Stimati Associati e gentili Sostenitori, studiamo il nono e decimo comandamento insieme: «Non desiderare la casa del prossimo tuo, né la moglie, il servo, la serva, il bue, l’asino e tutto quello che è suo», usando il semplice Catechismo del Santo Concilio di Trento.
• In questi due comandamenti è riposto il modo per osservare gli altri. Si noti, prima di tutto, che in questi due comandamenti, che sono stati dati per ultimi, è quasi riposto il segreto per cui si possono osservare tutti gli altri. Poiché quello che è imposto con queste parole mira a questo: che se uno vuole osservare i suddetti comandi della Legge, deve sopratutto badare a non desiderare disordinatamente. Infatti chi è contento di quel che possiede, non desidera né brama le cose altrui. Egli godrà dei vantaggi degli altri, darà gloria a Dio immortale, lo ringrazierà più che può, onorerà il sabato, cioè godrà di perpetua pace, onorerà i suoi maggiori, infine non offenderà alcuno né con atti né con parole, né in altro modo. Infatti, origine e seme di tutti i mali è la malvagia concupiscenza (1 Tm. 6, 10; Giac. 1, 14 e 4, 1), giacché, chi ne è acceso, cade a precipizio in ogni sorta di turpitudini e di colpe. Premesse queste avvertenze, il Parroco sarà molto diligente nell’esporre quel che segue, ed i fedeli più attentamente lo ascolteranno.
• Quantunque qui noi abbiamo unito due comandamenti, perché, essendone simile l’argomento, tengono la medesima via nell’ammaestrarci, il Parroco tuttavia, nell’esortare e nell’ammonire, potrà trattarli insieme o separatamente, come gli sembrerà più conveniente. Se poi si assumerà il compito di spiegare il Decalogo, mostri quale sia la dissomiglianza tra i due comandamenti e in che cosa una concupiscenza differisca dall’altra; la quale differenza è esposta da sant’Agostino nel libro delle questioni sull’Esodo. L’una di esse mira soltanto a ciò che è utile e a ciò che è vantaggioso; l’altra ha per oggetto le libidini ed i piaceri sessuali. Se dunque uno desidera il podere o la casa d’altri, brama più il lucro o l’utile che il piacere; se invece desidera la moglie altrui, arde non del desiderio dell’utile, ma del piacere.
• Duplice fu la necessità di questi comandamenti: la prima deriva dall’esigenza di spiegare il senso del sesto e settimo comandamento. Perché, quantunque con un certo naturale acume si potesse comprendere che, vietato l’adulterio, era pur proibita la brama di possedere la moglie altrui - giacché se fosse lecito il desiderare, dovrebbe esserlo ugualmente il possedere - tuttavia molti Ebrei, accecati dal peccato, non potevano essere indotti a credere che ciò fosse proibito; anzi, dopo che fu divulgata e conosciuta questa legge divina, molti che si professavano interpreti della Legge, caddero in questo errore, come si può capire dal discorso del Signore, nel Vangelo di san Matteo: «Udiste come fu detto agli antichi: Non fare adulterio. Ma io vi dico...» (Mt 5,27), con quel che segue. Seconda necessità di questi comandamenti è di vietare distintamente ed esplicitamente certe colpe, non vietate esplicitamente nei comandamenti sesto e settimo. Il settimo comandamento, per esempio, proibisce che uno desideri ingiustamente le cose altrui o tenti di prenderle; questo invece vieta che uno possa in qualche modo desiderare le cose altrui, quand’anche potesse ottenerle a buon diritto e secondo la legge, quando dal loro possesso derivasse un danno al prossimo.
