Stimati Associati e gentili Sostenitori, c’è chi giustamente vede un’antitesi fra il pensiero moderno e la morale cristiana, e vi è sopratutto chi scorge una netta ed irriducibile opposizione fra la vita moderna e l’ascetismo cristiano, che è della morale uno degli aspetti più caratteristici. Le accuse, che si fanno contro la concezione e la pratica cristiana della vita a questo proposito, si possono leggere raccolte nel seguente brano di uno dei tanti volumi di Guido Milanesi, assai noto per i suoi racconti di mare: «No, non era una valle di lacrime questo mondo, ed esso non era destinato, come ultima finalità, a produrre tisici e piagnucolosi santi, che la bestemmiano chiamandola vizio, che impiegano la loro esistenza oziosa a levare le ossute braccia al cielo, salmodiando! Consacrare templi agli atleti dai muscoli di ferro, alle Veneri dalla linea perfetta, a Bacco, alla Vittoria, sciogliere inni alla vitalità: Bios! Afrodite ne è l’essenza e anch’essa è eterna». (Thalatta: racconti e ricordi di mare, p. 292). Ecco una filippica in piena regola contro l’ascetismo cristiano in genere e contro i santi che ne furono gli eroi generosi. Due errori sono evidenti qui: una falsa concezione di tale ascetismo e una pagana esaltazione delle energie e dei godimenti fisici, a scapito dei valori superiori dello spirito e dei ben più nobili e intensi godimenti che essi ci offrono; mentalità pagana che appare bensì come una bella e benefica esaltazione della vita, ma è di essa una deturpazione foriera di rovine e di morte. Ragioniamo quindi un poco, ribattendo le accuse che si fanno al principio ascetico cristiano e ai suoi più insigni modelli, i Santi, riducendole alle due seguenti: 1°: L’ascetismo cristiano è brutta cosa, ipocrisia, rinnegamento della vita, e fa di questo mondo una valle di lacrime. 2°: I Santi poi l’hanno spinto a tal segno, da diventare colpevoli verso la società col rendersi inutili; verso se stessi, sciupando la propria salute; verso la natura, violentandola. Risponderemo separatamente alle due difficoltà utilizzando un prezioso opuscolo della collana S.O.S., «Ascetismo moderno e vita cristiana», del P. Clemente Cavassa S.J., Serie 1, Numero 8, imprimatur 1944.
• L’ascetismo. Questa parola significa, etimologicamente, esercizio (dal greco: askesis). In origine significò l’esercizio fisico, che si faceva dagli atleti; esso richiedeva sforzo e l’uso di un regime, per conservare e accrescere il vigore del corpo. Presso i filosofi, quella degli asceti formò una scuola: gli stoici si erano dati tale nome, comparandosi agli atleti. Essi sono, con i pitagorici ed i cinici, i fondatori dell’ascetismo filosofico, praticato poi dalla scuola di Alessandria: fondato sul disprezzo del corpo e delle sensazioni corporee, esso tendeva ad assicurare, con le sofferenze fisiche, il trionfo dell’anima sugli istinti e le passioni. Anche San Paolo, e dopo lui i dottori cristiani, usarono a proposito di ascetismo il paragone degli atleti. L’Apostolo ricorda lo sforzo e la continenza di questi ultimi nello stadio, per conquistare - egli dice - una corona corruttibile. «A più forte ragione — soggiunge — io affliggo il mio corpo e lo riduco in servitù, affinché non avvenga che, dopo aver Predicato agli altri, io sia riprovato». La diversa finalità quindi dà origine ai diversi ascetismi: fisico, intellettuale, morale, religioso. Vi è così l’ascetismo ebraico dei nazzareni e degli esseni, quello dei buddisti e dei maomettani.
• L’ascetismo cristiano. Consta di esercizi intesi a togliere o a ridurre nell’uomo gli impedimenti ad unire l’anima con Dio mediante l’amore di carità, cioè a conseguire la perfezione morale. Questa perfezione consiste in una armonia di tutto l’essere umano, nei suoi rapporti con Dio, col prossimo e con se stesso, quindi l’ascetismo si riduce essenzialmente ad esercitare le virtù della giustizia e della temperanza per cui l’uomo tiene soggetti alla volontà, guidata dalla ragione, i propri appetiti inferiori, e la volontà sottomette a Dio ed alla Sua legge. Unico ostacolo a raggiungere questa armonia sono le passioni disordinate: l’esercizio della perfezione cristiana, o ascetismo, consisterà praticamente nel domare ed orientare rettamente le passioni, non già nel soffocarle. a) Il Vangelo esorta a ciò. «Chi vuol venire dietro a me, ha detto Gesù, rinneghi se stesso, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua». Ecco qui proposte al cristiano le tre fasi dell’ascetismo: la rinuncia, ossia la lotta contro l’egoismo orgoglioso e sensuale; l’accettazione dei pesi, ossia dei doveri quotidiani della vita; lo sforzo per imitare le virtù del Redentore. b) A QUESTO FINE POSSONO ESSERE NECESSARI ANCHE DEI GRANDI SACRIFICI che sarà ragionevole, doveroso ed utile affrontare. Dice Gesù nel Vangelo: «Se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, (ossia di far del male) strappalo e gettalo lontano da te. Se la tua mano ti è motivo di scandalo, troncala e gettala via da te. È meglio per te che perisca uno dei tuoi membri, anziché tutto il tuo essere vada dannato». Ossia è meglio rinunciare ad una soddisfazione alla quale ci stimola la concupiscenza, e affrontare per questo la pena che accompagna tale rinuncia, che non violare la legge morale e quindi perdere la grazia di Dio ed esporci ad andare per sempre lontani da Lui nell’altra vita.
