Stimati Associati e gentili Sostenitori, la «Vita di Gesù Cristo» - Imprimatur 1940, 7a Edizione, Rizzoli & C. Editori, Milano e Roma, 1941, dell’Abate Giuseppe Ricciotti - riposi in pace! - oggi ci descrive, con vera e cristiana scienza, la vicenda della Samaritana. La nostra premessa potrà sembrare superflua e quasi puntigliosa, tuttavia è buona norma ricordare - ogni qual volta se ne presenti occasione - che una cosa sono la vera esegesi ed il commento cattolico alla Scrittura (Cliccare qui per approfondimenti), come nel caso del Ricciotti; altro sono i sofismi e le vane elucubrazioni dei modernisti che - vuoi per ignoranza, vuoi per superbia, vuoi per mondanità, vuoi per interessi particolari, vuoi per tutte le elencate ed altre possibili deficienze messe insieme - abitualmente violentano la Scrittura, ne stravolgono il significato e trasmettono eresia ed immoralità. È sentenza di Papa Gregorio IX, Ab Aegyptiis argentea: «Anche l’intelletto teologico è in grado quasi come uomo di presiedere a qualsivoglia facoltà, e quasi come spirito di esercitare il dominio sulla carne e di dirigerla sulla via delle rettitudine, affinché non se ne allontani. (...) In verità Noi, colpiti da dolore nell’intimo del cuore, siamo ricolmi dell’amarezza dell’assenzio, perché alcuni di voi (...) spinti dalla profana novità si danno da fare per travalicare “i confini posti dai Padri” (nell'interpretazione della Scrittura), e infatti, la comprensione della Celeste Pagina, delimitata per le cure premurose dei santi Padri, coi sicuri confini delle loro interpretazioni, la trasgressione dei quali non solo è cosa temeraria, ma profana, essi piegano alla disciplina filosofica delle realtà naturali, per fare ostentazione di scienza e non per un qualche pregresso degli ascoltatori, e così si rivelano non esperti di Dio o teologi, ma diffamatori di Dio». È sentenza del Concilio di Trento (Papa Paolo III), Decreto sulla Vulgata: «Inoltre, per frenare certi spiriti indocili, (il Concilio) stabilisce che nessuno, fidandosi del proprio giudizio, nelle materie di fede e morale, che fanno parte del corpo della dottrina cristiana, deve osare distorcere la sacra Scrittura secondo il proprio modo di pensare, contrariamente al senso che ha dato e dà la santa madre Chiesa, alla quale compete giudicare del vero senso e dell’interpretazione delle sacre Scritture; né deve andare contro l’unanime consenso dei Padri, anche se questo genere di interpretazioni non dovesse essere mai pubblicato». È sentenza di Papa Leone XIII, Providentissimus Deus: «Con questa legge piena di sapienza la Chiesa non intende in alcun modo ritardare o proibire l’investigazione della scienza biblica (... ma solo) nei passi della divina Scrittura, ove si desidera ancora una interpretazione certa e definitiva (...). Negli altri casi (nei passi già definiti) si deve seguire l’analogia della fede e attenersi, come a norma suprema, alla dottrina cattolica, quale la si riceve dall’autorità della Chiesa (...). Somma è invero l’autorità dei santi Padri, per mezzo dei quali “la Chiesa, dopo gli Apostoli, ebbe incremento, come da piantatori, irrigatori, edificatori, pastori ed educatori”, ogni volta che all’unanimità interpretano con uguale senso una qualche testimonianza biblica, riguardante la dottrina della fede o dei costumi. Dal loro unanime consenso, infatti, appare chiaramente che così sia stato tramandato dagli Apostoli secondo la fede cattolica» Eccetera..., cfr. Spiritus Paraclitus, Papa Benedetto XV e Divino Afflante Spiritu, Papa Pio XII sulla «convergenza dei Padri» e sul «corretto uso della Scrittura» (Cliccare qui per approfondimenti). Veniamo al tema di oggi: il dialogo di Gesù con la Samaritana.
