Stimati Associati e gentili Sostenitori, per grazia di Dio oggi studieremo «Il Vangelo secondo San Luca». L’opera utilizzata è dell’Abate Giuseppe Ricciotti: «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, 7a Edizione, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941. Stiamo ancora focalizzando le nostre attenzioni sulle fonti storiche che riguardano Nostro Signore
• § 135. Il terzo Vangelo è attribuito a Luca: nome che forse è una abbreviazione di Lucano. Nel cristianesimo della prima generazione, Luca appare come un satellite dell’astro di Paolo, che lo chiama il caro medico (Coloss., 4, 14). Originario d’Antiochia, non giudeo ma ellenista di stirpe e d’educazione, Luca era entrato nel cristianesimo parecchio prima dell’anno 50, sebbene certamente non fosse stato discepolo di Gesù e non l’avesse mai veduto. Poco dopo il 50 egli è a fianco a Paolo nel suo secondo viaggio missionario (Atti, 16, 10 segg.), probabilmente anche per prestare la sua opera di medico a causa della recente malattia dell’Apostolo (cfr. Galati, 4, 13, con Atti, 16, 6); da quel tempo Luca riappare in quasi tutte le peregrinazioni di Paolo come l’ombra di lui, salvo un distacco, probabilmente lungo, dopo la comune permanenza a Filippi (cfr. Atti, 16, 40, con 20, 5). Ricongiuntosi con Paolo di nuovo a Filippi durante il terzo viaggio dell’Apostolo, verso il 57, lo accompagnò nel resto del viaggio fino a Gerusalemme (Atti, 21, 15). Durante il biennio passato da Paolo in prigione a Cesarea (anni 58-60), sembra che Luca non potesse restargli vicino; ma lo accompagnò amorevolmente nel suo viaggio a Roma, partecipando sulla stessa nave alle fortunose peripezie del passaggio (Atti, 27, 1 segg.). Nella prima prigionia dell’Apostolo a Roma, Luca gli stava dappresso; più tardi, fedele fino alla morte, lo assisté anche nella seconda prigionia romana meritandosi da Paolo, in quella lettera ch’è quasi il testamento del declinante Apostolo, la commovente attestazione: Il solo Luca è con me (II Tim., 4, 11). Scrivendo ai Corinti, sul finire dell’anno 57, Paolo allude, senza nominarlo, ad un fratello la cui lode è nel vangelo per tutte le chiese (II Cor., 8, 18). Insieme con altri antichi, S. Girolamo stimò che questo innominato fratello sia appunto Luca, e soggiunge anche l’opinione di altri secondo i quali ogni volta che Paolo nelle sue lettere dice «secondo il mio Vangelo», alluda al volume di Luca. Se quest’ultima opinione è del tutto infondata, la prima non è molto attendibile qualora si riferisca al Vangelo scritto da Luca, essendo sommamente improbabile che questo Vangelo fosse già redatto quando Paolo scriveva la lettera in questione: tanto più che giammai altrove, nelle Lettere di Paolo, il termine «vangelo» designa un determinato scritto, ma solo l’annunzio della «buona novella» (§ 105 segg.). Al contrario, l’identificazione dell’ignoto fratello con Luca può avere un serio grado di probabilità, qualora nel «vangelo» attribuitogli si scorga, non già un determinato scritto, ma l’operosità di chi era «evangelista» nel senso primitivo che già vedemmo (§ 109), ossia propagatore orale della «buona novella». In tal caso Luca, anche prima di ricorrere alla scrittura, avrebbe diffuso largamente nelle chiese dell’apostolato di Paolo una determinata catechesi orale; della quale, nel frattempo, lo stesso Luca riesaminava il contenuto diligentemente (cfr. Luca, 1, 3), per arricchirlo di altri elementi e disporlo in un conveniente «riordinamento» (cfr. in Luca, 1, 1), finché poi giudicò opportuno fissarlo in iscritto. Questa interpretazione appare tanto più verosimile, quanto più probabile risulta da recenti studi che Paolo stesso seguisse nel suo apostolato una determinata forma di catechesi, non soltanto orale, ma anche parzialmente scritta. Perciò il fedele Luca sarebbe giustamente il più insigne rappresentante, dopo Paolo, di questa catechesi, ossia sarebbe il fratello la cui lode è nella «buona novella» diffusa da Paolo in tutte le chiese da lui fondate.
