Stimati Associati e gentili Sostenitori, le prime pagine della Sacra Scrittura ci narrano, con un sapore ed una freschezza incomparabili, le relazioni dei primi uomini verso il loro Creatore e Signore: Iddio parla ad Adamo e ad Eva, essi parlano con Dio, si scusano con Lui del loro fallo; i loro figliuoli offrono vittime espiatorie e propiziatrici, animali del gregge e frutti della terra (Genesi, capp. 2. 3, 4). La religione degli uomini più antichi, quindi, quale ci viene presentata dal Sacro Testo, è il più puro monoteismo; solo più tardi troviamo narrate le aberrazioni idolatriche a cui si abbandonarono i figli degli uomini. Con l’aiuto del P. Giovanni Caprile - «La religione dell’umanità primitiva», SOS, imprimatur 1942 - impareremo perché queste affermazioni della Scrittura possono reggere ancora di fronte alle numerose scoperte scientifiche, o pseudo tali, di questi ultimi tempi.
• Lo negarono i fautori del materialismo e dell’evoluzionismo religioso, i quali pretesero dimostrare che l’ateismo più crasso, quale può essere quello delle bestie e di uomini recentemente differenziatisi da esse, fu il primo patrimonio religioso dell’umanità, mentre il monoteismo non sarebbe stato che il termine di una lunga evoluzione.
• Il punto cruciale. II punto vitale della nostra questione, quindi, consiste nello stabilire, su basi scientifiche, quale fosse la religione dell’umanità dei tempi preistorici. Se troviamo l’ateismo, l’evoluzionismo religioso avrà trionfato; se invece troviamo il monoteismo, esso (l’evoluzionismo) resterà battuto in pieno. Di quali mezzi ci serviamo? Non esistono documenti scritti: i dati della paleontologia si restringono a scheletri e manufatti, più raramente a pitture o a pseudo scritture indecifrabili e sono tali che, se ci parlano a favore dell’esistenza di riti e, quindi, di un sentimento religioso, non ci dicono in quale forma questo si concretizzasse. Ma uno studioso non può né deve trascurare un fatto che, in realtà, è proprio quello che nella storia della Religione può gettare maggiore luce sulle sue origini.
• Al presente vivono ancora, in molti punti del globo, popolazioni la cui civiltà è enormemente arretrata rispetto alla nostra: vivono, cioè, a quel grado di cultura in cui vivevano i nostri antenati migliaia di anni or sono. Studiando presso di essi il fenomeno religioso possiamo agevolmente almeno avvicinarci alle sue origini. Questi popoli, però, non presentano tutti la stessa forma di religione, né si trovano ad un unico livello di civiltà: c’è quello che ha scoperto l’uso della ruota e quello che ancora trascina i suoi carichi; c’è chi usa armi di ferro, chi si contenta di semplici pietre scheggiate e chi non conosce nemmeno queste. Il problema allora si sposta su un altro piano: quale di questi popoli cosiddetti incivili è quello che ha mantenuto il più possibile la cultura dei primi uomini e, quindi, si avvicina di più ad essi? Assodato questo, sarà facile indagare e stabilire la forma di religione predominante presso tali popoli e concludere che essa è la meno lontana da quella professata dalla vera umanità primitiva. Per giungere a dimostrare scientificamente le nostre conclusioni vedremo: quale presupposto abbiano avuto gli evoluzionisti e quali teorie vi abbiano imbastito sopra: porteremo prove positive per dimostrare quali popoli fra quelli ora esistenti sulla terra, siano i più antichi; esporremo infine le loro credenze religiose. Compiuti diligentemente questi passi, le conclusioni si imporranno da sé.
• Il presupposto fondamentale dell’evoluzionismo. «Il metodo della storia delle religioni deve essere scientifico e storico e deve tendere in quanto è possibile a conoscere tutti i fatti in relazione al proprio oggetto e stabilire l’apparizione e la successione dei fatti religiosa non in base a principii aprioristici, ma in base ai fatti e alla portata legittima dei fatti» (Polestra, Religione, in Dizion. Encicl. Fedele, vol. IX, pagg. 436.439). Ora, appunto in questo peccò il metodo degli evoluzionisti: partiva, come da presupposto provato ed ormai indiscutibile, proprio da quella stessa verità che voleva provare; e cioè che: «È necessariamente di età più antica tutto ciò che c’è di più basso, di simile allo stato bestiale, di brutto; invece tutte le cose più perfette sono prodotti di stadi di evoluzione più elevati e perciò più recenti» (Schmidt, Manuale di Storia comparata delle religioni, Brescia, Morcelliana, 1934, pag. 9). Quindi nel campo familiare vi sarebbe stata all’inizio una bestiale promiscuità: solo più tardi il matrimonio a gruppi e poi monogamico; in religione dall’ateismo originario, come affermava il Lubbok (L’origine della civiltà e la primitiva condizione dell’uomo, Londra, 1870), attraverso complessi stadi evolutivi si sarebbe giunti al monoteismo. Queste erudite quanto gratuite costruzioni di tavolino furono a lungo, e non sempre per puro zelo di scienza, salutate come conquiste scientifiche intangibili. Eppure non c’è lettore che non veda la debolezza di questo modo di argomentare: anticipare gratuitamente le conclusioni e servirsene come di principii, per giungere ad esse.
