Comunicato numero 206. Le vere profezie e le false profezieStimati Associati e gentili Sostenitori, quando i problemi dell’umanità aumentano esponenzialmente, quando lo sconforto pervade gli animi, quando tutto sembra ai più perduto, allora proliferano i “profeti”. Ma quali sono veri profeti e quali sono falsi profeti? Quali sono le vere profezie e quali le false profezie? Proveremo ad imparare i principali criteri di discernimento con l’aiuto dell’ottimo «Vere e false profezie», imprimatur 2 gennaio 1943, S.O.S., di Enrico Tabucchi.

Uno sguardo nel futuro. «Un monaco d’un convento, morto da duecentocinquant’anni, aveva predetto uno spaventoso flagello per un tempo che, più o meno, corrispondeva al presente (il Trabucchi scrive sui primi degli anni ’40): «Sette regni combatteranno contro un’aquila con una testa e un altro uccello bicipite: seguirà la morte a innumerevoli genti. Carri d’acciaio senza cavalli stritoleranno sotto le ruote i raccolti e le messi; da mostri volanti che vomitano fiamme e fosforo, saranno annientate città e villaggi. In bare d’acciaio nel fondo dei mari trascorrerà la giovinezza di molti; il pane contato si distribuirà a briciole, i muri delle case si tingeranno di sangue. Tre anni e cinque mesi di distruzione e di morte; giorni in cui più nessuno potrà vendere o comprare; sino a che, finalmente, il melograno fiorirà per la terza volta. Il Natale seguente alla fioritura, sarà ancora pace in terra». Questa profezia apparsa in un romanzo di Angelo Gatti («Il mercante di sole») e riprodotta da vari giornali, ha avuto il suo quarto d’ora di celebrità. E l’interesse destato nel pubblico trova una facile spiegazione, sia nella rappresentazione suggestiva e immaginosa della guerra moderna, con i suoi mezzi di distruzione e con i suoi effetti di miseria, sia per la predizione della pace alla terza fioritura del melograno. Ma è una profezia autentica ? È stata veramente scritta 250 anni fa, o è il frutto recente d’una vivace fantasia? Non possiamo rispondere perché non abbiamo fatto ricerche in proposito; al nostro fine interessava solo riportare un esempio delle molte profezie che sono andate pullulando col prolungarsi della guerra. Fenomeno che si rinnova in tutti i tempi di pubbliche calamità. L’uomo non vive soltanto nel presente; con le sue facoltà intellettive si estende nel passato e nel futuro. Il primo può rievocarlo, ma non può modificarlo; sul secondo invece può influire e in certi limiti prepararselo. Ma c’è sempre qualche cosa che non dipende dall’individuo, e gli elementi d’incertezza appaiono più numerosi in periodi di generale sconvolgimento, quale il tempo di guerra (o di epidemia, eccetera ...). E si vorrebbe, se fosse possibile, anticipare il futuro, e sapere come andrà a finire. Terreno adatto al fiorire di profezie! Ma si danno delle vere profezie? Anche ai giorni nostri? C’è qualche criterio per ammetterle o per rifiutarle? Ecco alcune domande a cui cerchiamo di rispondere, incominciando a chiarire il concetto di profezia.

Il concetto di profezia. In forza dell’etimologia della parola, profezia (da profemì parlo a nome d’un altro) significa l’ufficio dell’interprete; e precisamente interprete significa la parola profetes presso gli autori classici greci, come Pindaro, Euripide, Platone. Lo stesso significato si trova nell’uso costante della Bibbia; così nell’Esodo. Iddio dichiara Aronne «prophetam Moysis» (VII, 1-2) perché Mosè si sarebbe servito di Aronne, suo fratello, per comunicare al Faraone quanto Dio gli avrebbe manifestato. E il profeta biblico non è solo un uomo ispirato che riceve una rivelazione, ma è il portavoce di Dio, un rappresentante ufficiale, incaricato di parlare in nome e al posto di Dio, un oratore, un predicatore che dice agli uomini ciò che Dio vuol far sapere loro («Introduzione generale ai profeti» in «La Sacra Bibbia» commentata da M. Sales e G. Girotti, Vol. III, Torino 1942, pag. 11). Però in senso stretto profezia significa la cognizione e l’enunciazione di cose future, contingenti, libere e sconosciute all’uomo, e si può definire: la predizione certa e non equivoca di un qualsiasi avvenimento futuro dipendente da cause libere e che non può essere conosciuto mediante l’analisi delle cause naturali. Da questa definizione appare che il concetto di profezia comporta due elementi: l’uno riguarda l’oggetto, l’altro il modo della conoscenza. L’oggetto della profezia è un avvenimento futuro che non è legato in modo necessario e determinato con le sue cause prossime; per esempio gli occulti disegni di Dio, o gli eventi che dipendono dalla molteplice e libera cooperazione delle creature. Nessuno invece dirà che si tratta di profezia quando un astronomo predice con tutti i particolari un’eclissi di sole che avrà luogo tra 50 anni. Il secondo elemento della profezia è il modo con cui vien conosciuto il futuro: dev’essere cioè una conoscenza infallibile, senz’alcuna incertezza. Quando manchi quest’elemento non si avrà più una profezia, ma tutt’al più un pronostico, una congettura. Così il commerciante pronostica buoni affari dall’andamento dei prezzi del mercato, ma, e il commerciante e chiunque per qualsiasi ragione scruti ansioso l’avvenire per vedere come sarà, non potrà mai prevederlo con assoluta certezza, quando questo dipenda da cause libere.