• § 136. Comunque si giudichi questa ipotesi, a Luca è attribuito sia il terzo Vangelo, che mostra spiccata affinità con gli scritti di Paolo, sia il libro degli Atti di (meglio che degli) Apostoli, che tratta in gran parte delle vicende di Paolo e contiene ampi tratti in cui il narratore parla in prima persona plurale, svelandosi perciò anch’egli presente alle vicende narrate. Tale attribuzione a Luca, confermata dall’identità di autore che risulta dai prologhi dei due scritti (cfr. Luca, 1, 1-4, con Atti, 1, 1-2), non solo è concorde presso gli antichi scrittori, ma trova consenzienti - cosa piuttosto rara - anche la massima parte dei più autorevoli studiosi moderni. Le testimonianze, tuttavia, sono posteriori a quelle riguardo a Matteo e a Marco, giacché non risalgono più in su della seconda metà inoltrata del secolo II. Il cosiddetto Frammento Muratoriano, cioè un catalogo dei libri sacri ammessi dalla chiesa di Roma che fu composto verso l’anno 180 e scoperto da L. A. Muratori nella Biblioteca Ambrosiana di Milano, così si esprime nel suo orrido latino (qua e là corretto): Tertium evangelii librum secundum Lucam. Lucas iste medicus, post ascensum Christi cum eum Paulus quasi ut iuris studiosum secum adsumpsisset nomine suo ex opinione conscripsit; Dominum tamen nec ipse vidit in carne, et ideo prout asse qui potuit, ita et a nativitate Johannis incepit dicere. - Verso lo stesso tempo, Ireneo afferma: Anche Luca, seguace di Paolo, compose in un libro il vangelo predicato da quello (Adv. hær., II, 1, 1; cfr. III, 14). Alla fine del secolo II risalgono anche i vari Prologhi, greci o latini, premessi al terzo Vangelo, che vanno sempre più accrescendosi di notizie con lo scendere lungo i secoli, pur concordando nella sostanza; di questa può essere un saggio il prologo detto Monarchiano, che dice: Luca Siro, di nazione Antiocheno, medico di professione, discepolo degli Apostoli, più tardi fu seguace di Paolo fino alla confessione (martirio) di lui servendo Dio senza delitto. Poiché, non avendo avuto moglie mai né figli, di anni 74 (altri 84) morì in Bitinia (altri Beozia) pieno di Spirito santo. Costui, essendo già stati scritti i vangeli di Matteo in Giudea e di Marco in Italia, per impulso dello Spirito santo nelle parti di Acaia scrisse questo vangelo, mostrando anch’egli a principio che dapprima erano stati scritti gli altri; ecc. Le successive testimonianze non fanno che confermare questi punti principali (Tertulliano, Adv. Marcion., IV, 5; Clemente Aless., Stromata, I, 21, 145; Origene, in Matt., tom. I, in Migne, Patr. Gr., 13, 830; ecc.): merita tuttavia di essere citato Eusebio, a guisa di ricapitolatore della tradizione: Luca, ch’era per discendenza di Antiochia e per arte medico, restò congiunto il più a lungo con Paolo, ma anche con gli altri Apostoli trattò non incidentalmente. Della scienza di guarire le anime ch’e gli aveva appresa da costoro, ci lasciò la prova in due libri divinamente ispirati: (in primo luogo) il Vangelo, che egli attesta di aver composto secondo le cose che gli tramandarono coloro che dall’inizio furono testimoni oculari e inservienti della parola, ed alle quali tutte egli dice pure di essere riandato appresso dal principio (cfr. Luca, 1, 1-4); e (in secondo luogo) gli Atti degli Apostoli, che egli coordinò per informazione non già di udito ma di veduta (Hist. eccl., III, 4, 6). Ha il suo peso anche la notizia dataci da Ireneo e da Tertulliano, secondo cui l’eretico Marcione, verso l’anno 140, accettava dei Vangeli canonici solo quello di Luca, sebbene lo mutilasse adattandolo alle sue dottrine (cfr. 1° Adv. hær., II, 11; cfr. I, 27 - 2° Adv. Marcion., IV, 3 segg.).