• La vita diventa così un giogo? Si e no! Si, perché pesa alla natura umana, decaduta dal suo stato di integrità originale, sottostante ad una legge che, per reintegrare l’armonia fa violenza alle tendenze inferiori e modera la ricerca del piacere sensibile, contenendolo nei limiti del lecito e dell’onesto. No, perché si tratta in realtà di una liberazione, e la grazia divina ne rende il peso leggero e soave. «Prendete sopra di voi il mio giogo: il mio giogo è soave, il mio peso è leggero», dice il Signore. Una vera liberazione dalla schiavitù dei sensi è il frutto dell’esercizio con cui la volontà afferma il proprio dominio sugli impulsi passionali della natura inferiore, mentre non vi è tirannia peggiore di quella esercitata dall’insaziata brama dei godimenti sensuali. G. A. Borgese, esaminando in D’Annunzio quel suo edonismo che lo porta ad esaltare nelle sue opere la ricerca, fino allo spasimo e al delitto, di tali godimenti, osserva giustamente: «È impossibile godere quanto l’immaginazione vorrebbe: e se pure si raggiunge un vertice o una palude (in questo caso il picco e la palude coincidono) sul vertice o nella profondità raggiunta non si trova il riposo, ma si incontra il vento di una libidine che aspira ad un vertice o ad una profondità più lontana. La lussuria, istruita e disgustata dall’esperienza, sazia sempre più debolmente le cupidigie della fantasia. Quindi una amarezza che diviene implacabile, via via che si allarga la distanza abissale fra il desiderio che giganteggia e la salute che sfiorisce». Fin qui il Borgese (non certo tenero per l’ascetismo cristiano), ma alle sue considerazioni va aggiunto che lo spirito soffre pur esso col corpo e più di esso, per questa disordinata ricerca del godimento, e quindi se ne va, colla salute fisica, anche, e sopratutto quella dell’anima, che si corrompe, si avvilisce e si rattrista nella propria sconfitta, come confessa D’Annunzio stesso in quei versi: «Tristezza atroce della carne immonda quando la fiamma del desio nel gelo del disgusto si spegne...». Invece i frutti del sacrificio per conservare il dominio dei sensi sono la pace e la serenità dello spirito, il benessere cioè che vi ha di più profondo nell’uomo e gli dà un godimento non saltuario ma perenne, non violento, ma intenso e diffuso ad avvolgere tutto l’essere, in modo ineffabile, che non debilita, ma stimola ad agire, e permette quindi di gustare la vera gioia di vivere, di sentirsi vivere cioè e di operare a bene degli altri.
• È innaturale ed irragionevole tutto ciò? Assolutamente no. È invece quanto vi può essere di più ragionevole e di più conforme alla natura completa dell’uomo, considerata cioè nel suo essere complesso, caratterizzato da una gerarchia di facoltà aventi e cercanti ciascuna il proprio bene e quindi dotate di proprie appetizioni, le quali allora soltanto saranno legittime e porteranno al vero bene dell’individuo, quando sarà rispettata la gerarchia nel mutuo rispetto dei limiti, che il complesso umano impone alle sue parti, e di quelli che il complesso sociale impone a ciascun uomo. Nulla di più naturale quindi e di più ragionevole che il forte esercizio della volontà nella ricerca dell’equilibrio morale, anche se per conquistarlo l’uomo debba contraddire e sacrificare tendenze, istinti, appetizioni, che sono bensì della natura, ma non per se stesse ordinate al suo bene, se non intervenga l’azione direttrice e moderatrice della volontà, guidata dalla ragione, detta perciò appetito razionale. Ed ecco due testimonianze a favore di questa tesi: Federico Forster, illustre pedagogista (benché protestante), scrive: «Il grande errore della Pedagogia moderna è stato di considerare come una cosa assai facile la padronanza di se stesso, che è il fondamento della libertà umana, senza considerare che in questo punto non vi ha altra via che un esercizio aspro ed austero». Giovanni Stuart Mill, noto filosofo ed economista inglese, dice: «Da colui il quale non si è negato alcunché di lecito, non può sperarsi con certezza che sarà capace di negarsi tutte le cose illecite». Va quindi affermato che l’esercizio della mortificazione del corpo risponde ad un misterioso bisogno dell’anima umana in vista nella perfezione morale, se, come brevemente è stato accennato: 1° Lo si incontra nella maggior parte delle religioni (nella nostra vera religione, ma anche in molte false religioni); 2° È stato in onore presso parecchie scuole filosofiche; 3° È un’applicazione del principio pedagogico-morale che l’offensiva è migliore della difensiva.
• Gradi dell’ascetismo cristiano. Un certo grado è doveroso per chiunque voglia evitare il male. Non si può essere discepoli di Cristo, se non si prende «ogni giorno la propria croce» camminando dietro di Lui, cioè se non si affrontano i pesi, le contrarietà ed i dolori della vita, e se non si usano i mezzi necessari a viverla bene. «Quelli che sono di Cristo — dice San Paolo — hanno crocifissa la propria carne con i suoi vizi e le concupiscenze». Oltre questo grado c’è il campo libero e aperto alla generosità di ciascuno, nello sforzo di raggiungere la perfezione, secondo l’esortazione evangelica «siate perfetti come è perfetto il Padre vostro, che sta nei cieli». Vi sono così tre stadi di ascetismo, corrispondenti ai tre gradi di perfezione della carità, che può essere nel cuore dell’uomo: 1° Incipiente: se le passioni vietano ancora l’esercizio facile e dilettevole delle virtù; sussiste il pericolo della caduta nella colpa grave: è stato di battaglia. 2° Proficiente: se le passioni sono soggette così da non spingere più notevolmente alla colpa, e l’uomo può esercitare le virtù con facilità e prontezza. 3° Perfetta: se le passioni sono così domate e l’esercizio delle virtù è così attivo, che con spontaneità e diletto si esercitano nel primo e perfettissimo ufficio della carità, che è di amare Dio sopra ogni cosa con tutte le forze, ed amare il prossimo come se stesso per amore di Dio (che significa anche e soprattutto non commettere peccato).
