Stimati Associati, gentili Lettori, insegna Papa Pio XI: «Sta scritto nel Libro di Dio: quelli che abbandonarono il Signore andranno consunti; […] Gesù Redentore, Maestro degli uomini, ha detto: senza di me nulla potete fare; ed ancora: chi non raccoglie meco, disperde». Poste le ragioni della verità, analizzate le cronache dell’epoca, il Pontefice sentenzia: «Queste divine parole si sono avverate, ed ancora oggi vanno avverandosi sotto i nostri occhi. Gli uomini si sono allontanati da Dio e da Gesù Cristo e per questo sono caduti al fondo di tanti mali; per questo stesso si logorano e si consumano in vani e sterili tentativi di porvi rimedio, senza neppure riuscire a raccogliere gli avanzi di tante rovine». Poiché: «si è voluto che fossero senza Dio e senza Gesù Cristo le leggi e i governi, derivando ogni autorità non da Dio, ma dagli uomini; e con ciò stesso venivano meno alle leggi, non soltanto le sole vere ed inevitabili sanzioni, ma anche gli stessi supremi criteri del giusto, che anche il filosofo pagano Cicerone intuirà potersi derivare soltanto dalla legge divina. E veniva pure meno all’autorità ogni solida base, ogni vera ed indiscutibile ragione di supremazia e di comando da una parte, di soggezione e di ubbidienza dall’altra; e così la stessa compagine sociale, per logica necessità, doveva andarne scossa e compromessa, non rimanendole ormai alcun sicuro fulcro, ma tutto riducendosi a contrasti ed a prevalenze di numero e di interessi particolari» (Arcano Dei Consilio, 23.12.1922; cf. Appunti di teologia politica, n° 1, da Le Cronache Lucane, 02.2016). Sempre Papa Pio XI, il giorno 11 dicembre 1925, nella sua Quas Primas, proclamando la Regalità Sociale di Cristo, asserisce severo: «Noi scrivemmo circa il venir meno del principio di autorità e del rispetto alla pubblica potestà: Allontanato, infatti - così lamentavamo - Gesù Cristo dalle leggi e dalla società, l’autorità appare senz’altro come derivata non da Dio ma dagli uomini, in maniera che anche il fondamento della medesima vacilla: tolta la causa prima, non v’è ragione per cui uno debba comandare e l’altro obbedire. Dal che è derivato un generale turbamento della società, la quale non poggia più sui suoi cardini naturali» (cf. Appunti di teologia politica, n° 2, da Le Cronache Lucane, 02.2016). Ciò assunto, facilmente si comprende perché oggigiorno in tanti si scagliano contro l’autorità, purtroppo anche molti che si dicono cattolici ed agiscono, invece, da rivoluzionari o ragionano da anarchici. Dalla pagina 38 alla 42, nel suo Storia sociale della Chiesa (vol I, ed. CLS, Verrua Savoia, 2016), mons. Umberto Benigni scrive di Autorità e della Dottrina politica degli Apostoli. Cito: «Al principio cristiano che rende religiosamente morale (e, perciò stesso, superiormente civile) la fedele sudditanza politica, san Paolo apporta una magistrale esposizione in un noto passo della sua epistola ai Romani, in cui parla complessivamente del rispetto ed obbedienza alla legge e della passività economico-sociale o tributaria. ‘‘Ogni anima sia soggetta alle potestà superiori; imperocché non è podestà se non da Dio; e quelle che sono, sono da Dio ordinate. Per la qual cosa chi si oppone alla podestà, resiste all’ordinazione di Dio; e quei che resistono, si comperano la dannazione. Imperocché i principi sono il terrore non delle opere buone, ma delle cattive. Vuoi tu non aver paura della podestà? Opera bene e da essa avrai lode. Imperocché ella è ministra di Dio per te per il bene. Che se fai del male, temi; conciossiachè non indarno porta la spada: imperocché ella è ministra di Dio, vendicatrice per punire chiunque mal fa. Per la qual cosa siate soggetti com’è necessario, non solo per tema dell’ira ma anche per coscienza. Imperocché per questo pure voi pagate i tributi; giacché sono ministri di Dio che in questo stesso lo servono. Rendete dunque a tutti quel che è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi la gabella, la gabella; a chi il timore, il timore; a chi l’onore, l’onore»’’(Rom. XIII, 1-7). Riguardo alla fedeltà politica, che ora c’interessa, la