• § 293. Per tornare in Galilea Gesù scelse la strada che correva lungo il mezzo della Palestina, e perciò attraversava la Samaria; avrebbe potuto evitare questo passaggio se avesse seguito l’altra strada più a oriente che risaliva lungo il Giordano, ma la prima era più frequentata dai Galilei per il viaggio di Gerusalemme come ci attesta Flavio Giuseppe (cfr. Antichità giud., XX, 118; Vita, 269). Seguendo la strada scelta da Gesù, ad un certo punto s’entrava in una stretta valle, formata al nord dal monte Hebal e al sud dal monte Garizim: è la valle dove sta oggi la cittadina di Nabulus, fondata nel 72 dopo Cristo sotto Vespasiano e Tito, e chiamata ufficialmente Flavia Neapolis (donde Nabulus) ma usualmente Mabortha (cioè “passaggio”, “attraversata”) a causa della sua situazione geografica (cfr. Guerra giud., IV, 449). Poco prima di entrare nella valle da oriente, si trovava un luogo celebre nella storia dei patriarchi ebrei (Genesi, 12, 6; 33, 18; 48, 22) ove stava il «pozzo di Giacobbe» tuttora superstite. Inoltrandosi ancora poche centinaia di metri nella valle si raggiungeva sulla destra l’antichissima città di Sichem, esistente già verso il 2000 avanti Cristo ma che ai tempi di Gesù era in piena decadenza e scarsamente abitata: presso le sue rovine, recentemente investigate dagli archeologi, sorge il villaggio di Balata. Ad oriente di Balata-Sichem è situata la cosiddetta «tomba di Giuseppe», l’antico patriarca ebreo, e circa un chilometro e mezzo più in là verso nord-est si raggiunge il villaggio di Askar. Questo, lo sfondo geografico a cui si riporta la narrazione evangelica; essa presuppone anche la tradizionale avversione fra i Samaritani abitanti di quel luogo e i Giudei in genere, alla quale già accennammo in precedenza (§ 4). Partito dunque dalla Giudea, Gesù «giunge nella città della Samaria chiamata Sychar, presso il luogo che Giacobbe dette a Giuseppe suo figlio: era poi colà la fonte di Giacobbe. Gesù pertanto, straccato dal cammino, si sedette così presso la fonte. Era circa l’ora sesta» (Giovanni, 4, 5-6). Queste minuziose indicazioni di luogo pienamente confermate dai più recenti scavi, queste esatte indicazioni del tempo e delle altre particolarità dell’episodio, sono quanto si può immaginare di più alieno da un’invenzione puramente fantastica e d’indole simbolica: con tutto ciò le esigenze di teorie preconcette hanno indotto alcuni studiosi moderni a giudicare la narrazione una mera allegoria, scritta da un mistico dell’Asia Minore che forse non aveva mai visitato la Palestina. Senonché mai le teorie filosofiche prevarranno sulla realtà dei fatti, e sempre basterà rileggere spassionatamente la narrazione evangelica per ritornare alla vecchia conclusione del non sospetto Renan: «Soltanto un Giudeo della Palestina ch’era passato spesso per l’entrata della valle di Sichem, ha potuto scrivere queste cose».
• § 294. È dunque verso il mezzogiorno (ora sesta), probabilmente di maggio (§ 177, nota). Gesù stanco e sudato si riposa presso il pozzo: è solo, perché i discepoli sono andati nella città attigua a comprare da mangiare. Dalla città di Sychar una donna Samaritana viene verso il pozzo per attingere acqua. Gesù le dice: «Dammi da bere». La donna gli risponde con altezzosità: «Come? Tu che sei Giudeo chiedi da bere a me che sono donna Samaritana?». Veramente Gesù era Galileo, ma la donna, indovinando che egli tornava dalla visita al Tempio di Gerusalemme, lo ritiene giustamente per un seguace della religione giudaica; ella, perciò, vuoi far risaltare l’umiliazione di un uomo e di un Giudeo che spinto dal bisogno si rivolge per aiuto a una donna e a una Samaritana. Gesù replica: «Se sapessi il dono d’Iddio e chi è che ti dice “Dammi da bere”, tu l’avresti pregato e ti avrebbe dato un’acqua viva». L’aquila ha già ghermito un nuovo pulcino e comincia a sollevano in alto (§ 278). Come già Nicodemo, la donna comprende che in quelle parole c’è un pensiero recondito che le sfugge; ad ogni modo si attiene ancora al loro senso materiale, pur cominciando ad usare una certa deferenza per lo sconosciuto: «Signore, gli dice, non hai alcun oggetto per attingere e il pozzo è profondo; donde hai dunque l’acqua viva?». L’osservazione era giusta: il pozzo oggi è profondo 32 metri cioè uno dei più profondi di tutta la Palestina, sebbene ai tempi di Gesù potesse avere una misura alquanto minore. L’osservazione poi s’integrava con una considerazione storica: «Sei tu forse maggiore del nostro padre Giacobbe, che dette a noi il pozzo, e da esso bevve egli stesso e i suoi figli e i suoi greggi?». Il pulcino guarda ancora al suolo da cui è stato ghermito, e immagina di stare ancora a raspare là in basso. Ma Gesù risponde: «Chiunque beva di quest’acqua avrà sete di nuovo; ma colui che beva dell’acqua che io gli darò non avrà sete in eterno, bensì l’acqua che io gli darò diventerà in lui fonte d’acqua zampillante in vita eterna». La donna rimane ancora terra terra: «Signore, dammi cotesta acqua, affinché (io) non abbia sete né venga qua ad attingere». Per far comprendere al pulcino che si trovava già sopra le nuvole, era necessario ampliare l’argomento del dialogo, offrendo nello stesso tempo un «segno». Perciò Gesù dice alla donna: «Va’, chiama il tuo marito, e vieni qua!». In ebraico e in aramaico, come oggi nel contado toscano, «marito» si diceva «uomo», e così disse certamente anche Gesù: «Va’, chiama il tuo uomo, ecc.». Su questo termine equivoco gioca la donna, che risponde impavida: «Non ho uomo». Gesù schiva l’equivoco, approvando la risposta della donna nel suo significato peggiore: «Giustamente dicesti “Non ho uomo”; cinque uomini infatti avesti, e quello che hai adesso non è (il) tuo uomo. Ciò che hai detto è vero». L’«uomo» di quei giorni non era dunque «marito» e molto probabilmente non erano stati tali anche altri fra i cinque uomini precedenti: due o tre di essi avranno potuto o ripudiare la donna o anche esser morti, ma nelle cinque unioni ve ne erano state certo di illegittime com’era la sesta di allora. In conclusione, quanto a castigatezza di costumi quella Samaritana non era un modello.