• Gioia e dolore. E qui, a conclusione di questa prima parte della nostra breve trattazione, cade opportuno richiamare il concetto esatto di gioia, benessere al quale ogni uomo aspira con impeto istintivo ed irrefrenabile, essendo noi tutti creati per la felicità; in opposizione al dolore, dal quale ciascuno istintivamente rifugge, come dal male contrario alla nostra natura e al nostro ultimo fine. Riferiremo qui, talvolta alla lettera, tal altra con qualche aggiunta e qualche variante, ciò che ebbe a scrivere tanto efficacemente il compianto Mons. Montalbetti, Arcivescovo di Reggio Calabria, sul periodico «Catechesi» del maggio 1935, dando prima il vero concetto della gioia, e mostrando quindi quali gioie il cristianesimo permetta e quali doni di suo, quali dolori tolga e quali non tolga. a) CONCETTO DI GIOIA. È lo stato di benessere che nasce dall’appagamento dell’uomo nel possesso del suo bene. Non è quindi la somma di piaceri ricavati dal possesso delle cose esteriori, non viene dall’esterno all’interno, ma sgorga dall’intimo, quando la parte migliore di noi, l’anima, è soddisfatta, e allora irradia di sé il volto, gli atti, le parole, e si riverbera sull’ambiente che ci sta intorno. Il mondo esteriore può bensì servire di stimolo all’esplosione della gioia, ma se l’intima sorgente della gioia in noi è inaridita, tutti i divertimenti e le frenesie del mondo non ci daranno un sorriso vero, espressione della piena soddisfazione di tutto l’io. È comunissima e disastrosa, specie nei giovani, questa confusione fra la gioia ed il divertimento, fra il riso vero e la risata. Quante volte il giovane, che è avido di gioia, si butta al divertimento senza criterio e senza misura, e resta poi con l’animo tanto più amareggiato quanto meno ha rispettato i limiti della temperanza e dell’onestà. V’è chi dice che la gioia induce alla fede, nel senso che le anime deboli, avendo bisogno di contentamento, di sicurezza, di gioia, e non sapendo trovarla da sé, si attaccano a Dio come a dispensatore di gioia. C’è del vero e c’è del falso: è vero che la fede dà gioia, non è vero che la gioia sia la causa della fede. La fede però si dimostra vera dando la gioia, come il cibo si dimostra tale nutrendo, il vino si dimostra genuino inebriando. Non è neppure da confondersi la gioia col trionfo: il soldato combattente può aver maggior gioia del trionfatore; il lavoratore maggior gioia del pensionato. Una giornata di lotte dà generalmente più gioia che una giornata di bonaccia, la quale induce facilmente alla noia ed allo scontento, come il tramonto di una giornata di tempesta di solito è più azzurro, più rosso, più luminoso del tramonto di una torrida giornata senza nubi. Il grande segreto della gioia, come dell’intera vita umana, è l’amore: ma l’amore nobile, puro, benefico; l’amore cioè di benevolenza con il quale cerchiamo il bene degli altri; non di concupiscenza, con il quale cerchiamo il bene nostro; l’amore quindi per Dio, che è il sommo bene, e l’amore per il prossimo, che vogliamo beneficare comunicandogli il nostro bene, a somiglianza di Dio che, essendo bontà infinita, gode nel comunicare a tutti gli esseri, in diversa misura, le proprie perfezioni. Così l’amore, nella sua più alta espressione che è la carità, ci avvicina e ci assimila a Dio, e quindi ci procura il sommo godimento, perché sazia in noi l’aspirazione più profonda e capitale, che è per il bene infinito. L’egoismo invece cerca il piacere e trova la delusione, la noia, il vuoto, poiché chiudendo l’uomo sopra di sé, lo confina nella sua insufficienza. È per questo che la massima serenità la troviamo nei Santi, e specialmente in quelli che brillarono per speciale carità, come San Francesco di Assisi, San Vincenzo de’ Paoli, il Cottolengo, ecc. La gioia è perciò la prima e l’ultima parola del Vangelo: l’angelo annunzia un gaudio grande sulla culla del Redentore, e questi, poco prima di morire, proclama ben alto, nel discorso della Cena, che vuole piena la nostra gioia.
• Le gioie nel Cristianesimo. Esso permette ed anzi intensifica elevandole e rendendo l’uomo meglio atto a goderne, tutte le gioie lecite, come la contemplazione della natura, il gaudio delle scienze — da quelle sperimentali a quelle più astratte —, le dolcezze profonde ed estasianti dell’arte, sia in chi produce i capolavori sia in chi li gusta; l’assaporamento dei doni e dei frutti svariatissimi della terra; le gioie famigliari, così riboccanti di vera poesia, e quelle dell’amicizia e della conversazione con i prossimi; i diletti che provengono dai sani divertimenti, non escluso lo sport ed i buoni spettacoli di ogni fatta. Oltre a ciò il Cristianesimo dà, di suo, tutto un tesoro di gioie purissime e ineffabili, che sgorgano da questi veri e supremi beni: una visione chiara e completa della vita nella sua origine, nei suoi sviluppi e nel suo fine ultimo; la fiducia nella Provvidenza in ogni evento; la pace del cuore; la sicurezza delle speranze immortali; la spiegazione del dolore e della morte; il rimedio in qualsiasi circostanza. Di ciò parla così eloquentemente il Manzoni nei Promessi Sposi, quando dice: «È una delle facoltà singolari e incomunicabili della religione cristiana il poter indirizzare e consolare chiunque in qual si voglia termine ricorra ad essa... È una strada così fatta che, da qualunque labirinto, da qualunque precipizio l’uomo capiti ad essa, vi faccia un passo, può d’allora in poi camminare con sicurezza e di buona voglia arrivare lietamente a un lieto fine».
