Stimati Associati e gentili Sostenitori, il lungo articolo d’apertura di oggi si intitola «Toto orbe in pace composito». Il nostro Evento - rivendicano le cronache la Liturgia - avviene in un’ era di pace. Studieremo anche «L’annunzio a Zacharia» e «L’annunzio a Maria». Il libro utilizzato è: «Vita di Gesù Cristo» - Imprimatur 1940, 7a Edizione, Rizzoli & C. Editori, Milano e Roma, 1941 - dell’erudito Abate Giuseppe Ricciotti: riposi in pace. La «Vita di Gesù Cristo» del Ricciotti si contrappone sin da subito agli innumerevoli studi di falsa scienza che i modernisti, insieme con i protestanti, pubblicarono e continuano a pubblicare a vilipendio e bestemmia della Santa Persona di Nostro Signore Gesù Cristo. Il precursore degli attuali divulgatori di menzogne e turpitudini, purtroppo tanti anche in ambito nominalmente cattolico, fu Alfredo Loisy e, proprio contro gli scritti di costui, il Ricciotti dedica particolari approfondimenti.
• «Toto orbe in pace composito». § 225. Gli ultimi anni avanti l’Era Volgare l’Impero romano, ossia l’orbis terrarum, fu in pace. Nell’anno 15 av. Cr. Tiberio e Druso, figliastri di Augusto, avevano sottomesso la Rezia, la Vindelicia e il Norico, fra le Alpi e il Danubio; nel 13 i Dalmati e i Pannoni erano stati ridotti all’obbedienza mediante una spedizione iniziata da Agrippa, genero d’Augusto, e terminata da Tiberio; dal 12 in poi Druso aveva diretto le operazioni guerresche contro i Germani, stabilendo saldamente il dominio di Roma lungo il Reno. Dall’anno 8 av. Cr. comincia un periodo di pace, che non sarà più turbata se non dopo l’Era Volgare con le nuove sollevazioni dei Germani, Dalmati e Pannoni, culminate con la disfatta di Quintilio Varo a Teutoburgo (9 d. Cr.). A Roma, l’Ara Pacis Augustae era stata inaugurata già nel gennaio del 9 av. Cr.; il tempio di Giano, che era stato chiuso due sole volte da Augusto, fu da lui chiuso per la terza volta appunto nell’8 av. Cr., essendo toto orbe in pace composito, come proclama ogni anno la Chiesa in occasione della nascita di Gesù. Augusto, autore di questa pax romana, aveva raggiunto la vetta della sua piramide di gloria, trovandosi in quel periodo per cui non avrebbe dovuto mai morire. Si disse infatti di Augusto che, per il bene di Roma, avrebbe dovuto o non mai nascere o non mai morire: il periodo anteriore al suo dominio assoluto sarebbe quello per cui non avrebbe dovuto mai nascere, e il periodo in cui egli rimase unico padrone del mondo sarebbe quello per cui non avrebbe dovuto morire. E a tale padrone del mondo, appunto in questo secondo periodo, erano riserbati onori fino allora sconosciuti nell’Impero: gli si dedicavano templi e città intere, era proclamato di stirpe non già umana ma divina, egli era il nuovo Giove, era il Giove Salvatore, era l’astro che sorge sul mondo. Non risulta invece che, fra tanti eccelsi titoli, fosse dato ad Augusto quello di principe di pace, che pure non era da lui immeritato nel suo secondo periodo. Ma sette secoli prima un profeta ebreo aveva ben impiegato questo titolo, e insieme con altri che ricordano quelli d’Augusto lo aveva attribuito, precisamente come ultimo e conclusivo titolo, al futuro Messia: «Ci è nato un pargolo, ci fu largito un figlio: fu posto l’impero sull’omero suo. Suo nome sarà “Ammirabile”, “Consigliere”, “Dio”, “Forte”, “Padre sempiterno”, “Principe di pace”» (Isaia, 9, 5). È vero che in ebraico l’espressione «principe di pace» ha un significato più ampio del latino princeps pacis, perché in ebraico «pace» (shalom) designa il «benessere», la «felicità» perfetta; tuttavia il futuro Messia, essendo stato previsto come «principe», non avrebbe mancato di apportare nel suo regno, insieme con la «felicità», anche la pax nel senso latino di esclusione della guerra, giacché ov’è guerra non è pax e tanto meno «felicità».
