Stimati Associati e gentili Sostenitori, in occasione della XIIIa Giornata per la Regalità Sociale di Cristo, annuale seminario di studi (qui i video delle lezioni precedenti) a cura dell’Istituto Mater Boni Consilii, della rivista Sodalitium e del Centro Studi Giuseppe Federici, che si svolgerà a Modena sabato 20 ottobre 2018, probabilmente sarà disponibile il nostro nuovo libro «Racconti miracolosi», del compianto Padre Giacinto da Belmonte. Siamo in attesa di novità sui tempi di stampa e di consegna da parte della tipografia. Gli argomenti di oggi, sempre tratti dalla preziosa «Vita di Gesù Cristo» dell’Abate Giuseppe Ricciotti, sono principalmente due: «La tempesta sedata e l’energumeno di Gerasa».
• § 346. Di questa uniforrne operosità (di Gesù) nella Galilea ci sono tramandati soltanto pochi fatti particolari. In questo periodo certamente cadde la giornata dedicata da Gesù all’insegnamento per mezzo di parabole, della quale tuttavia è più opportuno trattare a parte, staccandola dal suo inquadramento cronologico (§ 360). Altri episodi tramandati sono i seguenti. Forse la sera stessa della giornata delle parabole (cfr. Marco, 4, 35) Gesù, che aveva parlato alle turbe sulla riva occidentale del lago di Tiberiade, salì in barca con i discepoli e comandò loro di passare alla riva opposta. La partenza, a quanto sembra, fu improvvisa ed affrettata: forse, ancora una volta, Gesù voleva sottrarsi alle fervorose dimostrazioni della folla che l’aveva ascoltato. La traversata è di pochi chilometri (§ 376) ma può esser pericolosa, specialmente se compiuta sul far della notte come quella volta, a causa dei venti freddi che si scaricano giù improvvisamente dal sovrastante nevoso Hermon e suscitano tempeste violentissime per quel lago e per le fragili imbarcazioni che lo percorrono. Così avvenne in quella serata. Gesù, stanco della faticosa giornata, si distese a poppa della barca e si addormentò: Marco (4, 38), che più volte avrà udito il racconto dalla bocca di Pietro, menziona anche il cuscino su cui Gesù appoggiò la sua testa, il piccolo cuscino di cui erano provviste le più umili barche; inoltre, il solo Marco ricorda che altre barche accompagnavano quella di Gesù. Ad un tratto un turbine violento s’abbatte sul lago, e ben presto la barca di Gesù è in pericolo e fa acqua; i barcaioli tentano manovrare, ma tutto è inutile e da un momento all’altro può esser la fine. Frattanto Gesù continua a dormire a poppa della squassata navicella. Dante, alla prima visione sovrumana che ebbe nel Purgatorio, scorse un «vasello snelletto e leggiero» guidato da un angelo; «da poppa stava il celestial nocchiero», ma stava eretto e vigile «con l’ale sue... dritte verso il cielo». Al contrario, a poppa di quella barchetta del lago, Gesù era disteso e dormiva, sembrava estraneo a quanto accadeva all’intorno, e nell’oscurità della notte lo si sarebbe scambiato per un ammasso di cordami o per una vela deposta e ripiegata. I discepoli non si spiegano quel sonno tra tutta quella furia degli elementi, e stanno ansiosi fra il desiderio di non disturbarlo e lo spavento della catastrofe imminente, fra il rispetto per il maestro e l’abitudine di ricorrere fiduciosi a lui. Ma, passato ancora del tempo, si convincono che oramai non si può più titubare: bisogna senz’altro svegliare ed avvisare il maestro, affinché pure egli provveda in qualche maniera alla propria salvezza. Gli si fanno perciò dappresso gridando: «Maestro, siamo perduti! Sàlvaci!». Gesù si sveglia: insieme col turbamento degli elementi egli nota il turbamento dei cuori. Voltatosi allora al turbine, comanda imperioso: «Taci! Fa’ silenzio!». - Voltatosi quindi ai cuori esclama misericordioso: «Che paura avete? Gente di poca fede!». - Il turbamento degli elementi cessa ad un tratto, e si fa gran bonaccia. Il turbamento dei cuori è sostituito da un altro d’altro genere, ché i presenti si dànno a riflettere: E chi è dunque costui, che perfino il vento e il mare gli obbediscono? Per i razionalisti il miracolo, naturalmente, è fittizio. I seguaci dell’antico Paulus (§ 198) lo spiegheranno forse immaginando che sulla barca di Gesù stessero deposti molti otri d’olio, e l’esperto maestro ad un certo punto li facesse svuotare nel lago in modo da calmarne le onde; i moderni mitologi, invece, penseranno che si tratti di una pura allegoria. Una volta tanto, con i mitologi concordano in parte gli studiosi spiritualisti, in quanto anche costoro trovano nella narrazione un significato allegorico ma insieme con quello storico. Ambedue reali furono la tempesta e la bonaccia che avvennero attorno a quella barca: ma compiendo quel miracolo Gesù venne a preadombrare altre tempeste e altre bonacce che da secoli si avvicendano attorno a un’altra barca, non di legno ma non meno reale e storica, e i cui protagonisti sono gli stessi di quella notte là sul lago di Tiberiade. «Da poppa stava il celestial nocchiero». Questa volta l’interpretazione allegorica non è un postulato filosofico, come abitualmente presso i mitologi, ma è fondata su fatti storici che ognuno può riscontrare e che uno storico (serio) non deve fingere d’ignorare.
