Stimati Associati e gentili Sostenitori, sono reperibili su Amazon e presso l’autore due libri di cui consigliamo la lettura e la diffusione; 1) «Il Papa eretico: Appunti sulla questione del cosiddetto “Papa eretico”». Dossier giornalistico in cui l’autore prova a fornire risposte ad alcune frequenti domande: 1) Chi ha parlato del cosiddetto «Papa eretico»? 2) Cosa ha scritto a riguardo? 3) È vero, come vogliono alcuni intellettuali moderni, che quasi nessuno ha studiato l’ipotesi? 4) È vero che l’uomo eletto dal Conclave (o designato) può essere veramente Pontefice e, nel contempo, eretico? 5) Che significa «essere Pontefice», che significa «essere eretico» e che significa semplicemente «divulgare eresie»? L’autore intende restituire giustizia e verità ai nostri eruditi, fornire altresì puntuali riferimenti per poterli studiare con zelo cristiano. Finalmente intende esporre con estrema chiarezza le sue conclusioni e rispondere alla fatidica domanda: L’eretico è Papa?. 2) «Il Limbo: Semplice e breve compendio di dottrina sul Limbo». I bambini morti senza Battesimo hanno il peccato originale, e quello solo. Essi muoiono prima dell’uso di ragione senza il Battesimo di acqua, non sono capaci di ricevere quello di desiderio e se non ricevono quello di sangue col Martirio passano all’altra vita col peccato originale, privi della grazia di Dio e del diritto al Paradiso. D’altra parte, non avendo ancora l’uso di ragione, non commisero alcun peccato attuale, né mortale né veniale, per il quale si richiede l’avvertenza della mente ed il consenso della volontà, di cui sono incapaci. Essi, quindi, al momento della morte hanno soltanto il peccato originale. Non meritano il Paradiso, non meritano l’Inferno e né il Purgatorio. Morti senza Battesimo e prima dell’uso di ragione non possono essere né premiati con la visione intuitiva e con la felicità del Paradiso, né puniti con le pene dell’Inferno. Perciò sono destinati al Limbo, dove non hanno né esigenze né gioie soprannaturali, ma godono tutta quella felicità naturale di cui è capace la natura umana. I genitori hanno l’obbligo gravissimo di far amministrare al più presto il Battesimo ai loro neonati, per assicurare loro la felicità soprannaturale del Paradiso, nel caso dovessero morire.
• Veniamo allo studio della Sacra Scrittura con l’aiuto dell’Abate Ricciotti: «Gesù istituisce l’Eucaristia». § 544. A questo punto, il banchetto pasquale doveva esser molto avanzato, e prossimo alla fine: forse la seconda coppa era quasi consumata, e fra poco si doveva mescere la terza coppa (§ 75). A un tratto Gesù compie un’azione insolita, non contemplata dal rito della cena pasquale. Prese egli una focaccia di pane azimo e, dopo aver pronunziata una formula di benedizione, ne staccò dei pezzi che distribuì agli Apostoli dicendo: «Prendete, mangiate; questo è il corpo mio, che per voi (è) dato. Ciò fate nel mio ricordo». Poco dopo, probabilmente quando fu versata alla fine della cena la terza coppa rituale, egli prese un calice pieno di vino temperato e, avendo parimenti reso grazie, ne fece bere a tutti dicendo: «Bevete da esso tutti. Questo calice (è) il nuovo testamento nel sangue mio, che per molti (è) versato. Ciò fate, quante volte (ne) beviate, nel mio ricordo». Quale impressione facesse personalmente sugli Apostoli questa doppia azione di Gesù non ci vien detto dai Sinottici, ma ciò non significa gran che; d’assai maggior importanza è invece l’impressione e l’effetto permanente che ne ricevette tutta la primissima società cristiana, la quale fu l’interprete sotto ogni aspetto più autorevole di quella doppia azione di Gesù e delle parole che l’accompagnarono. E qui, per riscontrare i fatti storici, abbiamo a nostra disposizione due eccellenti specole d’osservazione, poste a una certa distanza l’una dall’altra. Circa venticinque anni dopo l’ultima cena di Gesù, san Paolo scriveva ai cristiani di Corinto quella sua lettera (I Cor., 11, 23-29) ove l’Eucaristia è presentata come rito stabile e abituale, come rito per cui il fedele che vi partecipava mangiava veramente il corpo e beveva veramente il sangue di Gesù, come rito infine ricollegato direttamente con la doppia azione di