Nel precedente articolo abbiamo studiato, sebbene in sintesi, la fase processuale, la formula di condanna e la punizione nella quale incorse il Galilei. Abbiamo, dunque, puntualmente confutato le obiezioni dei moderni, i quali pretendono usare il caso Galilei contro l’infallibilità del Pontefice e contro ogni vera scienza e storia sacra. Veniamo adesso - per nota di colore polemico - ad una brevissima difesa della Chiesa e del Papa scritta dal dotto p. Franco: «Contro quei libertini e miscredenti, i quali usano dipingere Galileo incomparabile tra i sotterranei di un carcere, catene al collo, bove alle mani, ceppi ai piedi, e poi, tirandolo come esempio negativo, esclamano fremendo: “Ecco tutta la tolleranza della Chiesa”». Abbiamo imparato che Galileo venne trattato con somma benevolenza; con lui ci volle tanta pazienza, a cominciare da quella del Bellarmino e di Papa Urbano VIII; fu condannato solo in ultima istanza e per aver disobbedito, per non aver detto la verità e per essersi reso sospetto di eresia; fece abiura secondo la formula prescrittagli; non fece un giorno di carcere ma visse “in custodia” presso case nobiliari; morì in obbedienza nella sua villa del Gioiello. Riferisce dalle cronache il p. Franco che «Galileo ebbe tutta la libertà di difendersi: ed infatti si difese, ma secondo il suo metodo e la sua solita mania, non già dimostrando ai suoi giudici il moto della terra, ma argomentando contro di essi dai Libri di Giobbe e di Giosuè: egli si perse in un labirinto di argomenti teologici (che non gli competevano), che faremmo fatica a credere se non ce ne facesse fede la sua apologia manoscritta. Nondimeno, nel condannarlo come recidivo, e nell’esigere da lui una ritrattazione, non si usò alcuna apparenza di rigore, se non che per la forma e per l’esempio (mere minacce procedurali che - come da protocollo - mai si sarebbero potute applicare ad un anziano ammalato)». E, pur volendo per ipotesi ammettere un errore del Sant’Uffizio, «questo (da solo) non è la Chiesa, e quindi non gli compete l’infallibilità che è dote propria solo del Romano Pontefice». La sentenza mirò a condannare il «sistema usato», soprattutto per lo scandalo gravissimo che ragionevolmente se ne temeva. Altresì la ricerca scientifica non venne affatto impedita.
Prosegue nel volume «Obiezioni più comuni», Roma, 1864.