Stimati Associati e gentili Sostenitori, ringraziando Dio per questa opportunità e per tutti gli autori veramente cattolici che ci ha donato, oggi studieremo e capiremo «La questione sinottica». L’opera utilizzata è, come sempre, la rigorosa «Vita di Gesù Cristo» dell’Abate Giuseppe Ricciotti, Imprimatur 1940, 7a Edizione, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941. • § 146. I tre Vangeli fin qui visti, Matteo, Marco e Luca, sono chiamati fin dal principio del secolo XVIII sinottici, per la ragione che, se i loro testi siano disposti in colonne affiancate, se ne possono scorgere subito con uno sguardo collettivo («sinossi») le moltissime somiglianze che li collegano fra loro, pur non essendo testi identici. Insieme con le somiglianze, infatti, vi si ritrovano anche discrepanze; le quali tuttavia non riescono a cancellare l’impressione di una sostanziale uguaglianza, cosicché in complesso viene piuttosto da pensare ad una concordia discors. La concordia dei Sinottici si rileva sia dagli argomenti trattati, sia dall’ordine nel trattarli, sia anche dalle parole ed espressioni impiegate. L’argomento comune dei Sinottici è costituito dall’inaugurazione della vita pubblica di Gesù, dal suo ministero prima in Galilea con centro a Cafarnao e poi in Giudea, e dagli avvenimenti dell’ultima settimana della sua vita comprese la morte e la resurrezione (§ 113); a questo fondo comune Matteo e Luca premettono i fatti dell’infanzia, su cui Marco tace del tutto. Anche nell’ordine con cui sono presentati i singoli fatti del fondo comune, esiste una certa concordia, riscontrandosi una generica corrispondenza fra le rispettive sezioni di quel fondo, specialmente fra Marco e Luca, mentre Matteo spesso offre raggruppati fatti e sentenze che gli altri due offrono separati. Infine frequenti sono i passi in cui tutti e tre i testi procedono con le stesse identiche parole, di guisa che, letto uno di essi, si sono letti gli altri due; e ciò anche in casi in cui occorrono vocaboli rari (es. in Matteo, 19, 23; Marco, 10, 23; Luca, 18, 24 - abbiamo omesso il vocabolo in greco, ndR) o impiegati in accezioni rare (es. in Mt., 9, 16; Mc., 2, 21; Lc., 5, 36 - idem.), ovvero compaiono frasi peregrine (figli della camera nuziale, cioè paraninfi; Mt., 9, 15; Mc., 2, 19; Lc., 5, 34) o altre espressioni singolari; talvolta poi tutti e tre, in piena concordia fra loro, citano qualche passo dell’Antico Testamento in forma tale che discorda sia dal testo ebraico sia da quello greco dei Settanta (abbiamo omesso la lunga nota 1 alle pagine 154 e 155, con annesso grafico comparativo, in cui l’autore accenna ad alcuni modi utilizzati per computare l’affinità fra i tre Sinottici, ndR).
• § 147. Ma questa concordia fondamentale è nello stesso tempo discors in molti particolari. Anche prescindendo dai passi propri ad un solo Sinottico, troviamo che talvolta due trattano in maniera del tutto diversa uno stesso argomento, ad esempio l’infanzia di Gesù (Matteo, 1, 18 - 2, 23; Luca, 1, 5 - 2, 52) e la genealogia di lui (Matteo, 1, 1-17; Luca, 3, 23-38); lo stesso Discorso della montagna, lunghissimo in Matteo (capp. 5-7) e molto più breve in Luca (6, 20-49), ha divergenze fin dal principio con l’enumerazione delle beatitudini. Anche nell’ordine di narrazione, pur astraendo dalla diversità di raggruppamento di fatti e sentenze, compaiono discordanze difficili a spiegarsi: ad esempio, mentre nella narrazione della passione la corrispondenza delle parti è quasi costante, subito appresso compaiono divergenze circa l’ordine delle apparizioni di Gesù risorto. Frequenti sono pure i casi di divergenze fra passi in tutto il resto paralleli. Queste divergenze possono essere soltanto verbali, come quando in una narrazione che procede assolutamente identica presso tutti e tre, uno di essi sopprime una o più parole, oppure le aggiunge, oppure le sostituisce con altre quasi sinonime: valga come esempio, fra molti altri, la narrazione della visita fatta a Gesù dai suoi parenti: Matteo, cap. 12 - Marco, cap. 3 - Luca, cap. 8 (abbiamo sintetizzato la nota, ndR). Ma talvolta le divergenze non sono soltanto di parole, bensì si estendono anche al pensiero: come quando in Matteo (10, 10) e Luca (9, 3) Gesù proibisce agli Apostoli di portare in viaggio alcunché neppure il bastone, mentre in Marco (6, 8) proibisce di portare alcunché salvo il bastone soltanto; oppure come quando, nella regione dei Gadareni o dei Geraseni, sono liberati due indemoniati secondo Matteo (8, 28-34), ma uno solo secondo Marco (5, 1-20) e Luca (8, 26-39); e parimente sono due i ciechi sanati presso Gerico secondo Matteo (20, 29-34), ma è uno solo di nuovo presso Marco (10, 46-52) e Luca (18, 35-43); ai quali esempi, di divergenze concettuali, se ne potrebbero aggiungere vari altri. Ecco, dunque, la questione: è da spiegarsi come sia sorta questa concordia la quale, se talvolta è discors nel suo interno, appare tanto più concors vista dall’esterno, se si confronta con l’unico Vangelo non sinottico, Giovanni, ch’è di tutt’altra indole e di tenore ben diverso.