Gesù nell’ultima cena e con la sua morte redentrice. Nessun dubbio che questo insegnamento di Paolo, da lui già trasmesso negli anni precedenti ai fedeli di Corinto (ivi, 11, 23), fosse stato trasmesso anche alle altre comunità da lui catechizzate e si trovasse in pieno accordo con la catechesi degli altri Apostoli; questa, insomma, era la maniera in cui la catechesi primitiva e la liturgia primitiva interpretavano e rinnovavano la doppia azione compiuta da Gesù nell’ultima cena. Un quarantennio più tardi della lettera di Paolo incontriamo un’altra specola che funziona in maniera differente ma non meno precisa: è il IV Vangelo, il solo Vangelo che non racconti l’istituzione dell’Eucaristia. Già sappiamo che questo silenzio è più eloquente, in qualche modo, di un racconto effettivo (§§ 378-383); ma qui si può aggiungere un’altra considerazione. Anche dato e non concesso che autore del IV Vangelo sia, non l’apostolo Giovanni, ma uno sconosciuto mistico solitario, questo autore molto probabilmente conosceva la lettera di Paolo, indubbiamente conosceva gli scritti dei Sinottici, certissimamente era edotto della liturgia eucaristica diffusa alla fine del secolo I ovunque vi fosse una comunità cristiana; egli dunque, della fede dei suoi tempi, è un testimonio silenzioso ma non meno efficace, in quanto serba silenzio sull’istituzione ma ne mette in sommo rilievo gli effetti spirituali col suo discorso sul pane vivo (§ 387 segg.): del resto oggi ciò è ammesso anche da studiosi radicali (§ 373, nota). In conclusione l’autore del IV Vangelo (san Giovanni) concorda pienamente con la catechesi di Paolo e con quella dei Sinottici, e le conferma accettandole in parte silenziosamente, e in parte mettendole in accurato rilievo.
• § 545. Tornando ora agli Apostoli e all’impressione immediata che ricevettero dalle parole di Gesù, bisogna riconoscere che fu un’impressione meno nuova di quanto sembrerebbe a prima vista; anzi, in qualche modo, essa fu la risoluzione di un vecchio enigma che s’agitava nelle menti di quegli uomini. L’antico discorso sul pane vivo non solo non era stato giammai da essi dimenticato, ma piuttosto di tempo in tempo aveva dovuto riaffacciarsi alle loro menti come un’arcana promessa rimasta tuttora inadempiuta. «In verità, in verità vi dico, se non mangiate la carne del figlio dell’uomo e beviate il sangue di lui, non avete vita in voi stessi... La carne mia è vero nutrimento, e il sangue mio è vera bevanda: chi mangia la mia carne e beve il mio sangue in me rimane e io in lui... chi mangia me, egli pure vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo», ecc. Affermazioni di questo genere aveva fatto Gesù a Cafarnao molti mesi prima, ma fino all’ultima cena egli non aveva offerto maniera ai suoi discepoli di eseguire questo comando così essenziale per avere vita in se stessi. E in qual maniera, poi, avrebbe egli reso «molle» un discorso così duro (§ 382)? In qual maniera avrebbe reso umano e spirituale un banchetto che sembrava da antropofagi? La «durezza» delle affermazioni aveva scandalizzato molti discepoli di Gesù, i quali lo avevano abbandonato: i dodici invece gli erano rimasti fedeli, perché «il maestro aveva parole di vita eterna»; tuttavia nei molti mesi trascorsi quelle parole ancora non erano state avverate, e certamente i dodici più d’una volta si saranno domandati dubbiosi se il maestro non si era dimenticato della promessa, ovvero in che maniera l’avrebbe mantenuta. Improvvisamente, quella notte, essi vedono il maestro distribuire pane e vino, dicendo «Questo è il mio corpo»; «Questo è il mio sangue». Con tale doppia azione e doppia affermazione il vecchio enigma era risolto, l’antica promessa era mantenuta, e il vero significato dell’azione e dell’affermazione appariva mirabilmente chiaro alla luce del discorso sul pane vivo: l’apparente pane e l’apparente vino allora distribuiti erano in realtà il corpo e il sangue del maestro. Chi pertanto abbia presente lo stile sentenzioso e riflesso di Giovanni troverà possibilissimo che, quando egli afferma aver Gesù amato i suoi «(sino) in fine», con questa frase alluda appunto all’istituzione dell’Eucaristia da lui non raccontata (§ 541).
