Stimati Associati e gentili Sostenitori, nell’ultimo periodo, come a voi ben noto, il settimanale Sursum Corda non è stato pubblicato. Vogliate accettare le mie più sincere scuse, ma una serie di ostacoli mi hanno impedito di lavorare al progetto con la abituale cadenza fissa. Oggi rivolgeremo le nostre attenzioni allo studio della Prudenza secondo i dettami della retta ragione e della dottrina cattolica. La prudenza è una virtù fondamentale.
Le virtù naturali sono molteplici. Alcune inclinano l’intelligenza alla ricerca e alla comprensione della verità e sono le virtù intellettuali (intelletto, scienza, sapienza, prudenza, arte); altre perfezionano la volontà inclinandola in modo costante al bene, migliorando i costumi, e si chiamano morali (dal latino «mores»: costumi): tali sono la giustizia, la fortezza, la temperanza, che con la prudenza sono la base o cardine, che regge tutte le altre virtù morali. Tutte le virtù naturali si acquistano ripetendo atti buoni.
Papa San Pio X ci insegna che ci sono due specie di virtù: le virtù naturali che acquistiamo ripetendo atti buoni, come quelle che si dicono morali. La prima specie è quella delle virtù naturali, così chiamate perché non eccedono le forze della natura umana e si possono acquistare con l’esercizio e lo sforzo naturale.
Il bimbo, ad esempio, è pieno di paura: teme le tenebre, la solitudine, il pericolo. A mano a mano che cresce, si sforza per vincere la paura, diventare coraggioso e ci riesce. Dapprima è spinto ad essere coraggioso dalla paura di essere canzonato dai fratelli. A poco a poco il coraggio si fortifica per un senso di dignità personale. Fatto giovanotto e portato dalle circostanze sul fronte di guerra, al primo scoppio di bombe è ripreso dalla paura ed è tentato di fuggire, di nascondersi, ma si domina, e dopo un breve tempo non prova più paura e il suo coraggio ormai è a... prova di bomba. Con lo sforzo e con ripetuti atti ha acquistato la virtù naturale della fortezza. Chi ripete spesso atti di obbedienza acquista, a poco a poco, la virtù dell’obbedienza. Invece ripetendo atti contrari alla virtù, si acquista il vizio opposto, per esempio il vizio della disobbedienza.
Abbiamo imparato che tutte le virtù naturali si acquistano ripetendo atti buoni, mentre le virtù soprannaturali, che non possiamo acquistare e nemmeno esercitare con le sole nostre forze, ci vengono date da Dio. Il pesce, per quanto veloce e agile nell’acqua, non può volare. Per slanciarsi in volo nell’aria libera è necessaria una trasformazione radicale. Al posto delle pinne laterali deve mettere le ali, al posto della pinna caudale una coda di piume, al posto delle branchie i polmoni... Prima dovrà essere trasformato in uccello e poi potrà volare. Finché resta pesce, il volo è sempre superiore alle forze e capacità naturali. Finché noi siamo soltanto dotati di anima e di corpo, d’intelligenza, volontà, sensi interni ed esterni, per quanto siamo perfetti siamo incapaci a compiere certi atti, che sono superiori alle nostre capacità e possibilità naturali. Per compiere un atto di fede nel mistero trinitario, per amare Dio come figli... occorre che siamo elevati al di sopra della nostra natura di uomini e trasformati in figli di Dio, mediante la grazia santificante e aiutati dalla grazia attuale. Solo allora potremo compiere atti soprannaturali di fede, di speranza, di carità e delle altre virtù.
La grazia santificante eleva il nostro essere. Le capacità o disposizioni delle virtù infuseci direttamente da Dio ci rendono capaci di compiere atti soprannaturali. Queste, buone disposizioni infuse da Dio si chiamano virtù soprannaturali. Con le sole forze naturali non riusciremo mai ad acquistare le virtù soprannaturali, che ci vengono infuse assieme alla grazia santificante. Ma neppure dopo che ci sono state infuse da Dio, possiamo esercitare con le sole nostre forze le virtù soprannaturali e fare, ad esempio, atti di fede, di speranza, di carità soprannaturali. Occorre l’aiuto della grazia attuale. Le virtù naturali rendono facile il compiere gli atti loro corrispondenti. Invece le virtù soprannaturali ci danno la capacità, ma non ancora la facilità di compiere i loro atti, che ci è data dalla grazia attuale.