• § 148. La questione è dibattutissima, e si può dire che da più di un secolo sia il principale problema su cui si sono concentrate le investigazioni degli studiosi del Nuovo Testamento. Le soluzioni e le ipotesi che ne sono scaturite sono moltissime, e a presentarle e discuterle tutte sarebbe necessario un ampio studio speciale: il quale, poi, avrebbe un valore quasi soltanto retrospettivo, giacché la massima parte di quelle soluzioni sono oggi abbandonate. Fino a pochi anni addietro la soluzione più in voga, ritenuta come un assioma della cosiddetta Scuola liberale (§ 203 segg.), era che i tre Sinottici dipendano da due documenti scritti: il primo sarebbe una raccolta contenente soltanto «detti» o «discorsi» di Gesù, e precisamente la raccolta che Papia chiama dei Logia e attribuisce all’apostolo Matteo (§ 114); il secondo documento sarebbe il Vangelo di Marco, o in una forma primitiva o in quella nostra odierna, contenente in prevalenza miracoli e altri fatti di Gesù. Con ciò, l’origine di Marco è indipendente; l’origine degli odierni Vangeli di Matteo (che non sarebbe di questo Apostolo) e di Luca è spiegata come una doppia fusione della massima parte dei Logia con parte dei fatti narrati da Marco, pur ammettendosi che pochi altri elementi siano stati desunti altrove, e che nella scelta dei materiali ciascun Evangelista si sia lasciato guidare dallo scopo particolare a cui mirava. Oggi questa soluzione, pur avendo tuttora largo seguito, non è così incontrastata come nell’addietro. Il nuovo indirizzo dato dal cosiddetto Metodo della storia delle forme (§ 217), che ha avuto il merito di richiamare l’attenzione sull’importanza del periodo preparatorio dei Vangeli canonici (§ 110 segg.), trova che la suddetta soluzione è troppo semplice ed elementare essendo insufficienti due soli documenti a rappresentare l’ampia produzione di quel periodo, e che ad ogni modo accanto a tutta una serie di documenti scritti si deve supporre tutta una serie di testimonianze orali.
• § 149. In realtà, quasi tutte queste varie soluzioni, più che ispirarsi alle attestazioni pure e semplici dei documenti antichi, sono guidate da principii aprioristici moderni, e tradiscono la preoccupazione (ovvero si preoccupano piuttosto) di adattare forzatamente quelle attestazioni a questi principii. Scendendo al caso pratico, i Logia di Papia non sarebbero affatto il nostro Matteo. Ora, questo assioma, fondamentale nella teoria dei due documenti, non solo non è stato mai dimostrato con argomenti storici, ma ha contro di sé tutta l’attestazione dell’antichità, la quale ha sempre ritenuto che ai Logia corrisponda il nostro Matteo: ciò fino al mese di ottobre del 1832, allorché per la prima volta lo Schleiermacher negò questa corrispondenza, non però in forza di testimonianze storiche nuovamente scoperte, bensì in forza dei suoi particolari principii filosofici. Un altro criterio fondamentale per la suddetta teoria è che Marco, brevissimo fra tutti i Vangeli, deve essere il primo e più antico, perché i racconti d’argomento religioso tenderebbero sempre ad aumentare il patrimonio delle loro narrazioni, non già a diminuirlo. Ma anche questo è un principio aprioristico, e lo troviamo nettamente smentito proprio dai documenti giudaici (per tralasciare quelli di altre nazioni). Perché Marco non poté essere un riassunto di altro scritto - come già apparve a S. Agostino (De consensu evangel., I, 2, 4) - se già le ebraiche Cronache erano state un riassunto dei precedenti libri di Samuele-Re e di altri documenti, e se il libro Maccabei era stato un riassunto dei cinque libri di Giasone di Cirene? Nello stesso campo del Nuovo Testamento, non avviene forse che l’ultimo dei Sinottici, Luca, benché tante volte aggiunga, molte altre volte invece riassume? Se infine i cristiani dei primi due secoli componevano per uso privato quegli estratti di sentenze evangeliche, di cui ci sono pervenuti frammenti nei papiri d’Egitto (§ 100), non poteva anche Marco compiere un estratto alquanto più ampio, da lui giudicato opportuno per un determinato ceto di cristiani? Risparmiando perciò le congetture avventurose e le adattazioni forzate, vediamo brevemente fino a qual punto le testimonianze antiche ed i rilievi moderni possano far luce in questa intricatissima questione.