• Popoli areligiosi. Il punto di partenza del fenomeno religioso sarebbe stato, dunque, l’ateismo. È proprio vero? Prendendo il fenomeno religioso nella sua universalità, senza determinare alcuna forma particolare, vediamo che è costituito «dalla fede in un essere superiore, unico o molteplice, con la conseguente certezza d’una dipendenza vitale da quest’essere del mondo e dell’uomo, che non rimane più contemplatore, ma crea relazioni drammatizzate (concretate) in un riconoscimento di questa sua dipendenza mediante un culto sensibile, culminante nel sacrificio» (Polestra, Op. cit., pag. 438); orbene: possiamo oggi affermare che nessun popolo conosciuto, tra quelli estinti o tuttora esistenti è assolutamente privo di ogni forma di religione? Non i popoli estinti. La paleoetnografia ha completamente sfatato la premessa su cui si basava la loro asserita areligiosità. Nel 1883 il De Mortillet scriveva: «II primo risultato di tutte le idee religiose è di far temere la morte o almeno i morti. Ne segue che da quando le idee religiose si fecero strada, si introdussero le pratiche funerarie. Ebbene non vi è pratica funeraria per tutto il paleolitico [Il paleolitico è il periodo umano remotissimo in cui gli utensili e le armi si fabbricano scheggiando la selce. Questo periodo è suddiviso in: paleolitico inferiore (il più antico) medio e superiore]. L’uomo del paleolitico era completamente sprovvisto di ogni sentimento religioso» (G. De Mortillet, La préhistorique. 1900, G. e A. De Mortillet, La préhistoire. Paris, Schleicher, 1910, pag. 292). E suo figlio aggiungeva: «L’uomo discendente dagli animali, si avvicinava troppo ai suoi antenati scimmieschi per avere una religione e dare sepoltura ai morti» (L’origine du culte des morts, in Goury, Origine et évolution de l’homme, Paris, Picard, 1927, pag. 134).
• I fatti, però, parlano altrimenti. Gli scheletri delle grotte di Grimaldi, nella Liguria, presentano segni di evidente inumazione: «Le tre salme (uomo, donna, bambino) erano state accuratamente inumate in una fossa scavata... e poste l’una accanto all’altra su di uno strato di ocra. Ciascun corpo era stato sepolto con i suoi ornamenti: collane fatte con conchiglie marine, vertebre di pesci e denti di cervidi» (Graziosi, I Balzi Rossi, Albenga, 1937, pagg 23-24). E risalendo ancora a periodi più antichi, al paleolitico medio: «Lo scheletro della Chapelle aux Saints era interrato in una fossa della profondità di 30 cm. scavata nel suolo duro della grotta. Sulla testa tre o quattro pietre piatte e sopra queste delle ossa di bovidi, prova evidente che erano state deposte con la carne, perché servissero da nutrimento al morto nell’oltretomba» (Goury, op. cit., pag. 136). Gli scheletri della Ferassie, appartenenti allo stesso periodo, erano ricoperti con pietre piatte sulla testa e sul tronco, come nel caso precedente. Così due scheletri di fanciulli in luoghi distinti sono disposti in posizione non dubbia per attestare che vi ebbe luogo una sepoltura. La testa di uno di essi è ricoperta da una specie di cupola (Furon, Manuel de préhistoire generale, Paris, Sajot, 1939, pag. 102). Concludendo col Goury: «Esiste all’epoca mousteriana (paleolitico medio) un vero culto dei morti che si manifesta per l’identità della disposizione del cadavere deposto in fosse scavate intenzionalmente, e, in mancanza di queste, protetto da pietre, nell’atteggiamento del sonno» (Origine et évolution de l’homme, Paris, Picard, 1927, pag. 137 cfr. anche Graziosi, Le civiltà preistoriche, in R Biasutti, Le razze e i popoli della terra, Torino, UTET, 1941, vol. I, pag. 146).
• Questi uomini, dunque, avevano una qualche religione. Quale fosse non possiamo saperlo. Per giungere ad una conclusione non arbitraria dobbiamo tentare un’altra via: interrogare i popoli primitivi tuttora esistenti. Riguardo alla pretesa areligiosità degli attuali popoli di natura, i più moderni risultati dell’etnologia l’hanno definitivamente relegata tra le asserzioni gratuite della pseudo scienza. La terza parte dell’opuscolo giustificherà la nostra affermazione. Né è il caso di prendere in esame la affermazione circa lo «stato prelogico» dell’uomo primitivo, che sarebbe una cosa di mezzo tra la bestia e l’essere razionale, né altre di questo genere: «I primitivi non distinguono ciò che appare nel sogno da ciò che è vissuto nella veglia....; fuori della cultura materiale appaiono indifferenti ai nostri principii logici di identità, di contraddizione, di causalità eccetera» (Canella, Principii di Psicologia razziale, Firenze, Sansoni, 1941 pagg. 157-158). Quando il Levy-Bruhl ed i suoi simpatizzanti tracciarono simili asserti non impiegarono che pochi secondi e pochi tratti di penna; più laboriosa ne riuscirebbe la dimostrazione. Invece l’ingegnosità e la varietà dei metodi e degli strumenti da caccia e da pesca, degli utensili domestici; le manifestazioni artistiche, ecc (Lowie, Manuel d’anthropologie culturelle, Paris, Payot, 1936, Capp. 3, 5, 6, 8, 9, 11 - Schmidt, L’anima dei primitivi, Roma, Studium, 1931) dimostrano che anche i più primitivi conoscono i nostri principii logici, le nostre nozioni di causa e di effetto, di fine e di mezzo.
• Il punto di partenza dello sviluppo religioso. Man mano che, nella prima metà del secolo scorso, furono meglio conosciuti i popoli di natura dell’Africa, dell’Oceania, dell’America, l’attenzione degli studiosi si rivolse alle loro religioni che spesso presentavano forme grossolane. Era quello che aspettava l’evoluzionismo religioso! Ogni nuova forma conosciuta venne allora proclamata la più antica: i sistemi si susseguono e si accavallano. Sarà compito del nostro secolo sgombrare il terreno da tante macerie e costruire, su basi solide, qualcosa di positivo. I viaggiatori portoghesi, venuti a contatto con i popoli dell’Africa occidentale, furono colpiti da un fatto strano: quegli indigeni tributavano atti di culto a oggetti materiali, come pietre, vasi, conchiglie. Già nel 1760 il De Brosses (Du culte des Dieux fétiches, Paris, 1760) rendeva noto all’umanità che una tal forma di culto (feticismo) doveva riguardarsi come punto di partenza di tutto il pensiero religioso, evolutosi in forme superiori presso i popoli civili, rimasto invece stazionario presso quelli di bassa cultura. La stessa opinione fu abbracciata dal Comte e dalla scuola positiva. L’inglese Spencer, invece, credette di aver trovato una soluzione migliore assegnando al culto e venerazione degli antenati (manismo) il primo gradino nell’evoluzione religiosa. Un suo contemporaneo, il Tylor, la pensava un pò altrimenti. A suo parere i fenomeni del sonno, del sogno, dell’estasi, della morte avrebbero destato nell’uomo l’idea di uno spirito che può abbandonare il corpo in cui abita e che può sopravvivergli in una vita d’oltretomba.