• § 295. Il «segno» offerto da Gesù produce buon effetto. La donna, vedendo scoperti i suoi segreti, esclama: «Signore, vedo che tu sei profeta!». Ma questa stessa scoperta e questa esclamazione riconoscono la superiorità di colui che appartiene agli odiati Giudei; quindi sulla causa di questo odio si svolge adesso il discorso, anche per evitare lo scottante argomento dei segreti scoperti: «I padri nostri in questo monte adorano (Iddio), e voi dite che in Gerusalemme è il luogo ove bisogna adorare». Il monte Garizim si erge sulle teste dei due interlocutori; ma da Gerusalemme torna l’ignoto Giudeo, certamente dopo aver laggiù adorato Iddio nel Tempio di Jahvè. Che cosa dunque pensa egli, che è profeta, di questa secolare questione fra Samaritani e Giudei? Alla domanda della donna Gesù attribuisce un valore quasi soltanto storico, come di questione ormai inutile: ad ogni modo, pur sotto l’aspetto storico, Gesù parla da Giudeo e dà ragione ai Giudei contro i Samaritani; ma subito dopo, lasciato il passato, egli si trasferisce al presente in cui le vecchie odiose rivalità non hanno più ragione di essere: «Credimi, donna, che viene l’ora quando né in questo monte né in Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non sapete; noi adoriamo ciò che sappiamo, perché la salvezza è dai Giudei. Ma viene l’ora ed è adesso - quando i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità. E, infatti, il Padre tali ricerca gli adoratori suoi. Spirito è Iddio, e gli adoratori suoi in spirito e verità bisogna che adorino». Il profeta ha dato la sua risposta: d’ora innanzi il culto di Dio non sarà legato né al monte Garizim né al colle di Gerusalemme né ad alcun altro luogo della terra, bensì alle sole condizioni di esser fatto in spirito e verità. Parole rivoluzionarie e scandalose, queste, per un Fariseo che fosse stato lì ad ascoltare: non però del tutto nuove nella stessa tradizione d’Israele. Il novissimo profeta che le aveva pronunziate passava sopra alla «tradizione» farisaica e si riconnetteva con la tradizione anteriore e genuina dei profeti: già sei secoli prima il profeta Geremia aveva proclamato che il Tempio di Jahvè in Gerusalemme non serviva a nulla se frequentato da adoratori indegni (Ger., 7, 4 segg.), e aveva anche preannunziato che ai tempi del Messia la stessa santissima Arca dell’alleanza non sarebbe più stata venerata da alcuno (Ger., 3, 16) perché tutti porterebbero la nuova alleanza e la legge di Dio scritta nei loro cuori e nei loro spiriti (Ger., 31, 33).