• § 150. Le testimonianze storiche ci hanno già detto che dei Sinottici è cronologicamente primo lo scritto semitico di Matteo, corrispondente sostanzialmente al nostro Matteo greco, e che il secondo è Marco e il terzo Luca. Ma vedemmo anche che questi tre scritti hanno una preistoria, rappresentata da quel venticinquennio circa in cui dominava la catechesi orale, e che di quella catechesi i tre scritti sono sotto diversi aspetti uno specchio (§ 110). Rilevammo anche che l’ultimo dei Sinottici ha trovato prima di sé molti altri scritti sullo stesso argomento, dei quali anch’esso si è servito, pur volendo aggiungere alcunché al contenuto di quelli (§ 140): c’erano infatti tuttora altre notizie extravagantes, giacché qualche decennio dopo che erano apparsi i tre Sinottici e i molti scritti anonimi, fu composto il Vangelo di Giovanni, che dà moltissime informazioni nuove. Ora da questo mare, per noi così poco esplorato, come mai è avvenuto che i tre Sinottici abbiano estratto quasi sempre le medesime perle, e non altre, allineandole per di più in una serie quasi sempre uguale? In altre parole, donde la concordia dei tre scritti? Presso i Semiti aveva parte principalissima nell’insegnamento, specialmente religioso, la memoria, alla quale unicamente restò affidato per molto tempo un ampio materiale didattico che solo più tardi fu messo in iscritto: fra molti esempi che si potrebbero recare, basti qui ricordarne uno non ebraico, ma classico nel campo semitico e posteriore all’epoca dei Vangeli, cioè il Corano; il quale non fu messo in scritto da Maometto, ma restò per circa una generazione affidato unicamente alla memoria dei suoi discepoli, pur conservandosi con fedeltà verbale. Si è quindi pensato che qualcosa di simile sia avvenuto per i Sinottici: essi dipenderebbero tutti e tre da un corpo d’insegnamenti orali fissati alla lettera, ossia dalla catechesi apostolica, che sarebbe stata messa in iscritto più o meno ampiamente da ognuno di essi sempre con fedeltà verbale, in maniera analoga a quanto avvenne per il Talmud (§§ 87, 106). Senonché, pur essendo innegabile l’importanza della memoria sia presso i Semiti in genere sia nella primitiva catechesi cristiana, la suddetta spiegazione appare troppo elementare e meccanica. Secondo essa bisognerebbe supporre - si permetta il ricorso ad un paragone moderno - un’ampia serie di immateriali dischi fonografici corrispondenti ciascuno ad un tratto speciale della catechesi, e che sarebbero stati fatti funzionare di volta in volta sempre con precisione meccanica. E chi avrebbe preparato questa impalpabile discoteca? Certamente il collegio degli Apostoli. E in quale lingua? Certamente in aramaico, allora corrente in Palestina. Ma è dimostrato tutto ciò?