• § 137. Le qualità di Luca, ellenista, medico, discepolo di Paolo, si riscontrano abbastanza chiare nel suo Vangelo (come anche negli Atti, che qui non ci riguardano). Il letterato ellenista appare fin dalle prime linee del suo primo scritto le quali, in contrasto con l’uso seguito in tutti gli altri libri del Nuovo Testamento ma conforme all’uso ellenistico, contengono un elaborato prologo: questo, inoltre, mostra sorprendenti rassomiglianze di espressioni e di ripartizioni col prologo che al suo libro Sulla materia medica premetteva quel Pedanio Dioscuride che era non solo collega per professione e contemporaneo per età con Luca, ma essendo nativo della regione di Tarso, era anche conterraneo di Paolo. Ecco il prologo di Pedanio Dioscuride: «Poiché molti, non solo degli antichi ma anche dei nuovi, fecero coordinamenti circa la preparazione e la potenza e la prova dei farmaci, ottimo Areo, tenterò mostrarvi che io ho avuto per questo argomento un’attitudine né vana né irragionevole» [cfr. il prologo di Luca (1, 1-4) in § 140]. Il greco di Luca, poi, non è certo quello classico dell’Attica, tuttavia mostra una raffinatezza non comune per uno scrittore ellenistico: il lessico è ricco e spesso letterario, la frase di solito tornita e dignitosa, cosicché i moderni filologi, proclamando il suo stile superiore a quello degli altri Vangeli, concordano in sostanza con San Girolamo per il quale Luca inter omnes evangelistas græci eruditissimus fuit, quippe ut medicus. Non mancano tuttavia i semitismi di costruzione e anche di lessico; i quali sono numerosi specialmente nei due primi capitoli che contengono la narrazione dell’infanzia di Gesù, mostrandosi così ivi una più stretta dipendenza del narratore da documenti semitici relativi a quell’argomento. Che lo scrittore del terzo Vangelo sia stato un medico, non si potrebbe certamente provare dal semplice esame del suo scritto: tuttavia parecchi sono i tratti che servono da ottima conferma alla primitiva tradizione che lo presenta qual medico. Pazienti ricerche moderne hanno segnalato numerosi termini tecnici impiegati da Luca che hanno riscontro negli scritti di Ippocrate, Dioscuride, Galeno e altri medici greci (cfr. W. K. Hobart, The medical language of St. Luke, Dublin, 1882, ecc.); è vero che siffatti termini possono riscontrarsi anche presso scrittori profani che affettino occasionalmente conoscenza di materie mediche (ad esempio, presso Luciano), ma il caso di Luca è diverso, giacché egli non aveva motivi particolari per introdurre quella terminologia tecnica nelle narrazioni comuni agli altri Sinottici, salvo la ragione d’essere egli stesso medico. Si può anche scoprire che una specie di «occhio clinico» guida il narratore in talune sue descrizioni, specialmente se si confrontino con quelle parallele di Marco: la semeiotica è curata in modo particolare nei racconti della suocera di Pietro malata (4, 38-39), dell’indemoniato dei Geraseni (8, 27 segg.), della donna con profluvio di sangue (8, 43 segg.), del giovanetto indemoniato (9, 38 segg.), della donna ricurva (13, 11 segg.). Il solo Luca narra il sudore di sangue sofferto da Gesù nel Gethsemani (22, 44). Nel caso poi della donna con profluvio di sangue è palese in Luca una benigna preoccupazione pro domo sua in favore della classe dei medici; infatti Marco (5, 25-26) rudemente annunzia che la donna era malata da dodici anni e molto aveva sofferto da parte di molti medici, e dopo aver consumato tutte le sue sostanze non aveva tratto alcun giovamento, ma piuttosto era andata peggio: Luca al contrario (8, 43, testo greco) omette siffatte notizie, che non potevano esser gradite dai suoi colleghi di professione, e si limita a dire che la donna era malata da dodici anni, né era stata potuta curare da alcuno.
