Stimati Associati e gentili Sostenitori, rispondiamo ad alcune obiezioni utilizzando il volumetto SOS «Brevi risposte a varie difficoltà», G. Monetti, imprimatur 1944.
• — Dolore! Breve parola: ma quanto comprensiva! Essa comprende, nell’ampiezza del suo significato, tutto ciò che può affliggere l’uomo: disagi, malattie, privazioni, disdette, incertezze angosciose, intime pene dell’animo, lugubri separazioni; insomma tutto ciò che, ruvido come la rocca dell’alpe, pungente come la spina della boscaglia, insanguina l’uomo sul sentiero della vita. E il dolore si perpetua con la vita umana; vagisce e lacrima il neonato, come lacrima ed ansima agonizzante il moribondo. Ora, come conciliare tutto questo con l’infinita bontà di Dio, con la sua potenza, sapienza, giustizia e provvidenza? Come conciliarlo anche con la dignità dell’uomo, e con le esigenze della sua propria natura? Che l’uomo colpito dal dolore è come l’albero colpito dal fulmine, o come nave che piega sul fianco trabalzata dalla tempesta!... Eppure l’uomo non è fatto per il dolore, ma per la felicità, che è luce serena, vita radiosa, gioia perfetta. Com’è, dunque, che il dolore regna tra noi?
• Confessiamo subito che il problema del dolore umano è, tra i problemi, quello che forse ha più affaticato a risolverlo gli umani ingegni; e che, fuori del Cristianesimo, non trovò soluzione soddisfacente: soluzione, cioè, che insieme persuadesse e consolasse il cuore e riasciugasse le lacrime. La Chiesa invece ci riuscì: proiettò sulle tristi caligini del dolore i raggi possenti della sua dottrina; e il dolore fu spiegato, consolato, nobilitato, consacrato, diremmo quasi divinizzato. Chi riesca a persuadere chi soffre, che il suo dolore, se si risalga alle ultime cause, non è capriccio crudele di chi si piaccia del penare altrui, come non è neanche un duro colpo menato alla cieca da non so quale arcana potenza irresponsabile, che qua percuote senza ragione, come là senza ragione prospera ed esalta. Chi possa mostrargli, per entro la scorza amara del dolore, il dolce seme e salutifero ch’essa racchiude, colui ha già fatto molto per temperare all’afflitto l’acerbità della pena, quando pur non riesca a racconsolarlo del tutto. Non è vero che la rassegnazione piena al patire è già un gran balsamo al cuore esulcerato? Ebbene la Chiesa spiega il dolore, e lo fa accettare ai suoi fedeli con pace rassegnata. Innanzi tutto essa avverte l’afflitto che non è ragionevole il pretendere da Dio che in suo favore sconvolga o sospenda prodigiosamente il corso spontaneo della natura, secondo il quale il dolore fisico è ordinato ad ammonirci di ciò che ci è necessario (per esempio la fame ci eccita alla ricerca del cibo), e, viceversa, di ciò che non ci conviene (per questo la sua presenza ci dà della pena, eccitandoci ad eliminarlo od allontanarlo da noi).
• Secondo la sua natura, l’uomo ha corpo corruttibile, soggetto ai dolori di una graduale dissoluzione; ha altresì le sue passioni, soggette al libero arbitrio, e versatili tanto al bene quanto al male; libertà e passioni, che, stante l’ingenita corruzione operata in noi dal peccato originale, sono fonte di dolori sopra dolori. Ecco una prima spiegazione del dolore. Di più la Chiesa mostra l’opportunità del dolore. Essa ricorda che ogni colpa esige la sua pena: e l’uomo è colpevole tanto! Ricorda che l’energia delle passioni è energia selvaggia, buona in sé, ma facile al trasmodare; quindi la necessità del freno e della ronca che ne stralci i soverchi germogli; il che non si fa senza dolore o coazione penosa.