• Per la tendenza a prendere se stesso come misura delle cose l’uomo avrebbe, in seguito, attribuito un’anima a tutto ciò che lo circondava (animismo). Dal culto dei morti, dovuto alla fede nella sopravvivenza dell’anima, si sarebbe passato al concetto di puri spiriti e al politeismo. Il monoteismo sarebbe dovuto all’innalzare di grado uno di questi dei e concepirlo superiore agli altri. Altri sistemi credono di trovare nelle pratiche magiche la spiegazione dell’origine di ogni idea religiosa. Per accennare ad uno dei tanti, ecco la spiegazione del Frazer (Il ramo d’oro, Londra, 1890): Il primitivo concepisce il mondo come governato da forze personali aventi, come lui, intelletto e volontà, e da forze impersonali, le quali sarebbero, in pratica, le leggi della natura. Secondo che l’una o l’altra concezione del mondo prevale, si ha la religione o la magia. Questa, però, sarebbe più antica, perché solo dopo aver constatato la sua impotenza a domare queste forze cieche e impersonali, l’uomo si sarebbe rivolto alle potenze personali del bene e del male, propiziandosele con sacrifici e preghiere.
• Alcuni popoli assumono, come insegna comune a tutti gli individui di una tribù, una classe di oggetti o di esseri naturali: animali, piante, ecc. Tale classe di oggetti (totem) costituisce come un essere solo: se, per esempio, il totem di una tribù è l’orso, tutti gli orsi — e non un determinato orso — saranno oggetto di venerazione. Il totem viene ad essere considerato come un antenato di tutta la tribù e questo legame di parentela si esprime, in pratica, attraverso riti di vario genere, tra cui caratteristica la proibizione di ammazzare l’animale o di sradicare la pianta con cui la tribù si crede imparentata. Senza fermarci a mostrare i punti deboli di queste teorie e senza negare loro il merito d’aver lumeggiato queste forme di religiosità e le loro probabili origini, notiamo solo che metterle alla base dello sviluppo religioso è contro ogni dato di fatto: queste forme, presso i popoli antichissimi e quindi più vicini alle origini dell’umanità, o sono affatto sconosciute, o occupano un posto molto secondario, mentre di fronte ad esse si erge ben definita l’idea di un unico Essere supremo.
• Sul retto sentiero. Si era a questo punto, quando un fatto imprevisto gettò lo scompiglio fra gli uomini di “scienza”: lo scozzese Andrew Lang rese noto al pubblico che, nel corso dei suoi studi, aveva trovato presso certi popoli primitivi la venerazione per un Essere supremo, considerato come autore e tutore dell’ordine morale, come Creatore e Padre benevolo e buono. Queste affermazioni incontrarono dapprima la più fiera opposizione, poi furono circondate di sprezzante silenzio. A questo stato di cose pose termine la scuola storico-culturale, che in Germania, in Inghilterra, in America e in altri paesi trovò valenti cultori. Essa, che si distingue per la serietà del suo metodo oggettivo, conta fra le sue schiere i più illustri scienziati come Graebner, Ankermann, Schmidt, Pinard: de la Boullaye, Baumann ecc., e va imponendosi su tutte le altre scuole.
• Il metodo storico-culturale per individuare i primitivi. Prescindendo da qualsiasi sistema e dottrina religiosa, la scuola storico-culturale è riuscita a determinare vari criteri per valutare l’antichità di un popolo: è infatti, come notammo, su questo punto che si impernia tutta la questione sulla forma più antica di religione. Per la portata del presente lavoro basterà esporne solo qualcuno: Il primo criterio è dato dall’esame della cultura materiale e cioè del genere di vita, del modo di lavorare gli utensili ecc.: quanto più tale cultura è semplice, tanto più il popolo che la possiede è primitivo e simile ai primi uomini. Non c’è bisogno, infatti, di nessun sistema filosofico per ammettere che gli uomini più antichi conducessero un genere di vita più rozzo (non più bestiale), più semplice che non i popoli giovani, che lavorassero più grossolanamente le loro armi, i loro utensili, le loro abitazioni ecc. In questo la Bibbia e la Paleoantropologia vanno pienamente d’accordo. L’una e l’altra ci affermano che l’uso dei metalli fu molto posteriore a quello della pietra. Così pure più recenti sono la coltivazione dei campi e il grande allevamento del bestiame.
• Il secondo criterio è dato dal confronto e dall’esame delle zone e dei cicli culturali (Chiamiamo ciclo culturale quell’insieme di elementi vari che costituiscono la civiltà di un popolo. Così, per es., diciamo che tutti quei popoli, i quali non conoscono l’agricoltura ed usano utensili di pietra, appartengono ad un ciclo culturale diverso da quello dei popoli che conoscono l’agricoltura e i metalli. Qui intendiamo per ciclo culturale quei popoli che hanno una certa forma di civiltà, si capisce allora com’è che si può parlare di contatti, separazioni ecc. Lo stesso significato diamo a «zona culturale»). In un continente, per esempio in Africa, c’è un’enorme diversità di razze, di linguaggi, di civiltà. Non è da credere che tutti questi elementi si siano sviluppati sul posto che ora occupano, indipendenti l’uno dall’altro. Certamente, come ce lo conferma anche la storia, vi saranno state immigrazioni e emigrazioni in massa, invasioni e cozzi di popoli con prevalenza dei più forti.
