Stimati Associati e gentili Sostenitori, per un approfondimento su alcune recenti iniziative dell’Associazione rimandiamo al breve comunicato «Due raccolte per i poveri, giugno 2019» pubblicato qui accanto. Siamo tenuti a rendere pubbliche queste iniziative non per propaganda e né per vanagloria (cf. Proverbi, XXI, 14), ma solamente per documentare la nostra attività di O.d.V. (ce lo chiede la legge) e nell’intenzione di eccitare i Lettori alla pratica delle opere di misericordia. Dice infatti la Scrittura: «Chi chiude l’orecchio al grido del povero, griderà anch’egli, e non gli sarà risposto» (Ivi., 13). L’Abate Giuseppe Ricciotti - sia pace alla sua bellissima anima! - oggi ci racconta la vicenda del ricco che si presenta a Gesù; segue una lunga considerazione sulla ricchezza.
• § 484. Quando Gesù stava per allontanarsi dal luogo ove gli erano stati presentati i bambini, si presentò frettoloso un giovane che, inginocchiatosi davanti, gli domandò: «Maestro buono, che cosa farò perché (io) possa ereditare (la) vita eterna?». Ma Gesù gli disse: «Perché mi dici buono? Nessuno (è) buono se non uno, Iddio» (Marco, 10, 17-18). Già rilevammo (§121, nota) come i termini di questo dialogo, confermati da San Luca, appaiono in maniera diversa presso San Matteo: si temette, infatti, che i termini, com’erano impiegati da San Marco e San Luca, offrissero appiglio a scandalo potendo essere interpretati come negazione della bontà di Gesù e della sua divinità; e quindi il traduttore greco del Matteo aramaico, pur conservando materialmente i termini, li impiegò in maniera diversa per togliere ai suoi lettori ogni occasione di malinteso. Ma, appunto perché più difficile (§ 480), il testo di Marco e Luca ha in suo favore ogni probabilità di essere il più antico e il più esatto nel riportare le parole di Gesù: il testo di Matteo, più facile, rispecchia meglio l’impiego che del dialogo faceva la catechesi cristiana posteriormente alla pubblicazione dei vangeli di San Marco e di San Luca. Riportandosi alle circostanze storiche, i termini del dialogo si spiegano agevolmente. L’appellativo Maestro buono (Rabbi tābā) non era mai usato parlando a rabbini, neppure ai più autorevoli, poiché sembrava esagerata adulazione: un rabbino si riteneva sufficientemente onorato dal termine Maestro, mentre colui al quale spettava l’appellativo di buono era a rigore soltanto Dio. Qui il giovane, che ha visto Gesù abbracciare e accarezzare i bambini, lo chiama buono più nel senso umano e familiare che in quello accademico e filosofico. Gesù ne prende occasione per offrire al giovane la maniera di approfondire la conoscenza del Maestro a cui si rivolge; scendendo sullo stesso piano di lui (come aveva già fatto con la Samaritana; Giovanni, 4, 22), egli dice in sostanza al giovane: «Tu mi chiami maestro come qualunque altro dottore della Legge, e per di più mi chiami buono. Perché mi dai questo appellativo? Non sai che, secondo l’uso comune, esso è riservato a Dio?». Il giovane avrebbe potuto giustificare l’uso dell’appellativo rispondendo: «Ma appunto tu sei il figlio di Dio!». E invece non rispose. Si aspettava veramente Gesù questa risposta da quel giovane, forse ignaro; oppure egli aveva cercato di provocarla affinché in cuor loro rispondessero i discepoli, non ignari (§ 396), ch’erano presenti? Poiché il giovane non dette risposta, Gesù continuò per soddisfare alla richiesta di lui: «Se poi vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti». Il giovane chiese: «Quali?». Gesù allora, confermando ancora una volta la Legge ebraica, gli recitò il Decalogo: «Non ucciderai; non commetterai adulterio; ecc.». Il giovane, meravigliato, replicò: «Ma tutto ciò io l’ho osservato fin dalla mia prima giovinezza! Vorrei sapere se mi manca ancora qualche altra cosa». Dopo questa fiduciosa e volenterosa risposta Gesù, a detta di Marco (10, 21), «riguardatolo lo amò», ossia lo fissò con chiara espressione di benevolenza, e poi gli disse: «Ti manca una cosa. Se vuoi essere perfetto, va’, vendi