• In questi precetti è manifesta la bontà di Dio verso di noi. Siano avvertiti i fedeli, prima di venire alla spiegazione del comandamento, che noi con questa legge non siamo soltanto ammaestrati a frenare le nostre cupidigie, ma anche a conoscere la pietà di Dio verso di noi, che è immensa. Egli infatti, avendoci fornito con i precedenti comandamenti della Legge una specie di difesa, perché nessuno potesse danneggiare noi e le cose nostre, con questo comandamento supplementare volle, sopratutto, provvedere che non ci danneggiassimo con i nostri sfrenati desideri. Il che facilmente ci sarebbe accaduto se fosse stata libera ed intera per noi la possibilità di bramare e desiderare ogni cosa. Col prescriverci, invece, questa legge su ciò che non dobbiamo desiderare, Dio provvide a che gli stimoli delle passioni, dalle quali possiamo più spesso esser incitati verso le cose a noi dannose, repressi in qualche modo dal vigore di questa legge, meno ci assillino. E così, liberati dalla molesta cura delle passioni, possiamo avere più tempo per compiere quei doveri di pietà e di religione, che, in gran numero ed importantissimi, dobbiamo a Dio stesso.
• Né questa norma c’insegna solo questo; ma ci ammonisce pure che la Legge di Dio è di tal fatta che bisogna osservarla non solo col compiere le obbligazioni esterne imposteci dal dovere, ma anche con l’intima adesione dell’animo. E questa è la differenza tra le leggi divine e le umane: queste si contentano dell’osservanza esterna; quelle invece, poiché Dio penetra nell’animo nostro, richiedono vera e sincera castità ed integrità dell’animo stesso. La Legge divina è come uno specchio, in cui vediamo i vizi della nostra natura; perciò l’Apostolo disse: «Non avrei conosciuto la concupiscenza, se la Legge non dicesse: Non desiderare» (Rm. 7, 7). Infatti, poiché la concupiscenza, cioè il fomite del peccato che ebbe origine dal peccato originale, perdura sempre in noi, veniamo a conoscere che siamo nati nel peccato; e perciò, supplichevoli, ci rifugiamo presso Colui che, solo, può togliere le sozzure del peccato.
• Le due parti del comandamento: proibizioni e prescrizioni. Ognuno di questi due comandamenti ha questo in comune con gli altri: da una parte, vieta qualche cosa, dall’altra parte, impone dei doveri da compiere.
• Per quanto riguarda la proibizione, perché nessuno creda che sia peccato la concupiscenza non viziosa, - come è quella dello spirito contro la carne (Gal. 5, 17), o quella che consiste nel chiedere ad ogni momento le divine giustificazioni (Ps. 118, 20), ciò che David desiderava di ricordare, - il Parroco insegni quale sia la concupiscenza che viene colpita dalla prescrizione di questa legge.
• Si ricordi che la concupiscenza è un turbamento ed uno stimolo dell’animo, per opera del quale gli uomini desiderano le cose gradite che non possiedono; ed a quel modo che gli altri appetiti dell’animo non sempre sono cattivi, così questo stimolo della concupiscenza non sempre deve essere riposto tra i vizi. Infatti non è cosa cattiva il desiderare cibo o bevanda, bramare di riscaldarci quando abbiamo freddo, o di rinfrescarci quando abbiamo caldo; anzi questo retto stimolo della concupiscenza è insito nella nostra natura per opera di Dio. Ma per il peccato dei nostri progenitori, accadde che esso, passando i confini segnalati dalla natura, si depravò a tal segno, che spesso è incitato a desiderare le cose, che ripugnano allo spirito e alla ragione.
• Questo stimolo, se moderato e racchiuso nei suoi limiti, spesso procura grandi vantaggi; perché, prima di tutto, fa in modo che noi preghiamo Dio con assiduità e chiediamo supplichevoli a Lui quello che sopratutto desideriamo. L’orazione infatti è la manifestazione del desiderio; e, se mancasse questo retto stimolo della concupiscenza, non ci sarebbero tante preghiere nella Chiesa di Dio. Inoltre ci rende più cari i doni di Dio, perché quanto più fortemente ardiamo del desiderio di una cosa, tanto più cara e gradita ci diviene, quando l’abbiamo ottenuta (onestamente - come Dio vuole, ndR). Lo stesso piacere, poi, che proviamo per la cosa desiderata, ci fa ringraziare Dio con maggiore devozione. Perciò, se qualche volta è lecito desiderare, dobbiamo riconoscere che non è proibito ogni stimolo di concupiscenza; e, quantunque san Paolo abbia detto che la concupiscenza è peccato (Rm. 7, 20), bisogna intendere ciò nel senso in cui parlo Mosè (Ex. 20, 17), del quale riporta la testimonianza; e lo dichiara la parola dello stesso Apostolo, poiché nella Lettera ai Galati chiama questo difetto: concupiscenza della carne. « Camminate, egli dice, nello spirito, e non soddisfate i desideri della carne» (5, 16).