• In tutto questo groviglio di civiltà è possibile stabilire quale sia la più antica, quali i popoli invasori e gli oppressi? Il lavoro è possibile per determinate zone. Gli elementi presi in esame sono la cultura (linguaggio, modo di vivere, utensili ecc.) e la posizione geografica. Due cicli culturali possono venire a contatto fra loro in maniera diversa. Si è riscontrato che, a volte, un popolo appartenente a un ciclo culturale attraversa un altro popolo che appartiene a un ciclo culturale diverso, tagliandolo in due, in modo che le due parti separate restino fra loro senza contatto, così come un fiume di lava vulcanica separa nettamente in due le floride campagne che attraversa. È chiaro che in tal caso, nel posto della separazione, il popolo tagliato è più antico di quello che lo taglia; altrimenti bisognerebbe ammettere che il popolo invasore, a un certo punto, ha scavalcato il popolo oppresso, senza passarvi in mezzo, o almeno senza lasciarvi traccia alcuna: supposizione, questa, molto innaturale. Ma c’è ancora un altro caso da considerare: molte volte troviamo due zone culturali distinte fra loro e disperse l’una nell’altra in questo modo: l’una è continua così come il mare che circonda un gruppo di isolotti; l’altra è frammentata e dispersa nella prima, come tanti isolotti nel mare. Dobbiamo ritenere che la zona culturale frammentata è più antica di quella in cui è dispersa. A meno che non si voglia immaginare, cosa assai difficile, che il popolo invasore si sia disperso in mezzo al popolo invaso. È invece più naturale pensare che quest’ultimo, non potendo resistere, si sia ritirato in luoghi più sicuri benché meno comodi. Infatti si osserva che questi frammenti di popoli abitano sempre luoghi di difficile accesso (monti, foreste vergini, posti paludosi), isolati e di poca attrattiva a popoli più giovani e progrediti.
• In base a questi criteri si può stabilire, dapprima per le singole regioni, poi per ogni continente, la successione e l’età dei singoli cicli culturali che vi si trovano. Meta ultima di questi studi è conoscere la diffusione dei vari cicli culturali su tutta la terra e, confrontandoli fra loro, stabilire quale di essi sia il più antico di tutti, che ordine abbiano avuto nel succedersi ed in quale regione debba ricercarsi la loro origine. Oggi questa meta è ancora lontana, ma si possono determinare alcune norme sicure, tra cui per il nostro scopo è importantissima la seguente: un ciclo culturale che in ogni parte del mondo, in cui ancora oggi si trova, è riconosciuto come il più antico rispetto alle altre civiltà limitrofe, è in via assoluta il più antico di tutti. Se, per esempio, studiando i popoli dell’Africa risulta quale cultura più antica quella dei Pigmei; studiando i popoli dell’Australia, della Terra del Fuoco, della Siberia, dell’Indonesia ecc. risulta pure come più antica una cultura corrispondente a quella dei Pigmei africani, si dovrà concludere che questa forma di cultura è assolutamente la più antica su tutti i continenti. Si noti, infine, che questi criteri si applicano l’uno indipendentemente dall’altro. Applicati insieme conducono al medesimo risultato, il che è una potente garanzia della loro bontà e serietà. Per esempio, i popoli di civilizzazione più primitiva (primo criterio) li troviamo ai limiti estremi dei continenti o sparpagliati in piccoli gruppi separati fra loro, rifugiati in luoghi remoti e circondati da altri aventi una civiltà più progredita (secondo crit.).
• I risultati. Si sono venuti così a determinare tre gradi di cultura: primitivo, primario o secondario. Al grado primitivo appartengono quelle tribù in cui l’uomo vive ancora nello «stadio della raccolta»: non lavora la terra né alleva il bestiame ma vive di quello che la natura spontaneamente gli offre. L’uomo va a caccia o alla pesca, la donna raccoglie erbe e radici selvatiche. Al grado primario appartengono quei popoli che sono passati dalla pura e semplice raccolta dei prodotti della natura alla coltivazione dei campi e all’allevamento del bestiame. Nel grado secondario si trovano nuovi cicli culturali risultati dall’incrocio di culture primarie fra loro o con culture primitive. Si notano progressi culturali. A un ciclo culturale terziario appartengono le antiche grandi civiltà asiatiche, europee, americane. La cultura più antica è quella del grado primitivo. «Tutte e tre assieme sembrano poi farci intravedere una cultura ancora più antica, la vera cultura primordiale, la quale però finora non si poté scoprire concretamente in nessun luogo e che probabilmente non sarà più possibile constatare in via diretta ed immediata» (Schmidt, Manuale di Storta comparata delle Relig.). Per citare qualche nome di popoli primitivi ricordiamo: nell’Africa i Bagielli nel Kamerum, i Negrilli ecc.; nell’Asia gli Andamanesi, i Negritos delle Filippine, i Samojedi e i Korjaki nelle zone fredde dell’Artide; in America: alcune tribù della Terra del Fuoco (Yamana), della California (Algonchini ecc.); e infine nell’Australia alcune tribù sud-orientali: Kurnai ecc..
• L’antichità della cultura primitiva. I popoli appartenenti al grado primitivo sono, fra quelli conosciuti, i più antichi. Ciò è stato stabilito con i criteri già esposti: essi occupano generalmente le più remote regioni alla periferia dei continenti, regioni isolate e quasi inaccessibili, che rappresentano le ultime zone di rifugio. Ivi essi sono i primi e gli unici abitatori, né vi si riscontra traccia di abitatori precedenti. Nella stragrande maggioranza questi popoli vivono allo stadio della raccolta: le poche eccezioni sono dovute ad evidente influsso di popoli vicini. Gli utensili e le armi sono generalmente di pietra; non si conoscono i metalli. Alcune tribù di Pigmei non conoscono la lavorazione della pietra e usano solo quelle pietre piatte e levigate che la natura mette a loro disposizione. Gli Andamanesi e i Bakango (Congo Nord-est) non sanno neppure produrre spontaneamente il fuoco (Lowie, Manuel d’anthropologie culturelle, Paris, Payot, 1936, pag. 71). Possiamo quindi concludere che questi popoli, appartenenti al grado culturale primitivo, sono i più antichi ceppi umani che attualmente possiamo conoscere e quindi debbono ritenersi i più vicini all’umanità primitiva.