L’elemento divino nella profezia. Una vera profezia è un miracolo d’ordine intellettuale, che esige una luce divina, nella quale soltanto è possibile prevedere con certezza ciò che la contingenza e la libertà lasciano necessariamente indeterminato e inconoscibile. Infatti soltanto Iddio, la cui scienza non ha limiti, e che con un unico sguardo abbraccia il passato, il presente ed il futuro, soltanto Iddio conosce in se stesse, e non solo nelle loro cause, le cose che accadranno. Invece un’intelligenza creata, sia pure quella d’un angelo, con le sole sue forze, potrà conoscere un evento futuro solo quando è lo sviluppo d’un effetto contenuto in modo determinato in una causa già conosciuta; non potrà quindi conoscere con certezza infallibile quello che dipende da una libera volontà, poiché questa prima d’agire non è determinata al suo effetto. Un’intelligenza creata potrà conoscere con certezza un futuro libero, solo in quanto tale notizia gli venga comunicata da Dio. E Dio che è l’autore della loquela, può benissimo manifestare altrui la propria conoscenza. Questa comunicazione può avvenire in diversi modi. Nella Sacra Scrittura si parla spesso della parola di Dio rivolta ai profeti. Così per esempio, Mosè udì dal roveto ardente le parole di Dio che gli annunziava i suoi voleri (Esodo III, 4-22). La storia di Giona (Giona IV, 1-11) ci riferisce addirittura un dialogo tra lui e Dio. Tuttavia non si tratta necessariamente di una voce esterna; potrebbe anche essere una locuzione divina interna (Girotti, Op. cit., pag. 47). Il mezzo ordinario con cui Dio soleva fare le sue comunicazioni ai profeti d’Israele erano le visioni. Talvolta visioni esterne, nelle quali un oggetto è offerto ai sensi esterni: così Daniele vide la mano misteriosa che scriveva sul muro (Daniele V, 25). Altre volte è una visione immaginativa, quando l’oggetto non colpisce che i sensi interni, sotto forma d’immagini o simboli: Così Isaia vide sul suo trono il Re della gloria, circondato dai serafini, e udì l’eco del cantico eterno: «Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti» (Isaia VI, 1-3). Altre volte ancora il profeta riceve le comunicazioni divine in una rappresentazione puramente intellettuale.

L’oscurità delle profezie. La manifestazione del futuro fatta da Dio al profeta può avere diversi gradi. Il più perfetto si ha quando il profeta si rende perfettamente conto del fatto lontano, del suo profondo significato, del tempo determinato, e dell’origine divina della sua predizione. Un esempio chiarissimo l’abbiamo nelle parole rivolte da Gesù a Pietro dopo l’ultima cena: «Questa notte prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte». Il grado più imperfetto si ha quando si annunzia con certezza la cosa futura senza discernere altro. Così quando Caifa nel Sinedrio annunziò che era necessario che un uomo morisse per il popolo, non disse ciò da se stesso — ci avverte San Giovanni (XI, 51) — ma mosso da un’illustrazione profetica, di cui però non si rendeva conto. Quando la manifestazione profetica non è nel grado più perfetto, si trova normalmente accompagnata da qualche oscurità. Però, come osserva Sant’Ireneo (Adv. h. IV. 43), ogni ombra deve svanire quando la profezia si verifica. Sarebbe una povera profezia quella che avesse bisogno di scontorcere pietosamente i fatti per ottenere qualche meschina verosimiglianza. Naturalmente si devono escludere dal novero delle profezie quelle espressioni ambigue che si possono tirare in qualunque senso come il famoso responso della Sibilla: «Ibis redibis non morieris in bello», sempre verificabile, sia che Cesare fosse tornato o no dalla guerra, a causa di quel «non» che si può congiungere col «redibis» o col «morieris»! [Responso, appunto, sibillino ovvero ambiguo: - Se si pone una virgola prima di «non» (ibis, redibis, non morieris in bello), il significato del responso è :«Andrai, ritornerai e non morirai in guerra», e prefigura un esito positivo della missione; - Se, invece, la virgola viene spostata dopo la negazione (ibis, redibis non, morieris in bello), il senso risulta essere sovvertito nel suo contrario: «Andrai, non ritornerai e morirai in guerra»]. Nelle profezie scritturali una causa d’oscurità è spesso il simbolismo, tanto caro agli orientali e destinato a rendere più espressivo l’insegnamento del profeta. Questi talvolta spiega il significato simbolico d’una sua visione o d’una sua azione, ma non sempre. Quando Salomone, sedotto dalle donne straniere, costruì templi a Molok e ad Astarte il profeta Ahia gli predisse la divisione del regno e, incontratosi con Geroboamo servo di Salomone, gli prese il mantello, lo stracciò in dodici pezzi e gettandoglieli ai piedi, gli disse: «Prendi! Dieci sono per te, perché, dice il Signore, dividerò il regno di Salomone e per te saranno dieci tribù». (3 Reg. XI, 29-31). Invece nell’Apocalisse la maggior parte dei simboli sono dati senz’alcuna spiegazione, e quante stranezze si dissero in proposito per interpretarli! Un’altra delle cause d’oscurità nelle profezie della Scrittura è la mancanza di determinazione cronologica. Il profeta è come un aviatore che dall’alto domina e percorre un esteso territorio, ma non distingue più il rilievo: monti, colline e pianura, tutto gli appare come se fosse allo stesso livello. In modo analogo, ai profeti avvenimenti lontani appaiono come vicini o in via di compimento; avvenimenti separati tra loro da lunghi intervalli di tempo (di cui però l’uno è considerato come pegno dell’altro) sono ravvicinati e bloccati nella visione profetica. Quest’assenza di prospettiva, così caratteristica degli scritti profetici, è una conseguenza diretta del modo con cui i profeti ricevevano le comunicazioni divine: infatti nella scienza divina non vi è differenza tra passato, presente, e futuro, (Girotti, Op. cit., pag. 67). Una ulteriore causa d’oscurità è dovuta allo stato frammentario delle profezie; riunendole tutte assieme ci troveremmo davanti ad un quadro relativamente perfetto nelle sue grandi linee, ma i particolari non furono forniti che poco a poco e successivamente: «Dio parlò in antico ai nostri Padri per mezzo dei profeti a più riprese ed in molte guise» (Ebr. I, 1).

