorità suprema la condanna di morte in pena di qualche delitto; e finalmente quando trattasi di necessaria e legittima difesa della vita contro un ingiusto aggressore”, Catechismo Maggiore, n° 413 - ndr); possono dire: la morte per noi è nulla, perché per essi la morte non esiste. È l’esercito della Chiesa Cattolica. «Tutti conoscono uno splendente esercito; guardie svizzere con alabarde e corazze, guardie nobili con gorgiere, velluti, piume. Ma oltre a questo, visibile, esiste un altro esercito sconosciuto, il quale si accampa sparso per tutte le regioni più impervie dei continenti. Vestono alla maniera del paese; da esquimesi, da orientali con lunghe barbe fluenti. Se ne vanno su cammelli, su carri primitivi, a cavallo. Emblema è la CROCE; richiamo una campana; dimora una capanna. Uomini e donne di tutti gli ordini: gesuiti, lazzaristi, salesiani, francescani, domenicani. Un unico ordine! Sono agricoltori, infermieri, maestri di arti e mestieri. «Non hanno statistiche dei loro morti, perché la statistica è fatta altrove, come altrove è sperato il premio. Non mandano comunicati o bollettini ai giornali, perché la gloria mondana non ha valore. Disuguaglianza ed uguaglianza, individualità e comunità. Uomini di eccelsa dottrina scientifica si alternano con uomini che per dottrina hanno la fede, la speranza e la carità. L’invisibile Padre e Padrone non domanda se non questi diplomi». Questo esercito combatte contro l’ignoranza e la barbarie; si sacrifica per far conoscere e amare Dio, per conquistare il mondo a Dio, a Gesù Cristo e condurre le anime al cielo. Preghiamo san Giovanni di Dio affinché possiamo finalmente essere degni di appartenere all’esercito missionario.
Carlo Di Pietro
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Cari Associati e Simpatizzanti, siamo riusciti a terminare anche il secondo numero del settimanale «Svrsvm Corda®». Ringraziamo, per tutto quanto e per la nostra attività, san Giovanni di Dio, protettore dell’Associazione. Se Dio vuole, lunedì inizieremo la distribuzione del bollettino cartaceo, mentre l’edizione digitale è già disponibile all’indirizzo Internet www.sursumcorda.cloud. La settimana appena conclusa è stata davvero impegnativa: l’immancabile ‘scontro’ con la burocrazia nazionale; gli impegni associativi; le varie spese; la programmazione del sito; la digitalizzazione dei testi, ecc... Abbiamo 4 nuovi Associati uniti nella preghiera, finalmente anche un codice ISSN, un account ISBN come editori e la prossima settimana dovrebbe arrivarci anche l’iscrizione al ROC. In questo numero impareremo a conoscere meglio Dio, soprattutto attraverso gli scritti di mons. Perardi. Lo Spirito Santo, nel Libro della Sapienza, così parla degli uomini i quali, dal mondo che vedono, non hanno saputo elevarsi a conoscere Dio: «Ora, vani sono tutti gli uomini che non hanno conoscenza di Dio; e dalle cose buone che vedono non hanno saputo intendere Colui che è, né dalla considerazione delle opere riconobbero l’artefice (...) Se rapiti dalla bellezza di tali cose, le riconobbero come dèi, pensino quanto più bello sia il loro Signore, poiché le ha fatte tutte l’Autore della bellezza. Se poi ammirarono le virtù e le loro opere, da queste intendano che più potente di esse è Colui che le ha fatte. Poiché dalla grandezza e dalla bellezza della creatura potrà intelligibilmente vedersi il loro Creatore (...) Se gli uomini giunsero a saper tanto da apprezzare le cose del mondo, come mai non hanno trovato più facilmente il Signore di esse? Infelici sono coloro le cui speranze sono in cose morte (...)» (Capo XIII, 1-10). E per mezzo di san Paolo: «Quello che può conoscersi di Dio è manifesto in essi (uomini), poiché Dio lo ha loro manifestato. Infatti le cose invisibili di Lui, dopo creato il mondo, comprendendosi per le cose fatte, sono diventate visibili: anche la eterna potenza e il divino essere di Lui, talché sono inescusabili. Perché avendo conosciuto Dio non lo glorificarono come Dio, né a Lui resero grazie: ma divennero stolti nei loro pensamenti, e si ottenebrò l’insensato loro cuore » (Ai Romani, 1,19-21).
Carlo Di Pietro
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San Pio X nella Acerbo Nimis (15.04.1905) ci dice: «(...) vogliate, con quanto impegno, con quanto zelo, con quanta assiduità vi è possibile, procurare ed ottenere che la scienza della Cristiana Dottrina penetri ed intimamente pervada gli animi di tutti». Troppo spesso diciamo o sentiamo dire: «conosco bene le verità del Credo», oppure «conosco il Catechismo a memoria», in altri casi «conosco l’Apologetica», troppe volte e sempre «io so, io conosco, io ... io!». Eppure quante volte non mettiamo in pratica quello che affermiamo di conoscere, non viviamo come comanda il Signore, non rispettiamo i Comandamenti e ci creiamo un specie di ‘religione su misura’? Siamo come l’ammalato che ha ricevuto le istruzioni dal medico e, pur essendo consapevole della sua malattia, pur conoscendo le medicine e la dieta che gli occorrono per guarire, nonostante il desiderio di rialzarsi tosto in salute dal letto, continua tuttavia a vivere di propria testa e presto finisce in una fossa. Ecco, una delle vie più immediate per avere una vita triste e per finire a casa del diavolo è dire sempre «io so, io conosco, io ... io!». Oggi, purtroppo, la situazione è ancora più drammatica rispetto ai secoli precedenti poiché, sempre più spesso, siamo soli e spiritualmente abbandonati. O non abbiamo il ‘medico’ o veniamo lentamente ‘avvelenati’, illusi, infine abbandonati al nostro triste declino spirituale e fisico, fino al giorno in cui, al funerale, saremo probabilmente lodati ed applauditi dagli astanti. Ma il Giudice Supremo farà lo stesso con la nostra anima? Ci accoglierà con un applauso o ci respingerà senza possibilità di appello? Alla luce di queste ed altre riflessioni da applicare anzitutto alle nostre vite, nasce l’Associazione «Sursum Corda», che si ispira ai principi di carità cristiana secondo le indicazioni del Catechismo Maggiore, non ha scopo di lucro (Ente No Profit) ed intende perseguire esclusivamente finalità di solidarietà sociale. L’Associazione in particolare «intende perseguire la pratica delle opere di misericordia spirituale secondo le indicazioni del Catechismo Maggiore di san Pio X al Numero 944» (Statuto, Art. 3). Le opere di misericordia spirituale sono: «Consigliare i dubbiosi; Istruire gli ignoranti; Ammonire i peccatori; Consolare gli afflitti; Perdonare le offese; Sopportare pazientemente le persone moleste; Pregare Dio per i vivi e per i morti» (Ivi). Per realizzare ciò, «Sursum Corda», con l’aiuto di Dio e con le preghiere ed il sostegno di tutti voi, si avvarrà dei propri pochi mezzi a disposizione, tuttavia proverà a farlo con amore. Per il momento, l’Organo ufficiale settimanale dell’Associazione sarà, insieme con il Sito internet, lo strumento principale per tentare di perseguire le finalità associative, una sorta di ‘Oratorio virtuale’, mediante la pubblicazione esclusiva di istruzioni degli eruditi del passato (Salvi tutti gli eventuali diritti ex l. 22.04.1941, n. 633). Affidiamo la nostra Opera a san Giovanni di Dio.
Carlo Di Pietro