• Ci si presenta ora spontaneo un quesito: Siamo sicuri che questi popoli oggi esistenti anno proprio la stessa civiltà che avevano i loro antenati migliaia di anni or sono? Certo non si può dire che ne posseggano tale e quale, immutata, tutta la civiltà, anche nei suoi minimi particolari: in fin dei conti non sono delle mummie e sono, quindi, suscettibili di progresso o di regresso. Però si può anche affermare che essi hanno una civiltà molto vicina a quella dei loro più remoti antenati e ne conservano moltissimi elementi. Infatti nello sviluppo di questi popoli è intervenuto un curioso fenomeno di congelamento, di stagnazione; a un certo punto, mentre altri popoli progredivano, essi si sono fermati, quasi fossilizzati. Invece di avanzare in linea retta verso il progresso, lasciandosi definitivamente alle spalle la vecchia civiltà, si sono aggirati per secoli e secoli più o meno attorno ad uno stesso centro: è sorprendente il parallelo tra la civiltà di questi popoli attuali e di quelli più antichi scoperti nelle ricerche paleontologiche. I fattori che determinarono questo fenomeno di stasi possono ridursi ai seguenti: l’isolamento di questi popoli, abitanti in luoghi remoti quasi del tutto privi di ogni rapporto con altri; l’assenza del bisogno: fornendoli la natura di tutto il necessario, essi non sentirono il bisogno di perfezionare o trovare nuovi strumenti con cui procurarsi di che vivere. Di qui l’arresto nello sviluppo della civiltà materiale; l’attaccamento alle tradizioni della tribù, frutto istintivo dell’isolamento e della segregazione. Da ciò ebbero la loro origine i riti di iniziazione con i quali, all’epoca della pubertà, si trasmette gelosamente ai giovani il patrimonio culturale della tribù. Molte volte tali riti comprendono cantici e preghiere in una lingua antichissima e incomprensibile agli stessi indigeni e che solo la loro tenacissima memoria permette di trasmettere ai posteri.
• La religione. Le religioni dei primitivi hanno una grande importanza: da esse, come da quelle che sono relativamente più vicine alla prima origine dell’umanità e contengono, quindi, ancora molte particolarità di essa, si dovranno prendere le mosse per studiare questa stessa origine del fatto religioso. Tale affermazione richiede due integrazioni. Prima di tutto, appunto perché queste religioni non hanno più progredito, esse hanno subito un irrigidimento e un abbassamento di intima vitalità. Quindi è da escludersi che le forme di religione dei primitivi possano conservare ancora tutto il calore e la ricchezza che furono proprie, per esempio, della religione dei Patriarchi. In secondo luogo: ammettendo un’origine unitaria e unica del genere umano e considerando i differenti cicli culturali del grado primitivo (Nel grado primitivo si comprendono popoli di razza e civiltà molto diverse, i quali, però, sono tutti caratterizzati dal vivere nello stadio di raccolta) è chiaro che tali differenziazioni hanno richiesto un periodo di sviluppo abbastanza lungo tra la vera origine e il formarsi di quelle differenti culture, durante il quale anche la religione avrà subito modificazioni non indifferenti.
• Se, dunque, lo studio delle religioni dei primitivi non ci dà la forma di religione che fu propria dell’umanità originaria, si può legittimamente dedurre quale questa fosse, raccogliendo quanto tutte queste religioni contengono di comune. È chiaro che l’elemento comune deve considerarsi anteriore agli elementi propri e particolari. Ora, l’elemento comune alle religioni primitive è la fede in un Essere supremo unico. Presso alcune tribù questo è chiarissimo; presso altre è offuscato, mai però tale da degenerare in politeismo. Un’ultima deduzione: queste tribù primitive che hanno tali credenze, abbracciano, nella loro distribuzione geografica, come in una cintura, il centro meridionale del mondo antico e, nel fenomeno di repulsione agli estremi nascondigli di isole sperdute, di foreste inaccessibili e montagne boscose, dimostrano dovunque che la loro presenza in quelle regioni era un tempo ben più estesa e compatta. Inoltre esse arrivano fino agli estremi confini della terra, da un polo all’altro: nessun ciclo culturale posteriore può vantare tale diffusione.
• Se, dunque, è certo che dovunque compaiono ancora ruderi di popoli appartenenti alla cultura primitiva essi possiedono tutti la credenza in un Essere supremo, si può concludere che questa credenza formi una parte essenziale di quell’antichissima cultura umana e che fece parte di essa, forte e profonda, già in quei remotissimi tempi quando quei singoli gruppi non erano ancora divisi l’uno dall’altro. Dopo questo lungo, ma necessario lavoro di messa a punto, non ci resta che illustrare le credenze religiose di questi popoli, per dedurne, secondo i principii indicati, quale dovette essere la religione dell’umanità primitiva.
