Stimati Associati e gentili Sostenitori, oggi studieremo, con il dotto Abate Giuseppe Ricciotti, altre tre importanti testimonianze storiche della divinità di Nostro Signore Gesù-Cristo: «La figlia di Jairo. La donna con profluvio di sangue. I due ciechi».
• § 349. Ripassato il lago, Gesù tornò a Cafarnao ove l’accolse la folla perché tutti l’aspettavano (Luca, 8, 40). Più ansiosamente forse di tutti l’aspettava un Giudeo di riguardo, archisinagogo (§ 64), di nome Jairo; costui, saputo che Gesù è arrivato, corre e cade ai piedi di lui e si raccomanda molto a lui dicendo: «La figliolina mia è agli estremi! Vieni dunque, imponi le mani su lei, affinché sia salva e viva!» (Marco, 5, 22-23.) Il racconto di San Luca non è altrettanto vivido, ma aggiunge il particolare che la moribonda fanciulla era unigenita e di circa dodici anni. Gesù senz’altro si avvia insieme con l’angosciatissimo padre, ed è seguito naturalmente da molta folla che si accalca attorno al taumaturgo: chi lo sospinge, chi l’acclama, chi lo supplica, chi gli bacia le vesti, chi tenta d’aprirgli un varco. Nell’avanzarsi in questa maniera, a un tratto Gesù si ferma, si rivolge, e guardando attorno domanda: «Chi mi ha toccato?». A quella inaspettata domanda tutti rimangono perplessi, non sapendo che cosa veramente intenda egli dire. Pietro ed i discepoli che sono presenti esprimono a parole la ragione della perplessità: «Maestro, le folle ti costringono ed opprimono!» (Luca, 8, 45). Ma la spiegazione di Pietro non spiega nulla; il maestro replica ch’egli ha sentito uscire da sé potenza al toccamento speciale di qualcuno. Ecco infatti che una povera donnetta, tutta tremante, viene a prostrarsi davanti a Gesù e narra alla folla quant’è avvenuto. La donna soffriva di perdite di sangue da dodici anni e molto aveva sofferto da parte di molti medici, e dopo aver consumato tutte le sue sostanze non aveva tratto alcun giovamento, ma piuttosto era andata peggio; questa franca informazione di San Marco è pudicamente accorciata dal medico San Luca, e noi già sappiamo perché (§137). Veramente i rimedi contro questo incomodo erano molti, e i rabbini che spesso facevano anche da medici ci hanno conservato una buona lista di opportune ricette (cfr. Shabbath, 110 a). Ad esempio, un rimedio molto efficace era quello di far sedere la donna malata alla biforcazione d’una strada facendole tenere in mano un bicchiere di vino; qualcuno, a un tratto, venendole di soppiatto alle spalle, doveva gridarle che cessasse il profluvio di sangue. Un rimedio poi assolutamente decisivo era quello di prendere un granello d’orzo trovato nello stabbio di un mulo bianco: prendendolo per un giorno il profluvio sarebbe cessato per due giorni, prendendolo per due giorni sarebbe cessato per tre giorni, e prendendolo per tre giorni si sarebbe ottenuta la guarigione completa e per sempre. [Dalla nota 1 a pagina 414: Pare tuttavia che gli stessi rabbini non avessero sempre una fede cieca in queste ricette, giacché troviamo nella Mishna una sentenza come questa: «Il migliore dei medici merita la Gehenna» (Quiddushīn, IV, 14) - Notiamo la spiccata ironia del polemista Abate Ricciotti, ndR]. Altre ricette richiedevano impiego di droghe rare e costose, e quindi grandi spese da parte della malata. La donna ricorsa a Gesù le aveva forse sperimentate tutte, giacché aveva consumato tutte le sue sostanze, ma rimanendole egualmente il suo incomodo. Perduta ogni fede nelle medicine, la malata trovò la sua medicina nella fede. Quel Gesù di cui tanto si parlava in quei luoghi era certamente in grado di guarirla; ella concepì di ciò tanta fede, che andava ripetendo a se stessa: «Se (io) tocchi anche sol le vesti di lui sarò salva»; non pretendeva la fiduciosa di toccare proprio la persona del taumaturgo, ma solo la sua veste, o anche solo quell’orlatura o frangia (... Matteo, 9, 20) che ogni Israelita osservante doveva portare ai quattro angoli del suo mantello conforme alle prescrizioni della Legge (Numeri, 15, 38 segg.; Deuteron., 22, 12). Sorretta da tale fede, la donna aveva toccato nascostamente quell’orlatura della veste di Gesù e all’istante si era sentita guarita. Il medico, a guarigione ottenuta, approvò la medicina scelta dalla malata, perché voltatosi a lei le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace, e sii guarita dal tuo male!».