dottrina generale di san Paolo è questa. Dio creatore e governatore del mondo ha stabilito un ordinamento per tutte le creature, ciascuna secondo la sua natura; l’uomo, essere ragionevole sociale (homo animal sociale, cf. san Tommaso), deve avere anche un ordinamento sociale. Dio ha disposto che la comunità sociale, la civitas, sia retta da alcune persone investite da una autorità che viene da Dio inquantochè essa realizza l’ordinamento voluto da lui. Perciò la ribellione contro l’autorità civile è una ribellione all’ordinamento sociale voluto da Dio. Ecco la ‘‘coscienziosità’’ della fedeltà politica che va dal rendere onore al pagare il tributo, cioè consiste nel riconoscimento morale e materiale dell’autorità. Conseguentemente a questo principio, l’Apostolo delle genti scrive a Tito per i fedeli: ‘‘Rammenta loro che siano soggetti ai principi ed alle podestà; che siano ubbidienti e pronti ad ogni buona opera’’ (Tit., III, 1). Ed a Timoteo aveva scritto di far pregare per le autorità affinché degnamente compiano il loro ufficio di giustizia e di civiltà, assegnato loro dall’ordinamento di Dio: ‘‘Raccomandando adunque prima di tutto che si facciano suppliche, orazioni, voti, ringraziamenti per tutti gli uomini: per i re e per tutti i costituiti in posto sublime, affinché meniamo vita quieta e tranquilla con tutta pietà ed onestà’’ (I Tim., II, 1-2). ...
Il principe degli Apostoli non è meno esplicito di san Paolo nello stabilire l’obbligo religioso di fedele sudditanza politica. Infatti san Pietro scrive: ‘‘Siate, per riguardo a Dio, soggetti ad ogni uomo creato; tanto al re come quei che è sopra di tutti, quanto ai presidi come spediti da lui per far vendetta dei malfattori e per onorare i buoni; perché tale è la volontà di Dio, che voi, ben facendo, chiudiate la bocca all’ignoranza degli uomini stolti: come (se voi foste) liberi, e non quasi tenendo la libertà per velame della malizia, ma come servi di Dio. Rispettate tutti: amate i fratelli; temete Dio: onorate il re’’ (I PETR., II, 13-17). San Pietro, pertanto, insegna di essere sudditi degl’investiti dell’autorità politica, per il principio di autorità, e quindi senza badare alla buona o cattiva persona investita del potere (‘‘ad ogni uomo creato’’: cioè a qualsiasi creatura umana investita d’autorità); e non per adulazione od opportunismo, quasi cortigiani; ma come uomini liberi che della libertà fanno uso onesto, liberamente (per convinzione e coscienza) soggetti alla autorità e ordine sociale». 2. La dottrina etico-giuridica degli Apostoli. Cito da pagina 40: «Rispetto ed obbedienza alle leggi. - Quanto adesso abbiamo udito dai principi degli Apostoli intorno alla fedeltà politica, tanto più si applica al rispetto e all’obbedienza estra-politica all’autorità, alle sue leggi ed ai suoi decreti. - Adunque ‘‘l’ordinamento di Dio’’ è la base religiosa dell’ossequio ed obbedienza all’autorità civile, alle sue leggi, ai suoi decreti. Quale ne sarà il limite? La stessa base, cioè l’ordinamento di Dio il quale vieta di far cosa contraria alla legge divina; onde ogni qualvolta l’autorità umana comanderà di fare o di omettere alcuna cosa contro la legge del Signore, allora il cristiano che obbedisse, disobbedirebbe a Dio; come negli altri casi, disobbedisce a Dio, disobbedendo all’autorità umana. Pertanto, finché gli uomini investiti dell’autorità comandano cose non cattive, ben si deve riguardarli in genere come esecutori dell’ordinamento sociale voluto da Dio, e quindi obbedire loro; quando comandano contro la legge divina, tolgono se stessi dalla posizione dell’ordinamento del Signore contro cui si mettono in opposizione. Posta questa antitesi, per il cristiano non v’ha più dubbio; perciò, comandati dal sinedrio di non predicare Cristo in Gerusalemme, ‘‘rispondendo Pietro e gli Apostoli dissero: bisogna obbedire a Dio piuttostochè agli uomini‘‘ (Atti, V, 29). Contro i ribelli all’autorità ed alle leggi, l’apostolo Giuda scrive, dopo averli rimproverati di altri delitti: ‘‘Similmente anche questi [...] disprezzano la potestà, insultano la maestà’’ (Epistola, 8 - Alcuni hanno