• Figura e nomi dell’Essere supremo. Il concetto dell’Essere supremo è tanto più puro quanto più la tribù è primitiva. Alcuni popoli, come i Negritos, i Batwa, gli Andamanesi dicono che l’Essere supremo non si può vedere, ma solo sentire: è inafferrabile come il vento. Gli Yamana della Terra del Fuoco, quando lamentano la morte di una persona cara, vorrebbero vedere l’Essere supremo, Watauinewa, che la ha rapita, ma Egli è invisibile e non lo si può raggiungere. Altri popoli gli danno figura umana, ma con qualche tratto che manifesta una personalità superiore: così lo dicono «vecchio, dalla lunga barba, splendente di candore, simile al fuoco...». I nomi, molteplici ed espressivi, sono pronunciati solo raramente e col massimo rispetto; in molti casi si preferiscono circonlocuzioni o qualche segno, come per esempio indicare il cielo con la mano. Gli appellativi più comuni sono quelli che esprimono la paternità, l’opera creatrice, la dimora nel cielo. «Padre, mio padre celeste, il divino costruttore dei mondi, il Creatore della vita, creatore del mondo, colui lassù in alto... ». Altri nomi si riferiscono agli attributi di Dio «il vecchio, l’antichissimo, il divino padrone del Cielo, il donatore, sostegno (dell’universo), culla (del bambino), l’altissimo, il fortissimo, il maestro, l’onnipotente, il vigilante, l’eterno...». Attributi dell’Essere supremo. Già i nomi dati a Dio da questi popoli ci avranno stupito, mostrandoci tanta ricchezza là dove meno si immaginava. L’impressione non si cancellerà esaminando gli attributi di questo Dio. Eternità: quasi tutti i primitivi affermano che l’Essere supremo è sempre esistito e sempre esisterà. I Wiradyri dell’Australia, usano per Bajame, il loro essere supremo, una parola esplicita, che significa «eternità» (bur-rambin). I Pigmei dell’Africa equatoriale dicono che «prima (che ci fossero gli uomini) c’era Kmvum (l’Essere supremo), Kmvum solo, Kmvum senza nessun altro con lui», e, richiesti se esso fosse o no mortale, risposero: « Dopo la notte il giorno, dopo l’albero un altro albero, dopo la nuvola un’altra nuvola, dopo di me un altro uomo; e Dio è là; Dio non muore, della morte Egli è il padrone».
• Onniscienza: l’Essere supremo vede le azioni degli uomini e sa tutto, specialmente i loro errori. «Nulla esiste — dicono i Batwa del Ruanda — che Imana (Essere supremo) non sappia: egli sa tutto», conosce anche i segreti peccati di pensiero, penetra gli intimi moti del cuore, anche di notte. I Dama della montagna dicono: «Gawab è dappertutto e sa tutto», e i Wanyika: «Dovunque tu vada Dio ti vede». Bontà: l’Essere supremo, il Padre, è buono; perdona volentieri i peccati, vuole gli uomini felici, li invita a rivolgere a lui la loro fiduciosa preghiera, promettendo di aiutarli; se manda la morte è «per punire il male». Onnipotenza: una qualità, che contraddistingue in modo speciale l’Essere supremo della cultura primitiva è la sua illimitata potenza. Di lui alcune tribù australiane dicono che può andare dappertutto e fare quel che vuole. Gli Yamana dicono che «tutto viene sempre e solo dall’alto. Watauinewa dà la vita, dà i bambini, ma manda pure la morte. Può guarire gli ammalati, salvare dai pericoli, mandare il bel tempo». Egli è il padrone del suolo, degli animali; l’uomo coltiva il territorio che egli gli ha dato e non deve abusare dei suoi doni. Virtù creatrice: la creazione è il massimo atto dell’onnipotenza. Mai questa virtù è negata esplicitamente; tutt’al più è ignorata: un vecchio Yamana confessava all’esploratore Gusinde: «Non è la prima volta che mi si presenta questo dubbio.... Ho meditato in proposito e ne ho domandato ai grandi maghi e ai vecchi più autorevoli, ma nessuno ha saputo dirmi donde e come gli uomini sono venuti. Perciò non ne so nulla». Presso altre tribù, invece, abbiamo perfino l’idea di Creazione dal nulla! E pensare che nemmeno Aristotele, col suo ingegno, v’era arrivato. Così l’Essere supremo dei Maidu chiama per nome il sole, la luna, le stelle ed esse sorgono dal nulla. Gli Achemaw hanno un Creatore che fa venire a se col pensiero un pezzo di terra e lo lancia nello spazio vuoto per formare il mondo. Del Dio dei Wiyot si racconta: «Egli fece le cose congiungendo le mani e allargandole. Non adoperò nessun strumento, né sabbia, né terra, né verghe, per fare gli uomini: soltanto pensò, ed essi furono».
• L’origine della prima coppia umana è generalmente attribuita all’Essere supremo, che ne plasma il corpo e ne infonde l’anima. Ecco un racconto dei Pigmei, che sembra ricalcare, sia pure contraffacendolo in più punti, quello della Genesi (Cap. II): «Quando Dio ebbe finito di creare ogni cosa si sedette sulla sponda del ruscello vicino al grande villaggio degli animali. E il nome di Kmvum era Bali (forse il pensante). E prese della terra nera, della terra nera presso il ruscello e ne fece delle statuine, delle cose con braccia, gambe, teste e prese della terra rossa e prese della terra bianca... E la terra nera fece gli uomini neri, la terra rossa fece gli uomini rossi (cioè i Pigmei)... Ed Egli disse agli uomini: “Camminate”, e camminarono; “Mangiate e bevete”. (ex omni ligno Paradisi comede). Ed ecco a un tratto che Rhe, la grande scimmia, e Lui, il Gorilla, vennero tutti curiosi, saltando e sgambettando: “Su, su veniamo a vedere gli amici”. E Kmvum si rizzò irritato: “No, non è così che si deve dire, ma invece: È il nostro capo che veniamo a vedere”». (Trilles, Les Pygmées de la Forèt equatoriale, Paris, Muenster, 1932, pag. 70 citato dal Boccassino in Azione fucina, n. 14, 1939.).
