Il Corporativismo - accennato la scorsa settimana per bocca di Papa Pio XI nella Divini Redemptoris - è «il programma di ricostruzione della società, approvato solennemente dalla Chiesa (cfr. Rerum Novarum, Quadragesimo anno), che i (veri) sociologi cattolici elaborarono (…) per porre rimedio alla proletarizzazione dei ceti più umili, prodotta dalla cosiddetta rivoluzione industriale, a cagione delle ideologie liberistiche che presiedettero al suo svolgimento» (Dizionario di teologia morale, Roberti - Palazzini, imprimatur 1957, pag. 374 seg.).
Nella elaborazione di questo programma i pensatori cattolici - ossia antimodernisti - furono mossi e guidati da due principali impulsi: 1) La consapevolezza che «il malessere sociale creato dalla rivoluzione industriale, oltre a effetto di negletta carità, era la conseguenza di flagranti ingiustizie»; 2) Il rifiorire «degli studi neoscolastici e di storiografia medioevale che li munì di uno strumento ideologico per diagnosticare in modo completamente indipendente dai socialisti le cause profonde del malessere sociale: il male della proletarizzazione (che per il Socialismo, in fondo, è un bene da usare come necessario preludio alla “palingenesi rivoluzionaria” di tutta la società)».
Le premesse dottrinali del Corporativismo sono essenzialmente due: 1) La consapevolezza «del doppio elemento personale e individuale di cui è fatto l’uomo e delle sue conseguenze, che sono da una parte la socialità (es. le funzioni autoritative e subordinate)» e dall’altra «il valore che l’uomo ha in quanto persona sussistente, valore che infinitamente trascende tutte le funzioni sociali e le associazioni costituite per il loro assolvimento»; 2) La «certezza dogmatica della radicale inclinazione al male dell’uomo che tende a inquinare, oltreché le sue azioni individuali, anche quelle istituzionali (o associative)» e che porta il Corporativismo stesso «oltreché a far controllare l’azione del singolo da enti associativi intermedi, a moltiplicare questi medesimi enti intermedi o associativi per realizzare un sistema (…) di mutui controlli ed equilibri».
Il Corporativismo nasce dall’applicazione concreta di questi ed altri princìpi molto più universali «ed anche per questa sola ragione molto più realistici di quelli socialisti (che negano all’uomo la personalità, confondono l’organizzazione sociale con quella politica e ne riducono la sostanza a una dialettica economica fra abbienti e non abbienti)».
Si tratta di princìpi universali e realistici che possiamo schematizzare come segue: 1) Consapevolezza che «in qualsiasi forma si organizzi la produzione industriale vi saranno sempre datori di lavoro e lavoratori»; 2) Che fra lavoratori e datori di lavoro «esiste un immediato contrasto di interessi materiali e morali»; 3) Il datore di lavoro ordinariamente è tentato «a lesinare sulla mercede dell’operaio», nei casi peggiori «anche a considerarlo come un puro strumento di lavoro, dimenticando i riguardi dovuti alla sua dignità di uomo»; 4) Nella difesa dei propri interessi «il singolo operaio è molto più debole del singolo datore di lavoro»; 5) La «comunanza di interessi, di tradizioni, di genere di vita e di aspirazioni» fra datore e prestatore d’opera «crea nel seno di queste due categorie una naturale associabilità»; 6) Anche su un piano più elevato - negato dal Socialismo - «fra operai e datori di lavoro, come compartecipanti ad un’opera comune, esiste una certa solidarietà di interessi»; 7) Finalmente che «questa solidarietà può creare la base di una associabilità».
Tali persuasioni «sono comuni a tutti i corporativisti e li indussero a far leva sull’associazione per togliere di mezzo gli stati di disagio creati nelle società (cosiddette “democratiche”) da particolari cristallizzazioni istituzionali dei rapporti fra datori di lavoro e lavoratori, togliendone di mezzo le cause, ed insieme per rimediare alla debolezza intrinseca dei lavoratori singoli nella difesa dei propri interessi (in questi stati di fatto i corporativisti fanno consistere l’essenza della “questione sociale”), e anche per una più efficace difesa degli interessi comuni o industriali».
Questo sistema - del Corporativismo - portava «all’associazione mista rappresentante tanto lavoratori che datori di lavoro»; ma i più attenti «hanno riconosciuto che la storica diffidenza creatasi ormai fra datori di lavoro e lavoratori ne rendeva impossibile l’attuazione e consigliava invece di principiare dalle associazioni semplici di soli lavoratori e datori lavoro. A ciascuna di queste associazioni i corporativisti assegnarono come compito specifico quello di ricreare l’amicizia - (il contrario di usare la proletarizzazione per esacerbare la “lotta di classe” = Socialismo e Comunismo) - fra i singoli membri allo scopo di una difesa unitaria dei loro interessi verso i terzi, dell’assistenza mutua morale e materiale, e soprattutto della rinascita dello spirito di corpo, rivendicando ad esse non solo il diritto di autogoverno nei limiti del rispetto del bene comune, ma anche quello di divenire, in processo di tempo, insieme ad altre associazioni, la base strutturale per la costituzione degli essenziali organi politici».
Nello scorso secolo si sono malamente fregiati di “corporativisti” anche alcuni movimenti politici (es. il Fascismo) che in realtà hanno sconsideratamente preteso di poter «creare queste associazioni per decreto», le hanno poi «private di ogni autonomia, riducendole allo stato di organo dello Stato e alla funzione di eseguire le direttive di questo». In comune col vero Corporativismo c’è solamente il nome.
Carlo Di Pietro da Il Roma