Stimati Associati e gentili Sostenitori, sempre attingendo alla sobria, erudita e preziosa «Vita di Gesù Cristo» dell’Abate Giuseppe Ricciotti - riposi in pace! - oggi parleremo de «I mercanti del Tempio».
•§ 286. Dal battesimo di Gesù erano trascorsi pochi mesi: ormai era vicina la Pasqua del nuovo anno che, secondo le nostre preferenze giustificate a suo luogo (§ 176), era l’anno 28 dell’Era Volgare. Per questa Pasqua Gesù aveva deciso di compiere il pellegrinaggio (§ 74), perciò partì da Cafarnao alla volta di Gerusalemme. Giunto nella capitale e recatosi al Tempio, egli si trovò davanti alla solita scena che avveniva colà più che mai in occasione delle grandi feste. L’atrio esterno del Tempio era diventato una stalla appestata dal fetore del letame, e risonava del muggito dei bovi, del belato delle pecore, del pigolar dei colombi, e soprattutto delle alte grida dei mercanti e dei cambiavalute istallatisi per ogni dove (§ 48); da quell’atrio si poteva solo remotamente udire una debole eco dei canti liturgici che s’innalzavano al di dentro e intravedere un debole chiarore della lontana luminaria sacra. Altri segni religiosi non apparivano in quel vasto recinto, che si sarebbe detto una fiera di bestiame e un convegno di truffatori, piuttosto che l’anticamera della casa ove abitava l’immateriale Dio d’Israele. Gesù era stato certamente testimone di tale scena altre volte nei suoi precedenti pellegrinaggi a Gerusalemme, ma allora la sua vita pubblica non era ancora cominciata; adesso invece la sua missione doveva svolgersi in pieno, ed egli doveva agire come avente autorità (Matteo, 7, 29; Marco, 1, 22) anche per dimostrare la sua missione. Riunite perciò delle corde a mazzo, si dette a percuotere bestie e uomini, rovesciò tavoli di cambiavalute, sparpagliò a terra mucchietti di monete, scacciò via tutti liberando il sacro recinto: Fuori di qua! Non fate la casa del Padre mio casa di traffico! (Giov., 2, 16). - Non sta scritto «La casa mia casa di preghiera sarà chiamata per tutte le genti»? (Isaia, 56, 7). Voi invece l’avete ridotta a spelonca di ladroni (Marco, 11, 17). Già sei secoli prima il profeta Geremia aveva visto il Tempio ridotto a spelonca di ladroni (Ger., 7, 11); ma i sacerdoti e i magistrati sacri contemporanei a Gesù dovevano pensare che la voce di Geremia era troppo lontana, mentre troppo vicino era il vantaggio che l’amministrazione del Tempio ricavava da tutto quel mercanteggiare perché fosse conveniente farlo cessare. E Gesù lo fece cessare a suon di flagelli.
• § 287. In teoria non c’era nulla da eccepire, come ben vedevano gli stessi Farisei; ma in pratica si poteva sempre domandare a Gesù perché aveva compiuto egli personalmente quell’atto di autorità, e non aveva invece invitato a compierlo i magistrati che avevano la direzione del Tempio. Chi aveva dato a lui l’autorità di far ciò? Anzi, più ampiamente, perché mai egli piovuto giù dalla Galilea aveva preso, come appariva dalle sue prime azioni, un atteggiamento del tutto indipendente dalle autorità costituite e molto simile a quello di Giovanni il Battista? Gli si avvicinarono pertanto alcuni Giudei, certamente insigni, e gli dissero: «Quale segno ci mostri che fai ciò (legittimamente)?». Rispose Gesù e disse loro: «Demolite questo santuario, e in tre giorni lo farò sorgere!». Dissero pertanto i Giudei: «In quarantasei anni fu costruito questo santuario, e tu in tre giorni lo farai sorgere?». Già vedemmo che questa risposta dei Giudei contiene un’indicazione molto importante per stabilire la cronologia della vita di Gesù (§ 176); ma la stessa risposta mostra anche che quegli interlocutori non avevano capito a che cosa alludesse Gesù, e con essi certamente anche l’Evangelista testimonio che narra questo fatto. I Giudei avevano chiesto un segno ossia un miracolo: ciò era troppo, perché l’azione di Gesù si giustificava da se stessa, tanto più che i magistrati del Tempio avevano trascurato d’intervenire per far cessare quella profanazione come sarebbe stato loro dovere. Ad ogni modo, essendo stata chiamata in causa la missione di Gesù, egli ne offre una prova vera e reale ma che sarà compresa soltanto dopo molti mesi, mentre al presente non appagherà affatto la curiosità maligna degli interroganti. Il santuario a cui alludono le parole di Gesù è il suo stesso corpo; quando i Giudei avranno disfatto quel santuario vivente, egli lo farà sorgere di nuovo entro tre giorni. Pronunziando queste parole, può darsi che Gesù abbia anche accennato a se stesso con un gesto; comunque fosse, tutti gli ascoltatori pur non comprendendo la risposta se ne ricordarono più tardi, i Giudei per accusare Gesù (§ 565), i suoi discepoli per credere in lui riconoscendo nella sua resurrezione il segno offerto agli interroganti (Giov., 2, 22). [Nota: Già accennammo alla divergenza cronologica fra Giovanni ed i Sinottici: il primo narra la cacciata dei venditori dal Tempio al principio della vita pubblica, i secondi la narrano alla fine (§ 163). Molti studiosi, stimando impossibile un accordo fra le due narrazioni, hanno creduto trattarsi di due fatti diversi, cioè che Gesù abbia cacciato due volte i venditori dal Tempio. A nostro avviso il fatto è unico, e accadde al principio della vita pubblica come fa espressamente rilevare Giovanni, da accurato cronologo qual è. Se i Sinottici trasportano quest’unico fatto al termine della vita pubblica, vi sono indotti da motivi di analogia d’argomento ma specialmente dalla circostanza che essi, nella loro esposizione sommaria e assai spesso non cronologica, narrano esplicitamente di una sola permanenza di Gesù a Gerusalemme (in luogo delle almeno quattro permanenze narrate da Giovanni) e perciò non potevano ricollegare la scena della cacciata se non con l’unica permanenza narrata]. Sebbene i maligni non fossero stati appagati da Gesù nella loro richiesta del segno, tuttavia già in quella sua prima permanenza pasquale in Gerusalemme, molti credettero nel nome di lui, vedendo i segni di lui che faceva (Giov., 2, 23). Ma più che fede di cuore, era fede di cervello, mentre Gesù cercava assai più quella che questa; perciò anche non affidava se stesso a loro, perché egli conosceva tutti (Giov., 2, 24), mentre agli incolti ma generosi discepoli della Galilea egli si era affidato. Ad ogni modo anche la fede di cervello è preparazione ed invito a quella di cuore, e appunto qui l’Evangelista “spirituale” fa assistere ad un colloquio tra uno che aveva già fede di cervello e Gesù che invece lo solleva in tutt’altra sfera: pare di assistere ad una scena di un pulcino sollevato sopra le nubi dall’aquila, ed è scena prediletta dell’Evangelista “spirituale” che la riprodurrà in altre occasioni. (§ 294). Il libro usato è «Vita di Gesù Cristo» - Imprimatur 1940, 7a Edizione, Rizzoli & C. Editori, Milano e Roma, 1941, dell’Abate Giuseppe Ricciotti. Fine.
Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.