• § 138. Infine il calamo di Luca, più che quello degli altri evangelisti, si diletta a delineare Gesù come supremo medico, sia dei corpi sia delle anime. Luca solo lo fa chiamare dai suoi compaesani medico (4, 23) in atto di sfida: ma poco appresso, quasi in risposta alla sfida, ricorda che una potenza emanava da lui e medicava tutti (6, 19; cfr. 5, 17). Spiritualmente, poi, il Gesù tratteggiato da Luca è il misericordioso curatore dell’umanità languente, il pio confortatore degli afflitti, il mansueto che perdona ai più traviati: onde con ogni appropriatezza storica Dante Alighieri definisce Luca, pur senza nominarlo, come lo scriba mansuetudinis Christi (De monarchia, I, 16). Non meno chiaramente appare nello scritto di Luca il discepolo di Paolo. Una specie di parentela spirituale riannoda il suo scritto con le Lettere di Paolo: molti vocaboli, circa un centinaio, si ritrovano soltanto presso Luca e presso Paolo in tutto il Nuovo Testamento; non rare sono anche frasi tipiche, particolari ai due autori. Ma, più che dalla veste letteraria, la parentela è dimostrata dal pensiero, che insiste sui grandi principii della catechesi di Paolo, quali l’universalità della salvezza operata da Gesù, la «bontà e filantropia» (Tito, 3, 4) di lui, il pregio dell’umiltà e della povertà, la potenza della preghiera, il gaudio di spirito proprio ai fedeli, e altri. Certamente questi principii non sono espressi letteralmente conforme a parole di Paolo, giacché Luca non era riguardo a costui quell’«interprete» che Marco era stato riguardo a Pietro; essi sono tuttavia i luminosi fari che dirigono la navigazione di Luca, secondo l’immagine usata già da Tertulliano che vide Luca «illuminato» da Paolo (Adv. Marcion., IV, 2).
• § 139. Quando scrisse Luca il suo Vangelo? Certamente dopo gli altri due Sinottici, come afferma la quasi costante tradizione antica che assegna Luca al terzo posto nella serie cronologica dei Vangeli: dunque dopo Marco, che non è posteriore all’anno 61. D’altra parte Luca ha scritto il Vangelo prima degli Atti degli Apostoli, i quali nel prologo stesso si richiamano esplicitamente al precedente Vangelo (Atti, 1, 1). Alla loro volta gli Atti, secondo ogni verosimiglianza e conforme al parere largamente predominante fra gli studiosi moderni, sembrano scritti avanti alla liberazione di Paolo dalla sua prima prigionia romana (cfr. Atti, 28, 30), e quindi anche avanti alla grande persecuzione di Nerone del 64, cioè, tutto considerato, fra gli anni 63 e 64. Anteriore agli Atti, sebbene di poco tempo, sarebbe dunque il Vangelo di Luca. È assai probabile che il Vangelo ricevesse forma definitiva e vedesse la luce in Roma, piuttosto che in Acaia, o in Egitto, o altrove, come vorrebbero altre oscillanti tradizioni antiche. Pare certo, infatti, che Luca abbia conosciuto ed impiegato il Vangelo di Marco, comparso a Roma poco prima che Luca vi giungesse insieme col prigioniero Paolo (cfr. Coloss., 4, 10.14; Filem., 24). D’altra parte Luca da lungo tempo stava preparandosi alla composizione del suo Vangelo e andava raccogliendo materiali per esso, come risulta dal prologo. La sua assistenza al venerato prigioniero, prolungatasi non meno d’un biennio, e la conoscenza del recente scritto di Marco cordialmente accolto dalla cristianità di Roma, dovettero essere due opportune occasioni per Luca onde colorire il suo antico disegno, spingendolo a scrivere in Roma stessa il suo Vangelo.
