Solo concependo l’uguaglianza soprannaturale e d’origine fra gli uomini (creati tutti ad immagine e somiglianza di Dio), non semplicemente quella naturale, si può dare al principio di fraternità una base assai salda: ben differente dalla “fratellanza” del 1789, che la Rivoluzione corrompe e deturpa, eppur si vanta di averla data al mondo.

L’Apostolo traccia le conseguenze della vera uguaglianza già nella sua Epistula ad Galatas: «Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (III, 28). Questa uguaglianza, nemica mortale dell’egualitarismo illuminista e dei movimenti cosiddetti “socialisti” o “marxisti”, è profonda, va al di sopra delle distinzioni di razze, di popoli, di condizione, di sesso: «Noi tutti, sia Giudei sia Gentili, sia schiavi sia liberi, in unico Spirito siamo stati battezzati, sì da formare un corpo solo» (Epistula I ad Corinthios, XII, 13).

Causa e fine di questa uguaglianza differiscono da ogni altra rivendicazione politica (demagogica) umana, che non sia integralmente cristiana. Fu proprio grazie alla spinta propulsiva della fratellanza soprannaturale, che viene dalle prime comunità cristiane - «La moltitudine dei credenti era un cuor solo ed un’anima sola; né alcuno c’era che considerasse come suo quel che possedeva, ma avevano tutto in comune» (Actus Apostolorum, IV, 32) -, che la schiavitù non resse più all’urto di tale principio, fu gradualmente e con giudizio armonizzata dalla civilizzazione in Cristo.  

Tuttavia, contro ogni prurito rivoluzionario, Papa Leone XIII precisa con estrema sapienza: «Invero quei primi discepoli della fede cristiana compresero pienamente che da tale fraterna uguaglianza degli uomini in Cristo per nulla venivano diminuiti o rimossi l’obbedienza, l’onore, la fedeltà, gli altri doveri che legavano i servi ai padroni; ne consegue pertanto non il solo bene per cui gli stessi doveri diventano più definiti, più lievi e più soavi nell’adempimento, ma anche più fruttuosi al fine di meritare la gloria celeste». Difatti essi: «avevano riverenza e stima verso i padroni come verso gli uomini che sono potenti per volere di Dio, dal quale deriva ogni potere; per essi non avevano efficacia il timore dei castighi, l’astuzia dei consigli e gl’incitamenti all’utile, ma la coscienza del dovere, la forza dell’amore». A sua volta riguardava i padroni la giusta esortazione dell’Apostolo affinché essi «compensassero con bontà le buone opere dei servi: “E voi, padroni, fate altrettanto ad essi, rinunciando alle minacce, sapendo che il loro e il vostro Padrone è nei cieli e che Egli non favorisce alcuno” (Ef., VI , 9); e affinché considerassero un’ingiustizia che il servo si dolga della sua sorte, essendo egli “liberto del Signore”, così non è lecito all’uomo libero inorgoglirsi nell’animo e comandare con superbia, “essendo servo di Cristo” (I Cor., VII, 22). In tal modo si prescriveva ai padroni di riconoscere e di rispettare convenientemente l’uomo nei loro servi, e non diversi per natura ma uguali a loro nella religione, e del pari servi nei confronti della maestà del comune Signore» (In Plurimis, 5 maggio 1888).

Sono gli stessi princìpi - ricorda il Guerry, Op. cit., pag. 67 - che invocano tutti i Sommi Pontefici (prima dell’occupazione ateo-modernista del Vaticano e del cumulo di sofismi e falsità che da essi ancor oggi proviene) per l’instaurazione di rapporti più umani, per esempio, nell’impresa tra datori di lavoro e lavoratori, tra capi e subalterni : «Qual è il motivo preciso e decisivo? - chiede Sua Santità Pio XII - La pari dignità umana di tutti, che, a sua volta, deriva per intero dal fine trascendente a tutti comune» (Allocuzione alle ACLI del 14 maggio 1953). Ed altrove: «Per la Chiesa, tutti gli uomini sono uguali in dignità dinanzi a Dio» (Allocuzione del 4 febbraio 1956, Conferenza dell’industria).

Dunque, conclude il Papa, la «grande miseria» dell’ordine sociale moderno sta nel fatto che «esso non è né profondamente cristiano né realmente umano, ma unicamente tecnico ed economico»; e che «esso non poggia affatto su ciò che dovrebbe essere la sua base ed il suo solido fondamento della sua unità, vale a dire il carattere comune di uomini per la natura e di figli di Dio per la grazia dell’adozione divina» (Allocuzione ai membri UCID, 31 gennaio 1952).

Carlo Di Pietro da Il Roma