Stimati Associati e gentili Sostenitori, il venerando Abate Giuseppe Ricciotti ci accompagna finalmente alla settimana di Passione.
• § 532. Giunse pertanto il penultimo giorno avanti la Pasqua, ossia il mercoledì. Il tempo, per i sommi sacerdoti e i Farisei, stringeva e bisognava decidersi ad agire. Nonostante le ripetute deliberazioni prese nei giorni precedenti, ancora non si era fatto nulla, perché Gesù era protetto dal favore popolare e quindi si permetteva di girare impunemente in Gerusalemme e perfino di predicare nel Tempio. Ma non c’era dunque modo di farlo scomparire occultamente, senza che il popolo se ne avvedesse? Certo non bisognava perdere altro tempo, e la questione doveva essere risolta in maniera definitiva prima della Pasqua, per evitare conseguenze che potevano esser gravissime. Le feste in genere, e soprattutto la Pasqua, a causa delle enormi affluenze di folle eccitate, erano considerate dal procuratore romano come periodi di convulsione sismica, ed allora più che mai egli sbarrava tanto d’occhi e raddoppiava la vigilanza per timore che un nonnulla facesse saltare tutto in aria: perciò in tali occasioni - come riferisce occasionalmente Flavio Giuseppe (Guerra giud., II, 224) - la coorte romana di presidio a Gerusalemme si schierava lungo il portico del Tempio, «giacché nelle feste essi fanno sempre la guardia armati affinché la folla adunata non faccia sedizioni». Che cosa dunque non poteva accadere con quel Rabbi galileo in giro per la città e nel Tempio, attorniato da gruppi d’entusiasti che lo credevano Messia? Al primo subbuglio che fosse accaduto, il cavaliere Ponzio Pilato avrebbe scatenato i suoi soldati sulle folle dei pellegrini cominciando davvero a distruggere il luogo santo e la nazione, come si era temuto (§ 494). No, no, assolutamente bisognava scongiurare questo pericolo e far si che per la Pasqua tutto fosse a posto. Ma come? In quel mercoledì si tenne un nuovo consiglio per discutere tale questione. «Allora si radunarono i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo nel palazzo del sommo sacerdote chiamato Caifa, e deliberarono di catturare Gesù con inganno e d’uccider(lo). Tuttavia dicevano: “Non nella festa, affinché non avvenga tumulto nel popolo”» (Matteo, 26, 3-5). Era dunque pacifico per tutti i partecipi dell’adunanza che Gesù dovesse esser soppresso; tuttavia alcuni più cauti facevano notare il pericolo che l’arresto fosse eseguito durante la festa pasquale quando molti pellegrini, o Galilei o favorevoli a Gesù, potevano insorgere per proteggerlo; d’altra parte neppure sarebbe stato opportuno rimandare l’arresto a dopo la festa, perché nel frattempo Gesù poteva allontanarsi con i pellegrini che tornavano alle loro case e così sfuggire alla cattura, come aveva già fatto dopo la resurrezione di Lazaro: perciò bisognava agire subito, prima della Pasqua e in segreto. A questa sollecitudine e segretezza mirava l’osservazione dei cauti consiglieri. Ma appunto qui stava la difficoltà. Alla Pasqua mancavano solo due giorni, e Gesù passava tutta la sua giornata in mezzo al popolo; com’era possibile agire in sì poco tempo e in maniera che l’arresto si risapesse solo a cose fatte? L’aiuto venne donde meno si aspettava. «Allora uno dei dodici, quello chiamato Giuda Iscariota, andato dai sommi sacerdoti disse: “Che cosa mi volete dare, ed io lo consegnerò a voi?”. E quelli stabilirono trenta (monete) argentee. E da allora (Giuda) cercava un’opportunità per consegnarlo». Questa è l’informazione di San Matteo (26, l4-l6), con cui concordano gli altri due Sinottici, i quali non precisano la somma pattuita ma aggiungono la ben comprensibile notizia che i sommi sacerdoti si rallegrarono della proposta di Giuda. E infatti adesso, con tale cooperatore, arrestare sollecitamente e segretamente Gesù diventava impresa facile.