• I dolori nel Cristianesimo. Molti casi, e i più gravi, li allontana da noi: le angosce del dubbio, i rimorsi, la desolazione del pessimismo e quella che nasce dal considerare la vanità di tutto, l’inutilità apparente del dolore, la crudeltà del destino, l’agitazione delle passioni aizzate e sempre meno sazie, le delusioni delle ricchezze, degli onori, dei piaceri, la solitudine, il vuoto, il non senso della vita, il terrore della morte. Il Cristianesimo non toglie alla vita i mali e quindi i dolori affatto indipendenti dalla fede e dalla coscienza di ognuno, quelli cioè che sono il retaggio di ogni uomo, come la fede stessa insegna e spiega, e cioè: la morte, le malattie, gli insuccessi, le passioni, l’ignoranza relativa, i disagi e le fatiche del lavoro, le difficoltà al bene, le persecuzioni, le incomprensioni, le ingratitudini, i tradimenti, ecc. Certo la fede anche più viva e l’onestà anche più schietta non eliminano questi mali e questi dolori, ma li addolciscono e li avvalorano, come ben fa dire il Manzoni, nella chiusa del suo immortale romanzo, ai due protagonisti: «Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani, e che quando vengono o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce e li rende utili per una vita migliore». Parole che valgono quanto un intero trattato di filosofia! Si potrebbe obbiettare che il Cristianesimo impone il dolore che proviene dall’astensione da tante gioie che esso vieta; ma si risponde che la privazione di quelle gioie invereconde, che formano la così detta felicità dei libertini e dei mondani non impone nessun vero dolore. Costa fatica in principio rinunziarvi, ma poi non se ne sente più attrattiva, anzi si giunge a provarne fastidio e nausea. A conferma di tutto questo si potrebbero citare innumerevoli testimonianze di uomini insigni, di tutti i tempi e di tutti i luoghi, i quali, lontano dal Cristianesimo, pur avendo dovizia di beni terreni, furono e si proclamarono infelicissimi; e di altri che, giunti alla fede cristiana, vi hanno trovato la gioia, sia pure fra le contrarietà e l’ardore delle battaglie.
• Ascoltiamone alcuni. Giacomo Puccini lasciò scritto in un foglio trovato, dopo la sua morte, nella casa di Viareggio ove era vissuto carico di onori e di milioni: «Mi sento solo. Pure la musica, triste mi rende. Oh! come è dura la vita mia! E sì che a molti sembro felice! Ma i miei successi...? Passano, e resta ben poca cosa! La vita corre: Passa veloce la giovinezza e l’occhio scruta l’eternità...!» (A. Fraccaroli: Vita di G. Puccini). Anatole France, al suo segretario Brousson, che gli andava ripetendo che nulla mancava alla sua gloria e alla sua gioia, prese le mani nelle sue e guardandolo negli occhi con occhi lucidi di pianto, rispose: «Basta, basta amico mio! Ah se voi sapeste leggere nella mia anima, sareste spaventato. Non c’è nel mondo intero una creatura così infelice come me. Mi si crede felice. Io non lo sono mai stato, un’ora, un giorno, mai» (Brousson: A. France intimo). Gabriele D’Annunzio scrisse nel 1935 questi versi, che esprimono il senso di profonda tristezza dal quale il suo animo era dominato: «Tutta la vita è senza mutamento. Ha un solo volto la malinconia. Il pensiero ha per cima la follia. E l’amore è legato al tradimento». Al contrario, San Paolo esclama: «Io sovrabbondo di gioia in mezzo a tutte le mie tribolazioni». Giosuè Borsi: «Il mio spirito era prima lo smisurato regno della morte cosparso di cenere e imbevuto di veleno; oggi è un mondo vivo. I pensieri ora rigurgitano in me, pensieri di vita e di verità» (I colloqui). Verkade, protestante olandese fattosi cattolico e monaco benedettino: «Una cosa mi ero proposto, è cioè che se io non avessi trovato la felicità nella Chiesa Cattolica, le avrei voltato le spalle con la stessa franchezza con cui ora vi facevo il mio ingresso» (Il divino tormento). Chesterton: «Si dice che il paganesimo è una religione di gioia e il Cristianesimo di tristezza... Ogni cosa umana deve contenere tristezza e gioia. Quel che interessa è il modo con cui le due cose si bilanciano e si distribuiscono. E l’interessante è che il pagano è sempre più felice avvicinandosi alla terra e sempre più triste avvicinandosi al cielo. La gaiezza del miglior paganesimo è una gaiezza esterna, che riguarda i fatti, non l’origine della vita. Per i pagani le piccole cose sono dolci come i ruscelli zampillanti dalla montagna, ma le grandi cose sono amare come il mare. Quando il pagano guarda al centro del cosmo resta agghiacciato... L’uomo è più se stesso, più umano, quando in lui la gioia diventa qualche cosa di gigantesco e la tristezza qualche cosa di particolare, di piccolo... La gioia, che fu la piccola appariscenza del pagano, è il gigantesco segreto del cristiano» (Ortodossia). Possono bastare queste citazioni, che sono una bella testimonianza delle parole del Maestro Divino: «Il mondo godrà e voi sarete nella tristezza, ma la vostra afflizione si muterà in gioia. Godrà il vostro cuore e nessuno potrà togliervi la vostra gioia» (S. Giov., XVI).
• Le “esagerazioni” dei Santi. Veniamo ora alla seconda obbiezione, che vede nell’ascetismo, così come è stato praticato da certi Santi e come lo si pratica nella vita dei monaci e nello stesso sacerdozio cattolico col celibato, una offesa contro la società, se stessi e la natura.