• Molte popolazioni credono anche che i primi antenati abbiano visto l’Essere supremo, giacché alle origini avrebbe abitato presso di loro insegnando la caccia e le cerimonie sacre. Ma poi, per qualche colpa degli uomini, si sarebbe ritirato da loro. C’è chi crede — come pochi gruppi di Pigmei Africani — che un giorno forse ritornerà; pensano che Kmvum, anche dopo di essersi ritirato «là in alto», si curi ancora di loro. Secondo gli Algonchini di California, l’Essere supremo, essendo per sé sommamente buono, ha creato anche il mondo e tiene in mano la sorte di tutta l’umanità. Egli vuol tenere lontano dagli uomini la malattia, la morte ed anche ogni specie di agitazione e di disillusioni; i primi uomini vivevano in una regione dove esistevano in quantità selvaggina, pesci, e uccelli; il suolo produceva quanto occorreva all’uomo. Lavoro e fatica dovevano essere risparmiati; divenuto vecchio l’uomo doveva trasportarsi in alto, presso l’Essere supremo: beveva ad una fonte, si bagnava in un’altra e veniva rivestito di giovinezza immortale. In questo luogo di delizie l’uomo era in pace, ma Coyote, lo Spirito cattivo, non permise di goderne: indusse i primi uomini a disubbidire all’Essere supremo, ed allora essi furono espulsi da quel luogo. Con ciò entrarono nel mondo le fatiche, il lavoro, la malattia, le disillusioni, la morte...Per i Peda del Dahomey, è il serpente che induce gli uomini al male e Dio lo condanna aspramente: «Tu striscerai sempre nella terra, sarai calpestato, esposto tutto nudo agli sguardi degli uomini e resterai così disonorato...» (Aupiais, in Revue Apologétique, Maggio 1938). Anche la vita di ogni uomo dipende dall’Essere supremo: parecchi popoli (Semang, Ainu, Korjaki, ecc.) credono che egli infonda l’anima a ogni individuo.
• Il concetto della moralità. Tra tutti i primitivi, più o meno praticata, esiste una legge morale spesso molto elevata. Essa ha per base l’idea di un Essere supremo legislatore, perché padrone degli uomini. La sfera di tale legislazione non si estende egualmente presso tutti i popoli. Generalmente parlando, i precetti da essi conosciuti si riferiscono alle cerimonie e al culto, al rispetto degli anziani e della vita umana, alla moralità sessuale, al dovere di soccorrere i vecchi, i bisognosi, gli infermi. I giovani vengono istruiti ufficialmente nei loro doveri dagli anziani della tribù, durante le feste di iniziazione. Però l’ultima sorgente di tutte le regole e proibizioni è l’Essere supremo: «Bada bene — dicono i vecchi — noi anziani non abbiamo inventato le leggi e le prescrizioni vigenti; queste provengono tutte dall’Essere supremo. Se tu sarai negligente nell’osservarle, noi non te lo potremo impedire, ma l’Essere supremo vede le tue azioni ed il suo castigo certamente li raggiungerà». Se la moralità dei primitivi non è generalmente di basso livello, significa che essi osservano di fatto i divieti e i precetti dell’Essere supremo. Per essi il peccato è una disubbidienza fatta, a Dio.
• L’Essere supremo e l’ordine morale. Egli non è solo legislatore ma anche vindice della legge morale. Alcuni primitivi affermano che il premio in terra consiste in una lunga vita; il castigo nella malattia e in una morte prematura. Tutti, senza eccezione, credono in una vita futura e moltissimi anche in una sanzione. Secondo gli Andamanesi, Puluga, il Creatore, giudica le anime subito dopo la morte e pronuncia per ciascuna di esse la sentenza, inviandole o in Paradiso o in una specie di purgatorio. Qui possono purificarsi aspettando il giorno della resurrezione, in cui l’anima e il corpo di tutti gli uomini si ricongiungeranno per una nuova vita felice, che Puluga farà sorgere dopo un terremoto che distruggerà la terra. La speranza di sfuggire ai tormenti dell’altra vita influisce sulla condotta di quegli isolani. Per alcuni la vita dei buoni nell’oltretomba è una ripetizione di quella terrestre; altri escludono esplicitamente i piaceri dei sensi, il cibo, la procreazione, la sofferenza e la morte. Così i Maidu, i Wiradyri ecc.
• La sorte dei cattivi è chiaramente descritta come una punizione: per i Negrilli Ajongo c’è la pena del fuoco e del calore; per altri quella del freddo e del girovagare senza pace. Per gli Acciuabo l’anima cattiva, partendo dal mondo, passerà sul filo che conduce da questa vita alla felicità, ma il filo si spezzerà ed essa piomberà per sempre nella palude sottostante. Alcune tribù di Pigmei affermano che numerosi spiriti circondano il morente e, se fu cattivo, ne conducono l’anima al fuoco che si trova sotto terra. Gli Australiani raccontano che, in antico, quando gli uomini avevano dimenticato i buoni costumi, l’Essere supremo li punì mandando l’incendio e il diluvio universale.
• I precetti della legge morale. Diamo qualche esempio di quelli che si trovano più in vigore presso i primitivi. II nome di Dio non è pronunziato che raramente e con grande rispetto. Se nell’eccesso del dolore si danno a Dio dei titoli poco onorifici, come quello di «crudele», lo Yamana non va a letto senza aver chiesto perdono. I figli devono riverenza e obbedienza ai genitori, agli anziani, a quanti hanno autorità. Sono espressamente vietati l’affronto, l’insulto, la calunnia, l’avvelenamento, la rapina... Tra gli Andamanesi si è tenuti a risarcire i danni arrecati ad altri. Gli stessi, come pure i Ba-vili, condannano la menzogna come un grave peccato che provoca l’ira del Creatore. Ecco ancora qualche altro precetto: Se tuo padre è già morto e vedi un uomo bisognoso di qualche cosa, dagli ciò di cui ha bisogno e non mandarlo via dicendo: non ho niente a che vedere con lui... Se t’accorgi che un vecchio non è riuscito a raccogliere legna sufficiente per la notte, corri subito a raccogliere legna per lui. Con tuo marito non devi litigare per ogni piccolezza, altrimenti diventa impaziente e scontento... Sii operoso e non litigare con altri.