«L’annunzio a Zacharia»
• § 226. Si era pertanto in tempo di pace, sotto l’imperatore Augusto, ai giorni di Erode re della Giudea (Luca, 1, 5), e correva l’anno 747 di Roma (7 av. Cr.). Viveva allora un sacerdote del Tempio di Gerusalemme, di nome Zacharia, ch’era ammogliato con una donna di stirpe sacerdotale di nome Elisabetta, ed abitava nella «regione montagnosa» di Giuda (Giudea); la città ove egli dimorava è innominata, ma una tradizione risalente fin verso il secolo V la identifica con l’odierna Ain-Karim (S. Giovanni in Montana), a circa 7 chilometri a sud-ovest di Gerusalemme. I due coniugi erano avanzati in età ambedue, e non avevano ricevuto la prima e più gioconda benedizione di un focolare ebraico, cioè la figliolanza: nella loro solitudine s’attristavano, e consci di aver sempre menato una vita tutta dedicata ai grandi principii della religiosità ebraica si chiedevano perché mai Dio li avesse lasciati privi di quella consolazione. Ora, essendo giunto il turno di servizio al Tempio per la classe a cui apparteneva Zacharia, che era l’ottava classe presieduta da Abia (§ 54), egli dalla sua dimora rurale si trasferì a Gerusalemme; essendosi poi fatta l’assegnazione dei singoli uffici per mezzo delle sorti, a Zacharia toccò l’onorevole incarico di offrire l’incenso sull’altare dei profumi, il che avveniva due volte il giorno nel sacrifizio mattutino e in quello vespertino. L’altare dei profumi era collocato nel «santo» (§ 47) ove potevano entrare soltanto i sacerdoti, mentre i laici restavano fuori seguendo da lontano con lo sguardo le cerimonie del sacerdote che entrava e usciva dal «santuario». Entrato pertanto Zacharia, «tutta la moltitudine del popolo stava pregando al di fuori all’ora dell’incenso; ma apparve a lui un angelo del Signore, stante ritto a destra dell’altare dell’incenso. E si turbò Zacharia al vederlo, e timore cadde su lui. Ma l’angelo gli disse: Non temere, Zacharia, perché la tua preghiera fu esaudita, e tua moglie Elisabetta ti partorirà un figlio, e tu gli metterai nome Giovanni (Luca, 1, 10-13). Per gli Ebrei più che per gli altri popoli il nomen era un omen, un presagio: nel nostro caso Giovanni, significava Jahvè (Dio d’Israele) fu misericordioso. L’angelo infatti proseguì assicurando lo sbigottito Zacharia che, per quella nascita, il padre e molti altri godrebbero: il fanciullo sarebbe un grande al cospetto di Dio, si asterrebbe dal vino e da ogni bevanda inebriante, sarebbe ripieno di Spirito santo ancor nel seno di sua madre, richiamerebbe molti Israeliti al loro Dio, anzi sarebbe un precursore che con lo spirito e la possanza di Elia incederebbe avanti a Dio stesso per preparare al Signore una degna accoglienza da parte del popolo ben disposto.
• § 227. L’annunzio dell’angelo oltrepassava tutte le previsioni umane. Dal vino e dalle bevande inebrianti si astenevano coloro che facevano voto di «nazireato», ma di solito era un voto temporaneo e non perpetuo: lo Spirito santo secondo le Scritture sacre aveva riempito alcuni profeti o altri personaggi in occasioni speciali, ma del solo Geremia si leggeva ch’era stato destinato da Dio a un’alta missione già nel seno di sua madre; un precursore dell’atteso Messia era stato predetto anticamente dal profeta Malachia (Mal., 3, 1; 4, 5-6) e tutti ritenevano che questo battistrada spirituale sarebbe stato il profeta Elia già salito al cielo su un carro di fuoco, ma il celestiale profeta non avrebbe potuto rinascere quale figlio di Zacharia né trasfondere in altri il suo spirito e la sua possanza. Per queste considerazioni al primo sbigottimento successe in Zacharia una differente sospensione d’animo. «E Zacharia disse all’angelo: A che (segno) conoscerò (vero) questo? Io infatti sono anziano e mia moglie è avanzata nei suoi giorni. - E l’angelo rispondendo gli disse: lo sono Gabriele che sto alla presenza d’Iddio (§ 78), e fui inviato per parlarti e dirti questa buona novella. Ecco però che sarai muto e non potrai parlare fino al giorno che avverranno queste cose, perché non credesti alle mie parole che si adempiranno