• Dunque lo stimolo del desiderio naturale e moderato, che non esce dai suoi limiti, non è proibito; e molto meno quella spirituale tendenza di una retta mente, da cui siamo stimolati a desiderare ciò che ripugna alla carne. Ad essa infatti ci esortano le sacre Scritture, dicendo: «Desiderate i miei discorsi» (Sap. 6, 12); «Venite a me tutti voi che mi desiderate» (Eccli. 24, 26).
• Pertanto, con questa proibizione, non è vietato del tutto quel desiderio che può condurre tanto al bene che al male; ma la consuetudine della prava cupidigia, chiamata concupiscenza della carne e fomite di peccato, la quale porta con sé il consenso dell’animo, deve essere sempre annoverata tra i vizi. Dunque è vietata soltanto quella libidine di concupiscenza, che l’Apostolo chiama concupiscenza della carne (Gal. 5 ,16. 24), cioè quei moti di concupiscenza che non hanno alcun freno di ragione e non sono racchiusi nei limiti fissati da Dio.
• Questa cupidigia è condannata, sia che desideri il male, come adulteri, ebrietà, omicidi e altre simili colpe nefande, di cui l’Apostolo dice: «Non desideriamo ciò ch’è malvagio, come essi lo desiderarono» (1 Cor. 10, 6); - sia che quanto desideriamo non sia lecito per noi, quantunque le cose desiderate per natura non siano cattive. A questo genere di cose appartiene ciò che Dio, o la Chiesa vietano di possedere; non è infatti lecito desiderare ciò che è in generale proibito di possedere, come lo erano nell’antica Legge, l’oro e l’argento che erano serviti per farne idoli; le quali cose il Signore nel Deuteronomio vietò di desiderare (7, 25).
• Inoltre questa viziosa bramosia è proibita perché le cose che si desiderano sono di altri, come la casa, il servo, l’ancella, il campo, la moglie, il bove, l’asino, e molte altre, che la Legge divina vieta di desiderare appunto perché di altri. Il desiderio di tali cose è cattivo e viene annoverato tra i più gravi peccati, quando l’animo dà il suo consenso. Infatti si ha naturalmente il peccato, quando, dopo l’impulso di malvagie passioni, l’animo si diletta di cose biasimevoli e consente o non ripugna ad esse. Così insegna san Giacomo, allorché mostra l’origine e il progredire del peccato, con queste parole: «Ognuno è tentato, attratto e allettato dalla propria concupiscenza. Quando poi la concupiscenza ha concepito, produce il peccato; e il peccato quando è stato consumato, genera la morte» (1, 14).
• Spiegazione del comandamento. Giacché siamo così messi in guardia dalla Legge che dice: «Non desiderare», queste parole si devono intendere nel senso che dobbiamo tenere lontano il desiderio dalle cose altrui; che la sete di cupidigia per le cose degli altri è immensa e infinita, né mai si sazia. Sta scritto infatti: «L’avaro non si sazierà di denaro» (Eccle. 5, 9); ed anche Isaia dice: «Guai a voi che aggiungete casa a casa e unite campo con campo» (5,8). Ma dalla spiegazione delle singole parole più facilmente capiremo la turpitudine e la gravita di questo peccato.
• Il Parroco insegni che col termine «casa», non s’intende soltanto il luogo che abitiamo, ma tutti i beni ereditari, come si può ricavare dall’usanza e consuetudine degli scrittori sacri. Nell’Esodo sta scritto che alle levatrici furono edificate case da Dio (1 ,21); e la frase qui significa che le loro sostanze furono aumentate ed accresciute da Dio. Da questa interpretazione conosciamo che questa parte del precetto vieta di desiderare avidamente le ricchezze, di invidiare le facoltà, la potenza, la nobiltà altrui, mentre ci è imposto di contentarci del nostro stato, qualunque esso sia, umile o eccelso. Dobbiamo poi intendere che è vietato anche il desiderio della gloria altrui, giacché anche questa ha relazione con la casa.