• Il senso del pudore. Secondo gli evoluzionisti la vita sessuale presso i primitivi sarebbe bestiale: invece non è così. Spiccato è il senso del pudore. Presso i Semang il P. Schebesta osservò che, quando un giovanotto, in presenza d’altri, pronunziò delle frasi oscene — in genere ivi molto rare — un uomo adulto si alzò di scatto gridandogli minaccioso: «Lawaid Karei! questo è un peccato contro l’Essere supremo Karei» e il giovane zittì all’istante. In una serie di tribù di questo stadio di civiltà (australiani sud-orientali, Negritos, Korjaki) troviamo il dovere della castità preconiugale tra le ragazze rigorosamente richiesto e quasi sempre osservato; eventuali trasgressioni sono punite severamente. Se in qualche luogo c’è meno rigore, ogni licenza cessa quando la ragazza ha concepito; colui poi che ne fu la causa deve sposarla. In questa antichissima fase non esistono matrimoni a gruppi, né promiscuità, né donne a prestito, né scambi di donne. Non vi sono i misfatti dell’aborto e dell’infanticidio: quest’ultimo o è affatto sconosciuto o, nei pochi casi in cui si verifica, non è dovuto a indifferenza dei genitori verso i figli, né ad assenza di idee morali, ma a gravi strettezze economiche. I peccati contro natura sono quasi affatto sconosciuti, come pure gli spettacoli e balli indecenti o le orge sessuali, sia segrete sia pubbliche, di qualsiasi genere.
• La famiglia. La monogamia è la forma nettamente più dominante nella società primitiva e molto più diffusa della poligamia. L’indissolubilità del vincolo matrimoniale non è dappertutto uguale, ma meno rigida tra i primitivi settentrionali. Presso i Pigmei d’Africa il matrimonio non si scioglie più quando ne è nato un bambino. Molto rara è anche l’infedeltà coniugale; essa è punita con pene severe, anche con la morte. La donna gode in generale diritti uguali a quelli del maschio e nella scelta ha valore soltanto la libera volontà dei due sposi, lasciando larga possibilità ai veri matrimoni d’amore. I figli sono allevati con affetto; la famiglia consuma i pasti in comune; l’autorità paterna è tenuta in grande considerazione. Il matrimonio fra consanguinei è severamente vietato presso quasi tutte le tribù: violare questo precetto sarebbe attirare su tutti i castighi del cielo.
• Gli atti di culto. Si riducono a due principalmente: sacrificio e preghiera. Parecchie tribù ignorano qualsiasi forma di sacrificio; fra quelle che lo conoscono la forma unica o predominante è l’offerta delle primizie: dopo la caccia o la raccolta delle piante, prima che alcuno osi toccare il cibo, piccole parti di questo vengono offerte all’Essere supremo, gettandole in alto, per riconoscerne il dominio su tutte le cose. Così presso i Pigmei. I popoli del ciclo artico usano offrire le parti migliori dell’animale. I Semang della Malesia praticano un sacrificio singolare: quando imperversa il temporale — segno per essi dell’ira di Dio — si cavano un poco di sangue dalla gamba e, misto all’acqua, lo lanciano verso il cielo con umili invocazioni di perdono e di pentimento. Se il temporale non accenna a cessare, ognuno confessa ad alta voce le sue colpe. L’offerta di cibo ai defunti è ignota presso quasi tutte le tribù primitive: quindi non si può ricollegare ad essa l’origine del sacrificio. La preghiera è quanto di più espressivo abbia l’animo di questi popoli: sentimenti di fiducia, di riconoscenza, di ricorso filiale, di pentimento: «Grazie, o Padre mio, che sei stato oggi benevolo verso di me». Etc... Preghiere belle, umane ed anche naturalmente cristiane!
• Sintetizzando in pochi tratti, possiamo concludere così: I Popoli primitivi non sono perciò stesso i più barbari e i più bestiali. Se posseggono una civiltà materiale appena abbozzata, hanno anche un livello morale molto elevato rispetto a popoli più progrediti. Forme di degenerazione religiosa o non si trovano presso di essi o sono di secondaria importanza e dovute per lo più all’influsso di popoli vicini. Di fronte a questi culti si afferma nettamente la fede in un unico Essere Supremo, Padre, Creatore, Vindice, Perfettissimo... Questi popoli, cristallizzatisi in un ordine di idee e presentanti una civiltà antichissima, debbono considerarsi come i più vicini rappresentanti, finora conosciuti, della umanità primitiva. Però il patrimonio culturale e religioso di questi popoli, ridotto a brandelli e disseminato su tutto il globo, è come la ganga che fa luccicare un filone d’oro: lascia cioè almeno intravedere quale fosse la vera forma primitiva di religione immensamente più ricca di forza e di vita. Al presente, non siamo ancora in grado di dare con esattezza e sicurezza scientifica una risposta positiva alla questione dell’origine dell’idea del gran Dio della cultura primitiva e della religione che a lui si riferisce. Siamo però in grado di dare alcune risposte negative in varie direzioni; possiamo cioè enumerare una lunga serie di elementi dai quali quella religione certamente non è derivata. Sono questi tutti quegli elementi sopra i quali si costruirono le molte teorie sull’origine della religione: il Feticismo, il Manismo, l’Animismo, il Totemismo, la Magia. La religione del gran Dio (Monoteismo) esiste proprio presso i popoli, lo abbiamo visto, più antichi, pertanto non può essere risultante di evoluzione. Proprio presso i popoli più antichi i suddetti elementi o non esistono affatto, come il Totemismo, il Feticismo, l’Animismo; oppure si manifestano, come la Magia e il Manismo, in forme debolissime, così deboli da essere per noi ininfluenti. Quindi le parole della Bibbia circa il Monoteismo dell’umanità primitiva, lungi dall’essere in contrasto con i dati della scienza, ne ricevono una bella conferma.
A cura di CdP