• § 347. Con quella bonaccia presto si toccò terra e si sbarcò. La riva raggiunta fu certamente quella orientale del lago, circa dirimpetto a Cafarnao o a Magdala, ma il suo nome varia presso i Sinottici; Matteo la chiama «regione dei Gadareni», Marco «dei Geraseni», Luca «dei Gergeseni» o più probabilmente «dei Geraseni» [La lezione «dei Gergeseni» sembra dovuta ad una correzione di Origene, mentre il testo lucano originale doveva avere «dei Geraseni» o «dei Gadareni»; tuttavia Origene sembra appellarsi ad una tradizione locale (§ 348) che egli crede di poter integrare con dati dell’Antico Testamento, quali Genesi, 10, 16; 15, 21; eccetera]. Gli appellativi da prendersi in considerazione, «dei Gadareni» e «dei Geraseni», si riferiscono rispettivamente alle due città di Gadara e di Gerasa, che appartenevano ambedue alla Decapoli di là dal Giordano (§ 4); tuttavia ambedue erano situate a sud del lago e, specialmente Gerasa, assai lontane da esso, cosicché è difficile che i rispettivi territori s’estendessero fin sulla sponda del lago dandole il proprio nome. Limitandosi pertanto agli appellativi derivati da Gadara e da Gerasa, non è impossibile che i rivieraschi a occidente del lago designassero le opposte rive col nome delle città più celebri nella cui direzione essi guardavano: questi appellativi geografici di direzione non sono rari negli usi paesani. Tuttavia la spiegazione dell’apparente incongruenza può forse essere suggerita dal terzo appellativo «dei Gergeseni», meno autorevole sotto l’aspetto documentario ma più raccomandato dai riscontri archeologici (§ 348). Giunto pertanto Gesù col suo seguito a oriente del lago, uno dei giorni seguenti alla notte dell’approdo, avvenne un fatto che è narrato da tutti e tre i Sinottici, nella maniera più breve da Matteo, nella più ampia da Marco: tuttavia il riassunto di Matteo fornisce una particolarità non trasmessa dagli altri due Sinottici, cioè che del fatto furono attori due indemoniati, e non già uno solo come risulterebbe da Marco e da Luca. Certamente il fatto è il medesimo, e questa differente maniera di narrarlo è un bell’esempio della mancanza di servilismo letterario presso gli Evangelisti (§ 122) e della loro particolare maniera di trattare gli argomenti: Marco e Luca si accentrano sull’attore principale e neppure ricordano quello secondario; Matteo, sebbene più ristretto, li ricorda ambedue. Lo stesso avverrà nuovamente nel caso dei ciechi di Gerico (§ 497). A Gesù, dunque, si fece incontro un indemoniato. Era un essere selvaggio e imbestialito, che aveva scelto la sua dimora abituale fra impure tombe e s’aggirava in quella zona tutto nudo; dotato di forza mostruosa, aveva sempre spezzato funi e catene con cui avevano tentato più volte di legarlo, tratto tratto gridava furiosamente o si percoteva con sassi, e ispirava tanto terrore che nella zona ove egli si aggirava nessuno più voleva passare. Quando costui ebbe scorto Gesù da lontano, gli corse incontro, ma invece di aggredirlo si prostrò davanti a lui urlando: «Che c’è fra me e te»; (cfr. § 283), «Gesù figlio d’Iddio altissimo? Ti scongiuro per Iddio, non mi tormentare!» (Marco, 5, 7). Aveva parlato l’uomo imbestialito, ma la risposta di Gesù s’indirizzò a colui che stava dentro l’uomo ad imbestialirlo. Disse infatti Gesù: «Esci, spirito impuro, dall’uomo!». Più che un comando, le parole furono un annunzio; Gesù infatti interrogò, subito appresso, l’imbestialente: «Che nome hai?». E quello: il nome mio è “Legione”, perché siamo molti». La parola «legione» non risonava allora in Palestina e fuori senza suscitare un arcano sbigottimento; quella moltitudine d’armati fusi in compattezza mirabile a formare un travolgente congegno guerresco sembrava un’istituzione sovrumana, e più tardi Vegezio, ripetendo certamente idee anteriori a lui, parlerà di istituzione divina: «non tantum humano consilio, sed etiam divinitatis instinctu legiones a Romanis arbitror constitutas» (Vegezio, II, 21). Ai tempi di Gesù la romana legione variava dai 5000 ai 6000 uomini: ma qui l’interpellato impiega certamente la parola per alludere in maniera generica a una moltitudine grande e compatta.