• Ricorda ancora che, come nel corpo, così nell’animo, spesso fanno presa i mali germi, e l’infarciano di umore maligno; quindi ad impedire la corruzione ci vuole il taglio doloroso del chirurgo: e il chirurgo dell’anima è, appunto, il dolore. Con ciò essa mostra nel dolore una via sbrigativa per pagare i proprii debiti con Dio, per migliorare se stesso, per guarire delle proprie infermità; e non è questo un confortare efficacemente colui che è in preda dell’amarezza?
• Ma ciò non le basta: la Chiesa nobilita il dolore! Di fatto ci mostra in esso come lo strumento di un’arte tutta sovrumana, e come una scala che si erge sublime alla vera grandezza. Certo tra le grandezze umane non c’è altra che sia superiore a quella della virtù, od anche l’adegui; — tra le virtù poi — a parità di altre condizioni — più giganteggia quella che ha più dell’arduo. L’eroismo è come l’apogeo della vera grandezza; ma non c’è eroismo se non di fronte a straordinaria difficoltà. Laonde dire eroismo è dire sacrificio affrontato per un ideale superiore, e costanza serena di fronte all’impeto del dolore. Perciò la Chiesa ci addita il dolore come strumento di virtù efficacissimo, il quale corregge l’uomo, lo fa rientrare in sé, lo inizia al timore santo di Dio, principio della sapienza. Ed è appunto per mezzo del dolore, che, come per mezzo di una scala gigante, ascesero grado grado i Martiri alla loro altezza sublime; — esso è che educava alla Chiesa quella progenie di più veri eroi che è la moltitudine sterminata dei Santi.
• Travagliati dal dolore come masso marmoreo dallo scalpello, quei servi fedeli di Dio vennero man mano assumendo forme spirituali ogni ora più leggiadre, più rispondenti al divino ideale; ed è così che adeguarono un giorno il disegno di Dio, sorridendoci ora dal Cielo, fulgidi di soprannaturale bellezza e perfezione. Poteva farsi di più per la riabilitazione del dolore, per giustificarne la presenza del mondo? Eppure la Chiesa passò ben oltre! Essa circondò il dolore di un nimbo divino, portandolo all’apoteosi. Basta entrare in qualsiasi tempio cristiano, dalle sontuose cattedrali alla più umile cappelletta delle nostre campagne; basta guardarvi l’altare per vedervi inalberata la Croce; e su quella Croce a- doriamo confitto l’Uomo-Dio, che ci mostra nelle sue piaghe, nelle ferite, nel sangue sparso, tutta una storia di dolore, ch’è in pari tempo divina storia di amore. A tal vista l’uomo, che prima rifuggiva per istinto dalla sofferenza, ora la guarda e vi s’affisa estatico, e vi s’intenerisce sino alle lacrime, e s’accende di brama di emulare nel sacrificio quell’amore che Gesù sospinse sino alla morte. — Ciò spiega come l’umanità, meravigliata, assista tutto giorno all’eroismo spontaneo e sorridente di cento e cento giovani che sacrificano divertimenti, famiglia e patria per darsi alle fatiche dell’apostolato nelle missioni; — di cento e cento fiori che, rinunciando alla loro parte d’aria, di sole, di profumate rugiade, si rinchiudono per sempre negli ospedali, nei ricoveri, nelle scuole del popolo, negli asili infantili! E, poggiando tuttora più in alto, si capisce altresì come certi spiriti più intimamente e più perfettamente cristiani, in contemplare amando, e in amare contemplando Gesù Crocifisso, siano giunti a fare del dolore il loro programma, il loro ideale, il loro sogno, la loro vita, finché dovevano rimanersi quaggiù!