A tal proposito sempre il P. Carlo Dragone, nel suo Catechismo commentato, ci riporta due esempi altrettanto significativi. Carlo IX Re di Francia domandò un giorno a Torquato Tasso: — Chi è il più felice? — Dio — rispose il poeta. — Questo lo sanno tutti, replicò il Re. Io non domando di Dio, ma degli uomini. Al che Torquato Tasso: — Colui che più di ogni altro si è reso simile a Dio, cioè l’uomo virtuoso. Demetrio Falereo per le sue eccellente doti e virtù fu eletto capo di Atene, vi restò dieci anni e governò tanto bene da meritare che gli venissero erette tante statue quanti sono i giorni dell’anno. Gl’invidiosi però lavorarono contro di lui, e a poco a poco gli alienarono l’animo del popolo, il quale finì con l’abbattere le statue di Demetrio e privarlo del potere. A chi aveva chiesto che cosa pensasse di un tale mutamento di fortuna, Demetrio rispose: «Hanno rovesciato le mie statue, ma non potranno mai abbattere le virtù alle quali furono innalzate le statue».
Le virtù proprie del cristiano sono le virtù soprannaturali e specialmente la fede, la speranza e la carità. Saremo tanto più cristiani quanto più perfette saranno in noi la fede, la speranza e la carità. Noi riceviamo le virtù soprannaturali insieme con la grazia santificante, per mezzo dei sacramenti o per l’amore di carità, e le esercitiamo con le grazie attuali dei buoni pensieri e delle ispirazioni con cui Dio ci muove e ci aiuta in ogni atto buono. Per agire e compiere gli atti di virtù abbiamo bisogno della grazia attuale, come la lampadina elettrica ha bisogno della corrente, e la lampada dell’olio. Il complesso delle virtù cristiane, di dice il P. Dragone, è come un meraviglioso albero, che produce i frutti più vari e più squisiti. Il naturalista romano Plinio racconta di aver visto a Tivoli un albero meraviglioso, innestato in tutti i modi possibili, che portava ogni genere di frutti. Un ramo era carico di ciliege, un altro di noci, un terzo di uva, altri di fichi, pomi, melograni e altre specie ancora. San Francesco di Sales paragona il complesso delle virtù a quest’albero, che ha la fede come radice, la speranza come tronco, la carità e le altre virtù come rami, le opere virtuose come frutti.
Papa San Pio X ci insegna che la virtù morale è l’abito di fare il bene, acquistato ripetendo atti buoni. Le virtù che hanno Dio per oggetto e per motivo si chiamano teologali; quelle che hanno per compito di togliere gli ostacoli a fare il bene e regolano i costumi secondo la legge di Dio si chiamano virtù morali. Nel Battesimo vengono infuse le virtù teologali e le virtù morali, che però danno soltanto la capacità di compiere atti soprannaturali e virtuosi. La facilità si acquista ripetendo gli atti buoni, in modo che si formano le buone abitudini o abiti virtuosi acquisiti. Perciò le virtù morali (che rendono buoni i nostri costumi), sono inclinazioni buone, abitudini di fare atti buoni, acquistate con l’esercizio. Ad esempio: la virtù morale dell’obbedienza si acquista ripetendo spesso atti di obbedienza, finché si giunge ad avere la facilità ad obbedire con costanza e prontezza.
Chi non si esercita nelle virtù con gli atti, non solo non acquista gli abiti morali virtuosi, ma perde anche l’abito soprannaturale virtuoso, che gli è stato infuso nel Battesimo assieme alla grazia. San Giovanni Climaco racconta che, a un convento che ospitava trecento monaci, si presentò un cittadino di Alessandria, chiamato Isidoro, e domandò di essere accolto tra i religiosi. Il superiore gli domandò se fosse disposto all’obbedienza, in tutto. «Padre mio, voglio essere nelle vostre mani come un pezzo di ferro nelle mani del fabbro ». L ’abate lo ricevette e gli assegnò l’ufficio di portinaio, ingiungendogli inoltre che si prostrasse ai piedi di chiunque si presentava, dicendo: «Fatemi la carità di pregare per me, perché sono un povero peccatore!». Per sette anni Isidoro esercitò quell’ufficio ed eseguì esattamente quello che gli aveva prescritto l’abate. Come confessò egli stesso, il primo anno gli costò grande sacrificio e gli pareva di essere uno schiavo, condannato alla catena per i suoi peccati. Ma ripetendo gli atti di obbedienza imposti a poco a poco li trovò meno difficili. Gli diveniva sempre più facile obbedire, finché ebbe acquistato l’abitudine buona dell’obbedienza, che gli faceva provare gioia e pace nel fare quello che gli aveva ingiunto il superiore. Isidoro giunse così a tal grado di perfezione, che l’abate aveva deciso di fargli ricevere gli ordini sacri, ma non riuscì a vincere l’umiltà del santo religioso, che gli domandò come favore insigne di poter continuare a fare il portinaio.
