Stimati Associati e gentili Sostenitori, nel lungo mese di agosto abbiamo preferito pubblicare sul sito numerose preghiere al Santo del giorno, infine molti opuscoli e libretti di fine 1800 e della prima metà del 1900. Si tratta di esili letture di fede e morale, sempre attuali, caratterizzate da chiarezza e praticità, che gli editori cattolici usavano pubblicare e diffondere in maniera capillare prima del funesto Vaticano Secondo e, dunque, prima della progressiva eliminazione della buona stampa. Segue l’indice alfabetico delle devozioni e degli articoli pubblicati (leggibili visitando la pagina Tag numero 172): 1) Altra preghiera a San Rocco, Confessore (16.8); 2) Breve saggio su denatalità, darwinismo e malthusianesimo; 3) Il latino: lingua viva nella Chiesa (del Card. Antonio Bacci); 4) Il Sillabario del buon Chierichetto (Imprimatur 1957); 5) L’alcool, ecco il nemico! 6) L’uso del latino per preservare e trasmettere la fede; 7) La bestemmia (per l’Abate Isidoro Mullois); 8) La moda femminile. La tua vita quale fine ha?; 9) Novena alla B. V. Maria Assunta in Cielo (dal 6 al 14 agosto); 10) Orazione a San Bernardo da Chiaravalle (20.8); 11) Orazione ai Santi Ippolito e Cassiano, Martiri (13.8); 12) Orazione ai Santi Tiburzio e Susanna, Martiri (11.8); 13) Orazione alla Madonna della neve (5.8) - Breve storia; 14) Orazione per la Trasfigurazione di Nostro Signore (6.8); 15) Orazioni a San Donato, Vescovo e Martire (7.8); 16) Preghiera a San Filippo Benizzi, Confessore (23.8); 17) Preghiera a San Giacinto, Confessore (17.8); 18) Preghiera a San Rocco, Confessore (16.8); 19) Preghiera a Santa Giovanna Francesca Frémiot de Chantal, Vedova (21.8); 20) Preghiera a Santo Stefano Protomartire (3.8); 21) Preghiera ai Santi Abdon e Sennen, Martiri (30.7); 22) Preghiera ai Santi Martiri Ciriaco, Largo e Smaragdo (8.8); 23) Preghiera del buon soldato a Sant’Ignazio di Loyola (31.7); 24) Un Cattolico può farsi protestante? (di Mons. de Ségur); 25) Vademecum del giovane per ben passare le vacanze.
• San Giovanni Bosco, per far comprendere ai suoi giovani i pericoli delle vacanze, soleva dir loro che esse sono come la vendemmia del demonio. E Sant’Agostino narra di se stesso nel libro delle Confessioni, che appunto durante le vacanze ebbe principio la sua vita peccaminosa. Sextodecimo aetatis anno, ubi interposito otio, cum parentibus esse coepi, excesserunt caput meum vepres libidinum - «Quando però nel corso di quel sedicesimo anno tornai presso i miei genitori e dalle strettezze della famiglia fui ridotto all’ozio, senza alcun impegno scolastico, i rovi della libidine crebbero oltre il mio capo senza che fosse là una mano a sradicarli» (Confessioni, lib. II, cap. 3, ndr). Le vacanze sono occasione di ozio e vendemmia del demonio. Camminiamo dunque a testa bassa, vestiamoci dignitosamente e prestiamo attenzione all’igiene, mangiamo poco e conserviamoci sobri, possibilmente fuggiamo le occasioni mondane, preghiamo più del solito, teniamoci impegnati con letture di buona stampa e lavori domestici, andiamo a Messa, non perdiamo i contatti con il Sacerdote.