tutti i tuoi beni, distribuisci ai poveri il ricavato, ché avrai un tesoro nei cieli; e poi seguimi!». A tale invito, quale risulta in complesso da tutti e tre i Sinottici, avvenne un cambiamento di scena: il giovane già cosi ardente e volenteroso diventò a un tratto gelido e «afflittissimo» (Luca, 18, 23) perché possedeva molti beni ed era assai ricco. E così ottenebrato, si allontanò. L’amara proposta di alienare tutti i propri beni era stata addolcita dalla promessa di un tesoro nei cieli, conforme alla sanzione universale della dottrina di Gesù (§ 319), ma il palato del giovane sentì poco o nulla il dolce e moltissimo l’amaro; a lui il futuro tesoro nei cieli parve troppo lontano per poterlo preferire alle sue grosse anfore ripiene di lucenti sicli e custodite gelosamente dentro qualche occulto ripostiglio. Buon giovane, senza dubbio, ma d’una bontà comune e terra terra, mentre Gesù aveva ammonito che ai suoi seguaci poteva chiedere ad ogni momento di essere giganti di eroismo (§ 464). Quel giovane sarebbe stato certamente un ottimo magistrato dell’Impero romano, mentre al primo scrutinio per essere assunto quale alto magistrato del regno dei cieli risultò deficiente: per questo regno egli non aveva l’animo tanto nobile quanto quell’ignobile pubblicano di Levi, che aveva posseduto forse meno sicli ma più generosità (§ 306).
• § 485. Partito il giovane, sul contegno di lui Gesù fece alcune considerazioni con i discepoli. «Quanto difficilmente - esclamò egli - quelli che hanno ricchezze entreranno nel regno d’Iddio!». Senonché i discepoli rimanevano stupiti delle parole di lui. Gesù però, di nuovo rispondendo, dice loro: «Figli, quant’è difficile entrare nel regno d’Iddio! È più agevole per un cammello passare attraverso la cruna dell’ago, che per un ricco entrare nel regno d’Iddio». Quelli allora rimanevano sempre più stupefatti, dicendo tra loro: «E chi può salvarsi?». Riguardatili, Gesù dice: «Presso gli uomini (è) impossibile, ma non presso Dio» (Marco, 10, 23-27). L’immagine del cammello è perfettamente orientale. Sono infondate le interpretazioni che il nome greco di cammello sia stato scambiato col nome somigliante di una grossa fune, oppure che con l’appellativo cruna dell’ago si designasse una ignota porticina delle mura di Gerusalemme stretta ed aguzza. Gesù parla di un vero cammello e di una vera cruna d’ago, come più tardi nel Talmud si parlerà di rabbini che a forza di sottigliezze facevano passare un elefante attraverso una cruna d’ago (cf. Strack e Billerbeck, Op. cit. negli altri articoli, vol. I, pag. 828). Neppure è il caso di attenuare la forza di questo paragone; Gesù se ne serve per adombrare, non una grande difficoltà, ma una vera impossibilità. Il ricco non può entrare nel regno di Dio per la stessa ragione per cui un uomo non può servire a Dio e a Mammona (§ 331): questi due monarchi nella loro lotta implacabile non si dànno quartiere, e l’uno non permette ai sudditi dell’altro di entrare sotto nessun pretesto nel proprio regno. E allora nessun ricco potrà in questo caso entrare nel regno di Dio? No, vi potrà entrare, purché prima svesta la divisa di suddito di Mammona, diventando povero di fatto o equivalente povero in ispirito (§ 321, nota). Ma sarà possibile questa diserzione dei sudditi di Mammona, che diventino sudditi di Dio? No, questa diserzione così paradossale è umanamente impossibile, perché gli uomini preferiranno sempre il palpabile oro terrestre all’impalpabile tesoro celeste: tuttavia essa presso gli uomini (è) impossibile, ma non presso Dio, e Dio opererà questo miracolo di fare che un ricco preferisca il tesoro lontano all’oro vicino. Queste idee in sostanza non erano nuove, essendo già state espresse da Gesù sia nel Discorso della montagna, sia nella sua recente disputa con i Farisei a proposito delle ricchezze (§ 471). Un elemento nuovo qui introdotto è l’affermazione che l’abbandono delle ricchezze per entrare nel regno di Dio non sarebbe stato effetto d’industria umana ma della potenza di Dio.