Le profezie riguardanti il Messia. Così, riunendo le diverse profezie riguardanti il Messia (ne citiamo qui solo alcune), possiamo ricostruirne tutti i tratti essenziali in uno splendido quadro: «Discenderà dalla stirpe di David» (Amos IX, 11-12...), «la sua madre sarà una vergine» (Isaia VII, 14) «nascerà in Betlemme» (Michea  V, 1) «opererà prodigi strepitosi e senza numero, avrà un annuncio giocondo per i poveri» (Isaia XXXV, 5), «sarà venduto per trenta denari» (Zaccaria, XI, 12) «sarà crocifìsso e trafitto» (Isaia, LIII) «le sue vesti saranno spartite tra i soldati e gettata la sorte sulla sua tunica» (Ps. XXI, 19) «risorgerà dopo tre giorni che fu rinchiuso nel sepolcro» (Isaia, XI, 10; San Marco X, 33-34), «manderà dal cielo lo Spirito Santo» (Atti var.), «la Chiesa da lui fondata uscirà vincitrice da tutte le lotte» (San Matteo XVI, 16). Così al santo profeta Davide: «Hanno forato le mie mani e i miei piedi, hanno contato tutte le mie ossa». Eccetera...

Il fine delle profezie. Se la fonte della cognizione profetica è Iddio, perché non ci dice le cose chiare e ha lasciato tanta oscurità ? Il motivo è che l’oscurità non nuoce al fine che Dio si propone nel comunicare agli uomini la notizia delle cose future, e anzi molte volte giova. Infatti la profezia, come il miracolo, è ordinata o a provare la verità d’una dottrina annunciata (Cfr. Conc. Vaticano, Denzinger al n° 1790), o la santità della vita del profeta, o l’una e l’altra cosa insieme. Così il fatto che le profezie messianiche si siano adempiute dimostra, anche a chi non voglia presupporre l’ispirazione divina della Scrittura, che tali vaticini sono d’origine divina, non essendo possibile umanamente spiegare come, almeno un secolo e mezzo prima della nascita di Gesù Cristo, fossero predetti tali e tanti particolari della sua vita. [Contro questa sentenza, contro la verità e contro la retta ragione si pone il giudaizzante J. Ratzinger (Benedetto XVI) dove scrive: «È ovviamente possibile leggere l’Antico Testamento così che non sia diretto verso Cristo; non punta abbastanza inequivocabilmente a Cristo. E se i Giudei non riescono a vedere le promesse come compiute in lui, non è assolutamente cattiva volontà da parte loro, ma genuinamente, a causa dell’oscurità dei testi e della tensione nelle relazioni tra questi testi e la figura di Gesù» (God and the World. A Conversation With Peter Seewald, anno 2000, in commercio l’edizione agosto 2002, alla pagina 209)]. Ora siccome tanti secoli dovevano trascorrere dalla prima promessa d’un redentore fatta ad Adamo, sino all’avverto di Gesù Cristo, non era necessario che sin dall’inizio fosse fatta piena luce sul lontano avvenire; che anzi Iddio, andando incontro ai bisogni speciali d’ogni epoca e d’ogni generazione, ha voluto distribuire la rivelazione attraverso i tempi, in modo da mantenere sempre desto e vigilante il popolo eletto ed acuire l’attesa del Messia promesso. Quando, poi, Egli venne su questa terra, l’adempirsi delle profezie accumulatesi nei secoli precedenti, servì, insieme coi miracoli, a confermare la sua missione divina. Dunque affinché la profezia valga come segno, non nuoce qualche oscurità al momento in cui viene enunciata, purché sia chiara e incontrovertibile nel tempo in cui si verifica. San Tommaso aggiunge che la profezia ci serve di guida nelle opere (Summa th. 2a 2ae, q. 174, a. 6). A questo riguardo, qualche volta un annuncio del futuro troppo chiaro e determinato potrebbe tornare a nostro discapito. Dio non ha nessun bisogno di fare sfoggio della sua prescienza, e tanto meno di assecondare la nostra malsana curiosità del futuro, perciò se una data, per esempio, potesse renderci indolenti nell’operare e nel risolverci al bene non sarebbe conveniente che ce le nascondesse? Non è questo il motivo principale per cui ci nasconde anche il giorno della nostra morte?

Le profezie e la libertà umana. Abbiamo detto che una profezia troppo chiara potrebbe indurre l’interessato a starsene con le mani in mano ad attendere il verificarsi della profezia. Ma ecco qui sorgere una grave difficoltà : «L’uomo, conosciuta la profezia (supposto che riguardi il suo avvenire personale) può fare il contrario e impedire che la profezia s’avveri. Ma una profezia che non s’avvera è una profezia falsa, cioè non è una profezia. Dunque o le profezie non sono possibili, o l’uomo non è libero. Come si può conciliare la libertà umana con le profezie?». Tutto andrebbe bene se con si fosse dimenticato nel ragionamento precedeste di considerare un elemento di estrema importanza. Ed è che la profezia non toglie la libertà ma ne suppone, previsto infallibilmente, l’uso. In questo sta appunto il meraviglioso della profezia. Dio  prevede come l’uomo liberamente agirà e predice proprio questo stesso che l’uomo farà di sua libera elezione. Quando Giuliano l’Apostata lesse nel Vangelo che del tempio di Gerusalemme non sarebbe rimasto pietra su pietra, volle dare una smentita a Dio facendolo riedificare. Invece fu proprio egli a compire alla lettera la profezia. Per suo comando furono demoliti gli ultimi ruderi rimasti per scavare le fondamenta, ma non potè riedificare il tempio per le fiamme che eruppero dagli scavi. Così realmente non rimase pietra su pietra del vecchio tempio giudaico (Socrate, Hist Eccl. III, 20, P. G. 67, 430; Sozomeno, V, 22, P. G. 67, 1286; P. Allard, Julien l’apostate, Paris 1910, Vol. II, p. 137-148). Un altro esempio ancor più caratteristico l’abbiamo nelle negazioni di San Pietro; Gesù gli aveva predetto chiaramente che in quella stessa notte l’avrebbe rinnegato tre volte. Ma Pietro non volle credere, e quando si trovò nell’atrio del Sommo Sacerdote, aveva completamente dimenticata la predizione fattagli poche ore prima; non se ne ricordò che all’udire il canto del gallo; ma ormai la triplice negazione era un fatto compiuto. Forse che Pietro non era libero?