• Ascetismo rigido volontario. È certo che il Vangelo lascia adito alla generosità dei singoli nel praticare forme austere di ascetismo per raggiungere fini di ordine spirituale, e offre l’esempio di San Giovanni Battista, precursore del Messia, e quello stesso di Gesù, che premise alla predicazione quaranta giorni di digiuno e di preghiere nel deserto, e visse poi privandosi anche delle cose convenienti alla vita: «Le volpi hanno le loro tane, gli uccelli il loro nido, ma il Figliuol dell’uomo non ha ove posare il capo». Va ammesso che certi asceti, sopratutto in oriente, caddero in esagerazioni che non sono per nulla da approvare. Altri si dettero a penitenze straordinarie, come San Simone Stilita, che restò 21 anni sopra una colonna, mentre una forma assai estesa di ascetismo fu, specialmente dopo la persecuzione di Decio, la vita eremitica nel deserto (San Paolo e Sant’Antonio) finché, specialmente per opera di San Pacomio, discepolo di Sant’Antonio, l’ascetismo non venne reso popolare nella vita cenobitica. In occidente essa, per opera di San Benedetto, unì l’attività socialmente e direttamente benefica, all’austerità della vita contemplativa e penitente, secondo il motto «ora et labora» prega e lavora. [Dobbiamo soprattutto all’opera dei Benedettini il grande Occidente, come lo conoscevamo prima della turpe azione della massoneria e del modernismo sull’intera società (Rivoluzioni, Risorgimento, Vaticano Secondo, eccetera)]. In ogni caso, però, va ben stabilito che l’ascetismo cristiano, anche portato nei Santi, negli anacoreti e nei monaci alle forme più rigide: 1° Non considera affatto come un male la vita materiale e i rapporti che ne nascono, come fecero certi filosofi pagani; 2° Non impone a nessuno, ma consiglia la penitenza e la verginità come mezzi di perfezione, non già come fossero essi stessi la perfezione, quindi non permette che si denigrino o si condannino quelli che non le abbracciano.
• Oziosi? Ciò premesso diciamo, diciamo che i Santi, gli asceti, non sono mai degli oziosi, inutili alla società, alla quale rendono invece i servizi più preziosi, perché: a) PLACANO LA GIUSTIZIA DIVINA, compensando con le espiazioni volontarie, le iniquità umane. Scrive Guido Manacorda a questo proposito: «La sofferenza dell’innocente per il colpevole, a prima vista assurda, costituisce invece l’essenza e la razionalità suprema dell’amore. Se infatti amore significa uscire da se stessi e liberamente trasferirsi nell’oggetto amato, nulla di più rigorosamente logico, che in cotesto libero trasferirsi, chi ama prenda sopra di sé i dolori e, dove occorra, l’espiazione dell’amato. Se non che — ed è qui la meraviglia insieme del sacrificio e dell’amore — dove il trasferimento realmente e integralmente avviene, ecco che il dolore subito si tramuta in gioia: nell’uno perché libera, nell altro perché è liberato. Non è possibile gioia più grande. Questo tutto il senso della charitas, ossia dell’Incarnazione, Passione e Risurrezione di Cristo» (Il Frontespizio, Gennaio 1934). E i Santi sono, anche in questa espiazione volontaria, i più perfetti imitatori di Gesù. b) PERFEZIONANO MORALMENTE LA SOCIETÀ’, sia perché perfezionano se stessi, membri di essa, sia perché stimolano gli altri, coll’esempio eroico, a dominare la natura inferiore, indirizzando le passioni a fine onesto e benefico. c) DIVENTANO MEGLIO ATTI A CURARE IL BENE ALTRUI e a sollevare il prossimo dai suoi mali, con disinteresse, delicatezza e sacrificio di sé. Basti considerare ciò che essi operano a bene dei malati, dei poveri, degli orfani, disgraziati e bisognosi di assistenza e di aiuto.
• Suicidi? I Santi, gli asceti, non sono dei suicidi, nemmeno parziali, perché il loro ascetismo, generalmente, giova alla salute, e se in certi casi le nuoce, ciò è giustificato dal bene maggiore ottenuto con tale mezzo. a) GIOVA: la temperanza e la vita austera sottraggono tante cause di malattie e irrobustiscono il fisico. Ne è una prova la longevità dei monaci e degli anacoreti anche più penitenti. b) SE NUOCE reca il bene superiore dello spirito. 1° Il corpo è strumento dell’anima; è logico che serva al suo bene, anche con sacrificio proprio. 2° Molti altri uomini si espongono continuamente ad abbreviarsi la vita o a perderla, per il bene della famiglia e della società (il progresso delle scienze, le invenzioni, le scoperte, ed anche il semplice sfruttamento delle ricchezze naturali, come nelle miniere per esempio). 3° Certi eccessi sono rarissimi, e sono più da ammirarsi che da imitarsi. Li giustificano soltanto una speciale ispirazione di Dio o necessità speciali, straordinariamente gravi: a estremi mali, estremi rimedi.
• Violenti contro natura? I Santi, gli asceti non violentano la natura: a) Né con l’austerità della vita e le afflizioni volontarie del corpo, poiché la natura umana è complessa, ed essenzialmente razionale, ossia spirituale. È quindi nell’ordine della natura subordinare l’inferiore al superiore, è nell’ordine logico sacrificare un bene, una soddisfazione materiale, ed anche imporsi un male fisico, per conseguire un bene d’ordine superiore. b) Né con l’osservanza della castità assoluta, ossia del celibato volontario, per tre motivi: 1° Il matrimonio non è di precetto per il singolo, valendo per il genere umano nel suo complesso il precetto divino «crescete e moltiplicatevi» contenuto nel Genesi. Infatti è di precetto per il singolo, solo ciò che gli è necessario per il conseguimento della perfezione debita alla dignità umana. Ora per la propagazione della specie non è necessario che tutti gli individui contraggano matrimonio. Così nel regno inferiore della natura non tutti i germi di vita danno frutto di nuovi viventi. Né vale obiettare che, se tutti rinunciassero al matrimonio, l’umanità si estinguerebbe: è un’ipotesi assurda, dato il forte impulso di che Dio ha dotato l’uomo, e l’arduità della cosa. Così ad esempio, nessuno, che si senta portato, lascia di dedicarsi alla scienza, pur pensando che se tutti facessero così, gli uomini morirebbero di fame, perché non vi sarebbe chi attenda ai lavori della terra. 2° Il celibato (virtuoso) è moralmente più nobile del matrimonio, benché questo sia più necessario del genere umano. — Più nobile: per i fini nobilissimi che si propone l’uomo col celibato, ossia la perfezione dello spirito, la contemplazione delle verità superiori, la libertà di dedicarsi al culto divino e alle opere di bene per il prossimo. Benché meno necessario: così il cibo è più necessario all’uomo che la scienza, eppure non lo diremo più nobile. 3° Il celibato virtuoso non nuoce alla prosperità del consorzio umano. — Non quantitativamente: perché, dove esso fiorisce, il matrimonio è più fecondo per l’esempio di onestà e di austerità che esso offre, virtù che assicurano le famiglie numerose. — Non qualitativamente, perché la creatura umana che abbraccia la castità volontaria, mentre diviene meglio atta a conseguire la perfezione morale, stimola gli altri al dominio sugli appetiti inferiori, e così migliora il costume, diviene più atto a curare studi elevati, favorendo in tal modo la scienza e le arti, sente il cuore dilatarsi nell’amore del prossimo, e così può meglio consacrarsi ad aiutarlo, anche perché è più libero per farlo. Quindi, anche se il celibato (virtuoso) apparentemente priva di uomini possibili il genere umano, ne procura il bene in altro modo, e tutti sanno come la prosperità sociale non si calcoli tanto dal numero, quanto dalla perfezione dei membri.
