È la volontaria accettazione di opere che costano sacrificio (la preghiera, l’elemosina, la mortificazione) per espiare la pena temporale che rimane dopo la remissione del peccato. La Sacra Scrittura, infatti, insegna (cfr. Sap. 10, 2 e Gen. 3, 17; Num. 20, 1; 2 Reg. 12, 13-14) che Dio non rimette sempre, insieme con le colpe e la pena eterna, tutta la pena temporale, perciò il Sacerdote nell’atto dell’assoluzione impone opere satisfattorie, che il penitente deve accettare. La soddisfazione ha per effetto di compensare, secondo le regole della giustizia, l’oltraggio fatto con il peccato all’onore di Dio, di risanare le forze dell’umana natura ferita, di riparare lo scandalo dei peccati commessi in faccia ai fratelli. I protestanti obiettarono che la soddisfazione può aver luogo solamente quando tra il colpevole e la persona offesa vi è uguaglianza di natura, mentre la distanza tra Dio e l’uomo è infinita. Niente può compiere una creatura che valga a soddisfare il suo debito con Dio, dicono. Il Concilio di Trento rispose che «la soddisfazione non è tanto nostra, che non si compia per mezzo di Gesù Cristo, nel quale viviamo e ci moviamo, diamo soddisfazione, facciamo degni frutti di penitenza che da Lui hanno il valore, da Lui sono offerti a Dio, e per mezzo di Lui sono dal Padre accettati» (Sess. 14, c. 8; DB, 904). Pertanto tutte le opere nostre, per l’applicazione sacramentale che ne fa il Sacerdote, portano l’impronta del sangue di Cristo. L’uomo non è più solo ma, fatto membro vivo del Corpo mistico, riceve l’influsso del Capo, vive della sua vita, opera, merita, soddisfa in Lui e la corrente della vita divina di Gesù trae la piccola vita umana verso le sponde dell’eternità.
dal Dizionario di teologia dommatica, Piolanti, Parente, Garofalo - pace all’anima loro! - Studium, Roma, 1952.