a tempo loro» (Luca, 1, 18-20). La punizione, se pur fu tale, serviva da nuova prova della straordinaria promessa; come già negli antichi tempi Abramo, Mosè, e altri personaggi avevano chiesto e ricevuto da Dio qualche «segno» a conferma di promesse divine, così Zacharia ne aveva chiesto uno e lo riceveva di tal genere sulla propria persona che fosse anche una purificazione spirituale. I tempi nuovi, già da antico promessi ad Israele, cominciavano; e il loro annunzio era stato dato inaspettatamente, ma durante la liturgia perenne d’Israele e in un periodo di pace per il mondo intero. Frattanto il popolo fuori del «santuario» attendeva che uscisse il sacerdote, per intonare l’inno che accompagnava il sacrificio da compiersi sull’altare degli olocausti, e si meravigliava dello straordinario indugio. Finalmente Zacharia ricomparve sulla soglia, ma non pronunziò la solita benedizione sul popolo «né poteva parlare a quelli, e conobbero che aveva contemplato una visione nel santuario; egli poi faceva dei gesti, e rimase muto» (Luca, 1, 22). La mutolezza di Zacharia probabilmente impedì che il popolo risapesse il preciso oggetto della visione e le promesse comunicate al veggente; si parlò genericamente d’apparizione, come doveva parlarsene spesso in quel tempo o a ragione o a torto. Terminata la settimana di servizio al Tempio, il muto Zacharia ritornò alla sua città. Poco dopo «sua moglie Elisabetta divenne gravida, e si tenne nascosta per cinque mesi, dicendo: Così il Signore ha agito con me ai giorni in cui volse lo sguardo a toglier via l’obbrobrio mio di tra gli uomini» (Luca, 1, 24-25). L’obbrobrio era la sterilità deprecatissima dagli Ebrei; e ciò è sufficiente a dimostrare che il riserbo in cui si tenne Elisabetta nei primi cinque mesi non era per nascondere la gravidanza, che l’avrebbe invece onorata presso la gente, bensì per ragioni più alte; al sesto mese, infatti, la sua condizione sarà rivelata a un’altra donna a cui servirà da prova di disegni divini. I quali intanto si venivano attuando senza alcuno strepitio, fra il riserbo di Elisabetta e la mutolezza di Zacharia. A questo episodio l’evangelista Luca, che vuol procedere con ordinamento (§§ 114, 140) e predilige le narrazioni abbinate, soggiunge immediatamente un altro episodio che ha parecchi tratti somiglianti al precedente, ma nello stesso tempo segna un grande progresso nell’attuazione dei disegni divini: all’annunzio e concepimento del precursore segue l’annunzio e il concepimento dello stesso Messia Gesù.
«L’annunzio a Maria»
• § 228. Per il nuovo episodio la scena è portata lontano da Gerusalemme e dal suo Tempio, e collocata nella Palestina settentrionale, in Galilea. Ivi, a 140 chilometri da Gerusalemme per la strada odierna, sorge Nazareth, oggi amena cittadina che conta circa 25.000 abitanti, ma che ai tempi di Gesù doveva essere tutt’altro che amena e niente più che trascurabile villaggio. Di Nazareth non si trova alcuna menzione né nell’Antico Testamento, né in Flavio Giuseppe, né nel Talmud; i Vangeli, che soli ne parlano, riportano anche il giudizio sprezzante dato da un uomo di quei dintorni: «Da Nazareth ci può esser qualcosa di buono?» (Giovanni, 1, 46). Tuttavia l’insediamento umano vi doveva essere molto antico; recenti investigazioni archeologiche, fatte attorno al santuario locale dell’Annunciazione, hanno riportato in luce numerose grotte aperte artificialmente nel pendio della collina; le quali, se più rozze e spoglie, servivano da depositi di vettovaglie, se invece erano più comode e vi era stata aggiunta sul davanti qualche elementare costruzione servivano anche da abitazioni. La Nazareth dei tempi di Gesù doveva restringersi alla parte orientale dell’odierna cittadina, quella che guarda dall’alto verso la vallata di Esdrelon. Siccome, poi, nella Palestina antica un insediamento umano appare provocato sempre da una sorgente d’acqua, anche a Nazareth non mancava una fonte; è quella chiamata oggi «Fontana della Madonna» attorno a cui gli Apocrifi lavorano parecchio di fantasia, ma che ai tempi di Gesù doveva