Dicono i moderni: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato …». Quindi concludono: «Chi non agisce sempre in questa maniera non applica il Vangelo». A tale miseria si riduce la mistificatoria dottrina dei modernisti sull’immigrazione (qui approfondimenti). Ecco una prima elementare obiezione, rispondo: Gesù non si riferiva genericamente “all’uomo”, anzi è vero l'esatto contrario, sicché aggiunge: «Estote ergo prudentes sicut serpentes» - «Siate dunque prudenti come i serpenti». Gesù - a prescindere dalle etnie - non intendeva affatto sfamare lo spacciatore, abbeverare il trafficante di schiavi, ospitare il violentatore, favorire il predicatore di odio, eccetera... Replicherò meglio alla blasfemia esegetica immigrazionista più in basso. Si tratta di una volgare pseudo-esegesi di Modernismo.
Premessa. Per chi non ne fosse a conoscenza, devo premettere che il Modernismo è «sintesi di tutte le eresie», «porta all’ateismo», «distrugge ogni religione» e purtroppo «serpeggia nelle viscere della Chiesa» (cfr. Pascendi Dominici gregis, San Pio X; anche Humani generis, Pio XII: qui approfondimenti). Dunque i miasmi dei modernisti non sono dottrina della Chiesa, sebbene provochino grave scandalo contro la Chiesa.
Facciamo attenzione. Oggigiorno il primo e più immediato sigillo per distinguere il modernista dal cattolico è la sua adesione all’ecumenismo, a prescindere se questi sia favorevole o contrario all'attuale sistema migratorio: la sua dottrina presenterà certamente dei difetti. L’ecumenismo - complesso di eresie e gravi errori contro il Vangelo, contro il Credo apostolico e contro numerosi dogmi (qui un comodo dossier video di 142 minuti) - è condannato dalla Chiesa mediante la Mortalium Animos di Papa Pio XI, la Orientalis Ecclesiae di Papa Pio XII e presso numerosi altri luoghi (qui approfondimenti). Dunque l’ecumenista è un modernista manifesto, ragion per cui non può essere contemporaneamente anche cattolico. La sua dottrina non è espressione della mente di Dio.
Avendo appena smascherato il modernista (= abitualmente aderisce all’ecumenismo, caldeggia la distruzione di ogni religione, e della Chiesa se fosse possibile), la creatura ragionevole, per logica conseguenza, non può prendere assolutamente in considerazione la dottrina salottiera dei modernisti, nemmeno quella sull’immigrazione (qui approfondimenti), anche se il pulpito si maschera di virtù (cfr. I S. Giov., IV,1): «Et non mirum, ipse enim satanas transfigurat se in angelum lucis» - «Ciò non fa meraviglia, perché anche satana si maschera da angelo di luce» (II ad Cor., XI, 14).
Oggi la stampa conservatrice li definisce «cattocomunisti», in verità l’etichetta non è appropriata poiché il modernista può essere “cattocomunista”, “cattodemocristiano” oppure “cattofascista”, se proprio vogliamo sforzarci di usare declinazioni politicheggianti (qui approfondimenti di teologia politica). Da bravi protestanti, i modernisti usano il «sola Scriptura» e «violentano la Scrittura» (cfr. Providentissimus Deus, Leone XIII: qui approfondimenti) in ragione dei loro interessi particolari (probabilmente talvolta non ne sono troppo consapevoli), così anche per la questione dell’immigrazione. Il «violentatore della Scrittura» è lungi dall’essere misericordioso o caritatevole, piuttosto è vero l’esatto contrario, dato che il padre di Lutero, il padre del «sola Scriptura» (cfr. Exsurge Domine, Leone X: qui approfondimenti) e «padre della menzogna» è il demonio (cfr. S. Giov., VIII, 44). Al contrario, la misericordia è carità e «si compiace della verità» (cfr. I Cor., XIII).
