Stimati Associati e gentili Sostenitori, abbiamo ancora alcune copie disponibili dei due libri: «L’inferno. Se esiste. Che cos’è. Come possiamo evitarlo» e «Racconti miracolosi». Potete trovarli nella sezione «Sostienici» del nostro sito. Sursum Corda Onlus non ha alcun scopo di lucro ed usa tutte le donazioni per perseguire le finalità associative. L’editoriale di oggi è dedicato al ministero di Gesù a Cesarea di Filippo, secondo le preziose informazioni che ci ha lasciato l’Abate Giuseppe Ricciotti.
• § 395. Da Bethsaida Gesù risalì verso settentrione, allontanandosi ancor più da contrade giudaiche, e raggiunse la zona di Cesarea di Filippo (§ 19). In quella zona, in prevalenza pagana, egli e i suoi discepoli non erano assillati da folle d’imploranti né disturbati da intrighi di Farisei e di politicanti; fu dunque per lui una specie di ritiro con i suoi prediletti. Quei discepoli, del resto, rappresentavano il miglior risultato dell’opera sua: saranno stati chi ruvido, chi zotico, e chi di dura cervice; avranno tutti, più o meno, risentito delle grette idee predominanti allora nella loro stirpe; ma uomini di cuore erano, sinceramente affezionati al maestro e pieni di fede in lui. Le solite turbe che assiepavano Gesù non avevano questi pregi: in Gesù esse cercavano ordinariamente il taumaturgo che guariva malati, risuscitava morti e moltiplicava pani, e se gradivano pure sentirlo parlare del regno di Dio e s’infiammavano anche alla sua parola, in parte era quella vampa nazionalista che Gesù deprecava e in parte era un fuoco di paglia che si spegneva poco dopo. Perciò Gesù prediligeva i discepoli, e ne curava particolarmente la formazione spirituale in vista del futuro. E oramai, dopo un anno e mezzo di operosità, egli poteva trattarli confidenzialmente nella questione più delicata per lui e forse più oscura per i discepoli stessi: la qualità messianica. Quel maestro così amato, quel taumaturgo così potente, quel predicatore così efficace, era veramente il Messia predetto da secoli ad Israele, ovvero era soltanto un tardivo profeta dotato di straordinari doni divini? Era un figlio di Dio, oppure era il figlio di Dio? Certamente, dentro di loro, i prediletti discepoli si erano rivolti già nel passato questa domanda: ma se personalmente si sentivano assai inclinati a rispondere che egli era proprio il Messia, il figlio di Dio, ne erano anche distornati dalla vigilantissima cura mostrata fino allora da Gesù affinché quella risposta affermativa non fosse proclamata ad alta voce. Perché mai quella ritrosia inesplicabile? Era questo un punto assai oscuro per i discepoli; i quali però pensavano che il maestro ne sapeva più di loro, e avendo fede in lui si rimettevano a lui, aspettando che quel punto oscuro fosse schiarito a suo tempo. Gesù giudicò che allora era venuto questo tempo. La lunga ed intima assiduità con Gesù aveva aperto gli occhi ai discepoli in molte cose; d’altra parte, là in terra pagana, non esistevano pericoli d’incomposti tumulti nazionalisti qualora i discepoli avessero avuto la certezza che Gesù era il Messia e di ciò avessero potuto parlare tra loro liberamente; è anche probabile che, nei giorni di tranquillo ritiro passato con i discepoli, Gesù li avesse predisposti spiritualmente a ricevere la delicata confidenza, sfrondando dalla loro immagina[zione] molte frasche politiche di cui era adornata ancora nelle loro menti la figura del Messia d’Israele. Infine, com’era solito fare nei momenti più decisivi della sua missione, Gesù si era appartato a pregare da solo (Luca, 9, 18).