• Parlo di un San Paolo, che misticamente si affermava confitto in Croce col suo Gesù dolorante: di un San Giovanni della Croce che domandava a Gesù, come caro premio del suo amore a lui, alle sue fatiche per lui, nient’altro che «pati et contemni pro Te!»: — di una Santa Teresa di Avila, che al divino suo Sposo Crocifisso domandava di patire per lui o di morire — «aut pati aut mori!» — come se senza dolore per il suo Dio già la vita le trascorresse insipida, insignificante, indegna di viverla: — di una Santa Maria Maddalena dei Pazzi, la quale, più ardita ancora esclamava e pregava: — «Non mori, sed pati!» — Morta non potrei più patire per il mio Signore: che perciò mi si prolunghi la vita, per tener compagnia con le mie sofferenze per lui a Gesù agonizzante! Ecco sino a qual punto di morale grandezza sa elevare il dolore un’anima ben istruita nella fede cristiana, e bene sperimentata nelle vie di Dio: beati noi se, fatta tacere in noi la nostra ipersensibilità, imparassimo sul serio, e mettessimo poi in pratica generosa queste lezioni della scienza dei Santi! Quanto diversa non ci trascorrerebbe la vita!
• Replicano i detrattori: Sì! Ma intanto come riuscire a vincere l’affanno che opprime l’anima, quando si soffrono tante pene? — Si dirà: — «Con la reazione energica, risoluta!». Ma tale reazione violenta non ne susciterà un’altra più violenta ancora, capace di darci maggior pena che mai? Rispondiamo: Parliamo in primo luogo un po’ empiricamente. Sappiamo, per esperienza, che certe cose ci affliggono solo quando vi pensiamo, e in proporzione del pensiero che noi concediamo loro. — Se è così, santificata una volta la nostra pena con una bella e generosa offerta di essa a Dio, per la sua maggior gloria, per la salute dell’anima nostra, per la conversione dei peccatori, per l’espiazione dei nostri peccati, per l’impetrazione efficace di grazie speciali, cerchiamo poi subito di non pensarci più, di distrarcene, dimenticarcene... Per questo procuriamo di occuparci tosto in qualche cosa d’importante, che richieda tutta la nostra attenzione... Ecco un rimedio relativamente efficace, facile, e ragionevole; — se, pensando al nostro male, potessimo rimediarvi senz’altro, allora avrebbe il suo perché il fermarci a cercargli in ciò il conveniente riparo: ma quando proprio non ci si può far niente, né le cose per il nostro immalinconirci non mutano, a che prò stare lì a farcene cattivo sangue? Pensiamo piuttosto che la vita è breve; e che c’è ben meglio da fare che sprecarla in malinconie inutili e in dannose tetraggini sfibranti.
• E persuadiamocene pure, che è vero: gran parte dei nostri mali siamo noi stessi a fabbricarceli scioccamente; e così pure gran parte dell’intensità delle nostre pene è dovuta semplicemente alla nostra insipienza! E quanto di santa avvedutezza non c’è mai in quel tanto noto proverbio: «Fare di necessità virtù»! Ma ora, volendo parlare scientificamente, sempre ispirandoci alla Fede cristiana, domandiamoci: Che cosa ci dice la scienza teologica riguardo al dolore? — Ci dice che esso è permesso e predisposto da Dio per i suoi altissimi fini: stanteché è certo, e razionalmente e cristianamente, che «non muove foglia che Dio non voglia»! — La Fede però aggiunge che gli altissimi fini di Dio riguardo al nostro patire sono anche fini di nostro incalcolabile vantaggio, se noi amiamo il Signore: — «Diligentibus Deum omnia cooperantur in bonum!» — Facciamo dunque di essere sempre in grazia di Dio, e di prendere sempre dalla mano di lui virtuosamente quel male, qualunque siasi, che noi soffriamo:, — ed ecco che esso subito diverrà un bene per noi: — e che bene!