essere forse il solo richiamo verso il villaggio per le assetate carovane che passavano lungo i dintorni. Forse la sua posizione alta rispetto alla pianura orientale aveva procurato a quell’accolta di stamberghe semi-trogloditiche il nome di Nasrath, Nasrah [abbiamo adeguato i caratteri usati, ndR] col significato originario di «guardiana», «custodiente» (più che di «fiore» o «germoglio»). Ora, in uno degli abituri di Nazareth viveva «una vergine fidanzata ad un uomo di nome Giuseppe, del casato di David, e il nome della vergine (era) Maria» (Luca, 1, 27). Al casato di David apparteneva, oltre a Giuseppe, anche Maria: né deve far meraviglia di trovare discendenti di un casato anticamente così glorioso confinati in un villaggio così meschino e anche così lontano dalla culla del casato, che era Beth-lehem; già da secoli la stirpe di David viveva una vita oscura ed appartata, e neppure al tempo del risorgimento nazionale sotto i Maccabei essa si era segnalata per benemerenze speciali; questa vita da semplici privati aveva favorito anche l’allontanamento dei discendenti del casato dal centro originario, molti dei quali erano andati a stabilirsi nei vari luoghi della Palestina ove i loro interessi li chiamavano, senza però dimenticare i propri legami col luogo d’origine.
• § 229. Il nome Maria, in ebraico Mirjam, era assai frequente ai tempi di Gesù, mentre nell’antica storia ebraica appare portato soltanto dalla sorella di Mosè: il suo significato è del tutto incerto, nonostante le moltissime interpretazioni (più d’una sessantina) che se ne sono proposte; del resto sembra che ai tempi di Gesù la pronunzia ebraica originaria fosse stata mutata in quella di Marjam, con introduzione d’un nuovo significato. Della famiglia di Maria nulla dicono i Vangeli canonici, mentre gli Apocrifi dicono anche troppe cose: solo incidentalmente è ricordata una sua «sorella» (Giovanni, 19, 25). D’altra parte ci vien detto che «Elisabetta era parente di Maria» (Luca, 1, 36); ma questa parentela, di cui non si può precisare il grado, era certamente il risultato di un precedente matrimonio fra estranei, perché Elisabetta era di stirpe sacerdotale (§ 226) e quindi apparteneva alla tribù di Levi, mentre Maria, essendo del casato di David, apparteneva alla tribù di Giuda: forse Elisabetta discendeva da padre Levita e da madre del casato di David.
• § 230. Ora, il sesto mese della gravidanza di Elisabetta (Luca, 1, 26), lo stesso angelo Gabriele che aveva preannunziato quel concepimento, fu da Dio inviato a Nazareth da Maria, «ed entrato da lei disse: Salve, piena di grazia! il Signore (è) con te! Ma ella a quel discorso si turbò, e andava ragionando seco che genere di saluto fosse questo» (Luca, 1, 28-29). Come nel precedente episodio di Zacharia, abbiamo anche qui l’apparizione inaspettata e il turbamento di chi la contempla; ma questa volta il turbamento è prodotto, non dalla visione in sé, bensì dalle grandiose parole udite ch’erano stimate sproporzionate alla destinataria. Era dunque il turbamento dello spirito ch’è umile ed ha coscienza della propria bassezza (Luca, 1, 48): non era il turbamento che raggiungesse lo spavento, perché anche in presenza dell’apparizione Maria andava ragionando seco. Secondo l’apocrifo Protovangelo di Giacomo (§ 97) l’apparizione sarebbe avvenuta presso la fontana di Nazareth, mentre Maria si preparava ad attingere acqua; è infatti inclinazione degli Apocrifi far accadere i fatti in palese, ma la narrazione evangelica mostra che il nuovo episodio accadde in segreto, perché l’angelo parlò a Maria «entrato da lei», cioè in sua casa, ch’era certamente una delle umilissime del villaggio. E l’angelo le disse: «Non temere, Maria! Trovasti infatti grazia presso iddio. Ed ecco concepirai in seno e partorirai un figlio, e lo chiamerai col nome di Gesù. Costui sarò grande, e figlio dell’Altissimo sarà chiamato; e il Signore Iddio darò a lui il trono di David padre suo, e regnerà sul casato di Giacobbe per i secoli e il suo regno non avrò fine» (Luca, 1, 30-33). Questo annunzio, sebbene solennissimo, è