Le leggi psicologiche. I critici razionalisti, che vogliono ad ogni costo negare il soprannaturale, insistono con un’altra difficoltà: la volontà e libertà umana è regolata dalle sue leggi psicologiche e morali. Perciò se qualcuno così sagace le sapesse penetrare e conoscere, ecco possibile la predizione infallibile e certa di eventi liberi futuri anche senza alcun intervento divino. Si! Certamente un uomo di forte ingegno e che abbia cognizione delle leggi psicologico-morali che regolano la libertà umana, può congetturare il futuro, ma non può conoscerlo e preannunziarlo con assoluta ed infallibile certezza. Qualche volta — dice egregiamente il P. Girotti, Op. cit., p. 25 —  il filosofo, il poeta, lo storico, lo statista, il diplomatico, possono dirsi in un certo senso profeti. «Essi infatti, come dotati di più profonda perspicacia e più attenti alla realtà fondamentale della vita, e più acuti osservatori delle leggi che comandano lo sviluppo storico, possono leggere nella causa presente l’ulteriore svolgimento dei suoi effetti; e vedere nel principio le conclusioni che ne derivano; e nel fatto fondamentale i conseguenti indirizzi storici. È il genio antiveggente dei grandi che imprimono nella storia la forte impronta della loro personalità. Si rimane però sempre, anche in queste sublimi vette spirituali, nell’ambito umano». Infatti le leggi psicologiche-morali non sono in rigore leggi che abbiano una fissità assoluta, ma piuttosto  sono norme che designano ciò che probabilmente l’uomo in determinate circostanze farà; quindi la previsione del futuro che se ne può dedurre non gode di quella infallibilità che è propria delle profezie provenienti da Dio. E la storia ci ricorda che anche i grandi genii più d’una volta si sono ingannati nelle loro previsioni! [Nel libro edito da Sursum Corda sui «Racconti miracolosi», si è detto che anche il demonio è in grado di prevedere, scrutando gli atteggiamenti umani e conoscendone le principali fallacie, determinate conseguenze: ma questa non è profezia].

Le profezie comminatorie. Ancora una difficoltà circa le profezie della Sacra Scrittura. È nota la profezia di Giona, che entra in Ninive gridando: «Ancora quaranta giorni e Ninive città grande e popolosa sarà distrutta». Intanto il Re e il popolo fanno penitenza e la città, invece di essere ridotta ad un cumulo di macerie, continua ad essere come prima fiorente e prosperosa. Come si salva qui la prescienza di Dio e la veridicità della profezia? O Iddio sapeva che i Niniviti avrebbero fatto penitenza, o sospettava che non l’avrebbero fatta. In ogni caso avrebbe dovuto tralasciare quel così determinato «ancora 40 giorni». No! Iddio fece benissimo ad usare quella espressione forte ed energica per scuotere i corrotti abitanti di Ninive. Egli sapeva benissimo che si sarebbero convertiti alla predicazione di Giona, eppure fa dire quel terribile «ancora 40 giorni». La spiegazione di questo modo di procedere di Dio sta nella natura stessa delle profezie comminatorie. Esse consistono per lo più in minacce di castighi e stabiliscono un termine per la penitenza. Passato quel termine c’è il castigo o il perdono secondo che si è fatta, o no, la conveniente penitenza. Perciò la profezia comminatoria è sempre condizionata. Sarebbe un non conoscere lo scopo di queste predizioni il volere che ad ogni modo si adempiano In questo sbaglio cadde anche lo stesso Giona quando, sotto la sua edera, mentre si riposava dopo la faticosa predicazione, si impazientiva con Dio che non mandava dal cielo il fuoco e non faceva traballare la terra per inghiottire Ninive. Eppure era evidente che, se Iddio avesse voluto assolutamente distruggere Ninive, non occorreva proprio che vi inviasse un profeta a predicarvi la penitenza. Con queste profezie Iddio vuole scuotere. Esse sono un tentativo ulteriore della sua misericordia. Non importa la forma esterna, rigida e spaventosa, con cui sono enunciate. Esse lasciano sempre aperta la porta alla salvezza perché per loro stessa natura sono condizionate.

Le profezie private. Quanto abbiamo detto sin qui riguarda sopratutto le profezie della Sacra Scrittura, delle quali nessun cristiano può mettere in dubbio che siano vere e proprie profezie. Esse costituiscono una prova della verità della Fede e sono per tutti, come per tutti è la Sacra Scrittura. Ma la rivelazione pubblica si è chiusa con la morte dell’ultimo degli Apostoli. Dopo d’allora ci possono essere delle altre vere profezie? E se ne sono date e se ne danno di quelle che meritano fede? Di fronte a queste domande sono da evitarsi due estremi: di chi non vuol credere nulla e di chi crede troppo. Lasciando da parte i razionalisti e tutti coloro che negano a priori ogni intervento divino nelle faccende umane [per poi, però, credere nell’oroscopo e nella “dea bendata”], anche tra i cristiani vi sono di quelli che, per timore di far la figura dei creduloni, si trincerano in un’attitudine di costante scetticismo di fronte ad ogni fatto meraviglioso, ritenendo che siano tutte storie, frutto di cervelli caldi, illusi e creduli. In realtà non si può negare che anche adesso Iddio possa parlare a questa o a quella persona, e per mezzo loro a questa o a quella comunità o popolo; e di fatto sempre vi sono state nella Chiesa, vi sono e vi saranno persone alle quali Iddio rivela cose occulte o avvenimenti futuri, o per loro privata utilità o per altrui giovamento (Scaramelli, Direttorio Mistico, Napoli 1773, Tr IV, n. 214). Nelle vite dei santi non di rado  si trovano riferite delle predizioni e, sebbene si debba procedete con cautela nel giudicarle, come vedremo in seguito, tuttavia non si possono rigettare in blocco, ed alcune di esse hanno tutti i caratteri di vere profezie. Per portare un esempio di attualità, a tutti sono note le apparizioni di Fatima: La Vergine SS.ma nel 1917 apparve a tre fanciulli. Lucia, Giacinta e Francesco; e per bocca dei veggenti il 13 luglio 1917, specificando con ogni precisione, annunziò che il 13 ottobre dello stesso anno, cioè tre mesi dopo sarebbe avvenuto uno strepitoso prodigio alla «Cova da Iria» (Conca d’Iria). Una folla immensa, 70.000 persone, curiose di vedere che cosa sarebbe avvenuto, accorse quel 13 ottobre alla santa grotta e fu testimone del pieno e grandioso verificarsi della predizione. Era un segno che doveva avvalorare le parole dei fanciulli e la manifestazione del segreto loro  affidato. Non riportiamo qui, perché generalmente noto, quanto dalla Vergine fu manifestato circa la guerra;  ma dopo che l’autorità ecclesiastica, appurata la verità dei fatti con un lungo processo, dichiarò degne di fede le apparizioni alla Cova da Iria, ci pare che sarebbe soverchio scetticismo il voler negare che ai tre fanciulli di Fatima sia stata fatta qualche rivelazione soprannaturale del futuro.