• Quel che segue poi: «Né il bove né l’asino», mostra che non dobbiamo desiderare non solo le cose importanti, come la casa, la nobiltà e la gloria, quando siano d’altri, ma nemmeno le piccole, comunque siano, animate o inanimate.
• Segue ancora: «Né il servo, né la serva»; e ciò si deve intendere tanto degli schiavi presi in guerra, quanto di tutti i servi, che non dobbiamo desiderare, come ogni altro bene altrui. Quanto agli uomini liberi, che servono di loro volontà, per denaro, per amore e affetto, in nessun modo, né con parole, né con dar loro speranze, promesse, ricompense, si devono corrompere o indurre ad abbandonare coloro ai quali spontaneamente si sono vincolati; anzi, se prima del tempo pattuito per il loro servigio, se ne allontanassero, siano ammoniti, con l’autorità di questo comandamento, a farvi prontamente ritorno.
• Quanto alla menzione che nel comandamento si fa del prossimo, essa mira a dimostrare la colpa di coloro che insistono a desiderare i campi vicini, le case contigue, o altra cosa siffatta, che sia a portata di mano. La vicinanza, infatti, che suole considerarsi come un vincolo d’amicizia, talvolta cambia l’amore in odio, per colpa della cupidigia di possedere. Ma non offendono affatto questo comandamento quelli che desiderano comprare, o comprano a giusto prezzo dai vicini, quanto questi possono vendere. Essi infatti non solo non danneggiano il prossimo, ma lo aiutano grandemente, poiché il denaro gli sarà di maggior comodo e vantaggio di quelle cose che vende.
• Al precetto che vieta di desiderare la roba d’altri, segue l’altro che vieta di desiderare la moglie degli altri; da quest’ultimo veniva proibito non soltanto quella libidine di concupiscenza con cui l’adultero desidera la moglie altrui, ma anche quella per la quale uno desidera sposare la moglie d’altri. Infatti, quand’era permesso il ricorso al libello del ripudio, poteva facilmente avvenire che la donna ripudiata da uno fosse accolta in moglie da un altro. Ma il Signore lo vietò, affinché né i mariti fossero stimolati a lasciare le mogli, né le mogli si mostrassero scontrose e capricciose coi mariti, e così s’imponesse loro quasi una certa necessità di ripudiarle.
• Adesso dunque il peccato è più grave, perché un altro uomo non può sposare una donna ripudiata dal marito, se non dopo la morte di questo; e così chi desidera la moglie altrui, facilmente cadrà da un desiderio all’altro: bramerà infatti o che muoia il marito di lei, o di commettere un adulterio. Lo stesso si dica delle donne, promesse in matrimonio ad un altro; anche queste non è lecito desiderarle, giacché chi cerca di rompere il fidanzamento, viola un santissimo vincolo religioso. A quel modo poi che è somma nefandezza desiderare la donna d’altri, così non si deve in nessun modo desiderare come moglie la donna, consacrata al culto ed alla religione di Dio.
• Se poi uno desiderasse di prendere in moglie una donna maritata, non credendola però tale, disposto però a non desiderarla, se la sapesse maritata a un altro - come accadde al Faraone e ad Abimelech, che desiderarono sposare Sara, credendola nubile e sorella, non già moglie di Abramo (Gn. 12, 11; Gn. 20, 2 segg. ) -, colui che così pensa, non viola questo precetto.