• § 546. Un’azione così importante di Gesù, compiuta da lui in circostanze così solenni, e per dippiù divenuta la base della vita religiosa della Chiesa fin dalla prima generazione cristiana, non poteva non attirare la particolarissima attenzione degli studiosi radicali. Gesù ha realmente compiuto la doppia azione e pronunziato la doppia affermazione dell’ultima cena? Ciò che i Sinottici e san Paolo narrano su questo argomento è realmente storico, ovvero ha di storico soltanto un piccolo nucleo, ingrandito più tardi e travisato dall’elaborazione della prima generazione cristiana? Ebbe Gesù intenzione d’istituire un vero rito stabile da rinnovarsi in seguito dai suoi discepoli, ovvero fece una semplice azione simbolica la quale valeva solo in quanto fatta da lui in quelle circostanze, ma senza ch’egli comandasse di rinnovare l’azione in seguito? Queste ed altre domande concomitanti che furono proposte non riguardano soltanto l’Eucaristia in sé ma investono l’intera operosità di Gesù, che sarà valutata differentemente a seconda di come si risponde a queste domande. Se si accetta infatti il racconto dei Sinottici e di san Paolo come sta, bisogna riconoscere che Gesù attribuiva alla sua morte un valore di redenzione («il corpo mio che per voi è dato; ... il sangue mio che per molti è versato»); bisogna anche ammettere che egli intendeva fondare una particolare religione, con un suo ben distinto rito, il quale ricordasse perennemente la morte redentrice del fondatore («ciò fate... nel mio ricordo»). Ora, queste ed altre conseguenze smentivano più o meno ampiamente le interpretazioni che della figura e opera di Gesù davano le teorie contemporanee, da quella della Scuola liberale a quella degli escatologisti: il mellifluo predicatore dell’universale paternità divina immaginato dai liberali (§ 204 segg.) non pensava certamente alla sua morte come a un vero sacrifizio di redenzione per l’umanità; tanto meno il visionario ritrovato dagli escatologisti poteva preoccuparsi di fondare una particolare religione con un ben distinto rito che sopravvivesse alla catastrofe del «secolo» presente (§ 209 segg.). Per salvare dunque le teorie bisognava dimostrare che Gesù non ha affatto istituito l’Eucaristia; e per ottenere ciò bisognava sottoporre a una vigile interpretazione i racconti dei Sinottici e di san Paolo. Ora, noi già sappiamo che le “vigili interpretazioni” degli studiosi radicali si riducono, immancabilmente, a ripudiare come aggiunti e tardivi quei passi che non s’inquadrano in una preconcetta teoria; ma in questo caso, meglio forse che in ogni altra questione dei Vangeli, appare chiaramente la ferrea necessità della logica per cui, quando in siffatti testi si cominci a negare una parte, si finisce inevitabilmente a negare e ripudiare tutto quanto.