Le contraffazioni. Dunque — direbbe qualcuno — dovremmo prestar fede a tante corbellerie che ogni giorno un esercito di strolaghe, di medium, di indovini, di bigotte vanno cavando fuori dai loro cervelli isterici, minacciando finimondi ad ogni momento e catastrofi senza fine? Per carità! In quale labirinto ci si metterebbe! Se abbiamo riprovato gli scettici per partito preso, ancor più dobbiamo riprovare quanti sono troppo facili a prestare orecchio a qualunque voce abbia qualche vaga apparenza di origine preternaturale. E non sono soltanto persone del volgo! Sir Oliver Lodge, che pure era uno scienziato di valore, nel 1899 credette alla medium Mrs. Piper, quando questa fece apparire lo spirito di Mosè, il quale preannunziò non lontana una grande guerra, nella quale la Russia e la Francia si sarebbero unite contro l’Inghilterra e l’America, mentre la Germania si sarebbe mantenuta neutrale! Sir Lodge si era lasciato irretire dalle pratiche spiritistiche, e noi possiamo sorridere della sua disavventura; ma non possiamo sorridere quando dei cattolici, con discapito della vera religione, danno credito alle prime fandonie udite in giro. Scriveva recentemente il P. Oddone (Le mistificazioni del soprannaturale ne la Civiltà Cattolica, 1 agosto 1942): «In questi giorni profondamente turbati, un po’ dappertutto sorgono profeti e visionari, che pretendono parlare e operare come ispirati da Dio. Narrazioni di avvenimenti soprannaturali inventati, annunzi di apparizioni celesti e di fenomeni singolari senza alcun serio fondamento, fantastiche predizioni di fatti futuri e di castighi divini, pretese rivelazioni sull’esito degli attuali sconvolgimenti, si diffondono oggi in mezzo al popolo; e gli animi, resi più creduli dalle sofferenze e dal desiderio di uscire dalla presente dolorosa situazione, non solo vi aderiscono facilmente e si esaltano in un morboso fanatismo, ma si indispongono anche contro chi dubita, e disapprovano, criticandole, le stesse disposizioni che vengano prese in qualche caso dall’autorità ecclesiastica. Bisogna richiamare i fedeli ad una maggiore prudenza, che è assolutamente richiesta dal buon senso, dalla pietà illuminata e dall’ubbidienza, che ogni vero cattolico deve alla Chiesa. Credere subito a tali rivelazioni senza alcuna riserva, è un operare con precipitazione; aderirvi senza prova, è irragionevole; propagarle e valorizzarle con l’autorità del proprio nome e della propria posizione, è farsi apostoli illusi d’un meraviglioso pieno di pericoli per le anime. Ogni avvenimento meraviglioso infatti, che non sia veramente divino, oltre gli altri inconvenienti e danni, distoglie gli animi dall’oggetto della vera fede; favorisce la falsa pietà e rende la religione ridicola presso gl’increduli. Coloro che credono troppo forniscono armi a quelli che non credono affatto (...) e quelle profezie che sono sempre seguite da delusioni e da disinganni, sconcertano gli spiriti, disseccano i cuori, e fanno perdere la confidenza in Dio».

