Comunicato numero 179. «Elenchos» contro Scribi e Farisei. L’offerta della vedova

Stimati Associati e gentili Sostenitori, segnaliamo il nostro canale Youtube, dove è stato caricato un nuovo video di dottrina sui miracoli e sugli esorcismi: https://youtu.be/D8auMkKrQfs. Molto ricca è l’odierna lezione del venerando Abate Ricciotti, il quale ci parlerà dell’«elenchos» contro gli Scribi ed i Farisei, successivamente dell’offerta della vedova.

• § 518. I Greci antichi avevano chiamato èlenchos quella parte dell’orazione forense in cui, esponendosi le accuse addotte contro l’avversario, si corredavano delle rispettive prove; era dunque un biasimo dimostrativo del disonore altrui, come nei tempi più antichi (presso Omero) èlenchos aveva significato sia «biasimo» sia «disonore». In quel tempestoso martedì, consumato da Gesù in buona parte a battagliare contro Scribi e Farisei, non poteva mancare un èlenchos contro questi avversari che riassumesse ed integrasse le accuse già formulate in precedenza. Difatti tutti e tre i Sinottici riportano tale requisitoria di Gesù in questo giorno, ma con le solite divergenze: Marco (12, 38-40) è brevissimo; così pure Luca (20, 46-47), il quale però ha già riferito un ampio formulario d’accuse in occasione del pranzo offerto a Gesù dal Fariseo (§ 447). Lunghissimo è invece Matteo (cap. 23), il quale incorpora quasi tutto il formulario di Luca accrescendolo di altre accuse. È probabile che Matteo, come ha già fatto per il Discorso della montagna (§ 317), abbia riunito qui per motivi redazionali alcune sentenze di Gesù pronunziate occasionalmente altrove: e questa conclusione è suggerita anche dall’esame letterario dell’èlenchos, ch’è diviso simmetricamente in tre parti (23, 1-2; 23,13-32; 23, 33-39), ed ha la seconda parte suddivisa in sette Guai a voi!... (§ 125); tuttavia la collocazione di Matteo è nel suo complesso preferibile a quella di Luca, e il nucleo principale del discorso dovette esser pronunziato da Gesù appunto in questo scorcio di sua vita come del resto confermano vagamente gli altri due Sinottici. Riproduciamo qui integralmente l’èlenchos di Matteo, rinviando per le parti già viste a quanto già se ne disse in precedenza. «Sulla cattedra di Mosè si sedettero gli Scribi ed i Farisei. Perciò tutte quante le cose che vi dicano fate ed osservate, ma conforme alle opere loro non fate, giacché dicono e non fanno. Legano infatti carichi pesanti e (li) impongono sulle spalle degli uomini, ma essi col loro dito non vogliono rimuoverli. Fanno poi tutte le opere loro per esser rimirati dagli uomini: allargano infatti le loro filatterie e ingrandiscono le loro frange, amano poi il primo divano nei conviti e i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze e l’esser chiamati “Rabbi” dagli uomini. - Voi invece non vi lasciate chiamare “Rabbi”: uno solo infatti è  il vostro maestro, e voi siete tutti fratelli. E non chiamate “padre” vostro (alcuno) sulla terra: uno solo infatti è il Padre vostro, quello celeste. E non vi lasciate chiamare “direttori” perché direttore vostro è uno solo, il Cristo. Invece chi di voi è maggiore, sarà inserviente di voi; chiunque poi s’innalzerà sarà abbassato, e chiunque s’abbasserà sarà innalzato». In questa prima parte del discorso Gesù traccia i lineamenti caratteristici dei Farisei, e tornano perciò alcuni tratti delle sue precedenti discussioni con essi: parlando qui egli alla folla del Tempio, passa subito appresso ad esortare affinché quelle caratteristiche non siano imitate e si faccia precisamente il contrario. La vanagloria dei Farisei si esercitava fra l’altro nelle filatterie, le quali consistevano in bossoletti ove stavano arrotolate strisce di pergamena su cui erano scritti alcuni passi dei Libri sacri (cioè Esodo, 13, 1-10; 13, 11-16; Deuteron., 6, 4-9; 11, 13-21): durante la preghiera l’Israelita applicava (ed applica ancora) le strisce sulla fronte e sul braccio sinistro, intendendo di eseguire letteralmente la prescrizione contenuta in Deuteron., 6, 8 (cfr. Esodo, 13, 9). I vanagloriosi si procuravano strisce più ampie e vistose, per dare più sull’occhio; altrettanto facevano con le frange del mantello che avevano anch’esse un significato religioso ed erano portate pure da Gesù, come già vedemmo (§ 349).