• Una grave questione. Poiché la castità perfetta volontaria è una delle forme più caratteristiche dell’ascetismo cristiano ed è al tempo stesso una delle virtù più ardue della natura umana — che alla trasmissione della vita è sollecitata dalla voce possente della specie, che vuole vivere — è opportuno chiarire una duplice questione: in quale relazione essa sia col problema demografico e colla felicità umana. Anche perché, riguardo al celibato, vien fatto di sentire spesso due obbiezioni speciose, che però si annullano a vicenda: vi è chi lo definisce una forma comoda di sfuggire ai pesi e alle responsabilità della famiglia e quindi lo definisce la quintessenza dell’egoismo con la maschera della virtù — e vi è invece chi assolutamente lo proclama impossibile, innaturale, immorale, e quindi compiange come poveri esseri illusi e sacrificati quelli che lo abbracciano, e anzi si mostra scettico sulla loro sincerità e sulla fedeltà a un ideale di vita, che gli appare privo delle gioie più belle dell’amore e della famiglia. Due difficoltà antiche quanto il Cristianesimo, il quale ha messo in onore la verginità perfetta volontaria come uno stato permanente di vita, e che tendono a confondere due forme ben diverse e distinte di celibato: quello virtuoso di chi lo abbraccia come mezzo di perfezione propria e di beneficenza a favore del prossimo, e quello calcolatore e anche vizioso dell’egoista e del libertino, ossia dello scapolo impenitente, che lo eleggono per amore dei propri comodi. A queste due obbiezioni ha risposto già il divino Maestro diciannove secoli fa, in una famosa disputa avuta con i farisei, riferitaci da San Matteo al capo XIX del suo Vangelo e che converrà qui richiamare nelle sue battute salienti. Avendo i farisei interrogato Gesù se fosse lecito rimandare la propria moglie, cioè divorziare da essa, il divino Maestro negò recisamente, appellandosi alla natura stessa del matrimonio, istituito da Dio indissolubile alle origini della vita umana, come proclama la Bibbia nel Genesi. E poiché i farisei insistevano, citando una disposizione della legge mosaica, che consentiva al marito di dare il libello di ripudio alla propria moglie e così disfarsene, Gesù afferma essere stata quella un eccezione transitoria, concessa e anzi strappata a Mosè dalla durezza di cuore degli ebrei, e ribadisce che in principio non era stato così, e d’allora in avanti il matrimonio avrebbe riacquistata tutta intera la sua indissolubilità. Al che i farisei soggiungono: «Se tali devono essere i rapporti dell’uomo con la donna, non conviene sposarsi», e così danno a vedere di pensare e sentire come tanti egoisti, gaudenti e libertini di tutti i tempi e di tutti i luoghi, i quali rifuggono dal formarsi una famiglia per motivi di calcolo miserabile o addirittura scandaloso: per questi la tassa sui celibi stabilita dal Governo in Italia è un vero atto di giustizia sociale! Come risponderà Gesù a questa osservazione interessata? Con sapienza veramente divina, distinguendo dal celibato dipendente da condizioni naturali o comunque dalla cattiva volontà umana, quello virtuoso, di chi lo abbraccia «propter regnum coelorum» per il regno dei cieli, ossia per un fine di perfezione morale, di amore cioè di Dio e del prossimo; e soggiunge: «Chi può capire capisca» dopo aver detto che non tutti possono comprendere ciò, ossia che questo stato di celibato virtuoso costituisce come un’aristocrazia del genere umano, non potendo abbracciarlo chi non abbia la grazia speciale da Dio e volontà salda per corrispondervi. Ecco la chiave di soluzione delle due difficoltà suesposte, ed ecco anche nascere di qui la possibilità di porre nei suoi veri termini la duplice questione dei rapporti fra celibato e problema demografico, fra celibato e felicità.