• § 296. A questo punto la donna s’avvede di ritrovarsi in una sfera sconosciuta. Né Garizim né Gerusalemme, ma spirito e verità! Che mondo è questo? Certo non è il mondo piccino e pettegolo su cui stanno a battagliare Samaritani e Giudei; se i grandi dottori di Gerusalemme hanno praticamente dimenticato le predizioni di Geremia, tanto più può ignorarle una donnicciuola samaritana, che perciò si smarrisce in quel mondo predetto dall’antico profeta. Ella tuttavia intuisce che si tratta di visioni future, da contemplare attuate soltanto nei beati giorni del Messia; perciò nel suo smarrimento si rifugia col pensiero a quei giorni, e pur non osando contraddire l’ignoto profeta che le sta davanti esclama a guisa di consolazione. «So che Messia verrà (quello chiamato Cristo: l’Evangelista, preoccupato dei suoi lettori poco informati di cose giudaiche, aggiunge la spiegazione del nome Messia); quando sia giunto quello, ci annunzierà ogni cosa». Gesù le risponde: «Sono io, che ti parlo!». I Samaritani infatti aspettavano il Messia, e ancora oggi l’aspettano i loro pochi discendenti. È chiamato da essi Tahēb (Shahēb), «Colui che viene» o «Colui che farà rivenire (al bene)»; è immaginato come un riformatore simile a Mosè, che risolverà tutti i dubbi, comporrà tutte le divergenze e ristabilirà per mille anni dopo la sua morte un regno beato. L’interlocutrice di Gesù lo chiama qui «Messia», senza articolo, certamente perché l’appellativo valeva come nome proprio. Ora, proprio a questa donna non giudea e di razza ostile ai Giudei, Gesù rivela di essere il Messia, mentre più tardi comanderà ai suoi stessi discepoli di non palesare questa sua qualità (Matteo, 16, 20). Ma appunto nell’ostilità dei Samaritani sta il segreto di questa preferenza: presso di loro era ben difficile che a quell’annunzio si suscitasse un movimento di entusiasmo politico, il quale invece era probabilissimo presso i Giudei, mentre Gesù voleva evitarlo ad ogni costo. Se Giovanni ha dato questa notizia taciuta dai Sinottici, si può vedere anche in tale aggiunta il suo proposito di supplire almeno in parte alle narrazioni di quelli.
• § 297. Mentre Gesù sta scambiando le ultime parole con la Samaritana, i discepoli gli si avvicinano ritornando dalla città con i cibi comprati. Quando poi la donna ode da Gesù la dichiarazione ch’egli è il Messia, totalmente smarrita non ardisce replicare, bensì lascia la sua anfora al pozzo, corre alla città e a quanti incontra esclama: «Venite! Vedete un uomo che mi disse tutte le cose che ho fatte! È costui forse il Cristo?». I discepoli alla loro volta non ardiscono domandare a Gesù la ragione di quel dialogo insolito, pur essendone meravigliati, giacché i rabbini di allora schivavano di parlare in pubblico con donne e persino con le proprie mogli. Gli sconcertati discepoli vengono presso al maestro soltanto dopo che la donna improvvisamente è fuggita in direzione della città. «Rabbi, mangia!», gli dicono essi, offrendogli i cibi comprati. Gesù in risposta continua con essi la metafora dell’acqua spirituale impiegata con la donna: egli si nutre soprattutto di un cibo spirituale, che è fare la volontà di chi lo ha inviato a compiere la sua opera. Egli è l’agricoltore di una messe spirituale. In Palestina alla fine di dicembre, cioè terminati i lavori di semina, con un senso di sollievo si esclamava a guisa di proverbio «C’e’ ancora un quadrimestre, e verrà la messe», giacché i nuovi lavori di mietitura non cadevano che in aprile e maggio, cioè dopo un quadrimestre di riposo. Ma Gesù fa riscontrare ai discepoli che questo proverbio non ha valore per la sua messe spirituale: essa è già matura e pronta, né può sopportare indugi; perciò pure i mietitori siano pronti, anche se non ebbero il merito di aver essi seminato nel passato. Mentre Gesù pronunzia queste parole, le messi quasi mature al periodo pasquale (§ 117, nota) ondeggiano al sole lungo l’ampia pianura di el-Makhneh, che si stende ai suoi piedi verso il Giordano. Della messe spirituale furono raccolti subito alcuni manipoli. Alla garrula loquacità della donna, uscirono dalle case molti Samaritani, e si recarono al pozzo a vedere il profeta giudeo. Dovettero rimanere soggiogati fin dalle sue prime parole, perché l’invitarono a rimanere qualche tempo presso di loro; eppure erano Samaritani, cioè coloro che ordinariamente preferivano bastonare a sangue o addirittura ammazzare i Giudei di passaggio sulle loro terre (cfr. Guerra giud., II, 232; Antichità giud., XX, 118), e che più tardi negheranno ospitalità agli stessi discepoli dì Gesù (Luca, 8, 52-53). Questa volta, o almeno questi Samaritani di Sychar, furono cortesi, certamente perché mansuefatti dalla virtù personale del profeta. Gesù accettò l’invito e «rimase colà due giorni; e in molto maggior numero credettero per la parola di lui; alla donna poi dicevano: Non per la tua loquela crediamo! Noi stessi infatti abbiamo udito, e sappiamo che costui è veramente il salvatore del mondo» (Giovanni, 4, 40-42). Fine.
Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.