• § 533. Ma quale ragione spinse Giuda al tradimento? La primitiva catechesi non ci ha trasmesso altra ragione che l’amore al lucro. Quando gli Evangelisti presentavano Giuda come ladro e amministratore fraudolento della cassetta comune (§ 502) preparavano in realtà la scena di Giuda che si reca dai sommi sacerdoti per chiedere: «Che cosa mi volete dare...?». Ma, anche fuori dei Vangeli, quando Pietro parla del traditore ormai suicida, non accenna ad altro profitto del tradimento se non all’acquisto d’un campo «con la mercede dell’iniquità» (Atti, 1, 16-19). La ragione del lucro è dunque sicura; tuttavia insieme con essa non è escluso che ve ne siano state altre di cui la primitiva catechesi non si occupò, e qui il campo è aperto a ragionevoli congetture. Anche astraendo dai voli fantastici fatti su questo campo sommamente tragico da drammaturghi o da storici d’ispirazione romanzesca, resta sempre l’inaspettato contegno tenuto da Giuda soltanto due giorni dopo: visto che Gesù è stato condannato, il traditore improvvisamente si pente di aver venduto il sangue di quel giusto, e riportatone il prezzo ai sommi sacerdoti va ad impiccarsi (§ 574). Ebbene, questo non è il contegno di un semplice avaro: un avaro tipico, un uomo che non avesse avuto altro amore che per il denaro, sarebbe rimasto soddisfatto del lucro ottenuto, qualunque fosse stata la sorte successiva di Gesù, e non avrebbe pensato né a restituire il denaro né ad impiccarsi. Avaro e cupido Giuda fu certamente, ma oltre a ciò era qualche cosa d’altro. Esistono in lui almeno due amori: uno è quello dell’oro, che lo spinge a tradire Gesù; ma a fianco a questo esiste un altro amore che talvolta può anche essere più forte, perché a tradimento compiuto prevale sullo stesso amore dell’oro e spinge il traditore a restituire il lucro, a rinnegare tutto il suo tradimento, a compiangerne la vittima e infine ad uccidersi per disperazione. Qual era l’oggetto di questo amore contrastante con quello dell’oro? Per quanto ci si ripensi, non si trova altro oggetto possibile se non Gesù. Se Giuda non avesse sentito per Gesù un amore tanto grande che talvolta prevaleva su quello per l’oro, non avrebbe né restituito il denaro né rinnegato il suo tradimento. Ma se egli amava Gesù, perché lo tradì? Certamente perché il suo amore era grande ma non incontrastato, non era l’amore generoso, fiducioso, luminoso di un Pietro e di un Giovanni, e conteneva pur nella sua fiamma alcunché di fumoso e di tenebroso: in che consistesse però questo elemento oscuro non sappiamo, e per noi rimarrà il mistero dell’iniquità somma. Riseppe forse Giuda di essere stato denunziato a Gesù come frodatore della cassetta comune, e non tollerò di essere decaduto dalla stima di lui? Ma anche Pietro come rinnegatore di Gesù giudicherà di esser decaduto dalla stima di lui, eppure non dispererà. Forse, più accortamente degli altri Apostoli, Giuda comprese dalle rettifiche messianiche di Gesù che il suo regno non avrebbe apportato né gloria né potenza mondane ai futuri cortigiani, e in quel previsto fallimento provvide da avaro qual era ai propri interessi? Ipotesi possibilissima; la quale tuttavia non spiega da sola perché mai Giuda, dopo essersi staccato da Gesù mediante il tradimento, si senta ancora legato a lui da pentirsi ed uccidersi. Forse, accoppiando l’amore del lucro con l’ansia di veder presto Gesù a capo del regno messianico politico, Giuda lo tradì con la sicurezza di vederlo compiere portenti su portenti di fronte ai suoi avversari, e così di costringerlo a inaugurare subito quel regno che si faceva troppo aspettare? In tal caso però il traditore non si sarebbe dovuto uccidere prima della morte di Gesù ma tutt’al più dopo, perché egli non sapeva quando il Messia sarebbe ricorso ai suoi massimi portenti, tanto più che proprio all’inizio della sua operosità di traditore Giuda aveva assistito nel Gethsemani al portento delle guardie atterrate (§ 559). E le ipotesi si potrebbero facilmente moltiplicare, senza però che ne rimanesse schiarito con sicurezza il mistero dell’iniquità somma.