Rafforzo ciò che ho dimostrato. Gli stessi modernisti, così solerti a citare il Vangelo per caldeggiare un’immigrazione incontrollata e spersonalizzante - proprio come impone il demone dell’ecumenismo, «spirito che intende abbattere ogni credo religioso con la mescolanza egualitaria»: qui approfondimenti - non si peritano mai di citare il Vangelo per contrastare le turpitudini morali così diffuse. Non lo fanno poiché, facendolo, perderebbero quei consensi mondani che tanto li allettano, tuttavia è scritto: «Modo enim hominibus suadeo aut Deo? Aut quaero hominibus placere? Si adhuc hominibus placerem, Christi servus non essem!» - «Infatti, è forse il favore degli uomini (ossia dei mondani) che intendo guadagnarmi, o non piuttosto quello di Dio? Oppure cerco di piacere agli uomini? Se ancora io piacessi agli uomini, non sarei più servitore di Cristo!» (ad Gal., I, 10).
Contro il falso concetto di carità ed amore - piuttosto il trionfo dell’animalesca concupiscenza più o meno invertita (qui approfondimenti) - il Vangelo dice chiaramente: «Perché mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono. Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti» (S. Matt., XIX,17); «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti» (S. Giov., XIV,15); «Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama» (S. Giov., XIV, 21); «Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore» (S. Giov., XV, 10); «Da questo sappiamo d'averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti» (I S. Giov., II, 3); «Chi dice: “Lo conosco” e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e la verità non è in lui» (I S. Giov., II, 4); «Da questo conosciamo di amare i figli di Dio: se amiamo Dio e ne osserviamo i comandamenti … in questo consiste l'amore di Dio, nell'osservare i suoi comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi» (I S. Giov., V, 2-3); «E in questo sta l'amore: nel camminare secondo i suoi comandamenti. Questo è il comandamento che avete appreso fin dal principio; camminate in esso» (II S. Giov., V, 6); «Qui appare la costanza dei santi, che osservano i comandamenti di Dio e la fede in Gesù» (Apoc., XIV, 12); eccetera. Ebbene, solo per citare un esempio, davanti alle diffuse ed invereconde perversioni morali, i modernisti (parimenti immigrazionisti) sono abilissimi nell’occultamento del Vangelo, mentre rispondono maldestramente: «Dio è amore», nell’intenzione di propagandare e di favorire l’esatto contrario dell’amore, come ho appena dimostrato usando correttamente il Vangelo.
Ipocrisia. Da questo capiamo che lo spirito del modernismo, dell’immigrazionismo, dell’ecumenismo è particolarmente fariseo: «In hypocrisi loquentium mendacium et cauteriatam habentium suam conscientiam» - «Sedotti dall'ipocrisia di impostori, già bollati a fuoco nella loro coscienza» (I ad Tim., IV, 2). Voglio solo aggiungere che i modernisti non hanno mai parlato di assistenza religiosa al migrante, bensì solo di assistenza spicciola, materiale, mondana, al massimo psicologica (sic!). In seguito vedremo che l'assistenza religiosa (oramai vietata dalla religione ecumenica) è, invece, la maggior premura del cattolico di ogni epoca: questo differisce l'uomo di mondo, dall'uomo di Dio!
Fonte autorevole. Ciò premesso, smascherati pertanto i ciarlieri portaparola della modernità, usiamo l’Enciclopedia Cattolica (Imprimatur 8 ottobre 1950, Vol. V, Coll. 291-299) per difendere la dottrina cristiana sull’immigrazione. Inizio delle citazioni:
Il diritto di emigrare, per andare alla ricerca di un nuovo domicilio, rompendo il vincolo giuridico che lega l’uomo alla società, nella quale è nato, è stato discusso fin dagli albori del moderno diritto internazionale. Prima ancora che il Grozio toccasse l’argomento e il Vattel più tardi gli dedicasse maggiore attenzione, il Vitoria, aveva fissato alcuni princìpi e dato in linea di massima la soluzione del problema. Secondo il Vitoria, la terra con i suoi beni è stata destinata al servizio del genere umano, di modo che tutti gli uomini hanno il diritto primordiale di farne uso, per la propria sussistenza e il proprio perfezionamento. La divisione della proprietà non distrugge questa essenziale destinazione delle risorse naturali della terra, e quindi se esse non vengono sfruttate dal popolo che le possiede, qualsiasi uomo, anche se appartenente ad altra società politica, può occuparle per fare ad esse raggiungere il loro scopo, purché la sua azione non sia nociva a quella cui appartiene il territorio. Questa conclusione viene da lui rafforzata con l’appello al principio d’eguaglianza. Se una società permette a degli estranei di muovere alla ricerca di cose preziose, esistenti nel territorio di sua giurisdizione, non può escludere gli altri dal godimento della medesima concessione, senza una ragione appoggiata sulle esigenze del bene comune. Inoltre la legge naturale detta il precetto della comune solidarietà e impone la necessità degli scambi tra le varie genti; può, dunque, l’uomo fissare il proprio domicilio su qualsiasi parte della terra, per intrecciare relazioni di collaborazione con altri popoli, nel cui territorio ha il diritto di risiedere o di transitare liberamente, se ciò non porta detrimento agli altri. Le tesi del Vitoria è, dunque, moderatamente liberista, in quanto all’affermazione del diritto umano di emigrare congiunge la considerazione del bene comune della terra di immigrazione, dal quale il diritto riconosciuto può venire limitato. I princìpi da lui fissati sono diventati patrimonio della dottrina cattolica.