• § 350. L’incidente della donna era chiuso e Gesù avrebbe potuto riprendere il cammino verso la casa di Jairo, ma ecco che appunto da quella casa si viene ad annunziare al povero padre: «Tua figlia è morta; non disturbare più il maestro!». Gesù ode l’annunzio, e quasi proseguendo il discorso sulla fede fatto alla donna, soggiunge al padre: «Non temere! Soltanto credi, e sarà salva!». La casa della morta è presto raggiunta, ma Gesù non permette di entrare se non ai discepoli prediletti, Pietro, Giacomo e Giovanni, ed ai genitori della morta; si sono già adunati flautisti e lamentatrici, di prammatica nelle adunanze funebri, ma Gesù dice che la loro presenza è inutile: «Che strepitate e piangete? La fanciullina non morì ma dorme». Gli accorsi trovano che lo scherzo è di cattivo gusto vicino a un cadavere, e rispondono con scherni. I genitori stanno come trasognati fra la realtà dei fatti e le ferme parole dell’invocato taumaturgo; Gesù li spinge insieme con i tre discepoli dentro la camera della morta, dopo che ne sono usciti tutti gli estranei. Là dentro stanno cinque uomini imbambolati; oltre ad essi c’è uno che non è più uomo, e uno che è più che uomo. Dal di fuori giunge il brusio confuso della folla. Il più che uomo si avvicina a chi non è più uomo, gli prende la mano già fredda e pronunzia due sole parole; il discepolo del testimonio Pietro ci ha conservato nel suo suono originario queste due parole, ch’egli avrà udite ripetute tante volte dal suo maestro: «Tĕlita qūmī», cioè Ragazza sorgi! - L’effetto di queste due parole è descritto così dall’evangelista medico: «E ritornò lo spirito di lei, e si levò all’istante, e (Gesù) ordinò che le fosse dato da mangiare. E rimasero fuor di sé i genitori di lei; ma egli prescrisse loro di non dire a nessuno l’accaduto». Questa prescrizione era conforme alla norma seguita da Gesù, che già rilevammo (§ 300); ma quei rasserenati genitori, con tutta la loro buona volontà, avranno potuto osservarla solo in minima parte, giacché troppo eloquentemente parlava la stessa presenza in casa di quella figliuola, che tutti avevano vista partire per l’oltretomba e poi ad un tratto ne era ritornata: tanto è vero che il pratico San Matteo conclude il racconto dicendo che «uscì la fama di questo (avvenimento) in tutta quella regione». Che fine avrà fatto la fanciulla risuscitata? Avendo dodici anni, era in età da marito (§ 231); forse poco dopo si sarà maritata, avrà poi avuto figli e nipoti, ma alla fine ritornò stabilmente in quell’oltretomba già da lei visitato per poco tempo. Su questo bel caso scritti apocrifi e leggende tardive pare che non abbiano fantasticato, mentre invece si ricamò attorno alla donna dal profluvio di sangue. Negli apocrifi Atti di Pilato, VII, la donna è chiamata Veronica (§ 193). Secondo una voce riportata da Eusebio (Hist. eccl., VII, 18) era una pagana nativa di Panion, ossia Cesarea di Filippo (§ 395 segg.), e tornata in patria fece erigere alla porta di casa sua un monumento di bronzo raffigurante lei stessa inginocchiata davanti a Gesù: ai piedi di Gesù spuntava una pianta esotica, che guariva ogni sorta di malattie; Eusebio vide sul posto il gruppo e afferma soltanto: «Dicono che questa statua riproduca l’immagine di Gesù». È molto probabile che il gruppo originariamente rappresentasse qualche divinità pagana curatrice di morbi, e che più tardi la leggenda cristiana la interpretasse come dice Eusebio; secondo una notizia di Sozomeno, il gruppo sarebbe poi stato abbattuto da Giuliano l’Apostata.
• § 351. Con la donna guarita e la fanciulla risuscitata, gli insegnamenti taumaturgici della fede non erano finiti. A Gesù uscito dalla casa di Jairo tennero dietro due ciechi, due di quegli infelici di cui doveva abbondare la Palestina antica non meno dell’odierna: ancora oggi, del resto, in Palestina i ciechi spesso s’uniscono a coppia per aiutarsi bene o male fra loro, e mostrano come tutti gli altri mendicanti quella tenacia nel chiedere mostrata da questi due. Al sentir raccontare i recentissimi miracoli, nei due brillò un lume di speranza e fattisi accompagnare presso Gesù si dettero a seguirlo gridando con immutabile costanza: «Abbi pietà di noi figlio di David!». Data la norma prudenziale seguita da Gesù (§ 300), quell’appellativo non poteva tornargli per allora gradito, perché era un appellativo messianico che designava usualmente il grande Atteso, e perciò era anche più pericoloso in quell’effervescenza suscitata fra il popolo dai miracoli. Gesù non si ferma né si rivolge a quell’incessante grido, ma non per questo il grido cessa; Gesù, infine, entra nella casa ove dimora, certamente a Cafarnao, e i due lo seguono anche dentro casa. Tutto sommato, la tenacia dei due ciechi era fede, precisamente quella fede poco prima lodata e raccomandata da Gesù alla donna malata e a Jairo; inoltre, nell’interno d’una casa l’appellativo messianico non era più pericoloso, cosicché Gesù entrò in discussione con i due imploranti. Ma la prima e forse l’unica domanda fu sulla fede: «Avete fede che posso far ciò?». I due ciechi naturalmente rispondono: «Si, Signore!». Allora Gesù toccò loro gli occhi, dicendo: «Secondo la vostra fede avvenga a voi». E i due videro. Allora Gesù comandò con somma energia - l’Evangelista usa la parola fremette, (Matteo, 9, 30) - di non parlare con nessuno del fatto; ma quelli, usciti di là con la luce negli occhi e nel cuore, ne parlarono in tutta la regione. Fu una vera disobbedienza? Vari studiosi protestanti l’hanno stimata tale; antichi Padri l’hanno giudicata un incoercibile moto di gratitudine. Forse gli antichi conoscevano il cuore umano meglio dei moderni.
Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.