Le virtù morali sono molte. Alcune sono più importanti e altre meno. Quelle che hanno maggior importanza nella vita cristiana e che principalmente regolano i nostri costumi, rendendoli onesti e conformi alla legge divina, sono le quattro virtù cardinali, che sono il fondamento e la base di tutte le altre. Le virtù teologali ci uniscono direttamente a Dio come a loro oggetto creduto, sperato e amato. Le virtù cardinali regolano i nostri costumi in modo che possiamo esercitare le virtù teologali e aderire a Dio con tutto il nostro essere. Tutte le altre virtù morali dipendono dalle quattro cardinali, o come loro parti soggettive (aspetti particolari di esse), o come parti integranti, che le completano e perfezionano, o come parti potenziali. Tra le virtù dipendenti dalla giustizia ha particolare importanza la religione, che il Catechismo considera prima tra le virtù morali. La religione regola i nostri rapporti con Dio, conforme agli obblighi che ci derivano dai primi tre comandamenti del Decalogo.
Le virtù cardinali sono cosi chiamate, perché sono il cardine, cioè il sostegno delle altre virtù morali. I cardini sorreggono le imposte delle finestre e i battenti delle porte. Le virtù cardinali sorreggono tutte le altre virtù morali, che poggiano tutte quante sulla prudenza, sulla giustizia, sulla fortezza e temperanza e dipendono da esse o come parti soggettive, o come parti integranti, o come parti potenziali. Le virtù morali sono molteplici e si distinguono dall’oggetto cui inclinano, cioè dalla specie di bene che ci fanno praticare e secondo le facoltà umane che perfezionano e regolano nei loro atti.
I principi interni dai quali procedono tutti i nostri atti (attività morale) sono quattro: intelletto, volontà, appetito concupiscibile e appetito irascibile. Ognuna delle quattro virtù cardinali regola uno di questi principii delle nostre azioni. La prudenza regola e perfeziona gli atti dell’intelligenza in quanto si riferiscono alla moralità e ai costumi; la giustizia governa la volontà e ne dirige gli atti in modo che dia a ciascuno (Dio, se stessi, il prossimo) ciò che gli è dovuto; la fortezza regola l’appetito irascibile, facendo sì che le passioni che da esso procedono (ira, audacia, timore, speranza, disperazione) non trascinino la volontà al male, ma la spingano alla scelta del bene; la temperanza fa altrettanto riguardo alle passioni dell’appetito concupiscibile (amore, desiderio, gaudio, odio, fuga, tristezza). Tutta la perfezione della vita cristiana consiste nell’esercizio delle virtù teologali, morali e intellettuali.
La prudenza è la virtù che dirige gli atti al debito fine, e fa discernere e usare i mezzi buoni. «Allora il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini, le quali, prese le loro lampade, mossero incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque prudenti. Le cinque stolte presero sì le lampade, ma non portarono l’olio con sé. Le prudenti invece presero con le lampade anche l’olio nei loro vasetti. Ritardando a venire lo sposo, tutte si assopirono e dormirono. Ma sulla mezzanotte s’alzò un grido: Ecco, viene lo sposo; uscitegli incontro . Allora tutte le vergini si alzarono, misero in ordine le loro lampade, e le stolte dissero alle prudenti: Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono. Ma le prudenti risposero: Perché non ne manchi né a noi né a voi, andate piuttosto da chi ne vende e compratevene. Ora mentre andavano a comprarne, venne lo sposo e quelle che erano pronte entrarono con lui alle nozze e la porta fu chiusa. All’ultimo giunsero anche le altre vergini e gridarono: Signore, signore, aprici! Ma egli rispose: In verità vi dico: non vi conosco. Vegliate adunque, perché non sapete né il giorno, né l’ora» (San Matteo, XXV, 1-13).
Nostro Signore in questa meravigliosa parabola descrive il modo di agire di chi ha la virtù della prudenza e di chi ne è privo. Le fanciulle prudenti si propongono un fine: attendere lo sposo dell’amica e fargli onore. Scelgono i mezzi adatti: prendono le lampade, si provvedono d’olio, appena sentono il grido di gioia, che le avverte dell’arrivo dello sposo, accendono prontamente le lampade e si guardano bene dal privarsi dell’olio dandone una parte alle compagne imprevidenti. Così sono pronte, ricevono lo sposo con onore, sono ammesse al banchetto nuziale e conseguono pienamente lo scopo proposto. Invece le fanciulle stolte o imprudenti si propongono lo stesso fine di quelle prudenti, ma trascurano un mezzo indispensabile: l’olio. All’ultimo momento chiedono alle compagne parte del loro olio; avuto un rifiuto corrono a comprarne, ma è notte, stentano a trovarlo e quando giungono è troppo tardi: non hanno agito con prudenza, perché hanno trascurato i mezzi atti a raggiungere lo scopo.