Altre soluzioni. Presentemente tengono il campo tre soluzioni, due estreme e l’altra intermedia. Le estreme traggono rispettivamente origine o dal culto eccessivo della libertà, distintivo della concezione liberale, o dalle teorie che più o meno inclinano verso l’assolutismo del potere dello Stato e si atteggiano diversamente, pur mantenendo il principio della sovranità illimitata. La tesi liberale sostiene che il diritto d’emigrare non è altro se non una manifestazione della libertà umana, che si dirige verso la scelta d’un domicilio più conveniente alla persona interessata, e poiché l’autonomia individuale è un diritto sacro e intangibile, il cittadino ha la facoltà di emigrare a sua discrezione. La società conseguentemente non avrebbe il potere di sopprimerla né quello di limitarla, eccetto in caso di vera emergenza. Le teorie, invece, che più o meno si ispirano al concetto del potere assoluto dello Stato, movendo dal principio che l’individuo non possiede per sé nessun diritto personale, se non in quanto gli viene concesso dall’autorità pubblica, gli nega il diritto d’emigrare ed attribuisce allo Stato un potere discrezionale d’impedirne l’esercizio. Concezioni organiciste, razziste o nazionaliste concorrono a confermare questo atteggiamento, in quanto nel vincolo che lega l’uomo alla terra d’origine e alla società politica o nazionale vedono un vincolo di natura fisica.
La terza soluzione, diventata la più comune presso gli internazionalisti, si riannoda all’opinione espressa dal Vitoria. Essa riconosce all’uomo il diritto naturale di emigrare, ma ne subordina l’esercizio al bene comune delle due società interessate, temperando i poteri dello Stato con i limiti imposti dal diritto della persona umana, e la libertà dell’individuo con le restrizioni richieste dal bene collettivo. È questa la soluzione che viene accolta dalla dottrina cattolica. Tra i diritti fondamentali dell’uomo è da annoverarsi quello della libertà personale. La facoltà d’emigrare è l’esercizio di tale diritto, volto alla scelta d’un nuovo domicilio, all’elezione di un nuovo campo di attività, ritenuti più convenienti ai bisogni della vita; lo Stato non può, dunque, intervenire per sopprimerla o ridurla in modo arbitrario. Il legame poi, che congiunge l’uomo a un determinato aggregato politico, compreso quello in cui è nato, non è di natura fisica, ma è essenzialmente una relazione morale, che egli può rompere quando la necessità o la convenienza lo consigliassero. Si aggiunge a rafforzare il suo diritto il carattere di mezzo della vita sociale in ordine ai fini prevalenti della vita. Se l’uomo non può fare a meno d’inserirsi entro un organismo sociale, perché fuori di esso non potrebbe né vivere, né progredire, tuttavia questa necessità finale non lo lega in modo indissolubile al ceppo, dal quale procede, potendo egli conseguire il medesimo scopo e in maniera più sicura in altra compagine collettiva. Egli può, dunque, cercare sotto altri cieli e fra nazioni straniere i mezzi per attuare il fine della sua esistenza.