Il contegno della Chiesa. La Chiesa è molto cauta nel giudicare della natura d’un fatto meraviglioso, quale è la profezia; si oppone alle deviazioni; e mette in guardia i fedeli contro le facili illusioni. Ecco un esempio: al principio del secolo XVI in Italia vi fu una vera epidemia di profezie politico-religiose. Questa effervescenza era stata sollevata dalle predizioni fatte a Firenze dal Savonarola. Religiosi ed eremiti si spandevano da tutte le parti e, commentando l’Apocalisse, annunziavano dal pulpito e dalle pubbliche piazze rivolgimenti nel governo temporale e spirituale, e poi la fine del mondo (Pastor, Storia dei Papi, II Ed., Vol. III, Roma 1932, pag. 187-194). Contro questi eccessi insorsero Leone X e il Concilio Lateranese V, condannandoli e proibendo l’annunzio di future disgrazie, la diffusione di rivelazioni e ispirazioni particolari, la pubblicazione di libri che contenessero simili cose, e minacciando ai contravventori la scomunica e altre pene canoniche. Simili disposizioni rinnovava, in tempi più recenti, Leone XIII a riguardo dei libri che trattassero di avvenimenti soprannaturali, di apparizioni, di miracoli, di profezie e di nuove divozioni, emanando una costituzione nella quale condannava tali libri, qualora fossero stampati senza il regolare permesso dei Superiori ecclesiastici; proibizione che si ritrova nel Codice di Diritto Canonico (ovviamente il Pio-Benedettino del 1917) al can. 1399, 5.o. Qualche volta la Chiesa approva le rivelazioni particolari fatte ai santi, ma anche allora non si pronuncia sulla loro natura, e soltanto vuol dichiarare che in esse non si trova nulla di contrario alla fede e ai buoni costumi, di modo che i fedeli possono leggerle senza pericolo e anzi con profitto. E ciascuno è libero di prestarvi fede o no, secondo che gli detta la sua prudenza. Le profezie dei santi. Nelle profezie contenute nella Bibbia non vi può essere errore, perché Iddio guidava lo scrittore con un’assistenza tutta speciale. Ma lo stesso non può dirsi quando si tratta di rivelazioni private; può darsi che una persona santa abbia ricevuto una vera illustrazione da Dio, eppure nella manifestazione fatta agli altri può incorrere qualche errore. Gli scrittori che hanno studiato a fondo tali questioni, come il P. Scaramelli (Direttorio Mistico, Tratt. IV, cap. XVIII) e il P. Poulain (Delle grazie d’orazione, Torino, Marietti 1926, p. 339-369) enumerano parecchie cause d’errore. Vediamone qualcuna. La prima può essere una falsa interpretazione della rivelazione fatta da Dio. Abbiamo visto che non di rado le profezie sono oscure, e non hanno sempre quel significato che mostrano a primo aspetto; e perciò può avvenire che, non dando Iddio maggiore luce, l’anima stessa a cui Dio ha parlato, non comprenda il vero significato di quanto le è stato manifestato. Così Santa Giovanna D’Arco, interrogata in prigione su quello che le dicevano le sue voci, rispose: «Spessissimo le voci mi dicono che sarò liberata con una gran vittoria. E dopo mi dicono: non inquietarti del tuo martirio... tu verrai finalmente nel regno del Paradiso». Tali predizioni erano esattissime, ma Giovanna non ne vedeva il vero senso, credendo, come lo dice lei stessa, che la parola «martirio» significasse la gran pena ed avversità che soffriva in prigione; e la liberazione con una gran vittoria la faceva pensare a tutt’altra cosa che al suo supplizio. (Poulain, p. 343). Un’altra causa, e più frequente, di errori, è l’attività propria dello spirito dei veggenti, che si mescola coll’azione soprannaturale durante la rivelazione. Supponiamo un’anima che abbia avuto un’illustrazione soprannaturale; nulla vieta che con la sua mente ne deduca altri pensieri, o che nella sua fantasia si suscitino nuove immagini; in seguito, riflettendoci sopra e non discernendo più in qual momento preciso fosse finita l’influenza divina e fosse cominciata la propria attività mentale, può avvenire che finisca per attribuire a Dio quello che è frutto della propria immaginazione o memoria o intelligenza. Suor Maria Maddalena della Croce, fondatrice di un monastero a Macao, sin dal 1640 (Civiltà Cattolica S. 2, vol. 7, luglio 1854, p. 8) aveva predetto che l’immacolata Concezione della Vergine sarebbe stata definita come dogma di fede, e che la definizione sarebbe avvenuta in un venerdì, come di fatto avvenne l’8 dicembre 1854. Ma la veggente aggiungeva: «Nella quale occasione, al celebrarsi della Messa del Sommo Pontefice, tutti gl’idoli cadranno nella Cina, nel Giappone e nel mondo universo, e l’impero cinese sarà convertito e l’impero ottomano distrutto e la casa di Dio in Gerusalemme ricuperata per opera d’un eroe austriaco... » (e l’autore dell’articolo credeva riconoscere quest’eroe nell’allora giovane imperatore Francesco Giuseppe!!). Orbene, supposto che la religiosa avesse avuto una vera rivelazione circa il dogma dell’immacolata, per le altre predizioni c’è da temere che abbia scambiato per parola di Dio quello che era soltanto un desiderio della sua anima fervente di missionaria, che si trovava alle soglie della Cina. Infatti non di rado si è portati ad attribuire a un influsso divino quelle idee che lusingano i nostri desideri. (...) La terza causa d’errori può essere dovuta a coloro che hanno raccolto la profezia dalle labbra d’un santo. Può darsi che essi non ne abbiado compreso tutta la portata, può darsi che l’abbiano alterata, e può darsi che si attribuisca a un santo quello che non ha mai detto. Di San Giovanni Bosco non si può negare che fosse dotato di spirito profetico; non sono poche le sue predizioni pienamente accertate e verificate. Ma sono tutte genuine le profezie che si fanno passare sotto il nome di Don Bosco? Non c’è stata nessuna alterazione? Il Card. Cagliero parlava spesso, e con una certa soddisfazione, di un vaticinio di Don Bosco, secondo il quale egli avrebbe dovuto assistere alla ripresa e alla chiusura del Concilio Vaticano. E siccome egli, benché sia morto all’età di 88 anni, non ha potuto prendere parte al Concilio Vaticano, che dopo la interruzione del 1870 non è più stato ripreso, si è vociferato da taluni che il vaticinio di Don Bosco era fallito. Ma il Card. Salotti — come riferisce egli stesso (C. Salotti, Il beato Giovanni Bosco, S. E. I., Torino 1929, p. 631) — aveva chiesto al Card. Cagliero, prima che scendesse nella tomba, se quella profezia gli fosse stata fatta direttamente dal suo fondatore; e il buon vecchio, nella sua nota lealtà, dichiarò che tale predizione non era stata fatta a lui, ma ad altra persona. Questa persona era D. Viglietti. Ora risultò che Don Bosco, parlando un giorno delle ascensioni del suo caro Cagliero, vaticinò che avrebbe assistito ad un grande avvenimento in Vaticano, senza specificare quale sarebbe stato il grande avvenimento. D. Viglietti, che era allora chierico, interpretando a suo modo le parole del fondatore, disse e scrisse che il Cagliero avrebbe assistito alla chiusura del Concilio Vaticano. Si può, invece, spiegare la profezia di Don  Bosco, ritenendo che il grande avvenimento fosse il conclave del 1922, al quale il Cagliero prese parte nella sua qualità di cardinale.

