Stimati Associati e gentili Sostenitori, col numero 126 di Sursum Corda - anche questo pubblicato in forma ridotta - terminiamo la serie di editoriali dedicati al «Discorso della montagna», secondo gli eruditi e competenti studi dell’Abate Ricciotti.
• § 330. Riprendiamo con la citazione del Discorso di Gesù: «Qualora poi digiuniate non diventate, come gli ipocriti, mesti: sfigurano infatti le loro facce, affinché appaiano digiunanti agli uomini; in verità vi dico, sono in possesso della loro mercede. Tu invece, digiunando, ungiti la testa e lavati la faccia, affinché (tu) non appaia digiunante agli uomini bensì al Padre tuo quello (ch’è) nel segreto, e il Padre tuo che guarda nel segreto renderà a te». Per la pratica del digiuno presso i Farisei, vedere il § 77; all’ostentazione usata da loro, Gesù qui contrappone un’espressa dissimulazione, senza però affatto riprovare il digiuno in sé. «Non tesoreggiate per voi tesori sulla terra, dove verme e tignuola manda in rovina e dove ladri perforano e rubano; tesoreggiate invece per voi tesori in cielo, dove né verme né tignuola manda in rovina e dove ladri non perforano né rubano: dove infatti è il tesoro tuo, ivi sarà pure il cuore tuo». La sanzione ultraterrena che è alla base di tutto il Discorso della montagna (§ 319) sembra più appariscente qui ove si tratta del bene più palpabile per gli uomini, che è quello delle ricchezze; ma è solo un’apparenza, e la stessa sanzione ultraterrena è altrettanto indispensabile nelle trattazioni precedenti. «La lucerna del corpo è l’occhio: qualora dunque l’occhio tuo sta puro, tutto il corpo tuo sarà illuminato; qualora invece l’occhio tuo sia (in) malo (stato), tutto il corpo tuo sarà ottenebrato: se dunque la luce quella (ch’è) in te è tenebra, la tenebra quanta (sarà mai)?». Anche questo tratto, dei verss. 22-23 di Matteo, è riferito in altra circostanza storica da Luca (11, 34-36) e molto più opportunamente: qui invece il tratto non si ricollega con ciò che precede né con ciò che segue, anzi ciò che segue si ricollega direttamente, scavalcando cioè questo tratto, con ciò che precede.
• § 331. «Nessuno può servire a due padroni: o infatti (egli) l’uno odierà e l’altro amerà, oppure all’uno s’attaccherà e l’altro disprezzerà; non potete servire a Dio e a Mammona. Perciò vi dico, non v’affannate per la vostra vita riguardo a ciò che mangerete o che berrete, nè per il vostro corpo riguardo a ciò che indosserete: non è forse la vita dappiù del nutrimento e il corpo dell’indumento? Riguardate i volatili del cielo, giacché non seminano né mietono né radunano su granai, e(p pure) il Padre vostro celeste li nutrisce: non valete voi forse più di loro? Chi di voi poi affannandosi può aggiungere alla propria età un solo cubito? E circa l’indumento di che vi affannate? Riflettete sui gigli del campo come crescono: non s’affaticano né filano: eppure vi dico che nemmeno Salomone in tutta la sua gloria fu rivestito come uno di questi; se dunque l’erba del campo che oggi esiste e domani si getta nel forno Iddio riveste così, non (rivestirà) molto più voi, (o) scarsi di fede? Non v’affannate dunque dicendo “Che mangeremo?” o “Che berremo?” o “Di che ci rivestiremo?”, Tutte queste cose, infatti, i pagani ricercano: sa invero il vostro Padre celeste che abbisognate di tutte queste cose. Cercate invece prima il regno e la Sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non v’affannate dunque per il dimani, perché il dimani s’affannerà per se stesso: sufficiente a (ciascun) giorno (è ) la sua pena.