La prudenza è la virtù che dirige gli atti al debito fine e fa discernere e usare i mezzi buoni. (NB: il fine NON giustifica mai i mezzi). La prudenza è una virtù soprannaturale, che viene infusa con la grazia e si rafforza con l’esercizio, diventando acquisita. La prudenza inclina prima di tutto a proporre un fine soprannaturale alle proprie azioni; proposto il fine fa ricercare, scegliere e usare i mezzi adatti per raggiungerlo. Chi, nelle sue azioni, non si propone un fine soprannaturale (per esempio. la gloria di Dio, la salute delle anime, la riparazione dei peccati propri e altrui, ecc. ) o, pur proponendosi un fine buono, non sceglie e non adopera i mezzi adatti per conseguirlo, è stolto. Lo stolto del Vangelo, che cominciò a edificare senza calcolare le spese necessarie, trascurò di ricercare i mezzi adatti e si rese degno delle derisioni altrui.
La prudenza è assolutamente necessaria per salvarsi, perché non si può meritare la vita soprannaturale se non si agisce con un fine retto e non si usano i mezzi di grazia indispensabili. La prudenza ha molte, virtù morali che le fanno corona. Virtù o parti integranti della prudenza. Per guidare al retto fine; nella scelta dei mezzi la prudenza si serve di parecchie virtù, che la integrano e completano: a) la memoria, ricordando esperienze, consigli, letture, ecc., li. offre alla prudenza perché se ne serva; b) l’intelligenza fa conoscere i principii secondo i quali la prudenza si deve regolare e le circostanze di cui deve tener conto; c) la docilità rende pronti a seguire i buoni consigli altrui; d) la solerzia trova subito i mezzi adatti per agire; e) la ragione trae con prontezza le conseguenze utili per agire; f) la provvidenza fa antivedere ed evitare gl’inconvenienti e gli ostacoli all’azione : g) la circospezione tiene conto di tutte le circostanze perché non vi siano deficienze nell’onestà dell’azione; h) la precauzione fa evitare ciò che può ostacolare l’onestà dell’azione.
Virtù o parti soggettive della prudenza. Sono i vari modi o aspetti con cui si esplica la prudenza: a) prudenza naturale, che si serve dei soli lumi dell’intelligenza naturale; b) prudenza soprannaturale, infusa nel Battesimo, si rafforza e perfeziona con l’esercizio e si serve soprattutto dei lumi della fede; c) prudenza monarchica (da «monos: uno solo»), o personale, che inclina l’uomo a ben governare e guidare se stesso; d) prudenza governativa (che può essere domestica, sociale, pastorale, giudicatrice) guida gli uomini nel governare gli altri.
Virtù o parti potenziali della prudenza. Sono come le ancelle o aiutanti al servizio della prudenza: a) eubulia: inclina a consigliarsi nei casi dubbi; b) sinesi: inclina a vagliare attentamente i mezzi proposti dall’eubulia, giudicando secondo le leggi comuni; c) gnome: fa giudicare rettamente nelle circostanze straordinarie, ma sempre secondo la mente del legislatore. Per esempio: la legge comune proibisce di rubare; ma la gnome mi dice che Dio non intendeva proibire di prendere ad altri quanto mi è necessario per non morire di fame.
Vizi, opposti alla prudenza. Si può peccare contro questa virtù, (come contro qualsiasi altra), o per mancanza di prudenza (peccati per difetto) o per un eccesso di prudenza (peccati per eccesso). Si oppongono per difetto i seguenti vizi: a) la precipitazione spinge ad agire senza prima aver riflettuto e deliberato sul fine e sui mezzi; b) l’inconsiderazione non tiene conto delle circostanze che possono viziare la bontà dell’azione; c) l’incostanza inclina a mutare fine e mezzi senza motivo; d) la negligenza fa trascurare i consigli dell’intelletto. Sono vizi contrari alla prudenza per eccesso: a) la prudenza della carne, che cerca con cura i mezzi e li fa usare per soddisfare le passioni cattive; b) l’astuzia, che si serve di mezzi ingiusti, come l’inganno e la frode, per conseguire uno scopo cattivo. Sempre il P. Dragone riflette: L’uomo prudente pensa e riflette prima di parlare e di agire. Abituiamo i giovani alla riflessione.