• Argomento di studio del giorno è L’ingresso trionfale di Gesù in Gerusalemme, secondo i preziosi studi dell’Abate Giuseppe Ricciotti. § 503. A Gerusalemme si riseppe subito che Gesù era giunto a Bethania; il suo arrivo colà poté essere comunicato tanto da pellegrini, i quali nel venerdì avessero fatto il viaggio da Gerico a Bethania insieme con lui (§ 501), quanto da spie del Sinedrio le quali ottemperassero all’ordine emanato da quel consesso di segnalare ove si trovasse Gesù (§ 495). La notizia fece impressione in città. Forse anche prima che il riposo sabbatico cominciasse, e certamente appena esso fu terminato, molti curiosi corsero da Gerusalemme a Bethania, spinti dal doppio motivo di vedere sia Gesù che Lazaro, l’uno vicino all’altro, tanto più che il primo non s’era più lasciato vedere in città dopo la resurrezione del secondo. «Riseppe pertanto la gran folla dei Giudei che (Gesù) è lì, e vennero non per Gesù solo ma anche per vedere Lazaro, che (egli) aveva risuscitato dai morti». Durante questa affluenza si ripeté più ampiamente quel che era avvenuto subito dopo la resurrezione di Lazaro, cioè che molti si arresero all’evidenza del miracolo e credettero in Gesù. Anche questo risultato fu subito risaputo in Gerusalemme; e allora i sommi sacerdoti, confermandosi nel proposito di mettere a morte Gesù, «per giunta deliberarono di uccidere anche Lazaro» (Giovanni, 12, 10), inviando così di nuovo all’altro mondo quel testimonio che ne era tornato per scandalizzare l’ortodossia giudaica. Certamente il rimedio era, o sembrava, decisivo: uccisi Gesù e Lazaro, la commozione suscitata tra il popolo dal predicatore Galileo si sarebbe senz’altro calmata. Ma l’esecuzione del progetto era resa difficile, oltreché dall’affluenza dei pellegrini pasquali, anche dalla commozione popolare, da cui potevano sorgere reazioni violente e complicazioni con l’autorità romana che si volevano evitare ad ogni costo. Comincia perciò da questo momento un periodo di vigile attesa in cui le autorità del Tempio tengono continuamente d’occhio Gesù, finché si presenti una circostanza favorevole per eseguire il loro progetto senza fastidiose conseguenze; dal canto suo Gesù prosegue nella linea di condotta tracciatasi indipendentemente dalle circostanze esteriori, e come non paventa le mene del Sinedrio, così non cura il favore delle folle, sebbene da queste egli sia momentaneamente protetto. Durante questa attesa, la prima mossa è fatta da Gesù che, recandosi direttamente verso il pericolo, parte da Bethania alla volta di Gerusalemme.
• § 504. Era la mattina della domenica. A Bethania in quel mattino e nella sera precedente s’erano radunati attorno a Gesù molti fervorosi, sia conterranei della Galilea giunti in pellegrinaggio pasquale, sia cittadini di Gerusalemme testé convinti dal miracolo di Lazzaro: ed era una folla vibrante, che non poteva trattenersi da qualche manifestazione solenne in onore di Gesù. Anche le circostanze si presentavano propizie, giacché era abitudine che i cittadini uscissero incontro ai gruppi di pellegrini più numerosi o importanti, e tutti uniti entrassero in città fra canti e manifestazioni di gioia; quando dunque il maestro avesse manifestato l’intenzione di riprendere il cammino per Gerusalemme, era più che giusto preparargli un solenne ingresso nella città: anche se egli si fosse mostrato riluttante come nel passato, la manifestazione solenne era necessaria questa volta dopo i fatti di Bethania e di Gerusalemme, ed il maestro avrebbe dovuto tollerarla suo malgrado. E invece, contro ogni previsione, Gesù