Stimati Associati e gentili Sostenitori, abbiamo in giacenza ancora alcune copie dei libri «Racconti miracolosi» (del P. Giacinto da Belmonte) e «L’inferno» (di Mons. Gaston de Ségur). Si tratta di due libri formativi scritti da autori di provata fede e di cristallina dottrina: Che Dio li abbia in gloria! Vogliate cortesemente contribuire al sostentamento della nostra piccola Associazione acquistando - secondo le Vostre possibilità e con donazione spontanea - una o più copie. Come di consueto, oltre al libro verranno inseriti nel plico GLS anche l’antico santino per seguire la Santa Messa ed alcune copie di Sursum Corda. Il ricavato sarà utilizzato soprattutto per finanziare la stampa delle prossime novità editoriali. È possibile usare la sezione «Sostienici» del sito, in questo momento attiva e funzionante per la nostra sporadica raccolta fondi.
• Veniamo all’abituale spiegazione della Sacra Scrittura secondo le istruzioni dell’Abate Giuseppe Ricciotti. § 499. Probabilmente l’ammenda di Zaccheo e la risposta di Gesù avvennero durante un banchetto offerto dal capo pubblicano al suo ospite. Vi avranno partecipato, oltre ai discepoli di Gesù, anche altri suoi ammiratori che s’aspettavano da lui grandi cose: e un fremito ansioso doveva passare a ondate in quella sala, ove a mezza voce si sentiva parlare di regno di Dio, di Messia glorioso, di travolgenti vittorie, di tribunali giudicanti, di fulgidi troni e di cortigiani gloriosi e beati; se ne parlava, tuttavia, con qualche prudenziale riserbo per non dispiacere al maestro, giacché tutti sapevano ch’egli - chissà per quali sue recondite ragioni - disapprovava quei ragionamenti e sostituiva a quelle prospettive così rosee altre prospettive altrettanto lugubri (ne abbiamo parlato a proposito delle «Rettificazioni messianiche», ndR). Eppure, senza alcun dubbio, oramai si era alla vigilia di fatti decisivi; tutto induceva a credere che da un giorno all’altro la potenza taumaturgica del maestro si sarebbe dispiegata in pieno, lo stato delle cose sarebbe stato totalmente mutato e il regno di Dio palesemente inaugurato. Da alcune finestre della sala si scorgeva forse la suntuosa reggia ricostruita da Archelao: e taluni di quegli infervorati dovettero ripensare all’effimero ed oscuro principato di quel tetrarca (§ 14), contrapponendogli in cuor loro lo stabile e glorioso regno che il Messia Gesù avrebbe inaugurato di lì a pochi giorni. Gesù in parte udì le sommesse parole, e per il resto comprese da sé lo stato d’animo dei presenti; perciò «disse una parabola, perché egli era vicino a Gerusalemme e quelli credevano che il regno d’Iddio stava per apparire subito» (Luca, 19, 11). La parabola fu la seguente. Un uomo nobile partì per una regione lontana, onde ricevere l’investitura di un regno e poi ritornare quale re effettivo del luogo di partenza. Per non lasciare inoperoso il proprio denaro durante la sua assenza, consegnò una mina - cioè un po’ più di 100 lire in oro - a ciascuno dei dieci suoi servi con l’incarico che la commerciassero fino al suo ritorno. Senonché i suoi cittadini lo odiavano, e mandarono dietro a lui una loro propria ambasceria che dicesse a colui che doveva concedere l’investitura: «Non vogliamo che costui regni su di noi!». Tuttavia l’investitura fu concessa, e l’uomo nobile tornò quale re effettivo. Questa “premessa” della parabola è cavata dalla realtà storica; già notammo che essa corrisponde esattamente al viaggio che un trenta anni prima Archelao aveva fatto a Roma per ricevere da Augusto l’investitura dei suoi dominii, e inoltre anche alla delegazione di cinquanta Giudei che fu inviata da Gerusalemme dietro a lui e contro di lui (§13). Si abbia anche presente che, mentre Gesù parlava e gli altri l’ascoltavano, gli occhi di tutti potevano benissimo posarsi sulla reggia dello stesso Archelao rimasta vuota a Gerico. Tornato il nuovo re, domandò i conti ai servi a cui aveva affidato le mine. Si presentò per primo un servo che con la mina consegnatagli ne aveva guadagnate altre dieci; il re lo lodò perché era stato fedele nel pochissimo, e lo ricompensò dandogli il governo di dieci città. Si presentò un secondo che aveva guadagnato altre cinque mine, e costui fu ricompensato col governo di cinque città. Venne poi un terzo che disse: «Signore, rieccoti la tua mina che io ho tenuta riposta in un fazzoletto; ho avuto infatti paura di te che sei severo, ritiri ciò che non hai depositato e mieti dove non hai seminato!». Evidentemente questo servo non aveva acconsentito all’ambasceria ostile inviata dietro al pretendente al regno, ma neppure aveva fatto alcunché in favore di lui; conoscendolo per altro come molto esigente, aveva conservato tale quale la somma affidatagli, cosicché il futuro re non avrebbe potuto accusarlo d’infedeltà e di furto. Ma il re gli rispose: «Dalla tua bocca ti giudico, servo malvagio! Sapevi che io sono uomo austero, che tolgo ciò che non ho depositato e mieto ciò che non ho seminato? E perché non consegnasti il mio argento alla banca, ché io ritornato l’avrei riscosso con interesse?». Voltosi poi agli astanti comandò: «Toglietegli la mina, e datela a quello che ne ha dieci!». - Gli fu fatto osservare: «Ma, signore, quello ha già dieci mine!». - Però il re replicò: «Eppure è cosi; a chi ha già, sarà ancora dato, mentre a chi non ha, sarà tolto anche ciò che ha! Inoltre, quei tali miei nemici che non volevano ch’io regnassi su loro siano condotti qui ed uccisi in mia presenza!»