Il patriarca Giacobbe, fuggito in esilio per salvarsi dall’ira del fratello Esaù, al quale aveva carpito il diritto di primogenito, quando volle tornare in patria agì con grande prudenza, per vincere l’ostilità del fratello. Quand’ancora era lontano spedì alcuni messi per saggiare gli umori di Esaù, che non diede alcuna risposta e radunò quattrocento uomini per andare incontro a Giacobbe e fare le sue vendette. Temendo sempre più, Giacobbe divise i suoi greggi in due squadre, facendone precedere una, in modo che se il fratello avesse preso con la violenza la prima, egli potesse fuggire e salvare l’altra. Mandò anche ricchi doni al fratello, che consistevano in duecento capre e venti capri, duecento pecore e venti montoni, trenta cammelli con i loro piccoli, quaranta giovenche, venti asine, dieci buoi e dieci asini. Divise poi la sua famiglia in tre gruppi, facendo precedere i servi, poi i figli e infine seguiva egli con la moglie Rachele e il figlio prediletto Giuseppe. Esaù restò abbagliato da tanta ricchezza, commosso da tanti doni e onori, specialmente quando vide il fratello avvicinarsi e prostrarsi sette volte. Vinto e commosso Esaù depose ogni proposito di vendetta, abbracciò il fratello, lo baciò e pianse di contentezza.
Tra i monaci della Tebaide era sorta una disputa per sapere quale fosse la virtù più necessaria a progredire nella perfezione cristiana. Alcuni assegnavano il primo posto alla penitenza con le astinenze e i digiuni, altri al distacco dalle cose mondane, altri alla solitudine, altri alla misericordia... Sant’Antonio concluse la disputa dicendo: «Tutte le virtù che voi esaltate meritano grandissima lode. Ma l’esperienza di tanti errori e passi falsi, che ho veduto commettere da molti, mi persuade che la virtù più necessaria di tutte a progredire nella perfezione è la prudenza, che è come la direttrice e la guida di tutte le altre. Quando manca la prudenza non tardano a giungere l’errore e il peccato».
Le passioni sono commozioni o moti violenti dell’anima che, se non sono moderati dalla ragione, trascinano al vizio e, spesso, anche al delitto. In noi vi sono forze o inclinazioni potenti che ci spingono alla ricerca del bene che ci può fare felici. Le inclinazioni o appetiti fondamentali sono due: l’appetito concupiscibile o propensione al godimento del bene, e l’appetito irascibile, o propensione che riguarda gli ostacoli che si oppongono al conseguimento del bene, cioè il bene in quanto è arduo. Dall’appetito concupiscibile nascono queste passioni o moti dell’anima: amore per il bene in generale, desiderio del bene quando è lontano, gaudio per il bene presente, odio per il male in genere, fuga del male assente, tristezza per il male presente. L’appetito irascibile dà origine a queste passioni: ira o indignazione per il male sensibile, audacia nell’affrontare il male presente, timore del male assente, speranza di vincere il male e conseguire il bene, disperazione di vincere il male e di conseguire il bene. Le passioni sono forze potenti, che hanno il compito di aiutare e potenziare la volontà nella ricerca del bene e nella fuga del male. Prima del peccato erano un aiuto prezioso, perché spingevano la volontà verso il vero bene e l’allontanavano dal vero male. Dopo il peccato originale l’intelligenza si oscurò e spesso erra ritenendo come bene il male e come male il bene; la volontà è stata indebolita, e facilmente può essere sopraffatta dalle passioni, che inclinano più al male che al bene, più al bene apparente che a quello vero. Le passioni sono così diventate un incentivo al male e spesso sono causa di peccato. Le passioni devono essere regolate dalla ragione e dominate dalla volontà, la quale, con l’aiuto della grazia, riesce, non a distruggerle, il che sarebbe impossibile, ma a contenerle e a dirigerle al bene e a servirsene come di un mezzo efficace e potente. Per esempio, i ragazzi che NON sono abituati a dominare la gola e l’ira, molto facilmente da adulti diventano sensuali e rissosi.
