Stimati Associati e gentili Sostenitori, oggi l’Abate Ricciotti ci erudirà sulla vicenda della «donna adultera», accentuando quegl’insegnamenti dottrinali e morali che dobbiamo fare nostri.
• § 424. Egualmente in occasione della Festa dei Tabernacoli è riportato l’episodio della «donna adultera», che è collocato precisamente dopo il discorso dell’acqua simbolica e prima del discorso della luce simbolica (Giovanni, 8, 3-11). Ma sull’episodio grava la famosa questione della sua trasmissione, che sorge dai fatti seguenti. Il racconto dell’episodio manca nei più antichi codici greci ufficiali (salvo nel dibattuto codice D, del secolo VI) e in molti minuscoli, come pure nelle antiche versioni siriaca, copta, armena, e nei codici più autorevoli della versione latina pre-geronimiana. Fra gli antichi scrittori cristiani tacciono dell’episodio i Greci tutti quanti fino al secolo XI; lo ignorano anche i Latini più antichi, quali Tertulliano, Cipriano e Ilario, mentre sulla fine del secolo IV e nel V lo conoscono Paciano di Barcellona, Ambrogio, Agostino, e in seguito altri sempre più numerosi. Altri codici greci, sia ufficiali sia specialmente minuscoli, o lasciano uno spazio nel luogo ove andrebbe il racconto dell’episodio, oppure riportano il racconto ma notandolo con un asterisco (che segnalava i passi aggiunti posteriormente e controversi). I codici stessi che riportano il racconto contengono una quantità eccezionale di varianti testuali, fenomeno ordinario di passi dibattuti. Si è anche notato che il racconto, mentre contiene espressioni linguistiche estranee allo stile abituale di San Giovanni e affini invece a quello dei Sinottici, interrompe la concatenazione logica fra i due discorsi dell’acqua simbolica e della luce simbolica; e questa brusca interruzione sembra che fosse notata già nell’antichità, giacché un codice greco colloca il racconto non al suo posto solito ma dopo Giov., 7, 36, qualche altro lo relega in fondo al IV Vangelo (dopo 21, 24), e infine quattro particolari codici (gruppo Ferrar) lo trasferiscono ad altro Vangelo collocandolo dopo Luca, 21, 38. Riportano invece il racconto sei ufficiali greci meno antichi (oltre al suddetto D) e molti minuscoli; lo hanno anche parecchi codici della versione latina pre-geronimiana, quelli della Vulgata, dell’etiopica e alcuni recenti di altre versioni. D’altra parte, come risulta con buona probabilità da una notizia di Eusebio (Hist. eccl., III, 39, 17), sembra che l’episodio fosse già noto a Papia (§ 114) cioè già divulgato nel primo ventennio del secolo II.
• § 425. Come risolvere la questione? L’assenza del racconto è dovuta a una soppressione, oppure la sua presenza è dovuta a un’aggiunta? La prima alternativa è scelta da Sant’Agostino (De coniug. adult., II, 7, 6); egli pensa che il racconto sia stato soppresso nei codici da uomini di poca fede, i quali temevano «peccandi impunitatem dari mulieribus suis». Senonché tale ragione, più psicologica che storica, non convince: in primo luogo perché, come osserva lo stesso Sant’Agostino, non fu dato nessun permesso di peccare da quel Gesù «qui dixit: Iam deinceps noli peccare»; inoltre perché storicamente non è verosimile che semplici fedeli, laici e ammogliati, avessero tanta autorità nella Chiesa dei primi secoli da far sopprimere nelle sacre Scritture un passo di tanta ampiezza ed importanza: troppo gelosa era la Chiesa nel preservare intatte le sacre Scritture sia da interpolazioni in più, sia da soppressioni in meno. Del resto, come e quando si sarebbe potuta effettuare una soppressione così radicale, che avrebbe cancellato ogni traccia del racconto da tutti i codici originali fino a mezzo il secolo IV? D’altra parte gli argomenti in favore del racconto hanno il loro innegabile peso; esso è riconosciuto addirittura da critici radicali, che considerano l’episodio come porzione antichissima della tradizione evangelica (es. Loisy), o come perla perduta dell’antica tradizione e casualmente ricuperata (es. Heitmüller). Altrettanto dicono i più autorevoli studiosi cattolici, per i quali naturalmente il racconto è ispirato e fa parte delle sacre Scritture canoniche; fra essi appunto un editore neotestamentario conclude la sua ricerca dicendo che, nel testo del IV Vangelo, il racconto dell’adultera è evidentemente una parte aggiunta ... sebbene la sua alta antichità sia indiscutibile: perciò il racconto dev’essere annoverato fra le più preziose perle della tradizione; ma quale sia la prima origine del passo e come esso abbia trovato la strada per entrare nel Vangelo di San Giovanni, è questione che rimane totalmente insoluta (Vogels). Proviene il racconto dal testo aramaico di San Matteo (§ 114)? Sarebbe forse una noticina solitaria vergata dallo stilo di San Luca? In favore di quest’ultima congettura deporrebbe il carattere del racconto, che è tutto di una misericordia infinita e ben degno dello scriba mansuetudinis Christi (§ 138). Ma dal punto di vista documentario dobbiamo confessare, purtroppo, la nostra ignoranza.