• § 140. Luca indirizza il suo Vangelo a una determinata persona, Teofilo, a cui in seguito indirizzerà anche gli Atti; era un attestato di deferenza dedicare uno scritto ad un uomo insigne, e l’uso sarà seguito un trentennio più tardi in Roma stessa anche da Flavio Giuseppe, che dedicherà ad Epafrodito le sue Antichità giudaiche (I, 8) e il suo Contra Apionem (I, 1; II, 1). Il Teofilo di Luca è chiamato (...) «eccellentissimo» (abbiamo omesso il greco, ndR) e designerebbe il grado insigne dell’uomo: ma altro non sappiamo di lui, nonostante le molte congetture antiche e moderne. Ad ogni modo, se lo scritto è dedicato a Teofilo, Luca scorge anche dietro a costui molti altri lettori ai quali egualmente s’indirizza. Il prologo a Teofilo, dando occasione a Luca d’esporre le circostanze, lo scopo e il metodo del suo scritto, è di sommo valore storico; si può ben chiamare il più importante documento che riguardi direttamente il periodo di composizione dei Vangeli sinottici. È quindi opportuno riportarlo per intero in traduzione che sia fedele, per quanto è possibile, anche etimologicamente (Luca, 1, 1-4): «Poiché molti misero mano a riordinare una narrazione circa i fatti compiutisi fra noi, secondo che tramandarono a noi coloro che dall’inizio furono testimoni oculari e inservienti della parola: parve bene anche a me, che sono riandato appresso dal principio (o anche da lungo tempo) a tutte le cose diligentemente, scrivere a te secondo consecuzione, eccellentissimo Teofilo, affinché tu riconosca la stabilità dei discorsi circa i quali fosti catechizzato». Non torniamo sopra alcune notizie che già estraemmo da questo passo: fra cui, che già prima di Luca molti avevano scritto sui fatti di Gesù; che siffatti scritti dipendevano dalla trasmissione orale dei testimoni oculari e degli inservienti della parola, ossia dalla primitiva catechesi della Chiesa (§ 106 segg.). Qui, come fatti nuovi, rileviamo che Teofilo già era stato edotto in quella catechesi, e forse in maniera compiuta (come sembra indicare l’aoristo fosti catechizzato): e perciò, probabilmente, già era battezzato. Inoltre Luca, per fornire a Teofilo una conferma ed una conoscenza più profonda dei discorsi in cui è stato catechizzato, gli offre il suo scritto, frutto di ricerche che sono state fatte diligentemente su tutte le cose trattate e che sono state condotte fin dal principio dei fatti (o almeno da lungo tempo). Infine la narrazione dei fatti sarà condotta secondo consecuzione. I molti che hanno preceduto Luca non possono essere due soltanto, cioè Matteo e Marco noti a noi: il termine molti può far pensare, all’ingrosso, anche a una decina di scritti, benché in questo numero possano benissimo esser compresi anche i due noti a noi. Ma, anche fra questa abbondanza, Luca ha creduto di poter esser utile con un nuovo scritto: egli non è stato testimone dei fatti, ma le diligenti e lunghe ricerche che ha condotte nell’unica miniera di notizie, cioè la trasmissione dei testimoni oculari e degli inservienti della parola, gli fanno sperare che il suo nuovo scritto gioverà ad altri per approfondire la stabilità dei discorsi catechetici. Il tipo di catechesi seguito da Luca è, come già sappiamo, quello di Paolo. Perciò egli aggiungerà qualche cosa al quadro ordinario della catechesi di Pietro, che cominciava col battesimo di Gesù da parte di Giovanni il Battista; e poiché è riandato appresso dal principio agli avvenimenti, premetterà la narrazione dell’infanzia di Gesù, come già aveva fatto in misura minore anche Matteo. Tutta l’esposizione, poi, sarà secondo consecuzione, comprendendo in questa parola - a quanto pare - sia la connessione cronologica dei singoli fatti tra loro e con altri fatti più eminenti nella storia profana, sia anche la connessione logica tra cause ed effetti e tra argomenti affini. Per quanto possiamo comprendere noi oggi, con la nostra mentalità e con le scarse informazioni che abbiamo, Luca si è attenuto effettivamente a questo suo programma.
• § 141. Egli solo, fra tutti gli evangelisti, ha cura di riconnettere la narrazione con le principali date della storia profana contemporanea (cfr. 2, 1-2; 3, 1-2), inquadrando il fatto cristiano nella visione dell’umanità intera. In ciò egli si dimostra d’ampia visione, che acutamente percepisce come il cristianesimo apra una nuova epoca nelle vicende dell’umanità: nella stessa guisa, già due secoli prima, Polibio aveva fatto rilevare proprio al principio delle sue «Storie» (I, 1 segg.) come il dominio di Roma iniziasse un nuovo periodo nella storia della civiltà. Ma, insieme, Luca si dimostra nuovamente discepolo di quel Paolo, che nell’espansione della «buona novella» fra tutte le genti aveva scorto il mistero occultato ai secoli ed alle generazioni, ma che adesso è stato svelato ai santi (Coloss., 1, 26). Quanto alla serie cronologica dei fatti in se stessi Luca segue di solito Marco, tanto da sembrare che il brevissimo scritto di Marco sia servito a Luca come trama generale: infatti, circa i tre quinti di Marco si ritrovano in Luca. Tuttavia, pur seguendo la trama di Marco, Luca vi opera talune trasposizioni ed omissioni, e soprattutto vi apporta ampie aggiunte: infatti, circa la metà di Luca è propria a questo Vangelo, né si ritrova negli altri due Sinottici. In queste aggiunte sono inclusi sette miracoli ed una ventina di parabole che non hanno riscontro negli altri Vangeli, e soprattutto il racconto della nascita ed infanzia di Gesù ch’è diverso da quello di Matteo. Evidentemente queste novità sono frutto delle diligenti ricerche a cui Luca allude nel prologo: ma donde ha egli ricavato tali notizie?