Chi vuol vivere la vita cristiana e praticare le virtù deve prima di tutto combattere le passioni cattive. Però sarebbe sforzo vano e inconcludente attaccare tutte le passioni assieme. Occorre combatterle ad una ad una, cominciando da quella che è predominante, che anima e guida tutte le altre. Ciascuno di noi ha una passione che è più forte delle altre. Per molti è la superbia, per altri la pigrizia, per altri la gola... Nel combattere le passioni è indispensabile prenderle ad una ad una, abbatterle e domarle separatamente, come si racconta che fece l’unico superstite dei tre fratelli Orazi contro i Curiazi. Narra la leggenda che, per evitare una guerra imminente, i Romani e i loro nemici si accordarono di affidare le sorti della guerra a un combattimento singolo fra tre fratelli romani, detti Orazi, e tre fratelli avversari, detti Curiazi. Nella lotta erano già caduti due degli Orazi e restavano ancora i tre Curiazi. L’unico Orazio superstite ricorse allora all’astuzia e si diede alla fuga. I tre avversari lo rincorsero, distaccandosi imprudentemente l’uno dall’altro. Il romano, quando si avvide che erano sufficientemente distanziati, si volse indietro, affrontò il primo dei Curiazi e lo uccise. Quindi riprese la fuga e l’inseguimento. Voltosi nuovamente e d’improvviso vinse, uccise il secondo avversario e infine anche il terzo.
Saul era stato eletto da Dio re d’Israele per le sue ottime qualità e virtù. Ma non seppe reprimere alcune passioni, che lo condussero alla rovina. Dapprima fu preso dalla gelosia verso Davide, che si era acquistato grande popolarità uccidendo il gigante Golia. Dalla gelosia passò alla diffidenza, che lo spinse a spiare tutti i passi di Davide. Infine divenne ingiusto e, spinto dall’odio, tentò ripetutamente di uccidere Davide. Riprovato da Dio per la superbia e per le disobbedienze agli inviati del Signore, morì suicida, dopo aver perduto la battaglia. Il suo regno fu dato da Dio a Davide. Giuda non represse in tempo la passione dell’avarizia, cominciò con i piccoli furti, la passione crebbe sempre più, finché lo spinse a vendere il Maestro per trenta vili monete. Non volendo resistere alla disperazione, quando vide il Maestro condannato andò a impiccarsi. Fin qui i preziosi insegnamenti del P. Carlo Dragone.
Studiamo, adesso, la medesima voce nella teologia morale, dal Roberti-Palazzini. Intesa in senso largo, la prudenza consiste nell’escogitare, scegliere ed attuare i mezzi adatti per raggiungere qualunque fine o evitare qualunque male. Così si parla di un industriale o di un commerciante prudente, e il Signore ha detto che i figli del mondo sono più prudenti dei figli della luce. In senso stretto e eminente, la prudenza consiste nell’investigare, proporre alla volontà, ed ingiungere alle potenze esecutive, ciò che è adatto per raggiungere il nostro fine ultimo vero, che è Dio. Intesa in questo senso, la prudenza è un atto virtuoso.
Entro l’ambito della prudenza strettamente detta, bisogna distinguere: un giudizio bensì pratico, ma non ancora ultimo-pratico, il giudizio ultimo-pratico, e il dettame imperativo che dirige le potenze esecutive. Prima di porre un’azione, è necessario infatti investigare e giudicare se è moralmente buona: cosa da fare senza ingiustificate esitazioni o ansie, ma anche con diligenza proporzionata alla gravità della cosa e alle condizioni soggettive. Per potersi formare bene la coscienza, prima di agire, bisogna considerare attentamente le norme generali della moralità e i particolari del caso presente. Nei casi più complessi, sarà a volte necessario interrogare la propria esperienza ; prevedere le difficoltà che possono sorgere nell’eseguire una cosa, e le conseguenze che può avere un’azione, per noi stessi e per altri; consultare con docilità uomini savi e sperimentati, in specie il proprio direttore spirituale, senza dimenticare di ricorrere al migliore dei consiglieri, lo Spirito Santo.
Siccome siamo ordinati a un fine soprannaturale, la nostra prudenza deve attingere luce dalle verità rivelate, e non dalle sole verità di ragione. La volontà può impedire il portare, secondo le regole della prudenza, ossia nel modo dovuto, un giudizio circa la moralità di un nostro atto. Distinto da questo giudizio, non ancor ultimo-pratico vi è il giudizio ultimo-pratico, che consiste nel giudicare puramente buono, al momento presente (simpliciter bonum, hic et nunc), quello che è onesto, e quindi adatto per raggiungere il nostro fine ultimo: giudizio da emettere, senza esitazioni o indugi, qualora si tratti di una cosa che apparisce doverosa. Questo giudizio è il principale, tra gli atti della prudenza. È, però, sotto un certo aspetto, dipendente dalla volontà: l’intelletto, infatti, non potrebbe giudicare meramente buona una cosa, che si manifesta inadeguata all’oggetto della volontà, se questa non si arrendesse alla medesima cosa, con una autodeterminazione per la quale esistono ragioni sufficienti, ma non ragioni costringenti, poiché l’oggetto della volontà è il bene senza limiti. Siccome, però, la volontà non vuole se non ciò che le viene presentato come puramente buono, la suddetta scelta dipende, sotto un altro aspetto, dal simultaneo giudizio ultimo-pratico. Questi due atti, dipendenti uno dall’altro, formano un tutto completo, sotto l ’aspetto morale. All’ultimo giudizio pratico segue, quando è d’uopo, da parte dell’intelletto mosso dalla volontà, il dettame imperativo, che dirige le altre potenze, nell’esecuzione di ciò che è voluto.