questa volta non si mostrò riluttante. Manifestata l’intenzione di recarsi a Gerusalemme quella mattina stessa, egli scelse la strada più breve e frequentata la quale da Bethania risaliva sul monte degli Olivi, ne discendeva lungo il versante occidentale, e infine si congiungeva con la città presso l’angolo nord-orientale del Tempio dopo un percorso di circa 2.800 metri (§ 490); lungo questo percorso si passava vicino all’antico villaggio chiamato Bethphage, «casa dei fichi [immaturi]», ch’è considerato dal Talmud già come sobborgo di Gerusalemme, e stava certamente vicino al luogo ch’è ritenuto oggi come Bethphage ed è situato a meno di un chilometro a nord-ovest di Bethania. Partita da Bethania la comitiva risaliva festosa verso la sommità del monte degli Olivi ed era già in vista di Bethphage, quando Gesù dette un ordine che colmò di gioia tutti i presenti; chiamati due dei suoi discepoli, disse loro: «Andate al villaggio che vi sta dirimpetto e subito entrativi troverete un asinello legato sul quale nessun uomo sedette giammai; scioglietelo e conducete(lo). E se alcuno vi dica: “Perché fate questo?” dite: “Il Signore ne ha bisogno, e subito lo manda di nuovo qui”». L’asino era in Palestina la cavalcatura delle persone autorevoli fin dai tempi di Balaam (Numeri, 22, 21 segg.), e Gesù, ricercando in questa occasione tale cavalcatura, mostrò di voler assecondare i festosi desideri della comitiva, che ne fu felicissima. Ma la mira di Gesù era anche più lontana; San Matteo, nella sua speciale cura di rilevare l’avveramento delle profezie messianiche, fa notare che allora s’adempì la predizione dell’antico profeta Zacharia (9, 9), secondo cui il re di Sion sarebbe venuto a lei mansueto cavalcando un’asina e un asinello - [Doppia menzione presente nel testo ebraico di Zaccaria che non allude a due animali differenti, ma ad uno solo: essa è un semplice effetto della ripetizione voluta dal parallelismo, suprema legge del verso ebraico - nota 1 pag. 605]: perciò anche il solo Matteo ricorda che là, a Bethphage, nel luogo indicato da Gesù stavano legati l’asinello e sua madre e che ambedue furono recati a Gesù, mentre gli altri Evangelisti menzionano soltanto l’asinello sul quale effettivamente cavalcò Gesù. I due discepoli eseguirono l’ordine; mentre scioglievano i due animali, i padroni ne richiesero la ragione e, udito che servivano a Gesù, non replicarono: probabilmente erano persone amiche della famiglia di Lazaro, e quindi benevole verso Gesù. All’arrivo dei due animali la comitiva non si contenne più. Con quella cavalcatura si poteva compiere un vero ingresso trionfale nella città; se l’asinello non aveva ancora servito da cavalcatura a nessuno, tanto più era indicato a trasportare per la prima volta una persona sacra come Gesù, giacché agli antichi sembrava che un animale già adibito a servizi profani fosse meno atto ad usi religiosi. Il corteo fu subito composto. Alcuni gettarono i loro mantelli sull’asinello a guisa di sella e di gualdrappa, e poi vi fecero salire Gesù; altri, correndo un poco sul davanti, stendevano di tratto in tratto i mantelli sul suolo affinché il cavalcatore vi passasse sopra come su tappeti; moltissimi altri accorrevano lungo la strada man mano che il corteo si avvicinava alla città, gettavano frasche verdi lungo il percorso e agitavano festosi rami di palme staccati dagli alberi dei dintorni: tutti poi gridavano alla rinfusa: «Osanna! Benedetto il Veniente in nome del Signore! Benedetto il veniente regno del nostro padre David! Osanna negli eccelsi» (Marco, 11, 9-1 0).