• § 142. Lo stesso prologo indica come fonte la tradizione, senza però specificare; non è difficile tuttavia scorgere, fra i testimoni oculari e gli inservienti della parola, in primo luogo il venerato maestro Paolo, e poi anche altre insigni persone che Luca, viaggiando con Paolo, può avere incontrato ad Antiochia, in Asia Minore, in Macedonia, a Gerusalemme, a Cesarea ed a Roma: fra questi autorevoli informatori non è arrischiato annoverare gli apostoli Pietro e forse anche Giacomo (cfr. Atti, 21, 18), nonché l’«evangelista» Filippo presso cui in Cesarea dimorò Luca (cfr. Atti, 21, 8); non sono esclusi anche altri, circa i quali tuttavia sarebbe inutile perdersi in semplici congetture. Notevole è la menzione particolareggiata di donne: avevano seguito Gesù talune donne ch’erano state curate da spiriti maligni e infermità, Maria quella chiamata Magdalena, dalla quale erano usciti sette demoni, e Giovanna moglie di Chuza sovrintendente di Erode, e Susanna e molte altre, le quali ministravano ad essi dalle loro proprie sostanze (Luca, 8, 2-3; cfr. 24, 10). Né Giovanna né Susanna sono nominate da altri evangelisti, benché fossero donne di alto grado sociale e facoltose; probabilmente Luca, menzionandole, vuole con discrezione indicare una fonte delle sue informazioni. Non meno discreta, ma assai più precisa, è l’allusione a un’altra donna d’incomparabile dignità e importanza, cioè alla stessa Madre di Gesù. Di parecchi fatti narrati da questo Vangelo circa il concepimento, la nascita e l’infanzia di Gesù, soltanto sua madre Maria poteva essere testimone ed informatrice; ed ecco che Luca durante quella narrazione, per due volte, e a breve distanza, e quasi con gli stessi termini, ammonisce che Maria conservava tutte queste parole, convolgendole nel suo cuore (2, 19), e poco appresso che la madre di lui serbava tutte le parole nel suo cuore (2, 51). Questa insistenza di pensiero e di espressione è eloquente nella sua ponderata discrezione. Se Luca abbia conosciuto o no Maria personalmente, non risulta: ma anche nel caso che non le abbia parlato, precise informazioni fornite da lei gli possono essere pervenute attraverso l’apostolo Giovanni, il figlio adottivo assegnato a Maria da Gesù morente e nella cui casa ella dimorò dopo la morte del figlio vero (Giovanni, 19, 26-27). Una tardiva tradizione, non attestata prima di Teodoro il Lettore (secolo VI), presenta Luca come pittore d’un ritratto di Maria, il quale dalle leggende posteriori fu largamente moltiplicato: ma il ritratto della madre di Gesù fu in realtà dipinto dal calamo, non dal pennello, di Luca nella sua descrizione dell’infanzia di Gesù, che si svolse sotto lo sguardo della madre sua e i cui vari episodi divennero più tardi temi classici dei pittori cristiani. È inoltre assai probabile che per il racconto dell’infanzia, il quale contiene fra altro carmi metrici, Luca si sia servito anche di documenti ebraici o aramaici; la sua stretta dipendenza da essi spiegherebbe adeguatamente la straordinaria frequenza di semitismi nel greco di questo racconto. Ma pure sull’indole e provenienza di questi documenti nulla si può affermare di sicuro, oltre a ciò che Luca stesso dice vagamente nel prologo; né le varie congetture moderne possono supplire a questa mancanza di dati antichi.