Siccome non vi è peccato senza un giudizio ultimo-pratico in opposizione con le regole della prudenza, ogni peccato è contro la prudenza. Questo difetto generale non costituisce, tuttavia, un peccato specificamente proprio. Vi sono però peccati che consistono nella trascuranza o nell’abuso di elementi propri alla prudenza; essi costituiscono una propria specie: sono peccati contrari alla prudenza, sia per difetto, sia per eccesso. Poiché però la colpevolezza suppone la libertà, è evidente che essa non può esistere se non nell’atto della volontà; mentre gli atti delle altre potenze, anche dell’intelletto, possono essere peccaminosi soltanto per partecipazione, in quanto, cioè, dipendenti da un atto inordinato della volontà, con il quale formano un tutto, sotto l’aspetto morale. Per difetto, sono opposte alla prudenza: l’inconsiderazione e la precipitazione, che consistono nell’emettere un giudizio pratico e nell’agire, senza aver considerato sufficientemente tutto ciò che è necessario prendere in considerazione, prima di giudicare e di decidersi: la colpa è mortale, qualora si incorra un serio pericolo di trasgredire una legge, in materia grave, o si disprezzino addirittura le regole prudenziali o un precetto grave; la esitazione, che è la mancanza di dovuta prontezza nel giudicare puramente buono e nell’eseguire ciò che è apparso doveroso: di per sé, è colpa veniale; sarebbe tuttavia una colpa mortale l’applicare l’intelletto a deliberare seriamente intorno alla convenienza di compiere un dovere grave; l’inconstanza, ossia il desistere, senza motivo sufficiente, dal proseguimento di una cosa buona, anteriormente voluta: di per sé, è colpa veniale, può essere però colpa mortale, a ragione di ciò che viene tralasciato; la negligenza, che consiste nel tralasciare l’ingiunzione e l’esecuzione di una cosa doverosa: il grado di colpevolezza dipende da ciò che viene omesso.
Per eccesso, sono opposte alla prudenza false somiglianze di essa: l’escogitare, lo scegliere e l’eseguire mezzi opportuni per appagare l’immoderata brama dei beni materiali, degli onori e dei piaceri (prudenza della carne): il grado di colpevolezza dipende dalle disposizioni d’animo e dalla natura dei mezzi scelti; l’escogitare e lo scegliere mezzi scaltri per conseguire un fine sia buono che cattivo, in particolare mezzi che sembrano onesti e che non manifestano nessuna intenzione cattiva, affine di danneggiare il prossimo (astuzia), e il mettere in opera, a parole o a fatti, mezzi astuti (inganno e frode): la colpa è più o meno grave, a seconda delle disposizioni d’animo e dell’entità del danno cagionato; l’eccessiva sollecitudine per l ’acquisto e la conservazione dei beni temporali, o per cose che possono accadere nel futuro: la colpa è grave, quando si fa di queste cose il fine ultimo, e quando la sollecitudine è tale da far trascurare qualche dovere grave. Vi è però una moderata sollecitudine intorno alle cose temporali, che non è peccaminosa, ma prudente.
Ognuna delle virtù cardinali è come un centro, attorno a cui si muove un corteggio di virtù, in certo senso minori e che quindi si sogliono chiamare parti di quella virtù, parti soggettive, integrali o potenziali.
Parti soggettive della prudenza. Sono le specie minori in cui si distingue. Esse possono ridursi: alla prudenza monastica o personale, che riguarda il governo del singolo, e alla prudenza governativa o collettiva, che riguarda il governo della comunità; questa a sua volta può suddistinguersi in economica o domestica, se riguarda la famiglia o comunità minori, e politica, se riguarda la società perfetta, sia civile che ecclesiastica; alla politica si riduce la prudenza amministrativa, la militare, la internazionale e così via.