Opporsi all’emigrazione. Ne segue che lo Stato, in virtù del diritto di sovranità, non ha la facoltà di opporsi in modo assoluto all’emigrazione. Tuttavia l’uso di tale diritto da parte del cittadino trova delle restrizioni naturali nel bene collettivo, la cui cura è devoluta al potere supremo dello Stato, che con la sua legge può imporre delle condizioni, come le impone a qualsiasi esercizio della libertà personale nel campo sociale, affinché il deflusso emigratorio non pregiudichi gli interessi più generali della collettività. Il paese di provenienza ha conseguentemente il diritto di subordinare la emigrazione al compimento previo di alcune obbligazioni sociali, come sarebbe, ad es., il servizio militare, e può adottare provvedimenti più rigorosi o in caso di necessità, imminenza d’un conflitto, o per frenare un esodo della popolazione, che per la sua ampiezza tornerebbe dannoso all’efficienza della propria vita. L’interesse più universale del corpo sociale prevale allora sull’interesse e sul diritto dell’individuo che desidera espatriare.
[Distinguiamo subito l’emigrazione dall’immigrazione. L’Enciclopedia sta analizzando, fino a questo momento, la questione dell’emigrazione: ovvero di chi intende partire e del suo rapporto col paese d’origine. Per conseguenza, possiamo usare la medesima dottrina, ovvero i princìpi assoluti che essa esprime, per disciplinare anche il fenomeno dell’immigrazione, quindi di chi potrebbe ospitare, ndR].
Il paese d’immigrazione. Alquanto più arduo riesce determinare gli obblighi del paese d’immigrazione [il paese di destinazione del migrante, ndR], il quale non ha dei doveri giuridici positivi verso l’immigrante, non appartenendo questi alla sua compagine sociale. E tuttavia, se si tiene presente il principio posto dal Vitoria della destinazione essenziale dei beni della terra al servizio del genere umano, lo Stato non ha diritto di considerare i suoi sudditi come beneficiari esclusivi delle risorse del suo territorio e di riservarne ad essi soltanto il godimento. Se, dunque, possiede dello spazio disponibile, dove le risorse naturali giacenti inoperose potrebbero essere valorizzate dal lavoro di altre braccia, ha un dovere stretto di giustizia di permettere che queste vi s’insedino e vi traggano i mezzi di sussistenza. Nondimeno anche a questo riguardo non bisogna perdere di vista l’altro principio fissato dallo stesso Vitoria della conveniente tutela del bene collettivo, e quindi si dovrà ammettere che anche il paese d’immigrazione ha la facoltà di apportare delle restrizioni all’arrivo degli stranieri, sottoponendo l’ingresso nel suo territorio a condizioni particolari, affinché il loro afflusso non sia pregiudiziale all’ordine e alla sicurezza pubblica. Tali restrizioni, però, dovranno essere sempre fondate sopra una reale esigenza del bene comune e non dettate dall’egoismo nazionale o da altri pregiudizi etnici. Indubbiamente non tutte le varietà della specie umana si possono fondere tra di loro, in modo che non ne derivino inconvenienti gravi nell’ordine morale e sociale. Facendo attenzione alla maggiore e minore assimilabilità delle stirpi umane, può uno Stato stabilire delle discriminazioni; queste però non possono arrivare al grado di condannare intere popolazioni ad un’esistenza di miseria, giacché ogni uomo ha diritto di ricavare dalla terra i mezzi di sussistenza, a qualsiasi gruppo egli appartenga. Alcune leggi restrittive esistenti in qualche paese d’immigrazione, come, ad es. negli Stati Uniti, devono essere considerate come ingiuste, non perché stabiliscano dei contingenti, legittimi in certe circostanze, ma perché il contingentamento tende a escludere popoli maggiormente bisognosi di lasciar defluire la loro eccedenza demografica, per ragioni infondate …
Le condizioni di lavoro dell’emigrante nel paese di adozione sottostanno alle leggi morali e giuridiche generali, che regolano questa materia. Occorre tuttavia far menzione di un particolare aspetto, messo in luce da Pio XII nel radiomessaggio del 1° giugno 1941. Commemorando il cinquantenario della Rerum Novarum, il Papa ha rilevato come esistano regioni abbandonate al capriccio vegetativo della natura, dove utilmente si potrebbe trasferire la mano d’opera, e come sia sovente inevitabile che alcune famiglie, emigrando, si cerchino altrove una nuova patria. In questo caso va rispettato il diritto della famiglia ad uno spazio vitale. «Dove questo accadrà - egli soggiunge - l’emigrazione raggiungerà il suo scopo naturale, che spesso convalida l’esperienza, vogliamo dire la distribuzione più favorevole degli uomini sulla superficie terrestre, acconcia a colonie di agricoltori; superficie che Dio creò e preparò per uso di tutti».
