Papa Pio XII nel suo Radiomessaggio per la Festa di Pentecoste del 1941 auspicava il «rispetto del diritto della famiglia ad uno spazio vitale». Il Pontefice, che fu tra i primi ad occuparsi seriamente (merce rara oggigiorno) di emigrazione ed immigrazione dopo l’epoca gloriosa dei Papi e dei missionari, prima del colonialismo massonico dei cosiddetti “esportatori di democrazia”, domandava lealtà e vera carità, affinché la parte che «lascia il luogo natio» e quella che «ammette i nuovi venuti» possano, insieme, «lealmente eliminare quanto potrebbe essere d’impedimento al nascere ed allo svolgersi di una verace fiducia tra il paese di emigrazione ed il paese d’immigrazione», cosicché «tutti i partecipanti a tale tramutamento di luoghi e di persone ne avranno vantaggio».
Il punto focale della teologia prettamente tomista di Pio XII, autore inoltre della magna charta sull’immigrazione, la Exsul Familia del giorno 1 agosto 1952, dunque la bolla della teologia cattolica a riguardo, è la comune condivisione della corretta morale e vera dottrina sociale della Chiesa, come esposta da Papa Leone XIII nella Rerum Novarum del 15 maggio 1891, che egli cita. È solo rispettando quei principi divini e naturali, tanto cari alla Chiesa ed agli uomini di retto intelletto, che «le famiglie riceveranno un terreno che sarà per loro terra patria nel vero senso della parola»; i popoli si creeranno «nuovi amici in territori stranieri»; e gli Stati che accolgono gli emigrati «guadagneranno cittadini operosi». Così le nazioni che danno e gli Stati che ricevono: «in pari gara, contribuiranno all’incremento del benessere umano ed al progresso dell’umana cultura».
Secondo Papa Leone XIII, che si è espresso nel mentovato documento, non è pensabile di raggiungere questa concordia sociale, come non è possibile «valutare a dovere le cose del tempo», se l’animo non si «eleva ad un’altra vita», ossia a «quella eterna», senza la quale «la vera nozione del bene morale necessariamente si dilegua». Papa Pecci ci insegna che tutto quanto la «natura ci detta nel cristianesimo» è un «dogma su cui, come principale fondamento, poggia tutto l’edificio della religione». Ciò che importa, quindi, è «il buono o cattivo uso [che si fa] dei beni a disposizione», poiché «la vera dignità e grandezza dell’uomo è tutta morale, ossia riposta nella virtù».
Il dotto Pontefice insiste in numerose sue Encicliche sul vero valore della carità, che egli nettamente distingue da quella propensione particolarmente volgare che oggi tutti chiamano “filantropia”, eziandio «nelle condizioni presenti», per una «triste ma vera necessità», denuncia il Papa: «la setta massonica, per quanto ostenti uno spirito di beneficenza e di filantropia, non può esercitare che un’influenza funesta: ed appunto funesta perché combatte e tenta distruggere la religione di Cristo, vera benefattrice dell’umanità» (Dall’alto, 15 ottobre 1890). Tuona nella Inimica Vis del giorno 8 dicembre 1892: «Oh in quante famiglie il lupo penetrò in veste d’agnello!», è attraverso tutte quelle «svariatissime società, che oggi [si sviluppano] in ogni ordine di sociale attinenza» che penetra «il veleno massonico»; società filantropiche da scansare come la peste, «di cui non ben conoscano la natura e lo scopo», giacché «passaporto alla merce massonica è spesso quella ciarliera filantropia, contrapposta con tanta pompa alla carità cristiana». Dunque conclude: «nel vostro cuore [siate] cattolici e italiani» e «deplorate questa empia guerra [che vuol] rapirvi al prezioso tesoro».
Sia Papa Pio XII che Papa Leone XIII, «come tutti i Romani Pontefici», prima della disfatta dottrinale e morale del modernismo, «esaltarono con singolari manifestazioni di lodi e con amplissime testimonianze la sapienza di Tommaso d’Aquino» (cf. Aeterni Patris, 4 agosto 1879), pensiero «ardente di amore» e davvero vincolante se si intende conservare la vera fede, da osservare «attentamente ed inviolabilmente» (cf. Studiorum Ducem, Pio XI, 29 giugno 1923). Papa Innocenzo VI affermava: «La dottrina di questo [di san Tommaso] possiede sopra tutte le altre, eccettuata la canonica, la proprietà delle parole, la forma del dire, la verità delle sentenze; così che non è mai capitato che abbiano deviato dalla verità quelli che l’hanno professata, e sempre sono stati sospetti circa la verità quelli che l’hanno impugnata».