Parti integrali della prudenza. Sono le attitudini che concorrono a perfezionarla. Di esse alcune mirano a perfezionare l’aspetto conoscitivo, e cioè la memoria del passato, l’intelligenza del presente, la docilità, la solerzia e la ragionevolezza; alcune a perfezionare l’aspetto precettivo, e cioè la provvidenza, la circospezione e la cautela. La memoria del passato è il tesoro delle esperienze che orientano e danno norma per regolarsi sul presente. L’intelligenza è la retta conoscenza e valutazione pratica delle circostanze, nelle quali ci si trova attualmente ad agire. La docilità dispone a ricevere e far tesoro delle lezioni proprie ed altrui del presente e del passato. La solerzia o sagacia anima e sprona e sorregge nella vigile esplorazione del da fare. La ragionevolezza pondera e valuta a fil di logica tutti questi elementi. La provvidenza spinge innanzi quanto può l ’attenzione, come per prevedere il futuro che è conseguenza del passato e del presente, e predispone i mezzi. La circospezione gira tutta intorno il lungo raggio della provvidenza. La cautela o accortezza considera attentamente i pericoli o i danni che possono venirne e predispone efficacemente i mezzi preventivi.
Parti potenziali della prudenza. Sono le virtù minori, che da essa, come da matrice, germogliano e ad essa a loro volta servono: stanno ad essa come le potenze all’anima, che delle potenze stesse si serve per agire: esse sono il buon consiglio, il buon senso, il senso dell’eccezione. Il buon consiglio è l ’abito di ben ricercare e trovare a tempo e luogo opportuno i mezzi convenienti al fine. Il buon senso è l ’abito di ben giudicare e valutare secondo le regole comuni. Il senso dell’eccezione è l’abito di saper distinguere i casi che esorbitano più o meno dalle norme comuni e saperne tenere il giusto conto, secondo l ’esigenza di superiori principi; esso guida e modera la retta applicazione della norma e la giusta applicazione dell’equità e dell’epicheia.
Il Dizionario di teologia dommatica Piolanti-Parente-Garofalo aggiunge importanti nozioni sulla prudenza e sulle virtù più in generale. La virtù è un abito operativo che San Tommaso, sulla traccia di Aristotele, definisce: «Buona qualità della mente, per cui si vive rettamente e di cui nessuno può servirsi per il male». Alla virtù si oppone l’abito cattivo che è il vizio. Le virtù naturali si acquistano con la ripetizione costante degli atti buoni e si distinguono in virtù intellettuali e virtù morali. Quattro sono le virtù fondamentali dette anche cardinali (da cardine): 1) Prudenza: «recta ratio agibilium» = scelta ed ordine dei mezzi al fine. Regina delle virtù cardinali propria dell’intelletto. 2) Giustizia: abito che inclina la volontà a fare quel che si deve, secondo la ragione. È virtù sociale (in rapporto ad altri). 3) Temperanza: modera l’appetito concupiscibile (la passione del piacere sensibile). 4) Fortezza: modera o corrobora l’appetito irascibile contro le difficoltà.
Le virtù soprannaturali sono abiti infusi da Dio nelle facoltà insieme con la grazia santificante che è infusa nell’essenza dell’anima. Secondo la dottrina comune tra queste virtù si pongono anche le cardinali qui sopra elencate, che perfezionano ed elevano quelle naturalmente acquisite. Ma le principali virtù infuse sono quelle teologiche perché hanno Dio come oggetto formale (mentre le cardinali hanno per oggetto un bene finito). Le virtù teologiche sono tre: 1) Fede: inclina l’intelletto (e la volontà) ad aderire fermamente alla parola rivelata da Dio. 2) Speranza: inclina la volontà a confidare in Dio buono ed onnipotente per ottenere da Lui la vita eterna (bene sommo difficile) e le grazie per meritarla. 3) Carità: inclina la volontà ad amare Dio per se stesso, e noi e il prossimo per Dio. È la regina delle virtù teologiche, che fa unire a Dio come Dio e come presente. Essa, avendo per oggetto proprio e formalissimo Dio, fine supremo, è, secondo San Tommaso, forma, madre, radice, motore di tutte le altre virtù. Pensiero ampiamente sviluppato in San Paolo nel bellissimo cap. 13 della la Lett. ai Corinti. La carità è intimamente connessa con la grazia santificante e però insieme sono infuse, insieme si perdono col peccato. La fede e la speranza invece possono rimanere nel peccatore senza la grazia e la carità: in questo caso si chiamano fede e speranza informi, mentre con la carità si dicono formate. Al momento dell’infusione della grazia sono infuse anche tutte le virtù e i doni dello Spirito Santo [Cfr. Conc. Vienn. (DB, 483) e Conc. Trid. (DB, 800)].
a cura di CdP