• § 486. Ascoltate le parole di Gesù e applicatele a se stessi, gli Apostoli riscontrarono che essi si trovavano avvantaggiati sugli altri uomini. Dei loro sentimenti si fece interprete il solito Pietro, che disse a Gesù: «Ecco, noi lasciammo tutto e ti seguimmo»; cosicché erano diventati volenterosi poveri per Gesù e per il regno dei cieli, e stavano in regola con le condizioni testé dettate dal maestro. Seguì per ciò una domanda, riportata da un solo Sinottico: «Che cosa dunque avremo?» (Matteo, 19, 27). Gesù rispose riferendosi sia agli Apostoli suoi particolari seguaci e collaboratori, sia a tutti gli altri seguaci presenti e futuri che non avevano il grado di Apostoli. La parte della risposta che si riferisce agli Apostoli è riportata qui dal solo Matteo (19, 28), mentre da Marco è taciuta e da Luca (22, 28-30) è riportata fra i discorsi dell’ultima cena; la parte relativa agli altri seguaci di Gesù è riportata da tutti e tre i Sinottici, ma presso Marco e Luca con una particolare distinzione cronologica. Agli Apostoli Gesù disse: «In verità vi dico che voi che mi seguiste, nella rigenerazione, quando segga il figlio dell’uomo sul suo trono di gloria, sederete anche voi su dodici troni giudicando le dodici tribù d’Israele». Ciò dunque avverrà alla rigenerazione o palingenesi, la quale rinnoverà ab imis [dalle più profonde fondamenta o totalmente, ndR] il «secolo» presente: allora, su quel trono di gloria che i rabbini riserbavano a Dio, si sederà il Figlio dell’uomo come sul suo proprio trono, e avendo ai suoi lati i dodici Apostoli seduti su troni minori giudicherà insieme con essi quelle dodici tribù d’Israele alle quali esclusivamente egli ha indirizzato la sua personale missione (§ 389). Con questa solenne assemblea giudiziale si chiuderà il «secolo» presente e s’inizierà il « secolo» futuro (§ 525 segg.). [Dalla nota 1 alla pagina 575: «Secondo i rabbini erano state create prima del mondo (più esattamente 2000 anni prima) sette cose, le quali enumerate in maniere diverse erano: la Tōrāh, la penitenza, il giardino di Eden, la Gehenna, il Trono della gloria, il santuario (celeste) e il nome del Messia; la Tōrāh, o Legge, stava deposta sulle ginocchia di Dio, il quale era assiso sul Trono della gloria: cfr. Strack e Billerbeck, Op. cit., vol. I pag. 974-975»]. Ciò che Gesù promise agli altri suoi seguaci, non Apostoli, suona così presso Marco (10, 29-31): «In verità vi dico, non v’e nessuno che lasciò casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a cagione di me e a cagione della buona novella, il quale non riceva centuplicati adesso in questo tempo case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme con persecuzioni, e nel secolo venturo (la) vita eterna». Qui la ricompensa non è messa in relazione col solenne giudizio delle dodici tribù, ma è nettamente divisa in due tempi: la seconda parte si avrà nel secolo venturo, e consisterà nella vita eterna; la prima parte si avrà adesso in questo tempo, che perciò è il «secolo» presente. Nella ricompensa del «secolo» presente si promette ai seguaci di Gesù il centuplo di tutto ciò che hanno lasciato. Ora, questo centuplo è di beni solamente spirituali, ovvero anche materiali?