• § 143. Luca non scrive soltanto per Teofilo, ma anche per i cristiani che si trovano più o meno nelle condizioni di spirito del destinatario. Sono i cristiani delle chiese fondate da Paolo, composte in prevalenza da fedeli provenienti dal paganesimo; del resto già Origene aveva notato che il Vangelo di Luca era per quelli (provenienti) dai gentili (in Eusebio, Hist. eccl., VI, 25, 6). Aggiunge infatti spiegazioni che sarebbero state superflue per lettori giudei, ad esempio che la festa giudaica degli Azimi si chiamava Pasqua (Luca, 22, 1); e invece tralascia cose che sarebbero state fraintese da chi proveniva dal gentilesimo, come il precetto dato da Gesù agli Apostoli di non andare per la via dei gentili (Matteo, 10, 5: precetto non riportato neppure da Marco, per la stessa ragione di Luca). Altre volte attenua espressioni che suonavano troppo dure per i gentili, come quando invece di dire non fanno ciò anche i gentili? (Matteo, 5, 47) dice fanno ciò anche i peccatori (Luca, 6, 33); per la stessa preoccupazione di delicatezza aggiunge, invece, fatti particolari che risultavano a onore dei gentili, come la buona accoglienza fatta da Giovanni il Battista ai soldati (3, 14), la generosità del centurione verso i Giudei (7, 4-5), e perfino la carità e la gratitudine che si potevano ritrovare presso gli aborriti Samaritani (10, 33-35; 17, 15-18). Soprattutto poi, lo scritto di Luca vuol essere la «buona novella» della bontà e della misericordia. Il discepolo di Paolo, che si rivolge ai cristiani di Paolo, dipinge Gesù non solo come salvatore di tutti gli uomini indistintamente, ma come amico in modo particolare dei più traviati, dei più umili e diseredati sulla terra. Se questa presentazione di Gesù quale supremo medico spirituale indusse Dante a designare Luca quale scriba mansuetudinis Christi (§ 138), indusse pure il Renan a definire questo Vangelo il più bel libro che esista: nella quale definizione l’iperbole abituale nello scrittore francese ha molto minor parte che in altri giudizi di lui. La parabola del figliuol prodigo, miracolo letterario di potenza psicologica, è riferita dal solo Luca. Soltanto Luca fa che il pastore si metta proprio sulle spalle la ritrovata pecora perduta e giunto a casa ne faccia gran festa con gli amici (15, 5-6; mancante in Matteo, 18, 13); come pure soltanto Luca parla della donna che ritrova la dramma perduta, e che se ne rallegra con le amiche come si fa gaudio al cospetto degli angeli d’Iddio per un solo peccatore che si penta (Luca, 15, 8-10). Non altri che Luca riporta le parole di Gesù morente «Padre, perdona loro, perché non sanno che cosa fanno!», e subito appresso quelle altre con cui il morente promette il Paradiso al ladrone pentito che gli agonizza a fianco (23, 34.43).
• § 144. Anche da un altro aspetto appare l’indole vera dello scritto di Luca. Si ripensi qual era, nella sua realtà, la società in mezzo a cui vivevano i lettori di questo Vangelo. A Roma stessa insieme con Luca abitava Seneca, il quale tranquillamente affermava che la donna impudens animal est et... ferum, cupiditatum incontinens (De constantia sapientis, XIV, 1 - La lezione impudens è quella dei codici, e confermata dagli attributi che seguono; qualche editore, tuttavia, ha pietosamente supposto imprudens) - (la donna è «un animale impudico e selvatico, colmo di insaziabili brame», ndR); un altro contemporaneo abitante dell’Urbe era Petronio l’Arbitro autore di quel Satiricon che, se è il libro più cinicamente osceno trasmessoci dalla romanità classica, è anche fedele specchio del fasto orientalesco riserbato in quella società ad alcuni pochi, fra moltitudini sterminate di proletari e di schiavi. Eccezioni non saranno mancate: ma non potevano esser molte, e ad ogni modo erano più teoretiche che pratiche. Appunto il «Seneca morale», mentre ragionava egregiamente di virtù civili ed umane, definiva la donna nella maniera testé vista; e mentre dettava la sentenza di sapore cristiano parem autem deo pecunia non faciet: deus nihil habet... nudus est (Epist., 31, 10), confessava davanti a Nerone di possedere immensam pecuniam e di fare l’usuraio (Tacito, Annal., XIV, 53), dimostrando di non avere alcuna voglia di restare nudo come il suo Dio. Era insomma la società esattamente riassunta da quel Claudio Secondo, che aveva scritto sulla propria tomba: Balnea vina venus corrumpunt corpora nostra, sed vitam faciunt balnea vina venus (Corpus Inscr. Lat., VI, 3, n. 15258). Era la società in cui imperava, quasi assoluto, il binomio «lussuria e lusso». In antitesi perfetta all’indole di quella società è l’indole dello scritto di Luca, che è il Vangelo di esaltazione per la donna, di encomio per la povertà, di laude per la giocondità della vita semplice ed umile: uno scritto che si può riassumere nel binomio «purità e povertà», non senza aggiungervi quello spirito di perfetta letizia che si sarebbe tentati di definire francescano, se già dapprima non fosse stato tipicamente lucano. Le donne del Vangelo di Luca, mentre hanno una probabile parte come informatrici, ne hanno certamente una molto onorevole come attrici. Oltre a figure di primo piano, quali Maria madre di Gesù ed Elisabetta madre di Giovanni il Battista, il solo Luca presenta la profetessa Anna (2, 36-38), la vedova di Naim (7, 11 segg.), la peccatrice anonima (7, 37 segg.), la donna ricurva (13, 10 segg.), l’altra donna che proclama beata la madre di Gesù (11, 27-28), la massaia Marta (10, 38 segg.), le donne della via dolorosa (23, 27 segg.): i quali ritratti femminili saranno di molto accresciuti nei successivi Atti, costituendo nell’insieme una pinacoteca che mette la donna in una luce affatto diversa da quella della contemporanea società pagana.