La naturalizzazione. Un breve cenno meritano ancora in questa parte morale e giuridica l’assimilazione e la naturalizzazione dell’immigrato, rispetto alle quali, mentre è da affermare il diritto dello Stato accoglitore di lavorare al lento assorbimento dello straniero, stabilitosi nel suo territorio, nella sua compagine sociale e politica, in modo da conseguirne l’amalgamazione con le popolazioni native e assicurare l’unità, è da escludere insieme categoricamente che il processo possa essere forzato da provvedimenti oppressori. L’assimilazione deve piuttosto essere lasciata al giuoco spontaneo delle virtù naturali dell’uomo, le quali presto o tardi producono l’effetto associativo, se aiutate prudentemente dall’azione stimolatrice del potere pubblico: la naturalizzazione invece, con l’acquisto della nuova cittadinanza, essendo un atto volontario dell’individuo, con il quale egli spiritualmente aderisce al nuovo aggregato politico, non può mai essere imposta con mezzi coercitivi. Le legislazioni a questo proposito non sono concordi, ispirandosi alcune al ius soli, come quella degli Stati Uniti, altre al ius sanguinis e altre ancora a un sistema misto. Sarebbe opportuno che si conseguisse in ciò una certa uniformità, per evitare l’inconveniente grave della doppia cittadinanza.
L’immigrato naturalizzato o no, gode, anche in seno al paese che lo ha accolto, il diritto di usare la lingua originaria nella sua famiglia e tra i suoi connazionali e di professare liberamente la propria religione in luoghi di culto [qualora già esistenti, ed ammesso che non ne derivino inconvenienti gravi nell’ordine morale e sociale. Fare riferimento all'Allocuzione Ci riesce di Papa Pio XII, ndR]…
Valutazione sociale numero uno. I giudizi sul valore sociale dell’emigrazione si dimostrano discordanti a causa del diverso aspetto, sotto il quale viene considerata, e del rilievo dato ad alcuni elementi a preferenza di altri, che pure non vanno trascurati in una valutazione obiettiva del fatto. Gli oppositori dell’emigrazione, generalmente di tendenza nazionalistica, indugiano in modo particolare nel rilevare i mali, che essa causa al paese. Innanzi tutto l’emigrazione involerebbe alla nazione una forza preziosa, la quale, se mantenuta entro i confini della patria, potrebbe rinvigorire la sua efficienza. L’emigrante è perduto per sempre, non soltanto come elemento numerico, ma come uomo dotato d’intelligenza, volontà e operosità fisica e spirituale, e con lui è perduta la sua prole, la quale, nata in paese straniero, conserva soltanto un pallido ricordo della patria d’origine. Inoltre l’emigrazione porta via di solito gli individui meglio dotati, nel pieno vigore delle loro forze e nel periodo di maggiore rendimento, i quali profonderanno la loro attività in terre straniere, senza che alla nazione, alla quale devono la nascita, il sostentamento e l’educazione, ne derivi alcun beneficio diretto. Le rimesse che egli manda, non arrivano a compensare le spese incontrate per il suo allevamento, educazione e formazione intellettuale e professionale. Non è esatto nemmeno dire che con l’emigrazione si dilata la cultura nazionale o si purifica l’organismo sociale dalle tossine pericolose, liberandolo degli individui meno buoni. Nella realtà l’emigrato, particolarmente alla seconda generazione, viene compiutamente assorbito nella cultura del paese d’adozione, e solo con ulteriori spese la nazione d’origine può mantenere desta la fiamma della propria, aprendo e mantenendo scuole e istituti per la sua assistenza. L’emigrazione poi, come possono dimostrare le statistiche, lungi dal purificare l’organismo sociale, gli sottrae i membri più giovani, più attivi e più ardimentosi. Coloro che si avventurano verso un avvenire spesso ignoto non sono i deboli, i malati, gl’incapaci e i minorati intellettualmente e fisicamente. L’emigrazione, dunque, opera una selezione a rovescio, trascinando via