• Celibato e problema demografico. In varie nazioni d’Europa si è dato da tempo l’allarme per l’incombente pericolo dello spopolamento e si è proclamato di voler affrontare e risolvere il problema demografico. Ma che cosa si intende precisamente con questa espressione? Problema demografico è la difficoltà che un popolo incontra ad assicurare la propria esistenza, in lotta contro l’egoismo calcolatore dei singoli, i quali o si astengono dal costituire una famiglia o, costituitala, temendo il peso della prole, la vogliono sterile o pochissimo feconda. Questa lotta batte in breccia i cittadini pavidi o moralmente corrotti, e vorrebbe farne dei fiduciosi e degli onesti, capi di famiglie numerose. Compito ben arduo, se lo si voglia assolvere con i soli mezzi umani, prospettando agli scapoli ed agli sposi dal focolare deserto o semideserto, l’onere di tasse sul celibato e l’allettativa dei premi di nuzialità e di natalità, poiché l’egoismo umano ha tali trincee da resistere a tutti gli attacchi. Invece questi mezzi diventano ben più efficaci se, come appunto avviene in Italia [n.b. l’Autore scrive nel 1944], si innestino sopra quei mezzi morali e religiosi i quali, ridando al matrimonio tutto il prestigio che gli viene dal suo carattere sacro, e formando i giovani alla conoscenza della legge cristiana e stimolandoli alla sua osservanza, preparano nuove generazioni di cittadini e di cristiani veramente sani nello spirito, forti cioè ed onesti, fiduciosi nella Provvidenza divina che assicura il necessario a chi le viva fedele, non meno che nelle proprie forze e nelle sagge iniziative dei poteri costituiti. Ecco perché il celibato virtuoso, del sacerdote e della vita monastica specialmente, ben lungi dall’essere l’alleato del celibato egoista, ne è il più acerrimo nemico, come è il correttivo più efficace ai focolari voluti deserti o semideserti, perché richiama ai cittadini le vedute soprannaturali e le sanzioni della legge divina, rinsalda negli animi la fiducia nella Provvidenza, mentre offre a tutti l’esempio di tante volontà, che, confortate dalla grazia divina e sprezzando le allettative e le soddisfazioni pur lecite dei sensi, trovano in quelle più nobili e profonde dello spirito la gioia di vivere e lavorare a bene dei fratelli. C’è poi il celibe che resta tale per condizioni e circostanze varie della vita, senza proporsi ed eleggersi tale stato come permanente e definitivo, ma abbracciandolo di fatto e vivendolo onestamente con quelle precauzioni e quegli aiuti della grazia, che Dio non nega mai a chi Lo invoca ed usa i mezzi di salute istituiti dal Redentore e dispensati dalla Chiesa. Tale stato non interessa direttamente la nostra trattazione; solo diremo, a scanso di equivoci, che esso è buono e può anzi essere per certi individui migliore di qualsiasi altro al quale essi non si sentono portati. Il Cristianesimo aiuta a viverlo bene e a renderlo benefico, orientando l’impiego delle energie e delle sostanze nell’esercizio delle opere di misericordia materiale e spirituale a favore dei prossimi, fonte di soddisfazione e di meriti. [Se poi pensiamo che molti dei calunniatori del celibato, i quali sollevano il cosiddetto problema demografico, sono poi i primi propagandisti dell’aborto, della contraccezione e del divorzio, ben comprendiamo da quale miserabile officina sono ispirati cotesti potenziali dannati, e da quali miasmatiche finalità scaturiscono siffatte obiezioni di cartapesta, tutt’altro che nell’interesse pubblico e sociale].
• Celibato e felicità. Ed eccoci introdotti, quasi senza volerlo, alla soluzione del secondo aspetto della questione: come può essere felice l’uomo che, sentendo necessariamente in sé lo stimolo della carne e la innata tendenza a completarsi con la creatura che Dio stesso volle e plasmò come compagna ed aiuto suo, e l’ansia di rivivere e sopravvivere nei figli, si mette volontariamente nell’impossibilità di rimediare legittimamente alla concupiscenza orientando a santo fine ogni impeto di passione, di espandere il cuore nel più soave degli affetti e di sentirsi circondato dalle proprie creature? La risposta a questa difficoltà, che pochi fanno esplicitamente, ma che affiora al pensiero di molti, sta nelle parole del Redentore «non omnes capiunt verbum istud ... qui potest capere capiat», sta sopratutto nella nuova energia che Egli è venuto a portare agli uomini di buona, anzi di ottima volontà. Certo è che, veduto nella sola luce naturale, considerato nel semplice gioco delle forze naturali, il celibato cristiano, anzi ogni stato di verginità perfetta volontaria è un assurdo: lo riconosciamo apertamente. Ma esso va invece considerato come uno stato di vita che il Figlio stesso di Dio fatto uomo ha abbracciato per sé e fatto abbracciare alle creature a Lui più vicine, ha esaltato come mezzo di elevazione e di apostolato, ha reso possibile con la grazia di redenzione meritataci dal Padre, anzi con aiuti del tutto speciali promessi a chi l’avesse seguito su questa via. Allora si capisce come la legge evangelica, caratterizzata da una doppia serie di indirizzi morali: i precetti, che sono di stretto obbligo per tutti, e i consigli, che sono di libera elezione per i chiamati a formare l’eletta dell’umanità, autorizzi, raccomandi ed esalti di fronte a tutta l’umanità questo stato di vita, e come la grazia divina, che è luce e forza ad un tempo, lo renda possibile e soave alla fragile natura umana. Allora, anche chi resta nella via ordinaria della grandissima maggioranza degli uomini, può e deve capire o almeno intravedere, di quali soddisfazioni e di quali gioie superiori alle comuni sia inondato, e quindi sorretto, l’animo di chi, eletto a questo stato di vita e vivendo ad esso fedele con l’uso dei mezzi naturali e soprannaturali richiesti per tale fedeltà, sente dilatarsi il cuore nel palpito della paternità universale delle anime, e deliziare la mente nella contemplazione di verità, che percepite nella luce di Dio e nella calma di una vita più serena, perché sgombra di tante preoccupazioni, dànno all’anima un gaudio che supera ogni umana dolcezza. Per non dire di tutta quell’onda di gioia ineffabile da cui è bene spesso pervasa la vita spirituale dell’anima nei suoi intimi rapporti con Dio, che allieta la sua perenne giovinezza e la compensa così del sacrificio fatto nella rinuncia a tante soddisfazioni della vita, e dello sforzo richiesto per mantenervisi fedele. Anche qui sta chiara la parola del Redentore: «Voi che avete lasciato tutto e avete seguito me, avrete il centuplo (quaggiù) e possederete la vita eterna». Tutto questo è una realtà che la Chiesa cattolica, ed essa sola, vive ed ha vissuto nei diciannove secoli della sua storia. Il celibato è la sua gloria purissima, che essa ha raccolto con mani tremanti dal cuore del suo Fondatore ed ha trasmesso con gioia e con fiducia ai suoi figli migliori; onore davvero divino, come intravidero gli stessi pagani negli omaggi resi alle vestali che salivano al fianco del sacerdote il colle sacro dei sacrifici, ma onore che porta seco un onere proporzionato.