Si possono discernere le profezie vere e false? Abbiamo visto come anche nelle profezie di santi e beati, innalzati dalla Chiesa agli onori degli altari, si possono riscontrare degli errori; e allora ci si può domandare: «È possibile discernere una profezia falsa da una vera? Si può avere la sicurezza che una predizione sia una vera profezia?». Sì, la cosa è possibile, e una conferma l’abbiamo nelle profezie della Scrittura, nelle quali si ritrovano tutti i caratteri d’una vera profezia. E i criteri fondamentali sono questi: 1) Deve constare che il fatto sia stato veramente predetto prima del suo compimento; 2) Deve constare che si tratti di cosa non conoscibile da mente creata, e che esula dal campo delle congetture; 3) Ciò che è stato predetto si sia verificato. È chiaro che quest’ultima condizione (intesa opportunamente, quando si tratta di profezie comminatorie), sebbene da sola non sufficiente, tuttavia è assolutamente necessaria, di modo che ogni qual volta l’evento non corrisponde alla predizione, anche se tutte le apparenze fossero per la veridicità della profezia, la smentita del fatto tronca ogni dubbio. Del resto questo è il segno che Iddio stesso diede al popolo di Israele affinché si guardasse dai falsi profeti: «Il profeta che pieno d’arroganza vorrà dire nel nome mio quel che io non gli comando di dire, o lo dirà nel nome di dèi stranieri, sarà messo a morte. Che se dentro di te dirai: come posso io conoscere essere quello un discorso che il Signore non ha pronunziato? — avrai questo segno: quello che quel tal profeta abbia predetto e non si sia avverato, non l’aveva già detto il Signore, ma se l’era inventato nella sua superbia quel profeta; perciò non n’avrai timore». (Deuteronomio XVIII, 20-22).

Vana curiosità. Tuttavia qualcuno potrebbe non rimanere soddisfatto: se per sapere che una profezia è vera, bisogna attendere che si realizzi, a che serve ? Quando si tratta d’una profezia d’attualità ciò che interessa è proprio il sapere se si verificherà o no! Ci troviamo qui di fronte a una questione assai difficile da risolversi: sono chiari i criteri negativi, non altrettanto quelli positivi. Così si può giudicare con certezza che ci si trova dinnanzi a una falsificazione, se la predizione contraddice alla Scrittura o agli insegnamenti della Chiesa, o avvalora una prassi contraria alla morale, o non ha altro scopo che di soddisfare a una vana curiosità. Ricordiamo a tal proposito quanto abbiamo detto prima riguardo al fine delle profezie: «La profezia è una delle forme del miracolo. Ora non dobbiamo dimenticare essere norma provvidenziale di Dio non operare miracoli che non abbiano un senso prossimamente o remotamente teologico, una orientazione sempre esclusivamente religiosa. Mai Dio opererà un miracolo soltanto per soddisfare il capriccio erudito di uno scienziato curioso. Per questo medesimo motivo, quindi, una profezia che si proponesse di rivelare in antecedenza e senza un motivo di ordine superiore quale sia per essere — poniamo — il numero fortunato di una lotteria, potremmo senz’altro dire che è una profezia falsa, una pseudo profezia. Dio è troppo alto e troppo rispetta le leggi del mondo che Egli ha creato per rompere, senza ragioni di un ordine più elevato, l’economia ordinaria della sua Provvidenza». (Minerva, 15 settembre 1941, «Guerra e profezie»,  pag. 387). Questo criterio cerchiamo d’applicarlo a certe profezie politiche di cui è comprensibile che destino interesse; domandiamoci: che utilità vi troveremmo per il bene delle anime o per la gloria di Dio? Tali profezie, sotto un’apparenza di religiosità o di misticismo, si limitano ad annunciare che questa o quella nazione subirà una grande prova, e poi ne sarà liberata, o in modo ancor più generale preannunziano grandi disgrazie, seguite da soccorsi straordinari, senza che vi sia nulla che ecciti alla riforma dei costumi (al ritorno alla vera morale), o indichi qualche mezzo serio (per esempio il ricorso ai Sacramenti) per resistere alla marea del male. (...) Abbiamo così esaminato diversi criteri dai quali possiamo giudicare che una predizione non viene da Dio. Quando non ci sia nessuno di questi elementi negativi, e la predizione sia stata fatta da persona di conosciuta santità, prudenza, e sano giudizio, potremo ritenere con una buona probabilità che si tratti di vera profezia; ma anche in questo caso sarà più prudente attendere che l’avvenimento si sia verificato.