stato in qualche maniera preparato dal grandioso saluto dell’angelo stesso; chi è piena di grazia ed ha il Signore con sé trova la spiegazione di queste sue prerogative nei fatti presentati dall’annunzio: il quale poi si riferisce direttamente al Messia, ed usa concetti messianici dell’Antico Testamento (cfr. II Samuele, 7, 16; Salmo ebr. 89, 30.37; Isaia, 9, 6; Michea, 4, 7; Daniele, 7, 14; ecc;). Lo stesso nome da imporsi al nascituro è preannunziato, come il nome del figlio di Zacharia: infatti Gesù, in ebraico Jeshu (forma abbreviata di Jehoshua [ibid.] ossia «Giosuè»), significa Jahvè salvò, quindi l’ufficio del nascituro sarà quello di operare una salvezza da parte del Dio Jahvè. In conclusione, l’angelo ha annunziato a Maria che diverrà madre del futuro Messia. L’annunziata non discute il messaggio, né imita Zacharia nel chiedere una prova dimostrativa: prende bensì a considerare la maniera meno onorifica per lei in cui poteva avvenire quella sua maternità, ch’era la maniera del concepimento naturale comune a tutti gli uomini, non escluso il figlio di Zacharia tuttora in gestazione. Contro questa maniera Maria ha una sua obiezione, ch’ella presenta come domanda di schiarimento: «Disse però Maria all’angelo: Come sarò ciò, poiché non conosco uomo?» È la frase eufemistica, usuale in ebraico, per alludere alla causa del concepimento avvenuto in una donna secondo le leggi naturali. Per valutare il significato di questa frase in quanto pronunziata da Maria bisogna aver presente ciò che Luca poco prima ha detto di lei, cioè che era «una vergine fidanzata ad un uomo di nome Giuseppe» (§ 228).
• § 231. Presso i Giudei il matrimonio legale si compiva, dopo alcune trattative preparatorie, con due procedimenti successivi, che erano il fidanzamento e le nozze. Il fidanzamento non era, come presso di noi oggi, la semplice promessa di futuro matrimonio, bensì era il perfetto contratto legale di matrimonio, ossia il vero matrimonium ratum: quindi la donna fidanzata era già moglie, poteva ricevere la scritta di divorzio dal suo fidanzato-marito, alla morte di costui diventava regolarmente vedova, e in caso d’infedeltà era punita come vera adultera conforme alla norma del Deuteronomio, 22, 23-24; questo stato giuridico è riassunto con esattezza da Filone quando afferma che presso i Giudei, contemporanei di lui e di Gesù, il fidanzamento vale quanto il matrimonio (De special. leg., III, 12). Compiuto questo fidanzamento-matrimonio, i due fidanzati-coniugi restavano nelle rispettive famiglie ancora per qualche tempo, che di solito si protraeva fino a un anno se la fidanzata era una vergine e fino a un mese se era una vedova: questo tempo era impiegato nei preparativi per la nuova casa e per l’arredo familiare. Fra i due fidanzati-coniugi non avrebbero dovuto avvenire, a rigore, relazioni matrimoniali; ma in realtà queste avvenivano comunemente, come attesta la tradizione rabbinica (Ketuboth, I, 5; Jebamoth, IV, 10; babli Ketuboth, 12 a; ecc.), la quale informa anche che tale disordine si riscontrava nella Giudea ma non nella Galilea. Le nozze avvenivano quand’era trascorso il tempo suddetto, e consistevano nell’introduzione solenne della sposa in casa dello sposo: cominciava allora la coabitazione pubblica, e con ciò le formalità legali del matrimonio erano compiute. Generalmente il fidanzamento di una vergine avveniva quando essa era in età fra i 12 e i 13 anni, ma talvolta anche alquanto prima: quindi le nozze, in conseguenza di quanto si è visto sopra, cadevano di solito fra i 13 e i 14 anni. Tale era probabilmente l’età di Maria all’apparizione dell’angelo. L’uomo si fidanzava fra i 18 e i 24, e perciò questa doveva essere l’età di Giuseppe. Concludendo, sappiamo da Luca che Maria era una vergine in questa condizione di fidanzata; inoltre, da Matteo, 1, 18, apprendiamo che ella divenne gravida prima che andasse a coabitare con Giuseppe, cioè prima delle nozze giudaiche. Alla luce di queste notizie, quale significato hanno le sue parole rivolte all’angelo: «Come sarò ciò, poiché non conosco uomo».