• § 487. È noto che, come gli scritti apocalittico-messianici del tardivo giudaismo si sbizzarrirono nel descrivere i beni materiali che il futuro Messia avrebbe apparecchiati nel suo regno, così alcuni scrittori cristiani dei primi due secoli presero argomento da queste parole di Gesù per descrivere anch’essi il futuro Regno del Messia Gesù quasi come un paese di Bengodi: in quel regno ogni vite avrà 10.000 tralci, ogni tralcio 10.000 rami, ogni ramo 10.000 viticci, ogni viticcio 10.000 grappoli, ogni grappolo 10.000 acini, e da ogni acino si pigeranno 25 misure di vino, e altrettanto avverrà per il grano e gli altri prodotti del suolo; quel regno poi durerà mille anni (cfr. Apocalisse, 20, 3 segg.). Uguale concezione materiale ne aveva, dal di fuori, Giuliano l’Apostata, il quale domandava beffardamente ai Cristiani se il loro Gesù avesse restituito al centuplo anche le mogli lasciate da essi per seguirlo [San Luca, fra le cose lasciate per seguire Gesù, nomina anche la moglie]. Ma a questo millenarismo materiale inferse gravi colpi già Origene nel secolo III, e più tardi San Gerolamo ripeterà: «In occasione di questo passo (della ricompensa centuplicata) alcuni introducono mille anni dopo la resurrezione, dicendo che allora ci sarà concesso il centuplo di tutte le cose che lasciammo e la vita eterna; non comprendendo però che, se nelle altre cose la promessa è degna, nelle mogli appare una sconcezza, giacché chi ne ha lasciata una per il Signore, ne riceverà cento in futuro. Il senso dunque è questo: Chi, per il Salvatore, abbia lasciato cose carnali, riceverà cose spirituali, le quali in confronto e per valore intrinseco saranno come se si confronta il cento con un numero piccolo». Cosicché per San Girolamo, come pure per altri Padri, il centuplo ha un valore spirituale. La spiegazione è sostanzialmente giusta, ma, dal punto di vista storico, non appare completa e dovrà essere integrata attribuendo al centuplo promesso pure un subordinato valore materiale. Anche sotto questo aspetto, infatti, la promessa di Gesù si riscontra immediatamente avverata fra i primissimi cristiani, i quali costituivano una famiglia in cui si ritrovavano moltiplicati i beni materiali e gli affetti naturali lasciati per amore del Cristo. Narrano gli Atti (2, 44-45) che «tutti i credenti (erano) insieme (e) avevano tutte le cose in comune, e vendevano le possessioni e sostanze e le spartivano fra tutti secondo che alcuno aveva bisogno»; e poco appresso (4, 32) confermano che «la moltitudine dei credenti aveva un cuore e un’anima sola, e nessuno diceva esser cosa sua propria alcunché di ciò ch’egli aveva, bensì tutte le cose in comune essi avevano». Così pure dagli Atti e dalle varie Lettere apprendiamo che i cristiani, di comunità anche lontane, si consideravano legati da vincoli di carità tanto forti da sentirsi, pure nel campo affettivo, largamente ricompensati di vincoli naturali forse spezzati per seguire il Cristo. Se dunque i primi cristiani avevano lasciato una casa ed un cuore, trovavano veramente cento case e cento cuori in compenso. Giustamente quindi in questi benefizi materiali, offerti dalla fratellanza religiosa, gli studiosi moderni delle varie tendenze vedono il centuplo promesso da Gesù adesso in questo tempo, come del resto gli storici delle epoche successive della Chiesa scorgevano l’avveramento della stessa promessa in quelle molte associazioni i cui membri, per avvicinarsi allo spirito di Cristo, vissero e vivono di beni messi in comune, in maniera da poter affermare con San Paolo di essere come nulla aventi ed ogni cosa possidenti (II Corinti, 6, 10). [N.B. Nulla a che vedere con il Socialismo o con il Comunismo, cf. Divini Redemptoris, Pio XI, ndR]. Si noti bene, però, che questo centuplo materiale è promesso da Gesù insieme con persecuzioni. I seguaci del Messia assassinato (§ 400) dovevano infatti in qualche maniera assomigliarsi a lui, e seguirlo - come dice egualmente San Paolo (ivi, 6, 4... 10) - in molta pazienza, in tribolazioni, in necessità, in angustie, in piaghe, in carceri, in tumulti, in travagli, in veglie, in digiuni; ma pur fra queste vicende essi potevano affermare, insieme col nomenclatore delle medesime, di essere come castigati e non messi a morte, come attristati ma sempre gaudenti.
Da Vita di Gesù Cristo, imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.