inteso il passo spiritualmente, della legge e maestà di Dio: ma il testo parla di colpe specifiche e materiali). Quanto alle persecuzioni, come Gesù nell’orto rimproverando Pietro, aveva insegnato essere illecito l’opporre la privata alla pubblica forza ancorché esecutrice d’ingiuste violenze, cosi l’Apocalisse di Giovanni insegna ai cristiani di non opporre violenza alle autorità persecutrici, ripetendo quasi le parole stesse del Redentore: ‘‘[...] chi uccide di spada, bisogna che sia ucciso di spada: qui sta la pazienza e la fede dei santi’’ (Apoc., XIII, 10). San Paolo coll’esempio insegna alcuni modi leciti per sottrarsi alle persecuzioni: la fuga, la difesa forense, l’appello. Secondo il precetto del Signore di fuggire in altra città, l’Apostolo narra la sua drammatica fuga quando gli sgherri di Areta, re di Damasco, andarono per arrestarlo (II Cor., XI, 33; cf. Atti, IX, 25). D’altronde la miracolosa fuga di san Pietro dal carcere dove Erode lo aveva gettato per compiacere i giudei, sanzionava solennemente tale diritto cristiano (Atti, XII). Le splendide arringhe di san Paolo davanti al tribunale di Felice, di Festo e del re Agrippa (Atti, XXIV-VI) sono un modello del genere per la loro sublime schiettezza e per essere innalzate alla difesa della verità e della giustizia sincera e civile. L’appello all’autorità suprema ci è dato dall’Apostolo quando, condotto dagli implacabili ebrei davanti al tribunale di Festo, dichiarò di appellarsi, come cittadino romano, a Cesare (Atti, XXV, 11)». Contenzioso. Riporto da pagina 41: «Gli Apostoli costantemente insistono nell’insegnare la dottrina di Gesù intorno al fuggire le liti ed all’amichevole componimento (cf. Matt., V, 38-48 con Rom., XII, 17-21); ma san Paolo, sopravvenuta l’occasione, ha dato la concreta applicazione di quanto disse il Maestro: doversi dal cristiano ricorrere alla sentenza della Chiesa in una contesa col fratello. Infatti nella Chiesa di Corinto alcuni fedeli, avendo qualche lite d’indole forense con altri cristiani, si erano rivolti al tribunale pagano. E l’Apostolo vivamente li rimprovera: ‘‘Osa alcuno di voi, avendo lite con un altro, di stare in giudizio dinanzi agl’ingiusti piuttostochè davanti ai santi? [...] Se avrete lite di cose del secolo, ponete a giudici quelli che non sono stimati niente nella Chiesa! dico questo per farvi arrossire: cosi adunque non v’ha tra voi neppure un sapiente (*) che possa intervenire a giudicare il fratello? Ma il fratello litiga col fratello; e ciò dinanzi agl’infedeli?’’ (I Cor., VI, 1-6). (*) Cioè: se credete che nella vostra Chiesa non ci siano fratelli di tale scienza ed esperienza da poterli costituire arbitri, ebbene eleggete i buoni cristiani anche ignoranti, piuttostochè ricorrere ai pagani; ma io dico questo per vostra onta ; giacché è impossibile che fra voi non siano dotti ed esperti, idonei all’arbitrato. Per quanto il rimprovero apostolico si riferisca direttamente al ricorso ai tribunali pagani, così pieni di pericoli morali e materiali per i fedeli, pure la sostanza dell’insegnamento riguarda sempre l’evitare liti forensi, e l’appellarsi piuttosto al fraterno arbitrato cristiano». Partecipazione alla vita pubblica. Ancora, da pagina 42: «Gli Atti e le epistole apostoliche ci offrono esempi indubbi, che gli Apostoli ritenessero pienamente leciti per i cristiani gli offici pubblici, cosi civili che militari. Infatti san Pietro accolse come buon cristiano - senza imporgli di lasciare l’esercito - Cornelio centurione di una coorte della legione italica (Atti, X, 1); e san Paolo da Roma mandava alla Chiesa di Filippi i saluti dei cristiani impiegati alla corte di Nerone: ‘‘della casa di Cesare’’ (Philipp., IV, 22). Il protodiacono Filippo, aiutante degli Apostoli, battezza il ministro delle finanze di una regina di Etiopia (Atti, VIII, 27) senza obbligarlo a dimettere il portafoglio, ma solo di amministrarlo da buon cristiano. Come si vede, dagli stessi Apostoli la Chiesa primitiva ebbe l’esempio di un largo criterio in quanto alla liceità dei pubblici uffici, opponendo il solo limite di quelli che per