• § 505. La focosità orientale divampava pienamente in queste grida: ma vi divampava anche la spasmodica attesa che quegli osannanti avevano conservata e repressa nei loro cuori per tanto tempo, l’attesa del regno messianico. I termini impiegati sono tipici: «il Veniente in nome del Signore è il Messia» (§ 339), e «il veniente regno di David è il regno messianico che è inaugurato dal Messia figlio di David». Le insegne di questo inizio di regno erano certamente modestissime, un asinello e quattro rami di palma; ma in ciò non trovavano scandalo quegli entusiasti, i quali erano fermamente sicuri che da un giorno all’altro l’asinello sarebbe stato sostituito da falangi di superbi destrieri e le palme da una selva di ben polite lance [Polito = da una naturale levigatezza o da una rifinitura ottenuta con industria scrupolosa, ndr]. Il padre David dal suo sepolcro e il Dio Jahvè dal cielo avrebbero compiuto questo miracolo in favore del loro Messia. Precisamente questo è il punto ove s’incontrarono, in maniera fugace e quasi fortuita, il messianismo delle plebi e quello di Gesù. Per le plebi quell’ingresso trionfale in Gerusalemme doveva essere la prima favilla d’un immenso incendio futuro: per Gesù era la sola ed unica pompa ufficiale della sua regalità messianica. Quella regalità, da lui nascosta con tanta cura e confidata con tante precauzioni e rettifiche solo ai suoi più intimi, doveva pure essere manifestata ufficialmente almeno una volta, adesso che il tempo stringeva e che l’erronea interpretazione politica aveva scarse probabilità d’attecchire; ebbene, questa appunto valeva come manifestazione ufficiale e solenne e in corrispondenza dell’antica profezia di Zacharia, ma tutto sarebbe finito lì, in quell’asinello contornato da qualche centinaio di osannanti: subito dopo, tutto sarebbe rientrato in ciò che gli uomini chiamavano ombra, ma che per il regno di Dio era notte d’operosità recondita (§ 369). Gesù, insomma, finiva dove le plebi credevano di cominciare. Un quarantennio più tardi un Giudeo rinnegato, Flavio Giuseppe, impiegherà lunghe pagine per descrivere un altro ingresso trionfale a cui aveva assistito egli stesso (Guerra giud., VII, 120-162), come gli Evangelisti a quello di Gesù; senonché le due narrazioni sembrano scritte apposta per contrapporsi l’una all’altra. Quella del Giudeo rinnegato descrive il trionfo di chi ha distrutto poco prima Gerusalemme, ed entra nella Roma pagana fra un apparato d’incredibile splendore e potenza; la narrazione degli Evangelisti descrive il trionfo di chi sarà il distruttore della Roma pagana, e adesso entra in Gerusalemme fra un apparato umilissimo e piangendo sulla prossima distruzione di questa città. Il trionfatore di Roma conclude la sua pompa uccidendo ai piedi del Campidoglio il condottiero dei nemici, trascinato in catene dietro al corteo: il trionfatore di Gerusalemme finisce con l’essere ucciso lui stesso, dopo il suo trionfo d’un giorno. A Roma, dopo i festeggiamenti, si gettano le fondamenta di un nuovo tempio idolatrico dedicato alla Pace romana; a Gerusalemme si annunzia che il Tempio manufatto del Dio vivente sarà ridotto a un cumulo di macerie, e si gettano invece le fondamenta di un Tempio non manufatto (Marco, 14, 58) ove si adorerà il Dio vivente in spirito e verità (§ 295). Esiste tuttavia un punto importantissimo in cui le due narrazioni, così discordi, concordano, ed è nell’affermare che il rispettivo trionfatote è il Messia: per gli Evangelisti il Messia è Gesù, il carpentiere di Nazareth; per il Giudeo rinnegato il Messia è Tito Flavio Vespasiano, agricoltore nato a Falacrine presso Rieti l’anno 9 dopo Cristo (§ 83). Confrontando oggi ciò che rimane dei due trionfi bisogna concludere che il Giudeo, mal consigliato dalla sua apostasia, è caduto in un grave errore.