• § 519. La seconda parte del discorso costituisce il vero èlenchos: «Guai però a voi, Scribi e Farisei ipocriti, perché rinserrate il regno dei cieli in faccia agli uomini: voi infatti non entrate, né gli entranti lasciate entrare. Guai a voi, Scribi e Farisei ipocriti, perché girate per mare e per terra per fare un solo proselita, e quando sia divenuto (tale) lo rendete figlio di Geenna il doppio di voi. Guai a voi, guide cieche che dite: “Chi abbia giurato per il santuario, è nulla; ma chi abbia giurato per l’oro del santuario, è obbligato”. Stolti e ciechi! Chi è infatti maggiore, l’oro oppure il santuario che ha santificato l’oro? E (dite anche): “Chi abbia giurato per l’altare, è nulla; ma chi abbia giurato per il dono che (sta) sopra a quello, è obbligato”. Ciechi! Che cosa infatti è maggiore, il dono oppure l’altare che santifica il dono? Chi dunque ha giurato per l’altare, giura per esso e per tutte le cose che (stanno) sopra a quello; e chi ha giurato per il santuario, giura per esso e per chi l’abita; e chi ha giurato per il cielo, giura per il trono d’Iddio e per chi vi è assiso sopra. Guai a voi, Scribi e Farisei ipocriti, perché pagate la decima della menta e della finocchiella e del comino, e lasciate le cose più gravi della Legge, il giudizio e la misericordia e la fede! Invece, queste cose bisognava fare e quelle non tralasciare. Guide cieche, che filtrate il moscerino e inghiottite invece il camello! Guai a voi, Scribi e Farisei ipocriti, perché mondate l’esterno della coppa e del vassoio, mentre l’interno è riempito di rapina e sfrenatezza! Fariseo cieco, monda dapprima l’interno della coppa affinché diventi puro anche l’esterno di essa! Guai a voi, Scribi e Farisei ipocriti, perché rassomigliate a sepolcri imbiancati, i quali al di fuori appaiono belli, al di dentro invece sono ripieni d’ossa di morti e d’ogni impurità! Così anche voi all’esterno apparite giusti agli uomini, all’interno invece siete colmi d’ipocrisia e d’iniquità. Guai a voi, Scribi e Farisei ipocriti, perché costruite i sepolcri dei profeti ed abbellite le tombe dei giusti, ed esclamate: “Se fossimo stati ai giorni dei padri nostri, non saremmo stati loro complici nel sangue dei profeti!”. Cosicché attestate a voi stessi che siete figli di quei che uccisero i profeti. E voi colmate la misura dei padri vostri!». L’èlenchos ha denunziato i fatti; tale denunzia serviva già da prova, perché tutti gli uditori sapevano per esperienza che i casi mentovati corrispondevano alla realtà. Un quarantennio più tardi, dopo la catastrofe del 70, lo stato delle cose cambierà alquanto: i Farisei rimarranno le guide sole e incontrastate del residuo della nazione e moltiplicheranno a piacer loro norme e prescrizioni; ma rinunceranno del tutto all’ansioso proselitismo qui accennato, e di cui già vedemmo alcuni risultati ottenuti fra i Greci (§ 508).