• § 232. Prese isolatamente in se stesse, non possono avere che uno di questi due sensi: o richiamare alla memoria la nota legge di natura per cui ogni figlio presuppone un padre; oppure esprimere per il futuro il proposito di non sottoporsi a questa legge e quindi di rinunziare alla figliolanza. Un terzo senso, per quanto ci si pensi, non è dato scoprirlo. Ora, in bocca a Maria, fidanzata giudea, le parole in questione non possono avere il primo di questi due sensi, perché sarebbero state di una puerilità sconcertante, tale da costituire un vero non-senso; a chi avesse espresso un pensiero di tal genere, se era una fidanzata giudea, era facile replicare: «Ciò che non è avvenuto fino ad oggi, può avvenire regolarmente domani». È quindi inevitabile il secondo senso, nel quale il verbo «non conosco» non si riferisce soltanto alle condizioni presenti ma si estende anche alle future, esprimendo cioè un proposito per l’avvenire: tutte le lingue, infatti, conoscono questo impiego del presente esteso al futuro, tanto più se tra presente e futuro non cade interruzione e se si tratta di uno stato sociale (non mi sposo; non mi fo prete, avvocato, ecc.). Se Maria non fosse stata una fidanzata-coniuge le sue parole, un po’ forzatamente, avrebbero potuto interpretarsi come un implicito desiderio di avere un compagno nella propria vita: ma nel caso effettivo di Maria il compagno già c’era, legittimo e regolare; quindi, se l’annunzio dell’angelo avesse dovuto avverarsi in maniera naturale, non esisteva alcun ostacolo. E invece l’ostacolo esisteva: era rappresentato da quel «non conosco», che valeva come un proposito per il futuro, e che giustificava pienamente la domanda «come sarò ciò?». L’unanime tradizione cristiana, che ha interpretato in tal senso il non conosco, ha battuto una strada che è certamente la più agevole e facile ma anche l’unica ragionevole e logica. Se però Maria aveva fatto il proposito di rimaner vergine, perché aveva in precedenza acconsentito a contrarre il giudaico fidanzamento-matrimonio? Su questo punto i Vangeli non offrono spiegazioni, ma se ne possono trovare riportandosi alle usanze giudaiche contemporanee. Certamente nell’antico ebraismo lo stato celibe o nubile non era affatto apprezzato, e la principale preoccupazione familiare era la figliolanza e più numerosa possibile: la mancanza di figli era reputata una maledizione di Dio (Deuteronomio, 7, 14). Si conoscono soltanto, fra gli uomini, l’antico caso del profeta Geremia rimasto celibe per dedicarsi totalmente alla sua missione di profeta (Geremia, 16, 2 segg.), e ai tempi di Gesù il caso degli Esseni che contraevano matrimonio o eccezionalmente o forse mai (§ 44). Quanto alle donne, non si saprebbe che caso citare; la donna senza marito e senza figli era per gli Ebrei un essere lugubre. Allorché San Paolo incidentalmente ci fa sapere che c’erano padri i quali reputavano indecoroso d’avere in casa figlie da marito tuttora nubili (I Corinti, 7, 36) non fa che confermare quanto già aveva detto il Siracida, secondo cui un padre non riesce a prendere sonno la notte perché ripensa a sua figlia che si fa anziana senza trovar marito (Ecclesiastico, 42, 9), e quanto più tardi diranno le fonti rabbiniche, secondo cui bisogna sposare la propria figlia appena in età da marito. La donna senza marito era per gli Ebrei come una persona umana senza testa, perché «l’uomo è la testa della donna» (Efesii, 5, 23): e come pensavano in questa maniera gli Ebrei e in genere gli altri Semiti antichi, così pensano ancora oggi gli Arabi, fra cui vige il proverbio che per una ragazza non c’è che un solo corteo, o quello nuziale o quello funebre.