• § 534. Inoltre, tale iniquità non consisté soltanto nel vendere Gesù, ma più e soprattutto nel disperare del suo perdono. Giuda aveva visto Gesù perdonare a usurai e prostitute, aveva udito dalla sua bocca le parabole della misericordia compresa quella del figliuol prodigo, lo aveva inteso comandare a Pietro di perdonare «settanta volte sette»: eppure dopo tutto ciò egli dispera del suo perdono e s’impicca, mentre Pietro dopo il suo rinnegamento non dispererà ma scoppierà a piangere. Anche questo disperare del perdono dimostra che Giuda aveva per il giusto da lui tradito un’altissima stima, la quale gli faceva misurare l’abissale nefandezza del delitto commesso: ma era anche una stima incompleta e quindi ingiuriosa, perché davanti alla responsabilità del tradimento si fermava a mezza strada e ingiuriosamente riteneva Gesù incapace di perdonare al traditore. Ben più che dal tradimento di Giuda, Gesù fu ingiuriato dal suo disperare del perdono: qui fu l’oltraggio sommo ricevuto da Gesù e l’iniquità somma commessa da Giuda. La mercede stabilita dai sommi sacerdoti per il tradimento fu di trenta (monete) argentee. Il solo San Matteo comunica questa cifra perché, sollecito qual è di segnalare che in Gesù si sono adempite le antiche profezie messianiche, scorge qui adempita una profezia di Zacharia (§ 575); tuttavia Matteo, né in questo punto né in seguito (27, 3-10), dirà il nome individuale delle monete e parlerà sempre di «trenta argentei». Non c’è dubbio che l’innominata moneta fosse il siclo (§ 249) ossia lo statere (§ 406), il quale valeva quattro dramme ossia quattro denari (§ 465); non era quindi il denarius romano (§ 514); ma una moneta di valore quattro volte maggiore: perciò, parlando tecnicamente, l’espressione usuale di «trenta denari di Giuda» è falsa perché l’intera somma di 30 sicli era costituita da 120 «denari». Nel valore odierno (anno 1940, ndr.) essa corrisponderebbe a circa 128 lire in oro. Era norma della legge ebraica (Esodo, 21, 32) che quando un bove avesse ucciso cozzando uno schiavo, il padrone del bove dovesse pagare al padrone dello schiavo a risarcimento del danno subito 30 sicli d’argento: quindi in pratica il valore medio d’uno schiavo doveva computarsi circa sui 30 sicli. Può darsi che i sommi sacerdoti s’ispirassero a questa norma della Legge nello stabilire la mercede a Giuda, perché così ottenevano il doppio scopo di mostrarsi osservatori la lettera anche in quel caso e insieme di trattare Gesù come uno schiavo qualunque. San Luca, il quale ha terminato il racconto delle tentazioni di Gesù dicendo che «il diavolo si allontanò da lui fino a tempo (opportuno)» (§ 276), inizia qui il racconto del tradimento dicendo che «entrò Satana in Giuda, quello chiamato Iscariota», il quale andò ad accordarsi per il suo delitto con i sommi sacerdoti (Luca, 22, 3 segg.). Cosicché per l’Evangelista discepolo di Paolo la passione di Gesù è il tempo (opportuno) preaccennato, e rappresenta in qualche modo una ripresa delle tentazioni a cui Gesù era stato sottoposto da Satana all’inizio della sua vita pubblica: terminando adesso Gesù la vita intera, Satana gli muove l’ultimo e più potente assalto e lo sottopone alla suprema prova, dopo di che egli entrerà nella sua gloria. «O stolti e lenti di cuore...! Non doveva forse patire queste cose il Cristo (Messia) e (così) entrare nella sua gloria?» (Luca, 24, 25-26) (§ 630).
Da Vita di Gesù Cristo, imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.