• § 520. All’annunzio che i Farisei hanno colmato la misura dei padri loro segue la deplorazione, come nella procedura forense alla dimostrazione del delitto seguiva la pena; è la terza parte del discorso: «Serpenti, razza di vipere, come (avverrà che) sfuggiate al giudizio (condanna) della Geenna? Per questo ecco io invio a voi profeti e sapienti e scribi: di essi ucciderete e crocifiggerete, e di essi flagellerete nelle vostre sinagoghe (§ 64) e perseguiterete di città in città, affinché venga su voi tutto il sangue giusto versato sulla terra, dal sangue di Abele il giusto fino al sangue di Zacharia figlio di Barachia che uccideste fra il santuario e l’altare. In verità vi dico, verranno tutte queste cose su questa generazione! - Gerusalemme, Gerusalemme, uccidente i profeti e lapidante gl’inviati ad essa! Quante volte volli coadunare insieme i tuoi figli, alla maniera che una gallina coaduna i pulcini sotto le ali, e (voi) non voleste! Ecco, è lasciata a voi la vostra casa deserta. Vi dico infatti, non (sarà che) mi vediate da adesso fino a che diciate: “Benedetto il Veniente in nome del Signore!”». Questa ultima parte, più che una minaccia, è in realtà una deplorazione. Gesù deplora che i suoi reiterati tentativi di salvare città e nazione siano stati frustrati, e che l’intero edificio costruito man mano da Dio per la salvezza d’Israele venga demolito man mano dalla pervicacia degli uomini: ciò ch’è avvenuto a al tempo della Legge quando i profeti di Jahvè finivano lapidati, avverrà anche al tempo del Messia i cui inviati finiranno in maniera analoga; ma in tal modo tutto il peso dei delitti anche più antichi graverà su quei che compiono l’ultimo delitto, perché costoro scalzano le ultime fondamenta dell’edificio di Dio, e colmando la misura attireranno su se stessi la vendetta totale. È dunque una minaccia salutare, un supremo angoscioso grido affinché le guide cieche della nazione eletta s’arrestino sull’estremo orlo dell’abisso. Dei delitti antichi sono ricordati per nome solo due, l’uccisione di Abele e quella di Zacharia, probabilmente perché erano narrate l’una al principio del primo libro della Bibbia ebraica che è il Genesi (4, 8), e l’altra sulla fine dell’ultimo libro che sono le Cronache (II Cron., 24, 20-22). Vecchia, poi, è l’altra difficoltà offerta dall’appellativo paterno di Zacharia chiamato qui «figlio di Barachia», mentre nelle Cronache è chiamato «figlio di Jojada»; al contrario appare come figlio di Barachia il profeta Zacharia (Zach., 1, 1. 7), che è tutt’altra persona dallo Zacharia qui ricordato. È notevole però che l’appellativo paterno manca nel passo parallelo di Luca (11, 51) e anche nell’autorevolissimo codice Sinattico di Matteo: ciò potrebbe far sospettare che «figlio di Barachia» sia un’antica glossa infiltratasi nel testo greco ma assente nell’originale semitico di Matteo (§ 121), salvo che la divergenza si fondi su altre ragioni che a noi oggi sfuggono. I due Sinottici, che soli riportano quest’apostrofe di Gesù a Gerusalemme, mostrano con ciò di conoscere i reiterati tentativi di Gesù per salvare la città e quindi i suoi ripetuti viaggi alla capitale, sebbene questi viaggi siano oggetto della narrazione di Giovanni e non dei Sinottici: quindi la tradizione sinottica implicitamente conosce quella giovannea, sebbene non se ne serva (§ 165).