• § 145. Insieme con la purità, il Vangelo di Luca esalta la povertà. Mentre il Discorso della montagna in Matteo ripete nove volte la felicitazione Beati...!, Luca la ripete solo quattro volte, ma in compenso aggiunge quattro volte la maledizione Guai...!, che è indirizzata tutte e quattro le volte ai ricchi e gaudenti (6, 20-26); così pure, mentre la prima felicitazione è rivolta in Matteo ai poveri in ispirito, da Luca è rivolta ai poveri semplicemente. In armonia con ciò il solo Luca ricorda espressamente la bassezza (umiltà, ndR) della madre di Gesù (1, 48) e la povertà della sua offerta al Tempio (2, 24), la squallida nascita di Gesù a Bethlehem e la miseria dei garzoni di greggi che furono i suoi primi adoratori; dal solo Luca è riferito che Gesù, parlando nella sinagoga di Nazareth, applicò a se stesso le parole di Isaia: «Lo spirito del Signore è su me: perciò mi unse per evangelizzare ai poveri» (4, 18); e se Luca riporta insieme con Matteo le parole di Gesù: «Le volpi hanno le tane... ma il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (9, 58), egli solo ci dice che alcune facoltose donne gli apprestavano il necessario dalle proprie sostanze (8, 3). Anzi nello scritto di Luca affiora così frequentemente l’esaltazione della povertà, che qualche studioso moderno ha creduto riscontrarvi l’influenza della antica setta degli Ebioniti («poveri»), costituita da cristiani provenienti dal giudaismo; ma appunto tale provenienza basterebbe ad escludere quell’influenza da uno scritto come questo, del tutto alieno dallo spirito giudaico e animato invece da spirito universalistico, mentre l’avversione alle ricchezze è adeguatamente spiegata dalla reazione all’indole della contemporanea società pagana. Conseguenza della predilezione per la purità e per la povertà sembra essere quello spirito di giocondità serena, quasi poetica, che aleggia su questo Vangelo. Già San Paolo aveva raccomandato ai suoi fedeli: Gioite nel Signore sempre; nuovamente dico: Gioite! (Filipp., 4, 4), tornando anche altrove con parole identiche o equivalenti sulla stessa raccomandazione: Gioite sempre! (I Tessal., 5, 16; cfr. Romani, 12, 12; ecc.). La ragione di questa gioia era che il regno di Dio... è giustizia e pace e gaudio nello Spirito santo (Rom., 14, 17), e che il frutto dello Spirito è amore, gaudio, pace, ecc. (Galati, 5, 22). Anche in ciò il discepolo va appresso al maestro. Il Vangelo di Luca, nei due primi capitoli, contiene singolari espressioni di questo gaudio spirituale, cioè quattro composizioni metriche (Magnificat; Benedictus; Gloria in altissimis; Nunc dimittis) non reperibili negli altri Vangeli; infine tutto lo scritto termina narrando come gli Apostoli, dopo aver assistito all’ascensione di Gesù, tornarono a Gerusalemme con gaudio grande, e stavano del continuo nel tempio benedicendo Iddio (24, 52-53). E così lo scriba mansuetudinis Christi diventa anche il giullare di Dio nella perfetta letizia. FINE.
Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.