• § 151. Checché sia della possibilità astratta, se ci volgiamo ai fatti concreti, cioè ai documenti, apprendiamo che una raccolta di tal genere fu bensì preparata dal collegio degli Apostoli, ma essa non consiste in una discoteca immateriale, bensì in una scrittura reale, cioè nello scritto di Matteo (§ 117). Questo documento ufficiale non assorbì certamente tutta la catechesi orale, la quale continuò a vivere con largo e fondamentale impiego della memoria; ma nessuna prova abbiamo per asserire che la catechesi orale avesse una forma così precisa verbalmente, così stereotipata, com’è la forma di una scrittura: anzi siamo indotti a pensare proprio il contrario da quelle libertà avvenute nella traduzione dal testo semitico di Matteo, e da quelle divergenze verbali dei Vangeli greci, che già rilevammo (§§ 121-122). Se dunque i Sinottici sono concordi perché dipendono da una forma di catechesi fissata a parola, tale fissazione non deve essere stata orale bensì scritta. A questa conclusione conducono anche i rilievi letterari fatti confrontando il testo dei Sinottici (§ 146). Senza dubbio la primissima catechesi orale degli Apostoli fu in lingua aramaica: ma allora come mai almeno Marco e Luca, che hanno scritto originariamente in greco, tradurrebbero da quel fluttuante patrimonio verbale con tanta concordia di vocaboli, di espressioni, di costruzioni grammaticali, anche in cose minutissime? E come mai, al contrario, discordano inaspettatamente in cose di particolare importanza, quali le parole dell’Eucaristia e quelle della tavoletta di condanna apposta sulla croce di Gesù (§ 122)? Dunque, almeno questi due Sinottici presuppongono un testo scritto, da essi in parte impiegato e in parte abbandonato; e questo testo scritto, nuovamente, non può essere altro che quello di Matteo, nella sua originale interezza oppure in estratti e rifacimenti di vario genere.
• § 152. Messi al sicuro questi punti che risultano dagli antichi documenti, vediamo come essi possano inquadrarsi nelle altre notizie che la tradizione già ci ha dato riguardo all’origine di Marco e di Luca. Il testo semitico di Matteo circolava già con somma autorità, per la sua origine apostolica e per il suo carattere ufficiale, ma anche con una possibilità d’impiego diretto sempre più scarsa, man mano che la «buona novella» s’estendeva fra popolazioni che non intendevano lingue semitiche. Tuttavia quel testo poteva sempre essere impiegato da molti «evangelisti» orali che lo intendevano, e ad ogni modo sorsero ben presto quelle sue traduzioni totali o parziali a cui allude Papia (§ 119). Questo attaccamento alla composizione di Matteo appare naturalissimo a motivo del credito che la circondava: essa nel campo della «buona novella» scritta rappresentò quasi una præoccupatio, che non poté esser trascurata dagli scrittori successivi. Prescindendo pertanto dai molti che scrissero prima di Luca, sui quali possiamo far solo congetture, sappiamo che Marco scrisse secondo la catechesi di Pietro, e Luca secondo quella di Paolo. Che valore ha questa doppia notizia antica in relazione con il documento semitico di Matteo? I due ultimi Sinottici hanno conosciuto ed impiegato quel documento? Gli studiosi moderni, in massima parte, rispondono negativamente. Coloro per cui il Matteo semitico equivale ai Logia di Papia ma non al Matteo greco, ritengono che Marco non ha conosciuto i Logia, mentre Luca li ha conosciuti; quanto alle relazioni fra Marco e Luca c’è un generico consenso nell’affermare che il primo è stato impiegato dal secondo. Ma chi giudica storicamente infondata una sostanziale differenza tra il Matteo semitico (ossia i Logia) e il Matteo greco, può ancora distinguere tra l’originale semitico e la sua traduzione greca, a cagione di quelle modificazioni operatevi dal traduttore alle quali già accennammo (§ 120 segg.); è infatti sempre possibile che, se l’originale semitico è stato in qualsiasi maniera impiegato da Marco e Luca, questi due alla loro volta siano stati impiegati dal nostro traduttore greco di quell’originale. Gli studiosi moderni hanno raccolto le prove più sottili e sfuggevoli per dimostrare le rispettive tesi. Con lavori pazientissimi, degni della più sincera ammirazione, essi hanno rilevato che, se Marco avesse conosciuto Matteo, non avrebbe sconvolto il «coordinamento» caratteristico di lui, né tralasciato tali o tali narrazioni, o sentenze, o parole; così pure, se Luca avesse conosciuto Matteo, non avrebbe narrato con tante divergenze da costui la storia dell’infanzia, e quella della resurrezione, e la genealogia di Gesù, e le beatitudini, né avrebbe preferito la serie di fatti seguita da Marco: e tante altre sagacissime ragioni, ritrovate nel confronto dei testi.
• § 153. Ma, disgraziatamente, questi testi sono pochi, tre soltanto; noi invece sappiamo che anticamente essi erano molti, e ciò anche prima di Luca, ossia quando i nostri testi erano due soltanto (§ 140): anzi neppure due completamente, perché il nostro Matteo non rappresenta con assoluta fedeltà verbale il Matteo semitico. Ecco la grande lacuna di cui non bisogna dimenticarsi in questi confronti dei Sinottici, la lacuna dei molti che noi più non abbiamo. Se poi si ha presente che questi molti, come già congetturammo, dipendevano in gran parte dal Matteo semitico; che essi, pur essendo di varia ampiezza, potevano benissimo aver aggiunto talune notizie non contenute nel Matteo semitico; che, contemporaneamente a questa nuova «buona novella» scritta continuava a risonare l’antica «buona novella» orale degli «evangelisti» la quale riecheggiava sostanzialmente il contenuto di quella: si comprenderà bene quanto più complicato sia il problema delle dipendenze letterarie dei nostri Sinottici, e quanto le conclusioni tratte dai confronti dei testi odierni possano esser insufficienti per insufficienza degli stessi testi, ossia per la mancanza dei testi antichi.