• § 426. Un giorno dunque, forse durante l’ottava dei Tabernacoli, Gesù, dopo aver passato la notte sul prediletto monte degli Olivi, di buon mattino ne scese, attraversò il Cedron, risalì ad occidente ed entrò nel Tempio: ivi il popolo accorse a lui nell’atrio esterno, ed egli sedutosi cominciò ad insegnare. Ad un certo punto irrompe nell’atrio un gruppo di Scribi e Farisei seguiti da un codazzo di gente; guardando essi torno torno nell’atrio, e scorto il cerchio di coloro che ascoltano Gesù vanno direttamente verso quella parte. Giunti, si aprono un varco tra la folla interrompendo la predica; di tra il codazzo che segue Scribi e Farisei si fanno avanti due o tre uomini che trascinano a forza una donna riluttante, e con un ultimo spintone la cacciano nello spazio rimasto vuoto davanti all’oratore; la donna, scarmigliata e coprendosi con le mani il viso per la vergogna, si accascia là a terra come un ciarpame di stracci. Gli Scribi e i Farisei spiegano allora a Gesù di che si tratta. Quella là è una donna sorpresa in flagrante adulterio: il complice, come per lo più succede (Daniele, 13, 39), pare che sia riuscito a fuggire, ma la donna è stata presa; ella non può negare la flagranza del delitto, e quindi dev’esser punita secondo la Legge. Ora, Mosè nella Legge ha comandato che siffatte donne siano lapidate (Deuteronomio, 22, 23 segg.; cfr. Levitico, 20, 10). Che ne pensa, dunque, il maestro? Come bisognerà comportarsi con questa delinquente? Dopo tale scena l’Evangelista avverte: «Dicevano questo per metterlo alla prova [per mettere Gesù alla prova], onde avere (di che) accusarlo». Era quanto potevamo immaginarci, anche indipendentemente dall’avviso dell’Evangelista. L’occasione, senza dubbio, era eccellente per quei Farisei. In primo luogo, quell’andare in giro per la città trascinandosi appresso la donna tremante e piangente permetteva ad essi di fare una magnifica figura, come custodi esattissimi della Legge e guardiani zelanti della moralità. Del delitto doveva giudicare il Sinedrio (§ 59); ma che vantaggio ci sarebbe stato a condurre la donna direttamente al Sinedrio senza tanto strepito e clamore? Se tutto si fosse fatto con modesta riservatezza, nessuno avrebbe potuto apprezzare i meriti di loro: [degli Scribi e dei Farisei]. Inoltre, questo spiegamento di forze offriva un’altra opportunità bellissima. C’era quel Rabbi galileo che, con la sua ostentata indipendenza dai grandi maestri della Legge e con la sua crescente autorità sul popolo, meritava bene una lezione pubblica e solenne, e precisamente su una questione di Legge. Il caso di quella donna sembrava fatto apposta per impartirgli questa lezione. Prima di consegnare la colpevole al Sinedrio bisognava sottoporre il caso a lui, come per averne un parere: si doveva lapidare o no quell’adultera? Se egli avesse risposto di no, si sarebbe svelato da se stesso come un rivoluzionario, sovvertitore dell’ordine pubblico e abolitore della Legge mosaica [e Gesù non era né un becero rivoluzionario, né un sovvertitore dell’ordine]. Se avesse risposto di essere inesorabili ed eseguire la lapidazione, avrebbe perduto quella sua autorità sul popolo, che gli era conciliata specialmente dai suoi precetti di misericordia e di bontà. L’occasione, dunque, era davvero bellissima; i Farisei la colsero, e dettero battaglia a Gesù.
