Stimati Associati e gentili Lettori, oggi diremo due parole sul cosiddetto «liberalismo», ed ognuno potrà vedere quanto sia falsa la dottrina del liberalismo. Usiamo schematicamente la «Breve apologia per giovani studenti, contro gli increduli dei nostri giorni» del prof. Giuseppe Ballerini, Parte II, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, Imprimatur 1914, dalla pagina 143 a seguire. Che cos’è e come si divide in liberalismo? Dicesi liberalismo quel sistema, o meglio quell’insieme di errori, per il quale nell’ordine delle idee si afferma la libertà di pensare quel che si vuole e come si vuole intorno a Dio, alla religione, alla moralità; e nell’ordine pratico o dei fatti, la libertà di vivere come si vuole. E si divide in assoluto e relativo, se tale libertà si fa valere sino a negare Dio e la necessità di qualsiasi culto; oppure si tiene come indifferente il professare questa o quella religione, considerandole tutte come buone in qualche modo. Il liberalismo assoluto si fonda sulla pretesa autonomia dell’uomo, della ragione, della volontà (ateismo); e contro di esso valgono tutti gli argomenti con cui si dimostra la esistenza di Dio, la dipendenza dell’uomo da Dio ed il dovere che perciò incombe all’uomo di riconoscere e professare la sua dipendenza da Dio. Il liberalismo relativo si fonda sulla falsa supposizione che tutte le religioni siano buone perché «in fondo non sono che varie forme esterne sotto cui si adora sempre lo stesso Dio»: e contro di esso valgono tutti gli argomenti dogmatici e naturali con cui si dimostra che una sola è la vera religione, e che le diverse religioni non importano soltanto diversità di forme esterne, ma di contenuto oggettivo ed interno, perché altre sono le dottrine o credenze delle une, ed altre sono le dottrine o credenze delle altre.
Vera e falsa libertà di pensiero, di coscienza e di culto. Il liberalismo si traduce praticamente nella libertà di pensiero, di coscienza e di culto. E siccome di queste parole oggi si fa uno strano abuso (erroneo o ereticale), così conviene prima determinarne il significato. Se per libertà di pensiero o di coscienza in materia religiosa si volesse dire soltanto che la religione non può essere imposta con la forza o la violenza, ma che deve essere spontaneamente abbracciata e professata, si direbbe il vero: «nessuno può costringere con la forza un pagano a professare la vera religione» (cf. Summa Th. 2a, 2ae, q. X, a. 8). Perciò, a frenare lo zelo male illuminato di Carlo Magno, che credeva di convertire i Sassoni colla spada più prontamente che non colla parola, Alcuino gli scrisse: «Ricordatevi che la fede è un atto di volontà e non di violenza. Non si può costringere l’uomo ad abbracciare la fede. Voi spingerete i popoli al battesimo, ma non farete far loro un passo verso la religione» (Epistola XVII ad Carol. Magn.). Insegnamento ripetuto poi da Papa Leone XIII nella sua Enciclica Immortale Dei: «Vuole assolutamente la Chiesa che nessuno sia tratto per forza ad abbracciare la fede cattolica, perché, come saviamente avverte sant’Agostino, l’uomo non può credere se non di spontanea volontà». Parimenti, se per libertà di culto si intendesse «il diritto che ha l’uomo nel civile consorzio di compiere tutti i suoi doveri verso Dio senza impedimento alcuno» (cf. Libertas, Leone XIII) da parte dei cittadini e dello Stato, si direbbe ancora il vero. «Questa libertà vera e degna dei figliuoli di Dio, scrive Leone XIII, la Chiesa reclamò ed ebbe carissima in ogni tempo. Siffatta libertà usarono con intrepida costanza gli Apostoli, la sancirono coi loro scritti gli apologisti, la consacrarono i Martiri in gran numero col proprio sangue» (Ivi.). Ma non è così che oggi s’intende la libertà di pensiero, di coscienza e di culto. Al contrario, si vuol pretendere la libertà di pensare quel che si vuole e come si vuole intorno a Dio ed alla religione, e, per conseguenza, la libertà di professare qualsiasi culto od anche nessuno, vale a dire la piena indifferenza in materia di religione: indifferenza eretta a sistema nell’ateismo pratico degli stati moderni.