• § 154. Riassumendo, si può tracciare la seguente genealogia dei nostri Sinottici, la quale tiene conto dei dati di fatto messi in luce dalle investigazioni letterarie moderne, mentre non perde di vista le attestazioni precise dell’antichità. Primo di tutti fu il Matteo semitico, che conteneva sia discorsi sia fatti di Gesù; esso fu anche la sorgente principale, se non unica, dei molti fiumicelli e rigagnoli che scorrevano ai tempi di Luca. Marco fu indotto a scrivere in Roma, per il motivo e nelle circostanze che già sappiamo. Scrivendo, egli riprodusse la catechesi orale di Pietro; la quale non era però né remota né estranea allo scritto di Matteo, bensì costituiva gran parte del suo fondo. Perciò Marco, mettendo mano al suo lavoro, trovò che la sua impresa sarebbe stata, non solo agevolata, ma anche indirettamente garantita, se avesse preso come punto di riferimento lo scritto che in qualche modo poteva riportarsi a Pietro stesso, cioè il documento di Matteo. Ma sotto quale forma questo documento pervenne nelle mani di Marco? Nel suo testo originale intero, oppure in un estratto parziale? Oppure anche in una di quelle traduzioni di cui parla Papia? E se pervenne tradotto, qual era la sua indole e ampiezza? E quale la sua rassomiglianza all’odierno Matteo greco? Ecco altrettante domande a cui non siamo in grado di rispondere. Supposto però che questo documento non meglio definibile sia stato a disposizione di Marco, il suo lavoro personale si spiega agevolmente come una fusione delle due fonti, quella della sua memoria e quella del documento che aveva sott’occhi: quando la stessa notizia veniva concordemente dalle due parti, egli seguiva genericamente il documento; quando c’era divergenza, egli metteva in iscritto la catechesi di Pietro conservata nella sua memoria. Questa spiegazione sembra dar ragione sia della concordia discors fra i due primi Sinottici, sia della costante attestazione dell’antichità secondo cui Marco è «interprete» di Pietro. Il caso di Luca è più complicato, non solo perché prima di lui esistevano Matteo, Marco e i molti da lui investigati diligentemente, ma anche perché egli riecheggia la catechesi di Paolo: quindi le sue dipendenze si moltiplicano, e per noi d’oggi si perdono in una nebbia d’ignoranza. Si è Luca servito del Matteo semitico? Si dice che l’esame dei testi odierni non possa dimostrarlo con certezza; ma senza volersi addentrare in tale questione, Luca per lo meno deve essersi servito di qualche documento che era come un largo estratto del Matteo semitico, forse anche tradotto in greco, e che entrava certamente nel numero dei molti: le numerosissime identità o analogie fra i nostri Luca e Matteo non lasciano alcun dubbio su questo punto. È anche generalmente ammesso, come già vedemmo, che Luca si sia servito di Marco, specialmente nell’ordinamento cronologico dei fatti. Se quindi si accetta l’ipotesi di un’origine romana del Vangelo di Luca, possiamo concludere che egli si servisse di Marco come di trama generica per il proprio scritto; ma su questa trama egli lavorò lungamente e l’ampliò fino a raddoppiarla, con l’aggiungervi quei moltissimi fili ch’era andato raccogliendo diligentemente sia dai molti scritti precedenti, sia dalla tradizione orale e specialmente dal suo maestro Paolo. Terzo per forma, non per contenuto, viene il nostro Matteo greco, che è una versione sostanzialmente identica al Matteo semitico: ma la sua forma letteraria greca risente di Marco e di Luca, per le ragioni e nella misura già viste. In quella genealogia dei Sinottici, la loro concordia è data dal fondo comune a tutti e tre, che è o direttamente o indirettamente lo scritto originale di Matteo, cioè la catechesi degli Apostoli e specialmente di Pietro; la loro concordia diventa discors, quando i singoli autori secondo le mire personali (visti i luoghi, le circostanze, la cultura, la mentalità, etc..., ndR) o abbreviano, o spostano, oppure anche aggiungono altri elementi, i quali in massima parte provengono egualmente dalla catechesi apostolica, sebbene per altre vie. FINE.
Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.