Comunicato numero 128. Il Battista rinchiuso a Macheronte

Stimati Associati e gentili Sostenitori, il compianto Abate Giuseppe Ricciotti - autore della splendida «Vita di Gesù Cristo» - dopo aver analizzato le vicende storiche della vedova di Naim, alla quale Nostro Signore resuscita il figlio (vera resurrezione e non episodio simbolico), e del giusto centurione di Cafarnao, per la cui fede Gesù restituisce la salute all’amico schiavo ammalato, torna a parlarci di San Giovanni Battista  e della sua predicazione. Capitolo: «Il messaggio di Giovanni il Battista».

• § 338. Frattanto nei sotterranei di Macheronte (§ 292) Giovanni fremeva come un leone racchiuso. Quanto più il tempo passava e la prigionia si prolungava, tanto più il suo spirito si struggeva di vibrante attesa: egli era nato e vissuto per essere il precursore del Messia, e non aveva sottratto un sol giorno della sua esistenza a quella missione; ma adesso che la sua esistenza, da un giorno all’altro, poteva esser troncata dalla prepotenza degli uomini, egli ancora non vedeva coronata la sua missione da una palese e solenne manifestazione del Messia. Questa ansiosa aspettativa era grave al prigioniero ben più dell’estenuante inerzia a cui era condannato e ben più della spada di Erode Antipa che gli roteava sulla testa. La segregazione non era però totale: il tiranno, che nutriva per Giovanni una superstiziosa venerazione (§ 17), gli permetteva di ricevere nella prigione i suoi discepoli rimastigli attaccati anche dopo la comparsa in pubblico di Gesù, per il quale del resto taluni di essi nutrivano una certa avversione (§§ 291, 307). Mediante le notizie che riceveva da questi visitatori, il prigioniero seguiva i progressi che faceva il ministero di Gesù ed i fatti straordinari che l’accompagnavano; ma quelle notizie, se rinsaldavano sempre più nel suo spirito l’opinione ch’egli aveva di Gesù e che aveva pure espressa pubblicamente, aumentavano sempre più la sua ansiosa aspettativa. I visitatori gli annunziavano che il nuovo Rabbi operava miracoli, sì ma giammai in nessuna occasione si era proclamato Messia, anzi redarguiva severamente coloro che lo proclamavano tale e fuggiva ogni occasione a che le turbe facessero ciò (§ 300); è anche molto probabile che i visitatori, riferendogli questo, se ne compiacessero nella gelosia che nutrivano per Gesù insieme con l’affetto per Giovanni. Il prigioniero invece ne doveva essere accorato: forse si domandava se il suo ufficio di precursore era totalmente terminato, e se egli, pur dalla prigione, non dovesse ancora compiere qualche cosa per far riconoscere Gesù come Messia. Perché dunque il figlio di Maria tardava tanto a proclamarsi Messia? Solo con questa solenne proclamazione l’ufficio di lui, Giovanni, si sarebbe concluso per sempre, mentre senza di essa egli sarebbe rimasto il precursore di uno che in realtà non compariva. Eppure oramai egli era tagliato fuori dalla vita del popolo, e da un momento all’altro poteva anche partire da questo mondo, senza aver la consolazione di vedere che il popolo accorreva compatto al Messia da lui additato, anzi vedendo che perfino i suoi propri discepoli sentivano una certa ripulsa per Gesù. Che poteva fare egli ancora dalla prigione? Come sospingere Gesù all’attesa proclamazione, e come insieme sospingere verso Gesù i suoi propri discepoli?