• Rimedi contro la concupiscenza. Perché il Parroco possa indicare i rimedi adatti a togliere questa passione della cupidigia, deve spiegare l’altra parte del comandamento, che consiste in questo: se le ricchezze abbondano, non dobbiamo attaccarvi il cuore, ma essere invece sempre pronti a profonderle per pietà e per amore delle cose divine, volentieri erogandole nel sollevare le miserie dei poveri. Che se poi ci mancano i mezzi, dobbiamo sopportare la povertà con animo sereno e ilare. E così, se saremo liberali nel dare le cose nostre, estingueremo in noi il desiderio delle altrui. Quanto alle lodi della povertà e al disprezzo delle ricchezze, facilmente il Parroco potrà trovare molti argomenti nelle sacre Scritture e nei santi Padri, per esporli al popolo fedele.
• Con questa legge ci viene pure comandato di desiderare con ardente passione e con tutta la forza dell’animo che si compia sopratutto non ciò che desideriamo, ma quel che Dio vuole, secondo le parole nell’Orazione domenicale. E la volontà di Dio è sopratutto questa: che noi in maniera speciale diventiamo santi, conserviamo l’animo sincero, integro e puro da ogni macchia, e ci esercitiamo in quei doveri della mente e dello spirito, che ripugnano ai sensi materiali; cosicché, domati i loro appetiti, teniamo nella vita la retta strada, sotto la guida della ragione e dello spirito, e infine freniamo sopratutto l’impeto violento di quei sensi che offrono materia alla nostra cupidigia e alla libidine.
• Ma ad estinguere questo ardore di desideri giova moltissimo il proporci dinanzi agli occhi i danni che ne derivano. Primo danno è questo: se noi siamo schiavi di tali passioni, nell’anima nostra regna fortissimo il potere del peccato; perciò l’Apostolo ammonisce: «Non regni il peccato nel vostro corpo mortale, in modo che dobbiate ubbidire alle sue concupiscenze» (Rm. 6, 12). Poiché, come resistendo noi alle passioni, cadono a terra le forze del peccato, così, soccombendo ad esse, cacciamo il Signore dal suo regno, ed in suo luogo poniamo il peccato.
• C’è poi il secondo danno: da questo impeto di concupiscenze, come da una fonte, emanano tutti i peccati, come insegna san Giacomo (1, 14). E san Giovanni scrive: «Tutto quello che è nel mondo, è concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e superbia della vita» (1 Gv. 2, 16).
• Il terzo danno consiste in questo: dalle passioni viene oscurato il retto giudizio dell’animo, perché gli uomini accecati dalle tenebre delle passioni, giudicano onesto e bellissimo quanto essi bramano. Infine l’impeto della concupiscenza soffoca la parola di Dio, posta nelle anime da quel grande agricoltore che è Dio. Così infatti sta scritto in san Marco: «Gli altri (chicchi di grano) seminati tra le spine, sono coloro che ascoltano la parola; ma le cure del mondo, l’inganno delle ricchezze e le voglie delle altre cose s’insinuano a soffocare la parola: la quale resta così infruttuosa» (4, 18. 19).
• Chi soprattutto debba esser tenuto lontano dal vizio della concupiscenza. Più di tutti gli altri, sono colpiti da questi vizi della concupiscenza e sono quindi più bisognosi di essere esortati dal Parroco a osservare più diligentemente questo comandamento, quanti si dilettano di giuochi disonesti, o abusano immoderatamente dei giuochi; così pure quei mercanti che desiderano penuria d’ogni cosa e carestia, o sopportano a malincuore che ci siano altri i quali riescono a vendere a più caro prezzo, o a comperare più a buon mercato di loro.
• Peccano allo stesso modo quanti desiderano che gli altri siano nel bisogno, per potere nel commercio guadagnare di più. Così pure peccano quei soldati che bramano la guerra per cupidigia di saccheggio; i medici che desiderano le malattie; i giureconsulti che si augurano abbondanza di cause e di liti; gli artigiani, infine, che, avidi di guadagno, invocano penuria di quanto è necessario alla vita, per trame il maggior lucro possibile. Inoltre, in questo peccano gravemente quanti sono avidi e bramosi di acquistare lode e gloria, sia pure a prezzo di calunnia e danno alla fama altrui; sopra tutto se coloro che desiderano lode e gloria, sono uomini inetti e di nessun valore. Poiché la lode e la fama sono premi del valore e del lavoro, non già dell’ignavia e della nullità.