gl’individui validi e lasciando in patria gli inetti [Oggigiorno - anno 2018 - le inchieste giudiziarie ed i dossier internazionali dimostrano il contrario: ovvero in alcuni paesi di origine si tende ad inviare all'estero i soggetti peggiori o gli inetti, casomai i galeotti o ex galeotti, impedendo agl’individui validi di emigrare, ndR]. Si aggiunge agli inconvenienti descritti la sua inadeguatezza a risolvere il problema interno dell’eccessiva densità della popolazione in relazione alle risorse del suolo, giacché un popolo prolifico, nonostante il deflusso migratorio, avrà sempre di fronte la medesima scarsità di materie e la medesima sproporzione demografica. Occorre poi tener presente che l’emigrazione sconvolge sovente la vita familiare, dalla quale separa per lungo tempo il padre, che non sempre è in grado di ricostituire l’unità domestica. Premendo su queste e altre ragioni, dedotte dal prestigio nazionale, l’emigrazione viene giudicata come un male sociale, che si può accettare per necessità maggiore, ma non si può approvare come mezzo ordinario per risolvere i problemi di vita d’una nazione.
Valutazione sociale numero due. Al polo contrario stanno i suoi fautori, in cui favore militano gli argomenti precedentemente accennati, fondati sulla libertà dell’uomo a scegliersi sulla terra la dimora che crede più conforme al soddisfacimento dei suoi bisogni. Non può tuttavia negarsi che una parte di verità è contenuta nelle ragioni degli oppositori, riguardo alle quali è da rilevare in modo generale che il numero è forza quando può essere utilmente impiegato in lavoro proficuo; quando, invece, è condannato all’inerzia per la mancata possibilità di adoperarne le energie, al cui superamento si oppongono le condizioni economiche del paese, non rappresenta un valore, ma un peso, che può diventare sorgente di disagio per tutti, diminuendo il livello di vita e dando origine a movimenti irrequieti delle masse insoddisfatte. I computi in cifre delle perdite economiche, cui è vittima il paese di partenza, tradiscono una mentalità mercantilistica. Anche sotto l’aspetto economico, del resto, l’uomo conta o vale non per quanto costa, ma per quanto è utile, cioè per quanto in determinate condizioni può produrre. Se, dunque, in una nazione vi è eccedenza di uomini rispetto al fabbisogno, tale eccedenza non costituirà un bene economico, finché quelle condizioni dureranno. Nel complesso computo dei vantaggi e degli svantaggi dell’emigrazione forse i primi prevalgono sui secondi. Dopo tanti anni di esperimento si possono ritenere ancora in linea di massima valide le conclusioni, alle quali pervenne il Congresso internazionale di pubblica beneficenza, tenuto a Bruxelles nel 1856, secondo il quale: 1) l’accrescimento della popolazione non può e non deve essere contrastato da disposizioni legali; 2) i mali del pauperismo dovuti all’incremento della popolazione possono essere attenuati in maniera efficace, per quanto indiretta, attraverso l’emigrazione; 3) per conseguenza deve essere accordata agli emigranti piena libertà e ogni possibile protezione; 4) i governi, le associazioni e i privati devono combinare i loro sforzi per ottenere dall’emigrazione tutti i benefici che ne possono derivare.
La valutazione positiva diventa alquanto incerta, se l’emigrazione si considera nei suoi riflessi morali, poiché è indubbio che molto spesso il trapianto in altro ambiente diventa fatale per chi lo tenta, né si può negare che l’allontanamento specialmente del capo di famiglia può disorganizzare e travolgere il nucleo familiare. Esiste poi una triste esperienza riguardo alla facile contrazione di nuove abitudini, vizi e malattie, delle quali il luogo d’origine dell’emigrante era immune. Fatto il bilancio del pro e del contro, tutto consiglia ad andar molto cauti nel pronunciarsi sul valore sociale e morale dell’emigrazione. [Stesso principio per il caso dell’immigrazione, ndR].