• Bene di liberazione da durissime espiazioni delle quali siamo in debito alla Divina Giustizia per i nostri peccati; quelle ci saranno da Dio commutate nel presente dolore, relativamente lievissimo... Bene di accrescimento di grazia santificante, ossia di soprannaturale bellezza e forza, che ci renderà sempre meglio ammirabili e simpatici agli occhi dei celesti, e più caro oggetto di loro protezioni e favori. Bene di tesori incomparabili che ne veniamo acquistando quasi senza pur avvedercene: dacché ogni nostro atto virtuoso, se noi siamo in grazia di Dio, ci vale almeno un merito di più, cioè un grado di grazia di più nella vita presente, e nell’altra vita un corrispondente Paradiso di più... che è una eternità di felicità incomparabile, trascendente ogni naturale immaginabile felicità; e ciò per ogni momento di nostra pena, cioè per un’inezia fuggitiva! Vogliamo capirlo anche meglio? Facciamo un po’ un’ipotesi, che ha del bambinesco, ma è pur tanto e tanto suggestiva. — Supponiamo che ci si faccia l’offerta di un’eredità — da percepirsi immediatamente — di parecchi milioni, con palazzi meravigliosi, e ville, e parchi, e castelli, l’uno più bello dell’altro, alla sola condizione di sopportare un solo colpo di frusta, ma di quelli ben secchi, ben dati... — Chi sarebbe tanto stupido da rifiutarsi, per paura del dolore momentaneo della frustata? — Appena soffertolo, non lo si avvertirebbe neanche più, e intanto sarebbero nostri e i castelli, e le ville, e i parchi, e i palazzi, e i milioni...
• Ebbene quell’ipotetica offerta, e in modo immensamente più vantaggioso per noi, ci viene fatta ad ogni momento dalla Divina Bontà, quando ci dà a patire qualche cosa: — e consiste in un nuovo Paradiso di più, eterno, incomparabilmente bello, ricco e felice per ogni attimo di pena!... Ma, se è così, ben vengano a cento, a mille, queste pene! — Tanti Paradisi di più, da godere per sempre nell’altra vita! E perché pensare solo a noi stessi?
• Pensiamo anche un poco a tanti nostri fratelli o peccatori, od infedeli addirittura, che stanno sull’orlo dell’inferno, in pericolo di precipitarvi per sempre, ad ogni istante che passa... Se lo vogliamo possiamo coi nostri patimenti, offerti a Dio per la loro eterna salute, ottenere a loro le grazie di conversione, onde tanto abbisognano! — Perché non farlo? Perché non muoverci, quando ci costa tanto poco, a un salvataggio tanto insigne di anime in procinto di eterna dannazione? — Perché non crearci in Paradiso una magnifica Corte Regale, una famiglia spirituale di noi tenerissima, un vivente trofeo di conquista — gloriosissimo a noi — risultante di tutte queste anime da noi così salvate con l’apostolato del patimento, del sacrificio, della rassegnazione cristiana? Ah! Solo che avessimo un po’ di fede, e un po’ di generoso coraggio, benediremmo il Signore dei nostri dolori, esclamando col Serafico d’Assisi: «Tant’è grande il ben che aspetto — che ogni pena m’è diletto!». — E d’incanto la vita ce ne tornerebbe rasserenata spiritualmente, per quanto materialmente fosca per privazioni, traversie e dolori, ed agitata dalle più violente sfortune!
• Del resto, ci sarebbe poi tanto da meravigliarci che la vita presente sia dura, e tanto tribolata da patimenti d’ogni maniera? — Certo non possiamo aspettarcene altro, dato che essa è veramente per noi un esilio, un luogo di prova, un campo di battaglia, una giornata di faticoso lavoro. Altrove, non qui, dobbiamo ravvisare la patria nostra, dove ci si riserba il premio delle nostre fatiche, la dolcezza del perenne riposo, l’ebbrezza del trionfo definitivo: — qui abbiamo soltanto la grande vigilia, nella quale dobbiamo, — nel fedele servizio di Dio — prepararci noi stessi, travagliando come e quanto vorrà il Signore, la bella festa dell’eternità. Peraltro facciamoci animo: quando quella festa sia venuta, non ci parranno che un’inezia affatto insignificante i travagli, le pene e le fatiche che avremo dovuto durare per assicurarcela! — E ringrazieremo allora il Signore, a mani giunte, di avercela disseminata di ostacoli, non già per il gusto di vederci cadere, ma perché, sormontandoli noi vittoriosamente — con l’aiuto che Egli non ci nega mai — ce ne facessimo come altrettanti gradini per salire più in alto e nella virtù, e nel merito, e conseguentemente nella gloria celeste!
a cura di CdP