Dogmatismo e libero pensiero. Ora la libertà di pensiero, di coscienza e di culto, così intesa, non potrebbe essere legittima che in un sol caso: quando, cioè, si potesse dimostrare che nulla vi è di certo intorno a Dio ed alla religione. E questa è, difatti, la pretesa degli odierni increduli quando oppongono il libero pensiero al dogma. Che il nostro pensiero non sia libero davanti alle verità naturali che a noi s’impongono con l’evidenza dei fatti, lo riconoscono anche alcuni liberi pensatori; ed è fiato sprecato quello degli apologisti che si affannano a provare contro di essi che anche il pensiero ha le sue leggi, e che l’intelletto non può sottrarsi al vero evidente. Tutto ciò essi pure concedono, ma negano che tale sia la condizione delle verità religiose e rivelate. Queste, dicono, non sono che «asserzioni accampate per aria, senza neppur la possibilità di essere dimostrate». Dogma è per essi un’affermazione che si «tiene per certa pur non essendola», e dogmatismo è il metodo o sistema di «dar per certo quello che non lo è». È contro questo dogmatismo che essi insorgono, perché il nostro pensiero «non può tener per certo se non quello che è dimostrato, e al di là non ammette nessuna dimostrazione». I modernisti lo sostengono apertamente o dietro sofismi, p. es. con Edoardo Le Roy che scriveva nella «Quinzaine» del 16 aprile 1905 — e l’articolo fu poi riprodotto nel libro «Dogme et critique», rapidamente messo all’indice: «Dogma è una proposizione che si presenta da se stessa come indimostrata e indimostrabile. Coloro stessi che la affermano vera, dichiarano impossibile che si giunga mai ad affermare le ragioni intime della sua verità. Ora il principio del metodo scientifico, sin dai tempi di Descartes, è incontestabilmente questo: che non bisogna, cioè, ritenere per vero se non quello che si vede chiaramente esser tale. Nel dogma al contrario si dovrebbe fare eccezione a tale principio, proprio quando si tratta di proposizioni che si presentano come le più importanti, le più probabili, le più singolari fra tutte. Ciò è impossibile».
Questa gente si esprime quasi come se la Chiesa stessa non avesse condannato più volte la dottrina di coloro che dicono essere «la fede un cieco assenso dell’animo», e quella di chi afferma «potersi credere che Dio ha parlato senza motivi o prove che ci accertano del fatto della rivelazione». Che anzi gli stessi misteri della fede, sebbene non ammettano dimostrazione intrinseca o diretta, sono però dimostrabili ab extrinseco o indirettamente; poiché tutti gli argomenti che dimostrano l’esistenza della rivelazione e l’impossibilità che Iddio s’inganni o ci inganni, provano pure la verità di quanto Iddio ha rivelato. Onde il Manzoni diceva: «La fede include la sommissione della ragione (all’autorità divina); ma questa sommissione è voluta dalla ragione stessa, la quale riconoscendo incontrastabili certi principi, è posta nell’alternativa, o di credere alcune conseguenze necessarie, o di rinunciare a quei principi. Avendo riconosciuto che la religione cristiana è rivelata da Dio, non può più mettere in dubbio alcuna parte della rivelazione; il dubbio sarebbe non solo irreligioso, ma assurdo» (A. Manzoni, Morale Cattolica, cap. 1). Tutto pertanto si riduce a sapere se davvero l’esistenza di Dio ed il fatto della rivelazione siano due verità dimostrabili. Ora la prima verità fu già da noi dimostrata e difesa contro i sofismi degli increduli, e la seconda verrà ugualmente dimostrata colla divinità del Cristianesimo. Nessun dogma dunque è per noi «accampato per aria». Accampati per aria sono invece i dogmi degli increduli, né dimostrati né dimostrabili. Tale, per esempio, il canone positivista: «tutto lo scibile si riduce al sensibile» — tale il canone materialista: «tutto il reale si riduce al materiale» — tale il canone evoluzionista: «tutto viene per evoluzione e non per creazione». E così dicasi di infinite altre asserzioni, tutt’altro che dimostrate o dimostrabili. Essi dunque, e non i veri credenti, professano dogmi accampati per aria. E basterebbe, a colmo d’ignominia, ricordare che, tra gli altri dogmi, i liberi pensatori hanno pure quello del determinismo, che è la negazione della stessa libertà. Invece, chiunque faccia appena uso di un poco di buon senso, deve ragionare cosi: «Io sono bensì fisicamente libero di seguire la verità o l’errore, il bene od il male, ma non lo sono già moralmente, perché davanti a Dio ed alla mia coscienza sento il dovere di conoscere la verità e di abbracciarla una volta che l’abbia conosciuta».