Profezie che certamente si verificheranno. Sono le profezie del Vangelo che riguardano l’assistenza promessa alla Chiesa da N. Signore Gesù Cristo e quelle sulla fine del mondo. Le prime si possono compendiare nelle parole dette dal Salvatore agli Apostoli prima della sua ascensione al cielo: «Ecco io sono con voi tutti i giorni sino alla fine dei secoli». È una profezia in continuo avveramento: da 1900 anni la storia della Chiesa ci manifesta luminosamente l’opera di Dio in suo soccorso contro ogni genere di avversari, interni ed esterni. E questa profezia è di grande conforto ad ogni fedele, perché come alla Chiesa, così a chiunque crede in Gesù Cristo (come vuole la Chiesa) non mancherà il suo aiuto onnipotente. Le profezie sulla fine del mondo sono state ampiamente espresse da N. S. Gesù Cristo, il quale volle confermarle predicendo la distruzione di Gerusalemme, segno e simbolo della distruzione finale. Dall’unione delle due predizioni, che presentano molti punti di rassomiglianza, e che gli Evangelisti pongono quasi sullo stesso piano, nasce una certa oscurità che ha tratto in inganno più d’uno, e anche in tempi recenti, certi neo-critici, come il (modernista) Loisy, i quali anatomizzando la Scrittura con uno pseudo apparato scientifico, credettero trovarvi che Gesù riteneva imminente la fine del mondo, e che dello stesso parere erano gli Apostoli. Ne seguirebbe l’empia conclusione che Gesù era un falso profeta e gli Apostoli degli illusi; e vana sarebbe la nostra fede. (Sulla distinzione delle due profezie cfr. A. Vaccari, Il discorso escatologico nei Vangeli in La Scuola Cattolica, 1940, pp. 5-23). In realtà l’errore sta dalla parte di questi critici, che interpretarono falsamente i testi del Vangelo e delle Lettere degli Apostoli, confondendo quello che riguarda la caduta di Gerusalemme e quello che si riferisce alla venuta finale del Cristo. Forse al loro errore contribuì il fatto che in tutti i tempi fra i cristiani ci fu chi credette giunta l’ultima ora. Così alcuni dei primi fedeli di Tessalonica, che San Paolo dovette ammonire affinché non si lasciassero smuovere da «pretese rivelazioni.... come se il giorno del Signore fosse imminente». Dalle quali parole dell’Apostolo appare già come egli fosse di ben diverso parere da quello che gli attribuiscono i razionalisti! E  l’Apostolo in ciò non fa che seguire l’insegnamento del Signore; questi, ai discepoli che gli domandavano quando sarebbe avvenuta la fine del mondo, rispondeva: «Quanto poi a quel giorno e a quell’ora, nessuno lo sa, neppure gli angeli del cielo ...» (San Matteo XXIV, 36). E subito dopo aggiunse che la sua venuta sarebbe stata subitanea e repentina: «Come avvenne al tempo di Noè, così sarà della venuta del Figlio dell’uomo. Poiché a quel modo che nei giorni avanti al diluvio la gente se ne stava mangiando e bevendo e si sposava e si dava a marito, sino a quel dì che Noè entrò nell’arca, e non si dava pensiero, finché non venne il diluvio e li portò via tutti, tale sarà la venuta del Figlio dell’uomo». (ivi. 37-39). Questo elemento d’incertezza dobbiamo tenerlo presente, da una parte per non fornire armi agl’increduli, dall’altra per non lasciarci trascinare alla loro incredulità. Chi si mostra troppo pronto a scorgere i segni precursori della fine, ed a voler determinare a breve scadenza la data della grande catastrofe, fornisce armi agl’increduli. Questi trovano buon gioco nel deridere la vana aspettativa dei cristiani dei tempi apostolici, o di quelli che nel Medioevo, all’avvicinarsi dell’anno mille, pensavano che non sarebbe più cominciato un altro millennio, o degli ascoltatori delle prediche di San Vincenzo Ferreri. È noto come questo santo dal 1398 cominciasse le sue missioni con le prediche formidabili sopra il tremendo giudizio di Dio, protestandosi ch’egli era l’angelo dell’Apocalisse spedito da Dio a denunziare prossima la fine del mondo. Eppure San Vincenzo Ferreri è morto nel 1419, e il giudizio universale non è ancora venuto. I biografi del santo lo giustificano dicendo che la sua predicazione della fine del mondo era veramente ispirata da Dio, ma aggiungono che quella profezia era condizionata: la Chiesa in quel tempo era dilacerata dallo scisma d’occidente, e i popoli immersi nei vizi, sicché Dio sdegnato era pronto a dar fine al mondo, se non fosse avvenuto un miglioramento, come di fatto avvenne. La spiegazione è plausibile, ma queste predizioni fallite devono renderci cauti nell’arrischiarne delle altre. Eppure queste non mancano e delle più stravaganti. Un eccesso in senso opposto sarebbe la conclusione degli scettici: «È inutile attendere un avvenimento che è stato sempre atteso e che non si è mai verificato». Un’obiezione somigliante veniva già fatta al tempo degli Apostoli: «Dov’è la promessa della sua venuta (del Cristo)?  Dopo che i nostri padri sono morti, tutto continua come dopo la creazione » (2 Petr. III, 4). E San Pietro risponde: «Almeno non ignoriate questo, o carissimi, che un sol giorno per il Signore è come un migliaio d’anni, e mille anni come un giorno solo». Tenendo conto di questa considerazione, noi possiamo dire che non è vana l’attesa dei cristiani. (...) I diciannove secoli trascorsi dalla prima venuta di Gesù Cristo sulla terra, sono come un nulla davanti a Dio, e la seconda venuta è sempre ugualmente vicina diciannove secoli fa, come oggi, come il giorno che verrà.

• Conclusione. I cristiani illuminati non hanno mai detto che il Cristo era venuto, non hanno detto: «eccolo!», non si sono mossi ad incontrarlo, non hanno tentato di determinare il tempo e l’ora che sono in potere del Padre; si sono accontentati di aspettare. Ma essi sanno che il Cristo verrà improvviso «come un ladro di notte. Quando diranno: prosperità e sicurezza, allora appunto piomberà su di essi la catastrofe improvvisa» (1 Tess. V, 2-3). E ricordano l’avvertimento del Signore: «Vigilate dunque, perché non sapete quando verrà il padrone della casa, se di sera, ovvero a mezzanotte, o al canto del gallo, oppure di mattino; che venendo d’improvviso non vi trovi addormentati. E quanto dico a voi, lo dico a tutti: vigilate !» (San Marco XIII, 35-37). A proposito di questo testo Sant’Agostino osserva che Gesù «non parlò soltanto a coloro che lo ascoltavano allora, ma anche a quelli che vennero dopo di loro, e a noi, e a quelli che verranno dopo di noi sino alla sua venuta.... Perché dire “a tutti” ciò che spetta solo a quelli che allora saranno, se non perché intende quel modo che spetta a tutti ? Infatti per ciascuno verrà l’ultimo giorno, quando gli verrà il momento di uscire di questa vita; quale sarà in quell’istante, tale sarà giudicato nel giorno finale. E perciò ogni cristiano deve vegliare affinché non lo trovi impreparato la venuta del Signore» (Epist. 199 ad Esychium; Migne, P. L. 33, 906).

Un + Requiem per l'autore Enrico Trabucchi. Pubblicazione a cura di CdP