• § 506. Sebbene umilissimo, il trionfo di Gerusalemme fu cordiale, certamente più di quello di Roma. Giovanni (12, 16 segg.) c’informa che la cordialità fu grande anche da parte di quei cittadini di Gerusalemme i quali erano stati testimoni della resurrezione di Lazzaro o ne avevano udito il racconto dai testimoni; la cordialità dei discepoli senza dubbio era egualmente grande, tuttavia era animata da motivi superficiali e ignara delle ragioni profonde di ciò che avveniva, perché a detta dello stesso Evangelista «queste cose i suoi discepoli non conobbero dapprima; ma quando Gesù fu glorificato, allora si ricordarono che queste cose erano state scritte di lui e queste cose (essi) fecero a lui». Insomma, l’entusiasmo dei discepoli era troppo sotto l’influenza dell’entusiasmo delle folle per assurgere a considerazioni più alte e più spirituali circa quel brevissimo trionfo umano del loro maestro. Ma il carattere trionfale della manifestazione fu difeso fermamente da Gesù stesso. Poiché i Farisei rimanevano sempre Farisei anche in mezzo all’entusiasmo generale, e d’altra parte vedevano bene che sarebbe stato troppo pericoloso dar sulla voce a quella folla infervorata, alcuni di essi pensarono di ricorrere a Gesù stesso e gli dissero: «Maestro, sgrida i tuoi discepoli!», quasicché gli artefici più numerosi di quella manifestazione fossero i discepoli e non piuttosto i Giudei testimoni della resurrezione di Lazaro. Ma Gesù risponde: «Vi dico, se questi taceranno, le pietre grideranno» (Luca, 19, 40). La protesta fu rinnovata di lì a poco quando, entrato Gesù nel Tempio, frotte di fanciulli accorsi tra la calca si dettero a gridare: «Osanna al figlio di David!» sotto il naso dei sommi sacerdoti e degli Scribi. Queste degnissime persone, irritate dalle grida di quei mocciosi, protestarono verso Gesù: «Senti che dicono costoro?». Questa volta Gesù rispose: «Si. Non leggeste mai (quel passo) “Da bocca di bambini e di lattanti esprimesti laude”?» (Matteo, 21, 16). Il passo citato (Salmo 8, 3) era opportunissimo, perché ivi il poeta contrappone l’ingenua laude innalzata a Dio da bambini e da lattanti al silenzio forzato dei suoi nemici: se dunque i fanciulli del Tempio erano gli esprimenti laude a Dio, i sacerdoti e gli Scribi potevano facilmente riconoscersi nei nemici di Dio ridotti al silenzio. Queste risposte di Gesù e il suo incontrastato trionfo dovettero far perdere il lume degli occhi ai Farisei. Fatto un bilancio di quanto avevano ottenuto con tutte le loro deliberazioni d’impadronirsi di Gesù, di farlo denunziare dalle spie, di metterlo a morte insieme con Lazaro, essi si ritrovarono in pieno fallimento: Gesù circolava a piede libero e in Gerusalemme stessa, la sua vita e quella di Lazaro erano salvaguardate dal fervore popolare, egli faceva sempre più seguaci e ardiva perfino entrare trionfalmente nella città santa. Gli stessi Farisei riconobbero questo loro fallimento e si dissero gli uni agli altri: «Vedete che non ricavate alcuni profitto? Ecco, il mondo andò appresso a lui!» (Giovanni, 12, 19). Tuttavia questa confessione non fu una capitolazione, anzi fu una conferma d’ostilità implacabile, in attesa che si presentasse l’occasione propizia per agire. Frattanto il corteo trionfale di Gesù aveva valicato la sommità del monte degli Olivi e discendeva lungo la china occidentale dirigendosi al sottostante Tempio. Da quella china si contemplava il panorama dell’intera città: era la città uscita un trentennio prima dalle mani di quell’infaticabile ricostruttore ch’era stato Erode il Grande, meno gravata di memorie e meno solenne della città odierna ma incomparabilmente più decorosa e più adorna. Ai piedi del monte, subito oltre il torrente Cedron, s’ergeva la mole grandiosa del Tempio sfavillante di ori e abbagliante di candidi marmi. Ricongiunto a settentrione con esso s’alzava il possente quadrilatero della torre Antonia, allora stazione della guarnigione romana e quasi dimora di falco che vigilasse sulla preda (§ 49). Al lato opposto, verso occidente, troneggiava la reggia di Erode, difesa a settentrione da quelle tre torri che l’esperto Tito un quarantennio dopo avrebbe giudicato inespugnabili. Due recinti di mura proteggevano a settentrione la città, e di là dal recinto più esterno si estendeva il sobborgo del Bezetha (§ 384) che un decennio più tardi Agrippa I comincerà a recingere con un «terzo muro». Qua e là, fra la distesa di case antiche, spiccavano parecchie suntuose costruzioni recenti, mentre il quartiere più negletto appariva quello che occupava la parte sud-orientale della città, immediatamente più in giù del Tempio, ove era stata la Gerusalemme primitiva dei Jebusei, di David e di Salomone. Al contemplare questo panorama, Gesù pianse.