San Tommaso d’Aquino ci parla di immigrazione e di cattolicità nella Summa Teologiae I-II alla Questione 105. San Pietro, ricorda l’Angelico, afferma: «È proprio vero che Dio non fa distinzione di persone; ma che tra qualunque gente, chi lo teme e pratica la giustizia gli è accetto» (S. Th. Iª-IIae q. 105 a. 3 arg. 1). Nell’Esodo si legge: «Non opprimere il forestiero e non l’affliggere: anche voi infatti foste forestieri nella terra d’Egitto»; ed ancora: «Non darai molestia al forestiero: voi infatti conoscete il suo stato d’animo, perché foste voi pure forestieri in Egitto» (Ibid., 3 arg. 3). Commenta san Tommaso che «a quelli che sono più vicini dobbiamo mostrare un affetto e un amore più grande», secondo le parole dell’Ecclesiastico: «Ogni animale ama il suo simile: così come ogni uomo il suo vicino» (a. 3 arg. 4). Quelle società dove, al contrario, si “ama” il lontano a discapito del vicino dimostrano, evidentemente, di essere «un’iniqua lega [con] un’occulta unità di propositi [che ha] da per tutto i seguaci suoi congiunti insieme, [i quali] si danno scambievolmente la mano e l’uno rinfocola l’altro a più osare nel male» (cf. Humanum Genus, Leone XIII, 20 aprile 1884).
L’Aquinate, ancora, insegna: «Con gli stranieri ci possono essere due tipi di rapporti: l’uno di pace, l’altro di guerra». Infatti «gli ebrei avevano tre occasioni per comunicare in modo pacifico con gli stranieri. Primo, quando gli stranieri passavano per il loro territorio come viandanti. Secondo, quando venivano ad abitare nella loro terra come forestieri». E sia nell’un caso come nell’altro «la legge impose precetti di misericordia; infatti nell’Esodo si dice: “Non affliggere lo straniero”; e ancora: “Non darai molestia al forestiero”». Terzo: «quando degli stranieri volevano passare totalmente nella loro collettività e nel loro rito. In tal caso si procedeva con un certo ordine». Veniamo al terzo caso (quello «di pace»). Il sommo Aquinate asserisce: «[…] non si ricevevano subito come compatrioti: del resto anche presso alcuni gentili era stabilito, come riferisce il Filosofo, che non venissero considerati cittadini, se non quelli che lo fossero stati a cominciare dal nonno, o dal bisnonno. E questo perché, ammettendo degli stranieri a trattare i negozi della nazione, potevano sorgere molti pericoli; poiché gli stranieri, non avendo ancora un amore ben consolidato al bene pubblico, avrebbero potuto attentare contro la nazione» (Iª-IIae q. 105 a. 3 co.). Ecco perché, ricorda il Dottore, la legge stabiliva «che si potessero ricevere nella convivenza del popolo alla terza generazione alcuni dei gentili che avevano una certa affinità con gli ebrei: cioè gli egiziani, presso i quali gli ebrei erano nati e cresciuti […] Invece alcuni, come gli ammoniti e i moabiti, non potevano essere mai accolti, perché li avevano trattati in maniera ostile. Gli amaleciti, poi, che più li avevano avversati […] erano considerati come nemici perpetui; infatti nell’Esodo si legge: “La guerra di Dio sarà contro Amalec, di generazione in generazione”». Qualcuno «poteva essere ammesso nella civile convivenza del popolo con una dispensa, per qualche atto particolare di virtù» (a. 3 ad 1); come insegna il Filosofo, seguita san Tommaso, si può essere cittadini (di uno Stato) in due maniere: «primo, in senso pieno e assoluto; secondo, in senso relativo. È cittadino in senso pieno chi ha la facoltà di compiere le funzioni dei cittadini; e cioè di partecipare ai consigli e ai giudizi del popolo. È invece cittadino in senso relativo chiunque abita in uno stato» e […] «non [è] in grado di trattare le cose che interessano la comunità». Ecco perché « spurii, propter vilitatem originis, excludebantur ab Ecclesia, idest a collegio populi, usque ad decimam generationem», ovverosia: «gli spurii, per la bassezza della loro origine, venivano esclusi “dalla chiesa”, cioè dalla comunità del popolo, fino alla decima generazione » (Iª-IIae q. 105 a. 3 ad 2).
Papa Pio XI, sempre nella Studiorum Ducem, comanda: «Come dunque un giorno fu detto agli Egiziani, nel loro estremo bisogno di vivere, “Andate da Giuseppe” perché avessero da lui in abbondanza il frumento per alimentare il loro corpo, così ora a tutti gli affamati di verità Noi diciamo: “Andate da Tommaso”[san Tommaso d’Aquino testé citato, ndA] per aver da lui, che ne ha tanta abbondanza, il pascolo della sana dottrina e il nutrimento delle loro anime per la vita eterna» (cf. Officiorum omnium, Pio XI; Aeterni Patris, Leone XIII; Doctoris Angelici, san Pio X).
Carlo Di Pietro da La Nuova del Sud, 30 ottobre 2016