• § 547. Si cominciò dunque col negare che Gesù avesse comandato agli Apostoli di rinnovare in seguito il rito, rendendolo un rito perenne; poiché infatti il gruppo di san Matteo e di san Marco non riferisce le parole «ciò fate... nel mio ricordo», se ne concluse che tali parole erano un’aggiunta posteriore introdotta dal gruppo di san Paolo e di san Luca, e quindi da ripudiarsi. Rimaneva però ancora molto, cioè che il corpo di Gesù «per voi è dato», che il calice del suo sangue è «il nuovo testamento» ed è «per molti versato»: rimaneva insomma l’idea della morte redentrice del Cristo. Ma anche questo molto fu man mano ripudiato con lo stesso procedimento: si decretò che erano tutte aggiunte posteriori, dovute all’influenza delle elaborazioni teologiche di san Paolo. È vero che pure nel gruppo di san Matteo e di san Marco (nei due rispettivi Vangeli, ndr.) si trova che il sangue del Cristo è «il sangue del (nuovo) testamento» e che «per molti è versato in remissione di peccati». Ma ciò che dimostrava? Nulla. Anche questo era da ripudiarsi, come un’aggiunta dovuta all’influenza di Paolo. (Per i modernisti ed i novatori, ndr.) rimanevano quindi, come primitive, le sole parole: «Questo è il corpo mio; Questo è il sangue mio», pronunziate alludendo al convito messianico, presentando il pane e il vino come simbolo di quel convito, ma senza relazione alla sua imminente morte. Eppure, anche dopo queste amputazioni, restavano ancora seri dubbi. Erano proprio primitive e genuine ambedue quelle affermazioni risparmiate? Ci si ripensò sopra, e si finì per concludere che non potevano essere risparmiate ambedue. Alla nuova amputazione offrì pretesto il fatto che, tra la congerie di codici antichissimi e tutti sostanzialmente uniformi, ve n’era uno - il disputatissimo «codice di Beza» - suffragato da pochi altri di antiche versioni, nel quale il racconto di san Luca è ridotto a queste parole: «E preso il pane, avendo reso grazie (lo) spezzò e dette loro dicendo: “Questo è il corpo mio”»; tutto il resto è ivi omesso, compresa la distribuzione del vino e le relative parole. Questo - si disse - era il racconto primitivo: la sola presentazione del pane, senza alcuna contrapposizione del pane-corpo al vino-sangue, ossia senza l’idea della morte, e naturalmente senza il comando di rinnovare il rito in seguito. Rimaneva così il pane insieme con la sua presentazione. Eppure anche questo rudere superstite non soddisfece, se non altro perché troppo esiguo ed insignificante. Che cosa, insomma, aveva Gesù inteso fare presentando il pane come suo corpo? Non aveva egli mangiato centinaia di volte il pane insieme con i suoi discepoli? Ovvero quella volta il pasto comune aveva un significato particolare come pasto di haberūth, di «colleganza» (§ 39)? Ma in tal caso il suo significato particolare gli proveniva dalla morte imminente di Gesù, e quindi si ritornava alla già respinta relazione con la morte. No, con tutte le precedenti amputazioni non si era ottenuto nulla di sicuro; per trovare un terreno storico più “sodo” e spazioso bisognava scendere alla liturgia della Chiesa primitiva, e ricercare che cosa intendessero fare quei primi cristiani compiendo il rito dell’Eucaristia e attribuendone l’istituzione a Gesù. (L’Abate Ricciotti sta facendo del sarcasmo sugli “eruditi” studi dei modernisti, ndr.). E, in primo luogo, era un rito di provenienza giudaica o straniera? Si ricercò nel giudaismo tardivo, ma non se ne trasse nulla di soddisfacente. Fu applicato il metodo della Storia comparata delle religioni (§ 214). Si pensò a primitivi riti di totemismo e di teofagia; più accuratamente s’investigarono i riti di Iside ed Osiride, e l’emofagia dei culti di Sabazio e di Dioniso; un’attenzione anche maggiore si portò ai misteri Eleusini e ai banchetti di Mithra. Certamente si trovarono notizie peregrine e si fecero osservazioni importanti su questi riti pagani; ma quando si giunge al vero nodo della questione, ossia alle loro relazioni col rito eucaristico del cristianesimo primitivo, si presero anche lucciole per lanterne e si affermò che una zanzara è uguale in tutto a un’aquila dal momento che ambedue hanno le ali e volano e si nutrono di sangue. Soprattutto, poi, queste “dotte” ricerche parvero come tanti voli fatti in aria, lontano dal terreno della realtà storica: prima di pensare a Iside ed Osiride e ad altre infiltrazioni orientali, bisognava infatti fare i conti con san Paolo e vedere se egli lasciava il tempo materiale al penetrare di tali infiltrazioni nel cristianesimo.