• § 427. La battaglia fu accettata Gesù. Interrotta ormai la predica, ascoltò l’esposizione del caso, rimanendo tranquillamente assiso come stava prima. Quando gli accusatori dell’adultera ebbero finito, egli non rispose parola; soltanto, come persona che non abbia nulla da fare e cerchi d’ingannare il tempo, si curvò verso terra e si dette a tracciare col dito segni di scrittura sul pavimento. Il suo atteggiamento diceva in sostanza ch’egli non aveva alcuna risposta da comunicare, e che stava ingannando il tempo fino a che la questione fosse finita. Gli accusatori aspettarono alquanto: Gesù seguitava a tracciare svolazzi in terra. Quelli ripeterono l’accusa, rinnovarono la domanda, aspettarono ancora; solo dopo altro tempo Gesù lentamente si rialzò sul busto, girò lo sguardo sugli accusatori, sulla folla, sulla donna, poi disse con semplicità: «Chi di voi è senza peccato, lanci per primo su lei (una) pietra». Detto ciò come la cosa più naturale di questo mondo, si curvò di nuovo verso terra e ricominciò a tracciare svolazzi. Tutto era finito, anzi non avrebbe dovuto neppur cominciare: l’interpellato era e si manteneva estraneo a quella questione, proposta da quegli accusatori, in quelle circostanze; egli preferiva tracciare svolazzi, e se aveva dato quella risposta, lo aveva fatto cedendo alle loro insistenze. Agissero loro: purché si conformassero alla norma da lui data. Ahi, ahi! quella norma li toccava intimamente! Non si trattava di giudicare su un elegante caso giuridico, per stabilire quanti colpi di staffile doveva ricevere il dorso altrui o quanto doveva esser alto il palo a cui si doveva impiccare il corpo altrui; [L’Abate Ricciotti, come suo solito, sta giustamente facendo del sarcasmo sugli assurdi “eleganti casi giuridici” di un certo Giudaismo che poi chiameremo Talmudismo]; ma si trattava di un giudizio intimo, di un tribunale invisibile in cui accusatore e giudice erano tutt’uno, il tribunale della propria coscienza. Sarebbe stato in realtà facilissimo rispondere a quel Rabbi: «Io sono senza peccato, e quindi lancerò per primo una pietra!» - Ma con lui non era prudente scherzare; padrone della natura e scrutatore degli spiriti come si era più volte mostrato, quel Rabbi era capace di ripetere e precisare l’apostrofe dell’antico Daniele ai vecchioni di Susanna (Daniele, 13, 57) e di rispondere lì davanti alla folla: «Sei senza peccato tu, che il giorno tale con la tal donna maritata hai fatto questo, e il giorno tal altro con la tal altra hai fatto quest’altro?!...» - No, no: era troppo pericoloso stuzzicare quel vespaio. Perciò avvenne che quelli, quand’ebbero udito, se ne uscirono uno per uno cominciando dai più anziani (fino agli ultimi), e fu lasciato solo Gesù con la donna che stava in mezzo. Rialzatosi poi Gesù disse a lei: «Donna, dove sono? Nessuno ti condannò?». Quella allora disse: «Nessuno, Signore!». Disse allora Gesù: «Nemmeno io ti condanno. Vai, da questo momento non peccare più!». Colui che era venuto non ad abolire la Legge di Mosè ma a compierla (§ 323), non aveva violato quella Legge e per di più ne aveva raggiunto l’intimo spirito; l’intimo spirito di ogni legge onesta non può essere che distogliere dal male e indirizzare al bene. La giustizia era stata sublimata nella misericordia. Da «Vita di Gesù Cristo» dell’Abate Giuseppe Ricciotti.
• Ricorda Mons. Garofalo, che è molto pungente quel «più anziani», ovvero i primi ad andarsene furono proprio quegli «anziani» che avrebbero dovuto condurre una vita moralmente retta e di esempio: invece, interrogata la loro coscienza, scappano via. L’adultera non fugge perché si sente sicura al cospetto di Gesù. Per concludere, l’esortazione al ravvedimento - «Vai, da questo momento non peccare più!» - dimostra palesemente che Gesù non scusa affatto la donna, tuttavia la perdona: mentre sarebbe stato il solo ad avere il diritto di scagliare la prima pietra. Quante volte il Signore ci ha usato misericordia? E quante volte Egli ci ha risparmiato dalle fiamme eterne dell’inferno non facendoci morire in stato di peccato mortale? Grande è la misericordia di Dio, tuttavia, come insegna Sant’Alfonso, «ne manda più all’inferno la misericordia della giustizia (di Dio)». Cosa intende dire il Santo moralista? Non bisogna irridere Dio e farsi gioco della Sua misericordia seguitando a peccare, non bisogna tornare come cani a rotolarsi nel proprio vomito: prima o poi, la giustizia di Dio ci colpirà!
Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.