• § 348. Fatta questa confessione, la moltitudine degli interpellati si raccomandava molto a lui, a Gesù, «affinché non li inviasse fuori della regione», intendendo certamente la circostante regione: ma questo punto di partenza è sostituito presso Luca (8, 31) col punto d’arrivo, perché ivi si dice che la raccomandazione era di «non inviarli nell’abisso». La raccomandazione fu rincalzata da una proposta concreta: «Era la’ verso il monte un grosso branco di porci che pascolava; e (quelli) si raccomandavano a lui dicendo: “Màndaci nei porci, affinché entriamo in essi!” Ed (Egli lo) permise loro. E usciti, gli spiriti impuri entrarono nei porci, e il branco si slanciò giù per il precipizio nel mare - circa duemila - e affogarono nel mare». La presenza di un branco di porci conferma che si era fuori del territorio giudaico, perché nella vera Palestina per le note prescrizioni della Legge non si allevavano quegli animali impuri: i quali, perciò, qui appaiono come asilo ricercato dagli spiriti impuri, costretti ad uscire dall’uomo. Visto ciò ch’era successo, i pastori dei porci se la dettero a gambe, corsero nella città vicina a narrare il fatto e a giustificarsi del danno subito presso i padroni del branco. Dalla città si venne a riscontrare la realtà degli avvenimenti: si trovò che quel notissimo energumeno (l’indemoniato), già così feroce ed imbestialito, stava adesso vicino a Gesù ma tranquillo, «seduto», vestito e sano di mente; interrogati poi i testimoni si riseppe per filo e per segno com’erano andate le cose. Quegli Ellenisti accorsi non dubitarono minimamente del portento, anzi, appunto perché lo credettero pienamente miracoloso, s’impensierirono per il futuro: da uomini pratici ed economici quali erano, pensarono che con un taumaturgo di quella forza in giro per i loro territori non si sapeva mai quel che potesse succedere; perciò, rivoltisi a Gesù, «cominciarono a raccomandargli di partirsene dai loro confini». Gesù acconsentì e si avviò verso la barca; l’indemoniato guarito voleva che l’accogliesse al suo seguito, ma Gesù gli prescrisse di tornare in seno alla propria famiglia e di far conoscere il beneficio ricevuto da Dio. Il beneficato obbedì, e «se ne andò e cominciò ad annunziare nella Decapoli quanto Gesù gli fece, e tutti ammiravano». Il riconoscimento del luogo ove avvenne il fatto è oggi seriamente probabile. Sulla riva orientale del lago, quasi dirimpetto a Magdala, si estende la zona dell’antica città di Hippos, ove in realtà le colline digradano a qualche distanza dalle acque del lago; tuttavia, a settentrione di questa zona, sbocca il wadi es-Samak che è chiuso a sud da un piccolo promontorio alto qualche centinaio di metri e così dirupato sull’acqua che ai suoi piedi resta una spiaggia di poche decine di passi; varie caverne, aperte nei fianchi del promontorio, hanno tutto l’aspetto di essere state in antico tombe. Geologicamente, dunque, lo scenario corrisponde, giacché il promontorio sarebbe il precipizio da cui si gettarono i porci andando per il loro impeto a finire nell’acqua, e le tombe sarebbero l’abituale dimora dell’indemoniato. Ma forse c’è anche una corrispondenza onomastica: presso lo sbocco del wadi es-Samak è situato un villaggio chiamato oggi dagli Arabi Korsi, ma che ha ricevuto il suo nome da un abitato più antico che ai tempi dei Bizantini era chiamato (...) e situato circa un chilometro più ad oriente. Ora, se si hanno presenti le facili oscillazioni di pronunzia di un dato nome lungo i secoli - oscillazioni tanto abituali che, oggi stesso, Korsi è pronunziato da quei del luogo anche Kersa o Ghersa - si comprende come Origene riavvicinasse il Kersa o il Ghersa da lui uditi pronunziare, al Gergesa e ai Gergeseni dell’Antico Testamento (§ 347, nota) e li sostituisse con questi nomi credendo di appoggiarsi su una tradizione locale; senonché mentre la tradizione era buona come quella odierna, la sostituzione era arbitraria. Si avrebbe così non solo la corrispondenza geologica, ma anche quella toponomastica, giacché l’antica Korsi sarebbe la città donde uscirono gli abitanti per pregare Gesù d’allontanarsi; essendo però un nome poco o punto noto, sarebbe stato sottoposto dai copisti o dai traduttori dei testi evangelici a quelle variazioni con cui è giunto fino a noi.
Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.