• § 507. Quel pianto, fra tante grida festose e davanti a uno spettacolo così solenne era davvero inaspettato. I discepoli ne dovettero rimanere sconcertati, e forse si domandarono in cuor loro se anche quel pianto voleva essere uno dei soliti correttivi messianici già applicati dal maestro (§ § 400, 475, 495). La ragione fu comunicata dal piangente stesso, che rivolgendosi alla città contemplata esclamò: «Oh! avessi conosciuto in questo giorno anche tu le cose (necessarie) alla pace! Adesso invece stanno nascoste agli occhi tuoi! Poiché verranno su te giorni quando i tuoi nemici ti ricingeranno di vallo, e ti accerchieranno all’intorno, e ti stringeranno da ogni parte, e abbatteranno te e i tuoi figli dentro te, e non lasceranno pietra sopra pietra in te, perché non conoscesti il tempo (propizio) della visita (fatta) a te» (Luca, 19, 42-44). Il pianto dunque si riferiva non al presente ma ad un futuro più o meno remoto. Tutti sanno che queste parole si riferiscono al terribile assedio che Tito mise nel 70 a Gerusalemme. Il «vallo» qui accennato è il muro di circonvallazione lungo 39 stadi (chilometri 7,215) costruito dalle legioni romane in soli tre giorni attorno alla città per prenderla con la fame: esso si trova minutamente descritto da Flavio Giuseppe (Guerra giud., V, 502-511) e se ne sono rinvenute recentemente alcune probabili tracce; è anche da notare che il vallo, nella sua parte ad oriente della città, saliva dal torrente Cedron verso il monte degli Olivi (ivi, 504), dove appunto si trovava Gesù quando pianse. È superfluo dire che una predizione cosi precisa è giudicata assurda dai razionalisti, i quali perciò affermano che queste parole non furono mai pronunziate da Gesù ma sarebbero un’invenzione dell’Evangelista il quale avrebbe scritto dopo la catastrofe del 70; in attesa che questa affermazione sia suffragata da prove storiche, le quali non siano la monotona “impossibilità” del miracolo, si può passare ad un altro riavvicinamento offertoci egualmente da Flavio Giuseppe - [Ricciotti, come d’abitudine, sarcasticamente deride questi razionalisti (e modernisti) ciarlatani, ndr]. Racconta egli (ivi, VII, 112-113) che Tito, alcuni mesi dopo aver distrutto Gerusalemme, da Antiochia passò in Egitto, e che, «strada facendo, si recò a Gerusalemme; confrontando egli allora la mesta solitudine che scorgeva con la passata magnificenza della città, e richiamando alla mente sia la grandezza degli edifici ruinati sia l’antica bellezza, deplorò la distruzione della città, non già vantandosi, come altri (avrebbe fatto), d’averla espugnata pur essendo sì grande e sì forte, bensì maledicendo spesso i colpevoli che avevano iniziato la rivolta e attirato sulla città quella punizione». Cosicché, Gesù e Tito concordano nel far ricadere la responsabilità della distruzione su determinati uomini e nell’affermare che la distruzione non sarebbe avvenuta se la condotta di quegli uomini fosse stata diversa: ma Gesù, giudeo e adoratore del Dio Jahvè, versa anche brucianti lacrime sulla distruzione della sua città e del suo Tempio, mentre Tito, romano e cultore del Giove Capitolino, deplora la perdita di sontuosi edifici e di belle opere d’arte; l’uno piange sulla rovina spirituale, l’altro rimpiange la rovina materiale; ma soprattutto l’uno piange sulla città che lo ucciderà fra pochi giorni, l’altro rimpiange la sorte della città che egli stesso ha distrutto e dove è stato proclamato imperatore mentre il Tempio era tuttora in fiamme.
Da Vita di Gesù Cristo, imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.