• § 500. L’ansiosa aspettativa che quegli uditori avevano del regno messianico non poté rimanere soddisfatta della parabola. In essa l’insegnamento è, in primo luogo, che il palese trionfo del regno di Dio sarà o uno ricompensa o un castigo a seconda del contegno dei singoli individui: in secondo luogo, che quel trionfo avverrà dopo una partenza e un’assenza del pretendente al regno, il quale comparirà ed agirà da re soltanto alla sua futura venuta. Applicando la parabola, troviamo che il pretendente al regno è Gesù stesso; il quale è già nel pieno possesso dei suoi diritti regali, ma ancora non è partito per andare a ricevere l’investitura pubblica e solenne dal suo Padre celeste assentandosi dai suoi sudditi, alcuni dei quali gli sono apertamente ostili e vorrebbero che egli non regnasse; questa sua assenza non è breve, giacché il pretendente parte per una regione lontana e affida ai suoi servi traffici che richiedono molto tempo (difatti Matteo, 25, 19, dirà che il padrone della parabola ritorna «dopo molto tempo»); quando Gesù sarà di ritorno dal suo Padre celeste, allora avverrà l’inaugurazione manifesta e solenne del suo regno con il premio dei sudditi fedeli e il castigo dei negligenti e ribelli. Non stiano dunque in ansiosa trepidazione i discepoli, aspettandosi da un giorno all’altro il trionfo solenne del regno di Dio. Prima di quel trionfo Gesù dovrà partire per una regione lontana e rimanere assente da loro fino alla sua nuova parusia, ossia presenza. Durante questa sua indefinita assenza, i nemici del lontano re brigheranno accanitamente affinché non regni: anzi, quando sarà proposto loro di riconoscere ufficialmente la sua regalità di Messia ebraico, risponderanno di riconoscere soltanto la regalità del Cesare pagano (Giovanni, 19, 15). Perciò questa sua assenza sarà un periodo di dure prove per i sudditi fedeli rimasti soli, e superando tali prove essi meriteranno di partecipare al trionfo finale della parusia. Se però il trionfo definitivo era riservato alla parusia, Gesù stesso aveva già promesso una grande manifestazione di possanza del regno di Dio che poteva ben valere come parziale anticipazione del trionfo finale (§ 401); inoltre aveva promesso particolari soccorsi appunto durante quelle dure prove (§ 486). La parabola delle mine, propria a San Luca, è narrata anche da San Matteo (25, 14-30) ma in altro contesto e con talune divergenze. Matteo la fa recitare da Gesù durante il grande discorso escatologico, pronunziato a Gerusalemme nel martedì della settimana di passione (§ 523); inoltre, colui che parte non è un pretendente al regno che va a riceverne l’investitura ma è un uomo facoltoso, e non distribuisce ai suoi servi una mina a ciascuno ma o cinque o due o un solo talento, il quale valeva sessanta mine: alla fine, poi, non si parla del castigo dei nemici che avevano brigato contro l’assente. - La collocazione che Luca dà alla parabola è senza dubbio migliore di quella di Matteo, perché corrisponde in maniera sorprendente al momento storico e alle circostanze della recita; lo stesso si dica della qualità di pretendente al trono e del conseguente castigo dei nemici, che non si ritrovano in Matteo. Per il resto le due parabole corrispondono quanto alla sostanza: quella di Matteo può essere un raccorciamento di quella di Luca, ma può anche darsi che il dippiù che si ritrova in Luca (specialmente il castigo finale dei nemici) provenga da una parabola diversa.
Da Vita di Gesù Cristo, imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.