• § 548. San Paolo infatti scrive la sua Lettera ai Corinti nell’anno 56, ma egli stesso dice di avere ammaestrato oralmente i Corinti sul rito eucaristico in precedenza (§ 544), ossia quando aveva fondato quella comunità cristiana. Ciò era avvenuto nell’anno 51. Ma anche quest’anno è troppo tardivo per la nostra questione, perché in quel tempo Paolo possedeva già riguardo all’Eucaristia la sua dottrina ben definita e certamente concorde con la catechesi e con la dottrina delle altre comunità: ossia egli la possedeva già prima del 50, a meno d’un ventennio dall’ultima cena di Gesù. Ma anche da questo ventennio sono da togliersi altri anni. Solo verso il 36 Paolo, fino allora intransigente fariseo, passa nel numero dei perseguitati discepoli del Cristo; ma naturalmente ancora per parecchio tempo egli rimane nella penombra e mena una vita o del tutto solitaria o semipubblica fra l’Arabia, Damasco e Tarso. Soltanto col primo grande viaggio missionario Paolo diventa una figura di primo piano nel cristianesimo primitivo, ma è il viaggio che comincia tra il 44-45 per terminare nel 49; siamo con ciò al periodo, testé accennato, in cui Paolo già possedeva una dottrina ben definita riguardo all’Eucaristia. Ora, troppe e troppo inverosimili cose sarebbero da ammassarsi, secondo l’ipotesi radicale, in questo decennio che va dal 36 al 45 circa, per potersi ammettere quell’ipotesi. In primo luogo che Paolo, indomabile avversario dell’idolatria ieri come Fariseo e oggi come discepolo del Cristo, prenda appunto dall’idolatria quello che sarà il fondamentale rito liturgico del cristianesimo; inoltre che egli abbia, in quei suoi primi anni, tanta autorità da diffonderlo nelle chiese cristiane della più diversa origine; poi, che egli riesca così rapidamente in questa diffusione da ottenere che già prima del 50 il rito fosse comune, fondamentale, unico. No: questa non è storia; sono voli di fantasia, guidata da preconcetti ma non dai documenti. La pagina di san Paolo sull’Eucaristia è tale documento da troncare tutti codesti voli; essa, debitamente illuminata dall’operosità dei primi anni cristiani di Paolo, dimostra che l’Apostolo ha desunto la sua dottrina eucaristica dalla chiesa di Gerusalemme, verso la quale egli ha tenuto sempre fisso lo sguardo e nella quale si è recato anche più volte in persona nel decennio suddetto. E la chiesa di Gerusalemme era quella dov’era avvenuta l’ultima cena di Gesù. La forza di questo elementare ragionamento è stata sentita anche nel campo degli studiosi radicali, almeno dai più logici e franchi tra essi. E allora non è rimasto altro che fare l’ultimo passo nella via della negazione, ricorrendo al solito metodo di dichiarare aggiunta e tardiva anche la pagina di san Paolo. E anche questo passo è stato fatto (dai modernisti, ndr.): il racconto paolino dell’Eucaristia è stato dichiarato falso e interpolato, per la sola ma decisiva ragione che non si accorda con la (loro) teoria preconcetta (§ 219). Qualunque studioso sereno giudicherà sul carattere scientifico di questi procedimenti. Da «Vita di Gesù Cristo», Abate Giuseppe Ricciotti, Imprimatur 1940, 7a Edizione, Rizzoli & C. Editori, Milano e Roma, 1941. Ricciotti giustamente fa polemica contro le esegesi moderniste (principalmente quella di Alfred Loisy). I suoi splendidi lavori sul Testo sacro, di carattere piuttosto conservatore, dimostrano una solida preparazione storica e filologica, nonché una gran fede!
Da Vita di Gesù Cristo, imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.