• § 339. Un giorno il prigioniero prese la sua risoluzione. Da Macheronte egli inviò due suoi discepoli a Gesù con l’incarico di rivolgergli questa domanda: «Sei tu il Veniente, o (bisogna) che aspettiamo un altro?» (Luca, 1, 19-20). L’espressione il Veniente designava per i Giudei un «termine fisso d’eterno consiglio», cioè quel Messia che «doveva venire» (§§ 213, 296, 374, 505), di cui gli antichi profeti erano stati lontani araldi e Giovanni il Battista si era presentato quale immediato precursore. La domanda, perciò, costringeva ad una precisa dichiarazione sia Gesù che la riceveva, sia i discepoli di Giovanni che la rivolgevano: Gesù non poteva negare in pubblico quella sua qualità di cui Giovanni era assolutamente certo; i discepoli interroganti, udendo anche dalla bocca di Gesù quella stessa affermazione che a suo riguardo avevano udito dalla bocca del venerato Giovanni, non potevano esitare ad abbandonare la loro diffidenza verso Gesù e ad aderire a lui. D’altra parte la domanda, pur essendo così contingente, aveva un’intonazione generica: era in sostanza la medesima domanda che i maggiorenti di Gerusalemme avevano rivolto alcuni mesi prima allo stesso Giovanni (§ 277). La risposta di Gesù fu diversa da quella aspettata: egli non pronunziò il «no» ch’era impossibile, ma neppure pronunziò il chiaro ed esplicito «si» che Giovanni aveva tentato di provocare. Quando i due inviati esposero la domanda a Gesù, «egli in quell’ora curò molti da malattie e infermità e spiriti maligni, e a molti ciechi fece grazia di vedere; poi rispondendo disse a quelli: “Andate ad annunziare a Giovanni le cose che vedeste e udiste: Ciechi vedono, zoppi camminano, lebbrosi sono mondati, e sordi odono, morti risorgono, poveri ricevono la buona novella: ed è beato colui che non si scandalizzi in me”» (Luca, 7, 21-23). In conclusione, invece di rispondere con parole Gesù rispondeva con fatti, i quali valevano a dimostrare se egli era o no il Veniente Messia. Ma i fatti miracolosi presenti si richiamavano a parole profetiche passate, perché già da Isaia era stato annunziato che ai tempi messianici i ciechi avrebbero visto, i sordi udito, gli zoppi camminato (Isaia, 29, 18; 35, 5-6), ed i poveri avrebbero ricevuto la buona novella (Is., 61, 1); se dunque Gesù avverava con le sue opere le profezie messianiche, le stesse opere lo proclamavano Messia. Tuttavia, questa esplicita proclamazione dalla bocca sua non uscì. L’inaspettata risposta fu certo riportata al prigioniero, ma non ci è riferito che impressione facesse su lui. È ben possibile che Giovanni avesse preferito sentirsi riportare come Gesù si fosse proclamato apertamente e sonoramente Messia, e come a quella proclamazione tutti i Giudei di Palestina e di fuori fossero accorsi osannanti al loro re: molto più tardi gli stessi discepoli di Gesù, edotti per lunghi mesi alla scuola di lui, s’aspetteranno ancora qualcosa di simile. Se questa fu realmente l’aspettativa di Giovanni, bisognerebbe applicare anche a lui l’osservazione che lo stesso San Luca fa sui genitori di Gesù, i quali non capirono la parola che pronunziò loro (§ 262); Giovanni non avrebbe capito la risposta di Gesù per varie possibili ragioni, fra cui quella di non sapere che Gesù seguiva una linea di manifestazione graduale della propria messianicità per motivi altamente spirituali (§ 300 segg.).

• § 340. L’onorevole provocazione di Giovanni, sebbene non assecondata, fu gradita da Gesù. Per mostrare che il precursore non era certamente uno di coloro che si sarebbero scandalizzati di lui, Gesù, dopo la partenza dei due invitati, fece il più alto elogio di Giovanni proclamandolo più che profeta, a nessuno inferiore fra i nati di donna, e infine precursore del Messia conforme alla profezia di Malachia, 3, 1. Senonché, mentre la povera gente ed i pubblicani avevano accolto la predicazione di Giovanni ed accettato il suo battesimo, la massima parte degli Scribi e dei Farisei era rimasta retriva rendendo «vano il consiglio d’Iddio a loro riguardo» (Luca, 7, 30). Perciò Gesù soggiunse una similitudine: «A chi dunque rassomiglierò gli uomini di questa generazione, e a chi sono somiglianti? Sono somiglianti a quei ragazzetti che stanno nella piazza, e si apostrofano tra di loro dicendo: ”Il flauto vi sonammo e non ballaste! - Lamentele facemmo e non piangeste!”». La similitudine è presa dagli usi di quei tempi. I ragazzi della Palestina si divertivano sulle piazze ad imitare le carie costumanze sociali, perciò anche i cortei nuziali e quelli funebri: nel primo caso, alcuni suonavano o fingevano di suonare flauti, mentre gli altri dovevano ballare come se fossero gli «amici dello sposo» (§ 281); nel secondo caso, gli uni imitavano le manifestazioni di cordoglio fatte dalle lamentatrici di professione ch’erano chiamate ai funerali, e gli altri dovevano piangere come se fossero i parenti del defunto. Tuttavia spesso il giuoco non riusciva bene, perché il gruppo di ragazzi che doveva o ballare o piangere non faceva con diligenza la sua parte, e allora sorgevano recriminazioni e apostrofi interminabili. L’applicazione della similitudine fu fatta da Gesù stesso, che proseguì: «È venuto infatti Giovanni il Battista non mangiando pane né bevendo vino, e dite: “Ha un demonio”; è venuto il figlio dell’uomo mangiando e bevendo, e dite: “Ecco un uomo mangiatore e bevitore di vino, amico di pubblicani e peccatori”» (Luca, 7, 33-34). I Farisei non avevano accettato la predicazione di Giovanni perché, oltre il resto, egli era troppo rigoroso ed austero, tanto da sembrare un fanatico spiritato (anche oggi gli Arabi chiamerebbero un uomo siffatto un maģnūn, ossia posseduto dal ginn, «spirito folletto»; ma ecco che, comparso Gesù, anche la sua predicazione era respinta col pretesto ch’egli mangiava come tutti gli uomini, lasciava mangiare i suoi discepoli quando avevano fame (§§ 307-308), e trattava con pubblicani e peccatori. Cosicché, o si suonasse il flauto o si alzassero lamenti funebri, il giuoco non riusciva mai bene con i Farisei, ma perché essi, appunto, non volevano farlo riuscire bene. Eppure sarebbe riuscito egualmente, perché «la Sapienza (divina) fu riconosciuta giusta da tutti i suoi figli (in Matteo, 11, 19, greco: dalle sue opere). Fine.

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.