Il liberalismo politico. Quando il civile consorzio si uniforma alle idee del liberalismo, allora abbiamo il liberalismo politico. Lo Stato liberale «non sa neppure se esista Iddio, e non si cura quindi neppure della religione naturale. In questo sistema, di autorità civile, in quanto è diritto di giurisdizione, non si può più parlare, e però la macchina dello Stato si regge sul presupposto che il popolo, quando obbedisce alle leggi, obbedisce, fictione juris, a se medesimo, che le ha fatte. Di qui il parlamentarismo, sia monarchico che repubblicano, cioè l’onnipotenza del parlamento, che assorbe in sé direttamente o indirettamente ogni potere, anche l’esecutivo; ogni diritto, anche il diritto naturale. Tanto meno poi si potrà parlare in questo sistema di autorità religiosa e di materie che da essa dipendono. Avremo quindi lo Stato ateo, o, come si dice anche per eufemismo, la separazione dello Stato dalla Chiesa; avremo le scuole laiche e gli eserciti laici, ed il matrimonio laico che chiamano civile, e la sepoltura laica col relativo arrostimento dei cadaveri (cremazione di massonica volontà e propaganda), se non imposto, almeno favorito; e sopratutto avremo la libertà della bestemmia che, per un altro eufemismo, si chiama libertà di pensiero» (Rossignoli, La libertà politica nella sociologia, parte II, capitolo IV). Ora tutto ciò è semplicemente assurdo. «Come è illogico ed immorale lo scetticismo dell’individuo verso le verità necessarie (quelle cioè da cui dipende tutto l’ordinamento della nostra vita, individuale e sociale, come l’esistenza di Dio, la legge naturale, il libero arbitrio, la divinità della Chiesa); cosi è illogico ed immorale lo scetticismo dello Stato, in omaggio a una errata (talvolta anche eretica) libertà di pensiero, verso queste medesime verità, in quanto sono esse il fondamento della società stessa. L’esistenza di Dio, ad esempio, è la chiave di volta dell’edificio sociale, perché da Dio dipende ogni potere e ogni diritto, che non sia semplice forza bruta. Dalla legge (divina o) naturale ricevono l’autorità obbligante tutte le leggi civili, le quali non sono più giuste se alla legge (divina o) naturale non si conformano. [...] Il fine dell’uomo non si può ignorare senza ignorare contemporaneamente il fine della società. I diritti di una Chiesa, da Dio stesso stabilita, vogliono essere conosciuti e riconosciuti, perché non siano sopraffatti. Dunque lo Stato, che prescinde dalle verità necessarie, esautora se stesso, e non può tendere, poiché lo ignora (o lo ricusa), al bene reale dei cittadini» (Rossignoli, Corso di Sociologia, n. 327).
Tolleranza dogmatica e tolleranza civile. E poi bisogna distinguere tolleranza da tolleranza; chè altra è la tolleranza dogmatica, altra la tolleranza civile. Si ha la tolleranza dogmatica o dottrinale, quando tutte le religioni si stimano allo stesso modo (proprio come conclude il «vaticanosecondismo», ndR). E questa tolleranza, che si fonda sullo scetticismo religioso, basato alla sua volta sull’agnosticismo dell’al di là, non solo si oppone alla religione cristiana che poggia sul principio evangelico: «qui non crediderit, condemnabitur», ma riesce alla negazione d’ogni religione, poiché non si dà religione senza la ferma credenza nell’al di là. E se si nega ogni religione, ne vanno pur di mezzo quei principii morali su cui riposa l’ordine pubblico e sociale. Si ha la tolleranza civile, invece, quando, pur riconoscendo da parte di chi governa la vera religione, si tollerano tuttavia gli altri culti, non perché abbiano in sé diritto ad esistere, ma per evitare maggiori mali. A questo proposito ecco quanto scriveva Papa Leone XIII: «La Chiesa con intelligenza di madre guarda al grave peso dell’ umana fralezza (fragilità, ndR), e non ignora il corso degli animi e delle cose onde è trasportata l’età nostra. Per queste cagioni senza attribuire diritti fuorché al vero e all’onesto, ella non vieta che per evitare un male più grande o conseguire e conservare un più gran bene, il pubblico potere tolleri qualche cosa non conforme a verità e giustizia. Nella sua provvidenza Iddio stesso, infinitamente buono e potente, lascia pure che v’abbiano mali nel mondo, parte perché a beni maggiori non si chiuda la via, parte perché non si apra a mali maggiori. Tuttavia, se per ragione del bene comune, e per quest’unica ragione, può la legge umana e anche deve tollerare il male; approvarlo però e volerlo per se stesso né può né deve [...]. Bisogna anzi riconoscere, che quanto più di male è costretto a tollerare uno Stato, tanto è più lontano dalla perfezione; e similmente che la tolleranza del male, essendo un dettato di prudenza politica, va circoscritta entro i limiti del criterio che la fa nascere, che è il supremo bene sociale. Laonde, ove questo venisse a scapitare, e la società andasse incontro a mali maggiori, non sarebbe più permessa, perché in tal caso non potrebbe aver ragione di bene» (Libertas). Bisogna perciò, anche in fatto di tolleranza civile, distinguere una tolleranza assoluta ed una tolleranza relativa. La tolleranza relativa include il riconoscimento di un’unica vera religione, p. es. il Cristianesimo, o almeno il rispetto del principio religioso e dei principii fondamentali che regolano l’umano consorzio; la tolleranza assoluta, al contrario, lascia uguale libertà a tutti i culti, anzi a tutte le opinioni, anche le più empie e scellerate, riguardanti la religione e la morale. Ora, secondo gli stessi principii della fede e della ragione, è bensì lecita la tolleranza relativa, ma non mai l’assoluta. Questa conduce alla rovina non solo della religione, ma anche della società. Lo vediamo negli stati moderni. è poi assurdo voler condannare certe azioni come delitti, quando se ne ammetta la propaganda dottrinale. Chi non sa che le azioni sono figlie del pensiero? La società di oggi, del secolo ventunesimo, noi aggiungiamo in conclusione, è la somma di questi e di molti altri errori, eresie ed immoralità, specchio riflesso dei tanti irreligiosi uomini cosiddetti «di Stato», ma anche «di Chiesa»: questi ultimi prodotto del modernismo, dell’ateismo, del massonismo, evidentemente privati da Dio di autorità docente e di governo.
(A cura di CdP)