• § 233. Cedendo dunque a questa tirannica usanza comune, Maria si era fidanzata; ma il suo stesso proposito, così fiduciosamente obiettato all’angelo, illumina di riflesso anche la disposizione del suo fidanzato Giuseppe, il quale non sarebbe mai stato accettato come fidanzato se non avesse deciso di rispettare il proposito di Maria: la disposizione di Giuseppe, poi, trova un bel parallelo storico nel celibato degli Esseni testé ricordato. Più in là di questo i Vangeli non dicono; ma come il proposito di Maria risulta nitidamente dalle sue parole, così le altre conseguenze risultano da una conoscenza anche superficiale delle usanze contemporanee. È quanto già aveva scorto Sant’Agostino, con la sua abituale perspicacia, quando scriveva: «Ciò indicano le parole con cui Maria rispose all’angelo che le annunziava un figlio: “Come” disse “sarà ciò, poiché non conosco uomo?”. Il che certamente non avrebbe detto, se già dapprima non avesse fatto voto di sé come vergine a Dio. Ma poiché le costumanze degli Israeliti ancora non ammettevano ciò, ella si sposò con un uomo giusto, il quale avrebbe, non già tolto via con violenza, bensì custodito contro i violenti, ciò di cui ella già aveva fatto voto» (De sancta virginitate, 4). Alla segreta intenzione delle parole di Maria si riferisce l’angelo nella sua replica. E rispondendo l’angelo le disse: «Spirito santo sopravverrà su te, e potenza d’Altissimo adombrerà su te; perciò anche il nato (sarà) santo, sarà chiamato figlio di Dio» (Luca, 1, 35). La questione proposta da Maria «Come sarà ciò...?» è risolta, e insieme il suo proposito è salvadaguardato: la potenza di Dio scenderà direttamente su Maria, e come anticamente nel deserto la gloria di Jahvè si posava a guisa di nuvola sul tabernacolo ebraico adombrandolo (Esodo, 40, 34-35), così adombrerà questo tabernacolo vivente di vergine, e il figlio che da lei nascerà non avrà altro padre che Dio. Questo figlio avvererà in sé l’appellativo di figlio di Dio in maniera perfetta, mentre ad altri personaggi dell’Antico Testamento lo stesso appellativo era stato applicato in maniera incompiuta. Il Messia non avrebbe potuto esser chiamato «figlio» se non da Dio che gli dava dall’eternità la natura divina, e dalla vergine sua madre che gli dava natura umana: nessun’altra creatura umana l’avrebbe chiamato, a rigore di termine, con quel nome. Oramai la proposta dell’angelo è pienamente presentata; Maria che, pur non dubitando, ha chiesto uno schiarimento, lo ha ottenuto. Non manca che l’assenso di lei, perché tutto si compia. Ma il parallelismo, e anche l’intreccio, di questo episodio con quello precedente di Zacharia continua ancora: come l’annunzio, così una prova del nuovo annunzio è data egualmente a Maria che non l’aveva richiesta. Perciò l’angelo continuò: «Ed ecco Elisabetta, la parente tua, anch’essa ha concepito un figlio nella sua vecchiaia, e questo è il sesto mese (di gravidanza) per lei ch’è chiamata sterile; poiché non è impossibile presso Iddio qualunque cosa» (Luca, 1, 36-37).
• § 234. Alla non richiesta prova Maria non replica, ma risponde soltanto: «Ecco la schiava del Signore: avvenga a me secondo la tua parola!» (Luca, 1, 38). L’abitatrice del tugurio di Nazareth, benché eletta ad esser madre del Messia, ha tuttora perfetta coscienza della sua bassezza (§ 230) e perciò si chiama, non già ministra o cooperatrice di Dio, bensì una schiava, cioè una di quelle miserabili creature ch’erano al livello più basso della società umana; solo dopo ciò ella dà il suo assenso alla proposta dell’angelo. E allora il Verbo diventò carne (Giovanni, 1, 14), ossia l’umanità numerò tra i suoi figli il Messia. Già sette secoli prima, il profeta Isaia aveva preannunziato uno straordinario segno divino con queste parole: «Ecco, la vergine è gravida e partoriente un figlio, ed ella lo chiamerà col nome di “Immanu’El” (Con-noi-Dio)» (Isaia, 7, 14). Matteo, premuroso di far rilevare l’avveramento delle antiche profezie messianiche (§ 125), cita questa profezia di Isaia come adempiutasi in Gesù e nella sua madre (Matteo, 1, 22-23). Al contrario per la tradizione giudaica la profezia di Isaia rimase un libro chiuso con sette sigilli, e negli scritti rabbinici non esiste il più lontano accenno alla partenogenesi del Messia. Fine.
Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.