• Gli scandali. Si comprende allora come in tutte le età vi siano stati e vi siano dei deboli, che l’han lasciato cadere e dei traditori che ne hanno abusato; di qui gli scandali, che i nemici del celibato affacciano come un’ultima difficoltà. Fra tanti ardimentosi che danno la scalata alle cime impervie delle nostre Alpi, parecchi cadono e si feriscono o vi lasciano la vita; fra un battaglione di fanti che si sono lanciati alla conquista di un’agguerrita trincea, più d’uno potrà, nei momenti più difficili, voltare le spalle: ma l’umanità ammirerà sempre i forti che sentono il fascino delle vette, la Patria esalterà sempre gli eroi che le assicurano la vittoria e la pace onorata. Così la Chiesa, nel suo secolare e arduo cammino «lascia che i morti seppelliscano i loro morti», secondo l’espressione del Redentore. Ossia, pur deplorando e piangendo le defezioni e gli scandali, che non hanno risparmiato neppure il soglio supremo, non abbassa la propria bandiera; ma ai vivi e agli stessi caduti che sanno risorgere, addita le mète più alte, li sostiene con le sue valide braccia, loro fornisce le armi più sicure, e ai più eroici vincitori, i Santi, tributa l’onore supremo del trionfo, additandoli ai secoli come modelli da imitare, come eroi da glorificare.
• Conclusione. Ed ora torniamo a leggere l’accusa, che ha dato occasione a questa breve trattazione. L’ascetismo cristiano sarebbe da rigettarsi come nocivo, perché : rinnega la vita, immalinconisce l’uomo, ne sciupa la salute, lo rende vizioso e inutile, violenta la natura. Invece sarebbe da curare la educazione dei giovani in modo da formare degli atleti dai muscoli di ferro, dei sensuali, devoti di Bacco e di Venere. A questa concezione perfettamente pagana della vita, si ispirano purtroppo molte manifestazioni della vita sociale moderna, in aperto contrasto con quello che pure si vorrebbe assicurare alla nazione: delle generazioni sane e robuste, capaci di lavorare efficacemente per la grandezza della patria. Ora il culto di Afrodite è proprio quello che consuma e sperpera le energie fisiche, infiacchisce la volontà, rendendo l’uomo egoista e crudele. Invano quindi si tenderebbe a formare degli uomini dai muscoli d’acciaio, se poi essi sperperassero questa energia fisica nelle brutture del senso, e avvilissero lo spirito nel culto alle «Veneri dalla linea perfetta» [nel migliore dei casi, nel peggiore al culto della pederastia]. È per questo che agiscono in aperto contrasto con i princìpi etici cristiani e con danno gravissimo della sanità morale e fisica delle nuove generazioni, tutte le produzioni letterarie, sceniche e cinematografiche, che, esaltando praticamente il culto di Afrodite, eccitano le più basse passioni umane prospettando scene di tresche, di adulteri di delitti — tutti i trattenimenti dove la musica, le danze, le esibizioni di nudità procaci esasperano i sensi e inducono l’uomo a leggerezza di costumi. Invece l’ascetismo cristiano, praticato da ciascuno secondo le proprie condizioni di vita e liberamente esercitato per ottenere il dominio di sé e il retto uso dei beni materiali, potenzia mirabilmente la stirpe ed è fonte di ineffabile soddisfazione per l’individuo, di benessere per le famiglie, di prosperità per le nazioni. Esso è frutto di fede ben radicata nell’anima, che diffonde un senso sacro della vita, e induce al rispetto del corpo, visto nel nobilissimo riflesso di strumento dell’anima, capolavoro della natura organica vivente, tempio di Dio, che nell’uomo giusto e onesto inabita con la grazia. Da esso nasce quel senso di pudore, di verecondia cioè e di modestia, che non è affatto un’ipocrisia, una supestruttura artificiosa e convenzionale, ma una salda difesa contro le seduzioni del male, il più bell’ornamento della persona, così com’è una spontanea e necessaria manifestazione dell’uomo moralmente sano. Il quale manifesta così di avvertire il dissidio fra le tendenze del corpo e quelle dello spirito, che nelle attuali condizioni dell’umanità — per essere stata spezzata colla colpa d’origine l’intima armonia fra le parti e le facoltà che costituiscono l’uomo — porta alla necessaria battaglia per la conquista del primato dello spirito sulla materia. La vita moderna è purtroppo inquinata da una fitta rete di rigagnoli malsani, che portano germi mortiferi, sia pure sotto una parvenza lussureggiante e profumata. Giornali, riviste, libri, films, rappresentazioni, danze... sono bene spesso tutta un’esaltazione del culto pagano a Venere e Bacco. E non è facile lottare contro le forze combinate dell’interesse e della sensualità, che spingono da una parte ad offrire e dall’altra a cercare tutto quanto sollecita le passioni ignobili e dà un brivido al corpo. Tutto questo è davvero una piaga della vita moderna. L’ascetismo invece rappresenta l’antidoto a tutti questi veleni, il sale che preserva dalla corruzione e infonde un gusto sano alla vita, il mezzo più potente per conservare ed accrescere nei giovani quelle riserve ed energie fisiche e morali che sono la più salda garanzia per il nostro domani, perché destinate a formare cittadini e cristiani saldi, capaci, generosi. Acquistano oggi un senso di dolorosa attualità le parole ammonitrici rivolte da San Paolo ai pagani della Roma di Nerone: «Se vivrete secondo la carne, morrete ...».
Per P. Clemente Cavassa SJ e per gli onesti autori menzionati: + Réquiem aetérnam dona eis, Dómine, et lux perpétua lúceat eis. Requiéscant in pace. Amen. +
A cura di CdP