• § 396. Ripreso tutti insieme il cammino, stavano per giungere a Cesarea di Filippo. S’avanzavano lungo la strada, ed erano già in vista della città (Marco, 8, 27): di fronte ad essi si ergeva la maestosa roccia su cui troneggiava il tempio di Augusto (§ 19). A un tratto, riferendosi certamente a discorsi precedenti, Gesù chiede ai discepoli: «Chi dicono gli uomini che io sia?». Gli fu risposto alla rinfusa: «Ho inteso dire che tu sei Giovanni il Battista!». Un altro: «C’è chi dice che sei Elia!». - Un altro ancora: «Secondo alcuni tu saresti Geremia!». Altri infine riferirono l’opinione più vaga secondo cui Gesù era uno degli antichi profeti risorto. Le opinioni riferite erano numerose; ma Gesù non dette loro alcuna importanza, né si fermò a discuterle. Quell’investigazione sul pensiero altrui era una semplice introduzione all’investigazione veramente importante, quella sull’opinione personale dei discepoli. Terminate infatti le risposte, Gesù disse loro: «Voi, invece, chi dite che io sia?». I discepoli ebbero certamente un sussulto: a quella domanda si sentirono toccati nell’intimo, e con stupore videro che Gesù da se stesso entrava nel campo fino allora gelosamente evitato. Dovette seguire un silenzio imposto più da felicità ritrosa che da vera esitanza, silenzio non dissimile da quello d’una fanciulla che sia chiesta in isposa dal giovane ch’ella nel suo cuore segretamente già amava: forse i discepoli ripensarono in quel momento alla parola di Gesù che si era paragonato, nei loro confronti, ad uno sposo fra gli «amici dello sposo» (§ 307). E rimasero lì in mezzo alla strada muti d’un silenzio eloquente, con gli occhi fissi sul tempio di Augusto che dominava su città e campagna dall’alto della roccia. Passati alcuni istanti il silenzio fu tradotto in parole da Simone Pietro, né poteva esser da altri che da lui impetuoso tra affezionati: «Tu sei il Cristo, il figlio d’Iddio il vivente!». La traduzione del verecondo silenzio era stata perfetta; lo si vide in quei barbuti visi, che esprimevano la felicità d’un cordiale consenso e dimostravano una giocondità da lungo tempo repressa.
• § 397. Gesù sfiorò col suo sguardo tutti quei visi; rivolto poi a chi aveva parlato disse: «Beato sei (tu), Simone figlio di Giona, poiché carne e sangue non rivelò (ciò) a te, bensì il Padre mio quello nei cieli!». [Nota 1 alla pagina 470: Figlio di Giona. Altrove (Giovanni, 1, 42 - greco 21, 15) Simone Pietro è chiamato figlio di Giovanni. Non è da pensare che Giona sia un vero abbreviativo grammaticale di Giovanni; forse (... dipende dalle trascrizioni ...), tuttavia la questione grammaticale non è chiara]. L’affermazione di Simone era confermata in pieno da colui ch’era il maggiormente interessato. Tutti i presenti si sentirono parimente confermati nella loro antica fede serbata in segreto. Dovette seguire ancora un breve silenzio, in cui fu alzato ancora uno sguardo al tempio lassù in cima alla roccia. Poi Gesù rispose: «Ebbene, anch’io ti dico che tu sei Roccia, e sopra questa roccia costruirò la mia chiesa, e porte d’inferi non prevarranno contro di essa. Darò a te le chiavi del regno dei cieli, e ciò che (tu) abbia legato sopra la terra sarà legato nei cieli, e ciò che (tu) abbia sciolto sopra la terra sarà sciolto nei cieli» (Matteo, 16, 16-19). Già in precedenza Simone era stato da Gesù chiamato Roccia, in aramaico Kephā (§ 278), ma quella prima volta non era stata comunicata la ragione e la spiegazione dell’appellativo. Adesso la spiegazione è comunicata, ed è tanto più chiara davanti alla visione della roccia materiale che sostiene il tempio dedicato al signore del Palatino. Il tempio spirituale che Gesù costruirà al Signore dei cieli, cioè la sua Chiesa, avrà per roccia di sostegno quel suo discepolo che per primo lo ha proclamato Messia e vero figlio di Dio. Anche le altre parole di Gesù sono chiare, alla luce delle circostanze in cui furono pronunziate. Gli Inferi (in greco