loro natura imponessero atti veramente anticristiani». Sempre mons. Umberto Benigni, nel mentovato Volume edito recentemente - ripubblicato - dal Centro Librario Sodalitium, ci riferisce alle pagine 20 - 21 - 22, a proposito della Vita etico-giuridica, quanto segue: «La dottrina di Cristo riguardante i fenomeni etico-giuridici della vita sociale è la più comunemente conosciuta come quella che forma la base della morale pubblica e privata: perciò basterà che brevemente la riassumiamo. Bisogna premettere la fondamentale e, del resto, notissima distinzione tra il consiglio per una superiore vita spirituale e l’obbligo generale. Per il fatto, già da noi accennato, che la predicazione del Redentore era completiva, cioè supponeva legge e tradizione etico-giuridica del giudaismo, l’insegnamento etico-giuridico di Gesù doveva più riguardare la peculiare vita ascetica che non la comune per la quale, salve alcune eccezioni (come l’abolizione cristiana del divorzio mosaico), bastava quanto esisteva. L’avere dimenticato questo criterio ha condotto certi scrittori, specialmente moderni, a vedere nella dottrina etico-giuridica del Messia una grande deficienza per la vita comune ed un grande assorbimento per l’ascetica. Tale critica non ha fondamento per chi oggettivamente conosce la posizione dell’insegnamento messianico nell’ambiente in cui si svolse: infatti Gesù trovava una deficienza non di regola per la vita comune quanto di uno spirito elevato al di sopra della materialità della vita. Quindi Cristo non aveva tanto a dare precetti comuni già esistenti, quanto piuttosto norme speciali di elevata spiritualità che nella ebraica durezza di cervello e di cuore non trovava larga e profonda fioritura nemmeno in quegli esseni che spesso erano così gretti e pedanti. Vedremo ciò meglio nelle cose riguardanti la vita economica; ma intanto sia fisso questo principio e valga a far comprendere che l’insegnamento etico-giuridico di Cristo non è se non un complemento ed innalzamento della vita etico-giuridica stabilita dalla legge e dalla migliore tradizione israelitica». Quindi principia a parlarci della Vita pubblica: rispetto ed obbedienza alle leggi. Trascrivo da pagina 21: «Questa parte, benché non politica, della vita pubblica naturalmente si riconnette alla teoria politica; e perciò il principio di dare a Cesare quello che è di Cesare implica non solo la prestazione del tributo, ma anche del rispetto e dell’obbedienza alle leggi; pratico fondamento dell’ordine sociale. E che la dottrina di Cristo fosse l’obbedienza alle buone leggi anche di cattivi principi e magistrati, e l’ossequio alla legge perché emanate dall’autorità anche destituita di merito personale, risulta chiaramente dal noto insegnamento (Matt., XXIII, 2-3): ‘‘sulla cattedra di Mosè (autorità) si assisero gli scribi ed i farisei (cattivi magistrati); tutto quello pertanto che vi diranno (esercizio dell’autorità) osservatelo e fatelo (obbedienza ad essa); ma non vogliate fare quel che essi fanno (astrazione dalla condotta personale dei magistrati)’’. Una pratica conseguenza era l’essere proibito ai cristiani di opporre la forza privata alla forza pubblica esecutrice di un ordine, anche ingiusto, dell’autorità. Onde Gesù redarguì san Pietro per il suo atto di violenza contro uno degli esecutori del proprio arresto, nell’orto degli olivi (Matt., XXVI, 52). Ma era lecita la fuga per sottrarsi alla persecuzione. Onde non solo il Vangelo ripetutamente ci narra che Gesù si nascose dai suoi nemici, finché non venne la sua ora (Giov., VIII, 59; ecc.), ma egli stesso lo insegnò agli Apostoli: ‘‘allorquando vi perseguiteranno in questa città, fuggite in un’altra’’ (Matt., X, 23). E ciò ben giustamente, non solo per il diritto naturale di far salva onestamente la propria vita, ma anche per un intuito sociale d’impedire un delittuoso contegno da parte dell’autorità, dal quale viene sempre un danno, almeno morale, anche alla società». Per oggi basta,visto che ci siamo dilungati fin troppo in questo comunicato, ma ritorneremo sull’argomento in futuro, a Dio piacendo!
a cura di Carlo Di Pietro