Stimati Associati e gentili Sostenitori, rispondiamo ad alcune obiezioni utilizzando il volumetto SOS «Brevi risposte a varie difficoltà», G. Monetti, imprimatur 1944. • Dall’inferno non si esce più? — Ci sarà il Giudizio Universale: — tutti gli adulti (tutte le persone vive o morte in età di ragione, ndR) vi prenderanno parte insieme: — tra questi adulti i dannati saranno moltissimi, né potranno andare al Giudizio senza lasciare l’Inferno: — come dunque si può dire che chi cade nell’inferno non ne esce più?
Rispondiamo — Distinguiamo bene tra Inferno e Inferno... — C’è l’Inferno «materiale», cioè la prigione infernale, il luogo di reclusione dei dannati — supponiamo un qualche cosa di simile all’Inferno Dantesco, sebbene immensamente più orribile —; e c’è l’Inferno «personale» immanente al dannato, cioè il suo «stato di pena» integrato dalla pena del danno e dalla pena del senso. In ordine al dogma dell’eternità delle pene (questa e non altro significa la frase obbiettata: «Dall’inferno non si esce più»), quello che più conta è la perpetua eternità dell’Inferno immanente, che il dannato si porta con sé ovunque egli vada; sia che, per ordine di Dio, venga trascinato al Giudizio Universale, come accadrà di tutti i dannati nel giorno della finale risurrezione; sia che, per disposizione o permissione divina appaia ed operi in questo mondo, com’è dei diavoli, dei quali si legge che «ad perditionem animarum pervagantur in mundo», cioè ne va piena la terra a prova della nostra virtù, ad esercizio della nostra pazienza, talora a castigo della nostra temerità.
Quanto al luogo, invece, esso è cosa soltanto secondaria, accidentale; la dannazione non è punto sostanzialmente costituita dal trovarsi o non trovarsi il dannato confinato in quello. — Proprio come accade del Paradiso — anch’esso, come la dannazione, eterno in quanto non avrà più interruzione. — Per i suoi felicissimi possessori, esso consiste sostanzialmente nella vista di Dio immediata, nella partecipazione alla beatitudine stessa di Lui, dunque nel conseguente sconfinato possesso di ogni bene, giusta la personale e soprannaturale capacità del beato. Solo accidentalmente per Paradiso si significa il luogo speciale da Dio singolarmente destinato a manifestarvi la Sua divina magnificenza nella glorificazione degli eletti. — Perciò il Divino Agonizzante Gesù Crocifisso ben poté promettere per quella stessa sera il Paradiso al ladrone convertito, dicendogli esplicitamente: — «Hodie mecum eris m Paradiso!» — sebbene soltanto dopo quarantadue giorni dovesse aver luogo l’Ascensione di Gesù Cristo risorto al Cielo, e quindi l’entrata effettiva di quel predestinato e degli altri Santi dell’Antico Testamento a quel luogo particolare della beatitudine (fino a quel giorno le anime dei giusti abitavano il Seno di Abramo o Limbo dei Padri, ndR).
Del resto ciò derivasi dalla natura stessa delle cose. In che consiste la beatitudine? Nella vista immediata e svelata di Dio, e nel pieno possesso di Lui. Ora Iddio è in ogni luogo, e in ogni luogo può mostrarsi glorioso al beato ed ammetterlo alle gioie tutte proprie delle ineffabili tenerezze dell’amor suo, cioè «imparadisarlo» di Sé. L’ubicazione dell’eletto non c’entra per nulla. — La Beatrice Dantesca, l’Angelo che spalanca all’Alighieri con la sua verghetta le porte di Dite, erano beati, in pieno Paradiso; tal Paradiso, cioè la pienezza della loro rispettiva felicità, e l’uno e l’altra se la portarono sin nell’Inferno, ove accidentalmente discesero in soccorso del Poeta pericolante. Dappertutto l’eletto è insieme col suo Dio; dappertutto Dio e il beato spirito si trovano insieme congiunti intellettualmente, e a vicenda si contemplano, si amano, si possiedono; questa è la beatitudine! Il nostro Alighieri la diceva: «Luce intellettual piena di amore; Amor di vero Ben, pien di letizia; Letizia che trascende ogni dolzore!».
Tutto il resto, di per sé non è propriamente il Paradiso, sebbene possa appartenere esclusivamente al Paradiso. Pensiamo alle bellezze, alle delizie dell’Eden: per quanto fossero grandi, sconfinate, scevre di ogni mala mistura di noie, timori, privazioni, rimorsi, ecc..., non costituivano davvero il Paradiso di Beatitudine, ma soltanto il Paradiso «terrestre»; tanto terrestre che vi poté entrare il diavolo a farvi il suo triste mestiere di ingannare l’uomo, di farlo prevaricare, e così ucciderlo spiritualmente, quanto alla vita soprannaturale della grazia. E i nostri progenitori erano ancora là quando sentirono in sé il pungolo del rimorso implacabile della coscienza, e le ribellioni umilianti del fomite vizioso, e gli arcani timori della Divina Giustizia...
Ma torniamo ai dannati. — In che sta propriamente per essi l’Inferno? Nella privazione della vista di Dio, alla quale sempre spasmodicamente aneleranno, come a proprio ultimo fine, pur sempre da quella inesorabilmente reietti... — E ne consegue l’angoscia immensa dell’anima per tanta jattura, e il cruccio disperato nel capire chiarissimamente, inequivocabilmente, che tanta perdita sarà irrimediabile, assolutamente eterna, e la vergogna di sé e il rimorso del doversi personalmente chiamare in colpa della perdita immane, irreparabile, pienamente volontaria. E tutto questo è privazione personale, e coscienza che non dipende per nulla dal luogo ove il dannato si trovi, ma gli è immanente, ovunque egli vada o rimanga... Ma il fuoco, e gli altri positivi tormenti del senso? Neanche questi sono legati a un’ubicazione determinata, sebbene sia vero che più particolarmente si infliggono ai dannati nel carcere infernale. Iddio non ha bisogno della materiale particolarità di luogo per infliggere tali pene. — La loro fiamma è immanente a quelle faci (ardenti e vive) che sono i dannati, investite dagli ardori delle divine vendette!
a cura di CdP