Ade) corrispondono alla ebraica Sheol (§ 79), non però come generica dimora dei morti, bensì come dimora dei morti reprobi, ostili al bene e al regno di Dio; le porte di cotesta bolgia satanica, cioè tutte le sue massime forze (cfr. la sublime Porta), non prevarranno contro la costruzione di Gesù e contro la roccia che la sostiene. Tipicamente semitici sono anche i simboli delle chiavi e del legare e sciogliere. Ancora oggi in paesi arabi girano per le strade uomini con un paio di grosse chiavi legate ad una funicella e pendenti ostentatamente di qua e di là della spalla: sono i padroni di case, che fanno pompa in quella maniera della propria autorità. [Nota 2 alla pagina 470: L’usanza, e precisamente riguardo alla spalla, è già attestata da Isaia: «E porrò la chiave della casa di David sulla spalla di lui (di Eliacim, come maggiordomo della casa reale), ed egli aprirà e nessuno chiuderà, e chiuderà e nessuno aprirà]. Il simbolo del legare e sciogliere (cfr. Matteo, 18, 18) conserva qui il valore che aveva nella terminologia rabbinica contemporanea, ove si ritrova usato frequentemente: i rabbini “legavano” quando proibivano alcunché, “scioglievano” quando lo permettevano; Rabbì Nechonja, fiorito verso l’anno 70 dopo Cristo, usava premettere alle sue lezioni la seguente preghiera: «Ti piaccia, o Jahvè, Dio mio e Dio dei miei padri, che... noi non dichiariamo impuro ciò ch’è puro e puro ciò ch’è impuro; che noi non leghiamo ciò ch’è sciolto e non sciogliamo ciò ch’è legato». L’ufficio del discepolo Roccia è dunque ben definito. Egli sarà il fondamento che sosterrà la Chiesa, e la sosterrà così saldamente che le avverse potenze infernali non prevarranno contro di essa. Egli inoltre sarà il maggiordomo di quella casa, le cui chiavi saranno perciò affidate a lui. Egli infine detterà legge nell’interno di quella casa, proibendo oppure permettendo alcunché, e le sue sentenze pronunziate sulla terra saranno tali quali ratificate nei cieli.
• § 398. La replica di Gesù a Simone Pietro è di una chiarezza che si direbbe abbagliante; né minore è la sua sicurezza testuale, giacché tutti gli antichi documenti, senza alcuna eccezione, concordano nel trasmetterci con precisione sillabica il nostro odierno testo. Eppure, com’è ben noto, questo testo ha fatto scorrere torrenti d’inchiostro, e si è recisamente negato che Gesù abbia conferito a Simone l’ufficio di essere roccia fondamentale della Chiesa, depositario delle sue chiavi e arbitro di legare e di sciogliere. Come mai questa negazione? Gli antichi protestanti ortodossi assicuravano che Gesù non ha parlato affatto di Simone Roccia, ma di se stesso, e per il resto si sarebbe riferito a tutti gli Apostoli collettivamente ed alla loro fede. Quando dice «sopra questa roccia costruirò la mia chiesa, ecc.», Gesù allunga un dito e lo rivolge verso se stesso, sebbene stia a parlare con Simone e di Simone. Quel dito allungato risolve la questione: esso è chiarissimamente sottinteso dal contesto, e si accorda spontaneamente con le parole che seguono «darò a te le chiavi del regno dei cieli e ciò che (tu) abbia legato, ecc...». Come si vede subito, il ragionamento è perfetto (...). I negatori moderni dell’ufficio di Simone hanno preso la strada precisamente opposta. Essi hanno trovato che la spiegazione degli antichi protestanti è di una goffaggine tale da tradire subito la tendenziosità settaria che l’ispira. No, rispondono essi, le parole di Gesù hanno precisamente quel significato che la tradizione e il buon senso vi hanno sempre ritrovato; su ciò è inutile arzigogolare: - Uno di questi nuovi negatori si esprime così: «Simone Pietro... vive ancora, agli occhi di Matteo, in una potenza che lega e scioglie, che detiene le chiavi del regno di Dio e che è l’autorità della Chiesa stessa... Simone Pietro è la prima autorità apostolica in ciò che riguarda la fede, perché il Padre gli ha rivelato a preferenza il mistero del Figlio; in ciò che riguarda il governo