Aspetto internazionale. Più che nei tempi passati, nei quali ha dominato il regime della più estesa libertà, particolarmente dopo la prima guerra mondiale e maggiormente ancora dopo la seconda, l’emigrazione è diventata un problema internazionale, che non può essere risolto se non mediante provvedimenti collettivi, i quali dispongano un piano organico per la conveniente distribuzione della popolazione sulla terra e regolino le correnti migratorie, dirigendole verso quegli sbocchi dove si sente la necessità della mano d’opera. Le mutate condizioni economiche dei paesi, le aumentate esigenze dell’operaio, che anche all’estero reclama un equo trattamento, la sempre crescente regolamentazione della produzione da parte dello Stato, impediscono oggi l’emigrazione libera di massa e permettono solo quella qualificata secondo il fabbisogno dell’economia locale. D’altra parte la situazione di disagio endemico, nella quale si trovano alcune nazioni sovrappopolate in relazione alle possibilità di lavoro, crea per se stessa un problema non solo interno ma anche internazionale, alla cui soluzione sono interessate tutte le nazioni, per impedire che la pressione demografica, con il conseguente pauperismo, diventi cattiva consigliera e spinga verso l’espansione violenta. Occorre cercare a queste masse insoddisfatte uno sbocco, attenuando, per quanto è possibile, la necessità d’emigrare, e aumentando insieme le possibilità d’immigrare, e ciò non potrà ottenersi senza una collaborazione collettiva.
Il carattere intenzionale dell’emigrazione risulta ancora dalla stretta interdipendenza economica delle varie nazioni, determinata dalla ineguale distribuzione della ricchezza. Nel campo economico le nazioni non possono vivere isolatamente, ma dipendono le une dalle altre e si completano a vicenda. Le più dotate di mezzi e di fonti di materie prime non possono disinteressarsi delle altre ad economia depressa, alle quali devono venire in aiuto per sollevarne il tenore comune di vita, il che sovente non si può ottenere senza un deflusso regolato della loro eccedenza demografica. Non sono poi meno internazionali gli altri aspetti dell’emigrazione, come quelli del protezionismo sociale, della parità di trattamento fra nazionali e stranieri, della cittadinanza, delle discriminazioni razziali e nazionali, ciascuno dei quali presenta un problema pratico, alla cui soluzione hanno eguale interesse tanto i paesi d’immigrazione quanto i paesi d’emigrazione. L’intima connessione poi con altri fenomeni internazionali, quali la circolazione dei capitali e delle merci, estende ancora di più la necessità di una regolamentazione a carattere collettivo, con la quale il problema venga globalmente affrontato.
La mancanza di una sentita solidarietà internazionale. Non sono mancati i tentativi di mettersi per questa via, ma sono rimasti infruttuosi. La mancanza di una sentita solidarietà internazionale, l’assenza di consapevolezza dell’interdipendenza tra le varie economie, il mancato riconoscimento della necessità di considerare e risolvere in tutti i suoi aspetti la questione dell’emigrazione e il nazionalismo esagerato hanno impedito che si conseguissero sul piano internazionale dei risultati apprezzabili. L’unico organo internazionale a carattere ufficiale che abbia svolto un lavoro positivo, anche nel settore dell’emigrazione, è stata l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, la quale ha promosso la stipulazione di numerose convenzioni internazionali, con disposizioni per la tutela degli interessi economici, sanitari e morali degli emigranti, e insieme, subordinatamente alla lotta per la prevenzione e repressione della disoccupazione, si è occupata del collocamento internazionale della mano d’opera. Questo organo è sopravvissuto alla seconda guerra mondiale, uscendone anzi rafforzato per merito della sua ottima struttura …
Assistenza religiosa agli emigranti. Il fenomeno dell’emigrazione creò nel secolo scorso, accanto ad altri problemi, quello dell’assistenza religiosa agli emigranti. I primi emigranti, trasferiti da regioni, ove la vita religiosa era intensa, in regioni, che appena ieri avevano cessato di essere terre di missione, o erano monopolio dei protestanti, senza un’adeguata istruzione, lontani dal Clero locale, da cui spesso non erano compresi, alle prese con la miseria, con lo sfruttamento e con la cupidigia di arricchire, finirono spesso per cadere in mano o dei protestanti, o più spesso ancora dell’indifferentismo religioso o di un ateismo pratico. Fu l’esperienza diretta od indiretta di questi dolorosi fatti, che mosse nel secolo scorso alcune anime grandi ad organizzare l’apostolato per gli emigranti e per gli emigrati italiani. [L’Ecumenismo, come abbiamo imparato, al contrario del Cattolicesimo vuole l’amalgama della molteplicità dei soggetti nell’indifferentismo religioso, quindi nell'ateismo pratico, ndR] … L’assistenza religiosa, specifica per gli emigranti, deve un po’ seguire il corso più o meno celere dell’assimilazione dell’emigrante nel paese d’arrivo, e segue naturalmente diversi indirizzi a seconda che l’emigrazione è temporanea o perpetua. Dove l’assimilazione è rapida e l’emigrazione perpetua, l’unico mezzo per assicurare l’assistenza spirituale è quello di aumentare proporzionalmente il numero dei Sacerdoti, portandoli dai paesi d’origine. È quanto si è fatto e si va facendo … Fine delle citazioni.