• § 521. Ma con questo appello, angoscioso e minaccioso, i tentativi di Gesù finiscono. Quando sia avvenuta l’ultima ripulsa e consumato l’ultimo delitto, la loro casa sarà abbandonata ad essi deserta, priva dell’aiuto di colui che hanno respinto. Né essi rivedranno mai più lui, se non in tempi d’un futuro remotissimo allorché l’aberrante nazione si sarà ravveduta del suo errore e farà ricerca del respinto: «Una voce sulle nude colline si ode, il pianto supplichevole dei figli d’Israele: ché aberrarono dalla loro via, dimenticarono Jahvè loro Dio; saranno giorni, quelli, in cui non si esclamerà più oltre “O Arca dell’alleanza di Jahvè!”, non starà (più) a cuore, non si penserà ad essa, non sarà rimpianta né costruita più oltre; e agli aberranti sarà rivolto un invito: “Ritornate, o figli ribelli, guarirò io le vostre ribellioni!” ed essi risponderanno: “Eccoci, noi veniamo a te, perché tu sei Jahvè nostro Dio!... Davvero, in Jahvè nostro Dio sta la salvezza d’Israele!”» Geremia, 3, 16... 23, con inversioni. Questa visione dell’antico profeta è contemplata nuovamente da Gesù ma sullo sfondo d’un tempo del tutto nuovo ed ancor più remoto, quello dell’ultima parusia; allora Israele, riconciliato col già respinto Messia, potrà nuovamente vederlo perché gli andrà incontro rivolgendogli l’acclamazione già rivoltagli nel breve trionfo di due giorni prima: Benedetto il Veniente in nome del Signore! (§ 504). Qualche anno più tardi il fariseo Paolo di Tarso, divenuto «schiavo del Cristo Gesù», contemplerà anch’egli il remotissimo tempo in cui i suoi connazionali, presentemente accecati, riacquisteranno la vista e così l’intero Israele sarà salvato (Romani, 11, 25-26). Dopo l’èlenchos contro Scribi e Farisei, ci è dato assistere ad una umile ma nobilissima scenetta che è precisamente l’opposto del mondo spirituale degli Scribi e dei Farisei: la scenetta è descritta da Luca (21, 1-4) ma anche più vividamente da Marco (12, 41-44); Matteo invece, inaspettatamente, la omette. Forse si tratta di un elemento della catechesi di Pietro, trasmesso a Luca per mezzo di Marco.

• § 522. Quel martedì era quasi trascorso; Gesù, terminata l’accorata deplorazione contro i suoi avversari, entrò nelle parti interne del Tempio spingendosi fino all’«atrio delle donne», e ivi si sedette di fronte all’attigua aula del Tesoro (§ 47). All’ingresso di questa erano collocate, per raccogliere le offerte, tredici casse chiamate «trombe» dalla forma allungata dell’imboccatura nella quale si gettavano le monete; in occasione di grandi feste, come questa di Pasqua, le offerte erano abbondantissime perché molti pellegrini approfittavano di questa loro venuta per pagare il tributo prescritto per il Tempio (§ 406) e tutti in genere facevano oblazioni spontanee: perciò vicino alle casse stavano di guardia alcuni sacerdoti, che certificavano il pagamento del tributo e sorvegliavano il regolare svolgimento delle operazioni. Seduto lì di fronte, Gesù guardava. Molti ricchi venivano alle casse e con molta ostentazione gettavano dentro manciate di monete, sicuri con ciò di essere apprezzati assai, oltreché dagli uomini, anche da Dio; frammezzo a costoro, non avvertita né curata da alcuno, venne una povera strascicata di vedova che lasciò cadere nella cassa soltanto «due minuzzoli che è (un) quadrante» (§ 133), cioè neppure due centesimi. Allora Gesù, «chiamati a sé i suoi discepoli disse loro: In verità vi dico che questa vedova, povera, gettò più di tutti quei che gettano nel tesoro; tutti infatti gettarono (traendo) dal sovrabbondante ad essi: questa invece (traendo) dalla sua indigenza gettò tutto quanto aveva, l’intera sua sussistenza» (Marco, 12, 43-44). Anche con questa osservazione il maestro dello spirito si opponeva ai maestri dell’esteriorità, suoi avversari.

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Da Vita di Gesù Cristo, imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.