[Dalle note alla pagina 389: 1) Nel verso 24 «Mammona» è voce ebraica e aramaica (matmon, māmōnā, trascritta in greco ...), e sebbene si discuta sulla derivazione della forma aramaica, il significato generico era certamente quello di «ricchezza» (anche presso i Cartaginesi, secondo Sant’Agostino, «lucrum Punice mammon dicitur»): qui è la Ricchezza personificata e contrapposta a Dio, senza però che sia necessario supporre - come taluni fantasiosi moderni hanno fatto - che esistesse una divinità pagana chiamata Mammona. (...) I gigli del campo del vers. 28 non erano quelli dei nostri giardini, ma fioretti assai più piccoli, benché appariscenti, che sbocciavano numerosi in primavera sulle colline della Galilea: quand’erano secchi s’impiegavano a riscaldare il forno, il piccolo arnese domestico in cui si coceva la focaccia. 2) Il versetto «Non date la cosa santa ai cani, né gettate le vostre perle davanti ai porci» si presenta come uno dei tipici logia (§ 98), e il suo collegamento col presente contesto è reso difficile dal fatto che non si comprende chiaramente la sua precisa allusione storica. La Chiesa antica fondò su esso la disciplina arcani stabilita a venerazione dell’Eucaristia (Didachè, IX, 5; cfr. Tertulliano, De praescript., 41), e ancora oggi la liturgia bizantina chiama «perle» i frammenti del pane Eucaristico; ma secondo la serie di Matteo il versetto non avrebbe potuto essere compreso dagli uditori del Discorso della montagna, ai quali ancora non era stata fatta alcuna allusione alla futura Eucaristia. Le ipotesi fatte dagli studiosi moderni sono numerose, ma molte gratuite e non poche false. Il senso generico del versetto non può essere che questo, di non trasmettere l’insegnamento di Gesù (la cosa santa) a persone che siano indegne (...cani... porci...) e per di più pronte a profanarlo ed a servirsene a scopi di male (...rivoltatisi...)].
• § 332. «Non giudicate (a condanna), affinché non siate giudicati (a condanna): con quel giudizio, infatti, con cui giudicate sarete giudicati, e con quella misura con cui misurate si misurerà per voi. Perché poi vedi la pagliuzza che (è) nell’occhio del tuo fratello, mentre della trave (ch’è) nell’occhio tuo non t’accorgi? Ovvero, come dirai al tuo fratello “Permetti che (io) cavi la pa-gliuzza dall’occhio tuo”, ed ecco la trave (è) nell’occhio tuo? Ipocrita, cava prima dall’occhio tuo la trave, e allora guarderai di cavare la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello. Non date la cosa santa ai cani, nè gettate le vostre perle davanti ai porci, affinché mai non (sia che) le calpestino con le loro zampe e rivoltatisi (contro voi) vi sbranino. [La nota 2 prima citata - dalla pagina 389 - commenta questo versetto]. Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; picchiate e vi sarà aperto. Ognuno infatti che chiede riceve, e chi cerca trova, e chi picchia gli sarà aperto. Ovvero qual uomo è tra voi a cui suo figlio chiederà un pane - gli darà forse un sasso? O anche chiederà un pesce - gli darà forse un serpente? Se dunque voi, (pur) essendo cattivi, sapete dare buoni doni ai vostri figli, quanto più il Padre vostro quello ch’è nei cieli darà cose buone a quei che gli chiedono? Tutte le cose, dunque, quante possiate volere che facciano a voi gli uomini, in questa maniera fate(le) anche voi a loro. Questa, infatti, è la Legge e i Profeti».
• § 333. Prosegue: «Entrate per la porta stretta, perché (è) larga la porta e spaziosa la strada che conduce alla perdizione e molti sono quei che entrano per essa: perché stretta è la porta e angusta la strada che conduce alla vita e pochi sono quei che la trovano. Guardatevi dai falsi profeti, i quali vengono a voi in rivestimenti di pecore, al di dentro invece sono lupi rapaci. Dai loro frutti li riconoscerete. Si colgono forse dalle spine grappoli, o dai rovi fichi? Così ogni albero buono fa frutti belli, invece l’albero guasto fa frutti cattivi: non può un albero buono produrre frutti cattivi, né un albero guasto produrre frutti belli. Ogni albero che non fa bel frutto è reciso via e gettato nel fuoco. Dunque dai loro frutti li riconoscerete. Non chiunque mi dica “Signore! Signore!” entrerà nel regno dei cieli, bensì chi faccia la volontà del Padre mio [chi osserverà i Comandamenti e la Legge della Chiesa, ndR], quello ch’è nei cieli. Molti mi diranno in quel giorno: “Signore! Signore! Non profetammo nel tuo nome, e nel tuo nome scacciammo demonii, e nel tuo nome facemmo molti prodigi?”. E allora dichiarerò ad essi: “Giammai vi conobbi: allontanatevi da me, operatori d’iniquità!”». [Gesù si riferisce al momento del giudizio].