Conclusione. 1) Emigrante è colui che parte; 2) Diventa immigrato per chi lo accoglie; 3) L’emigrante deve aver adempiuto ai suoi doveri in Patria, se ciò non gli è stato iniquamente impedito; 4) Se in Patria un soggetto è ostacolato ingiustamente nell’onesto percorso di vita, può pensare di diventare un emigrante; 5) L’emigrante deve, in ogni modo, adoperarsi all’emigrazione secondo il diritto; 6) L’emigrante ordinariamente deve dirigersi verso quella Nazione in grado di garantirgli un tenore comune di vita; 7) Significa che l’emigrante non si dirigerà verso quelle Nazioni dove la disoccupazione è galoppante, dove già gli autoctoni si vedono privati in qualche misura dei loro diritti, eccetera...; 8) Divenuto immigrato in terra altrui, questi deve, in ogni modo, cooperare per la preservazione dell’ordine e della sicurezza pubblica; 9) La Nazione d’immigrazione (ossia dove l’immigrato approda) ha la facoltà di apportare delle restrizioni all’arrivo degli stranieri, sottoponendo l’ingresso nel suo territorio a condizioni particolari, affinché il loro afflusso non sia pregiudiziale all’ordine e alla sicurezza pubblica; 10) Non tutte le varietà della specie umana si possono fondere tra di loro, in modo che non ne derivino inconvenienti gravi nell’ordine morale e sociale.
Rispondo alla mistificazione iniziale. Dicono: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato …». Concludono: «Chi non agisce sempre in questa maniera non applica il Vangelo». Quando dobbiamo applicare la massima evangelica usurpata dai modernisti? Ho elencato alcuni punti sintetici. In essi intendo far risplendere la legge naturale, la misericordia, la giustizia e la prudenza. Dunque, almeno per la questione immigrazione e così come oggi si presenta ai miei occhi, credo che la massima in questione debba applicarsi solo sussistendo, tutte insieme, le condizioni testé schematizzate; possono esserci alcune marginali eccezioni. D'altronde la dottrina immigrazionista - una costola del pensiero cosmopolita - è in aperta contraddizione con la dottrina cattolica che rifulge per buon senso ed uso di retta ragione. Esempio 1. Lo spacciatore scappa dalla Nazione X per rifugiarsi nella Nazione Y e spacciare con meno restrizioni? Non è applicabile la massima evangelica. Esempio 2. Il predicatore sunnita espatria dalla Nazione X verso la Nazione Y per fare proseliti? Non è applicabile la massima evangelica. Esempio 3. L’onesto coltivatore scappa dalla Nazione X perché ci sono le bande di predoni che lo rapinano? È applicabile la massima evangelica, tuttavia bisogna precisare: questi può recarsi legalmente nella Nazione Y dove sarà meglio tutelato ed aiutato - in prova temporanea (qui approfondimenti) - a procacciarsi un lavoro dignitoso, possibilmente il medesimo che aveva in Patria. E così via applicando quei princìpi assoluti che abbiamo studiato …
Il cattolicesimo non si inventa: i modernisti, siano essi di destra (prossimi al razzismo) di centro (esposti ai venti) o di sinistra (i progressisti), lo inventano!
a cura di Carlo Di Pietro