delle comunità, perché il Cristo gli ha confidato le chiavi del regno; in ciò che riguarda la disciplina ecclesiastica, perché egli ha il potere di legare e di sciogliere. Non è senza motivo che la tradizione cattolica ha fondato su questo testo il dogma del primato romano» [Ricciotti sta usando il modernista Loisy per dimostrare che addirittura quest’ultimo, noto per i suoi faraonici errori, non se la sente di negare esplicitamente e goffamente l’evidenza. Abbiamo sottolineato alcune parole del Loisy che, a nostro avviso, nascondo il periglioso errore, ndR]. Gesù, dunque, ha veramente conferito a Simone l’ufficio in questione, secondo i nuovi negatori? Mai più! La ragione è che Gesù non avrebbe mai pronunziato quelle parole; quel testo sarebbe tutto, o quasi tutto, falso o inventato; esso sarebbe interpolato tra la fine del secolo I e gl’inizi del II o a Roma, a servizio della Chiesa romana, oppure in Palestina. E le prove di tutto ciò? Non si è addotto nessun codice antico, nessuna versione, nessuna citazione, che mostrino indizi sia pur vaghi d’interpolazione: si sono addotti argomenti a silentio (che tutti sanno quanto valgano) per cui scrittori cristiani dei secoli II e III o non citano il passo o ne citano solo una parte. Si potrebbe forse pensare che gli antichi protestanti, beffeggiati dai moderni negatori per avere scoperto il dito allungato di Gesù, siano in grado di vendicarsi trionfalmente applicando ai beffeggiatori le parole di Orazio: «Quodcumque ostendis mihi sic, incredulus odi!» - [Ricciotti sta giustamente ridicolizzando Loisy e, con lui, i moderni negatori del primato. Alcuni lo sono esplicitamente, altri dietro sofismi, altri nella prassi. Cogliamo l’occasione per segnalare che la moderna gerarchia modernista, che si fa chiamare “cattolica”, ordinariamente fa propri gli errori del Loisy e cantastorie simili, ndR].
• § 399. Queste sono le ragioni, addotte da una parte e dall’altra, per negare l’ufficio di Simone. Ma la ragione vera e reale, eppure non addotta mai francamente ed esplicitamente, è la previa «impossibilità» che Gesù abbia conferito quell’ufficio. Questa «impossibilità» sarebbe assoluta, indiscutibile, trascendente, e varrebbe ben più della chiarezza del senso e della sicurezza testuale. Soltanto da questa “roccia” sono scaturiti i torrenti d’inchiostro accennati sopra, e soltanto sopra questa “roccia” si adunano concordemente negatori antichi e moderni. [Si segnala che gli attuali modernisti che occupano impunemente la Chiesa, i quali non professano il Cattolicesimo ma professano la “Religione dell’ecumenismo”, devono necessariamente deprimere il primato romano, appunto in chiave ecumenica. Secondo la nostra opinione, pur talvolta non affermandolo chiaramente essi sempre e comunque dimostrano di non credere nel primato. Con ancor maggiore evidenza, dimostrano di non credere nel primato tutti quei cosiddetti “Tradizionalisti” di dottrina lefebvriana o simile, i quali asseriscono che un divulgatore di eresie e di errori sarebbe veramente Papa e che, per conservare la fede, sarebbe necessario praticare la disobbedienza ordinaria contro il Papa. Questi errori sono così palesi e contrari alla fede cattolica, ndR]. Scesi però dalla “roccia” e calati sul terreno esegetico-documentario, i concordi negatori discordano fra loro e si negano a vicenda. Secondo essi, dietro le spalle di chi si appella alla chiarezza del senso e alla sicurezza testuale s’erge l’ombra del papismo: papismo o no, i negatori alzerebbero tripudianti grida di trionfo se avessero a propria disposizione solo una metà degli argomenti strettamente storici di cui dispongono gli adombrati dal papismo. Ma hanno poi questi negatori pensato di riguardare qualche volta dietro le proprie spalle, per vedere se casomai là si ergano le ombre di Lutero o di Hegel, e se unicamente quelle ombre suggeriscano ad essi i loro argomenti “storici”?
Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.