• § 334. «Chiunque, pertanto, ascolta da me questi discorsi e li fa, si rassomiglierà ad un uomo saggio il quale edificò la sua casa sopra la roccia: e scese la pioggia e vennero i fiumi e soffiarono i venti e s’abbatterono su quella casa, e(ppure) non cadde; era infatti basata sulla roccia. E chiunque ascolta da me questi discorsi e non li fa, si rassomiglierà a un uomo stolto il quale edificò la sua casa sopra l’arena: e scese la pioggia e vennero i fiumi e soffiarono i venti e irruppero addosso a quella casa, e cadde, e la rovina di essa era grande». Con questa comparazione della casa termina, in ambedue le recensioni, il Discorso della montagna. Se chi ascoltava e praticava i precetti di questo Discorso era un costruttore di casa su roccia, tale era tanto più Gesù nel fare questo Discorso per i fini del suo ministero. Già vedemmo che anch’egli costruiva una casa (la Chiesa) per riparo da una nuvola annunziatrice di tempesta (§ 310); aveva già scelto e collocato in opera dodici pietre fondamentali (gli Apostoli) secondo il numero delle tribù d’Israele (§ 311), e altre pietre minori impiegate erano rappresentate da molti altri Israeliti che lo seguivano; adesso egli cementava il tutto con una dottrina (magisteriale) che in parte era l’antica dottrinad’Israele, e in parte era dottrina personale di lui Gesù. Mancava ancora di portare avanti la costruzione e di rifinirla in molti punti, ma le linee maestre della casa furono stabilite appunto dal Discorso della montagna.
• § 335. Che rappresenta questo Discorso nell’insegnamento generale di Gesù? È stato definito il «codice fondamentale» o una «Summa della dottrina» di lui, ma sono definizioni da prendersi in senso molto vago perché solo in parte corrispondono alla verità. Codice elaborato non è, e nemmeno Summa, perché troppe sono le affermazioni dottrinali che Gesù farà più tardi attribuendo loro capitale importanza, e che invece nel Discorso della montagna non sono neppure adombrate: nulla infatti dice il Discorso né della morte redentrice di Gesù, né del battesimo, né dell’Eucaristia, né (esplicitamente) della Chiesa, né (altrettanto esplicitamente) dell’escatologia, senza le quali cose non si ha l’insegnamento storico di Gesù. Neppure è propriamente una confutazione del fariseismo ovvero una rettificazione perfettiva del giudaismo, sebbene anche questi scopi siano presi di mira: ma sono scopi soltanto posteriori, quasi conseguenze di una mira più ampia e generale. In realtà il Discorso della montagna non è altro che la presentazione del «cambiamento di mente» che già era stato predicato, sia da Giovanni il Battista sia da Gesù (§§ 226, 299), come condizione per l’attuazione del regno di Dio. E quale cambiamento di mente, più sconvolgente e più capovolgente che quello di proclamare beati, in vista d’un remoto futuro, i poveri, i piangenti, gli affamati, gli arrendevoli, e quanti altri fino ad allora erano stati proclamati infelici da tutti gli uomini concordemente? Il Discorso, dunque, meglio che un codice, è lo spirito che ispirerà più tardi tutto un codice: meglio che una Summa, è l’idea centrale che sarà sviluppata più tardi in un ampio commentario. Il carattere personale e singolare del Discorso della montagna, e specialmente delle sue Beatitudini iniziali, è tanto palese che non ha bisogno d’essere dimostrato: quegli studiosi moderni, (all’epoca del Ricciotti) scarsissimi di numero e d’autorità, (ma oggi divenuti numerosissimi ed occupanti le più prestigiose cattedre), che hanno negato una verità così evidente, non meritano risposta e non sono da prendersi sul serio. Tuttavia il Discorso ha pure numerosi punti di contatto col patrimonio spirituale sia biblico sia rabbinico, ed è merito delle più recenti investigazioni aver messo in luce quest’ultimo punto; specialmente dalla sua metà in giù, il Discorso mostra parecchie analogie con pensieri ed espressioni (poi) conservate nel Talmud e negli altri scritti giudaici. Ciò è regolare per chi parlava a gente del suo tempo abituata a certe frasi ed espressioni, e soprattutto per chi era venuto non già ad abolire, bensì a compiere. Ad ogni modo anche da queste analogie risulta sempre meglio la sproporzionata superiorità del Discorso della montagna, che riunisce a fascio in pochissime pagine ciò che si può solo stentatamente e parzialmente spigolare nell’immenso campo degli scritti giudaici, e risulta specialmente l’inimitabilità del suo spirito, unico e solitario. Questo spirito fa che esso sia il più rivoluzionario (nel bene) discorso umano, appunto perché discorso divino. Fine.
Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.