Ridotto ad un vero scheletro per penitenze inaudite, San Francesco s’avvicinava al passaggio da questo brutto mondo agli eterni splendori del Paradiso. Nei suoi ultimi anni di vita, Iddio lo volle provare col martirio della cecità e con alcune malattie del tutto misteriose. Le stimmate gli avevano fatto soffrire in ogni momento una terribile crocifissione. In quell’uomo si vedeva lo spettacolo della pelle attaccata alle ossa, e da lui, direi quasi, era totalmente sparita la carne. La morte s’avvicinava a gran passi, e gli si volle far provare un po’ l’aria di Siena; ma in quella città peggiorò molto ed una notte ebbe uno sbocco di sangue, per il quale fu ritenuto - un momento - da tutti per morto. Poi rinvenne e mostrò desiderio d’essere trasferito ad Assisi, dove venne ricevuto dal Vescovo nel proprio palazzo. Ma egli voleva morire in quel luogo nel quale aveva cominciato la sua austerissima vita, cioè in Santa Maria degli Angeli. Quando dal palazzo del Vescovo venne trasportato in Santa Maria degli Angeli, si volle fermare un poco e volle voltarsi per guardare la città. Volgendo la pupilla tremolante e quasi spenta sopra la sua patria, San Francesco pronunziò queste parole: «Sii tu benedetta dal Signore, o città a Dio fedele; perchè in te e per te molte anime si salveranno, e in te dimoreranno molti servi dell’Altissimo e da te non pochi giusti saranno eletti al regno eterno». Pronunciate queste parole, diede in un pianto dirottissimo. Arrivato a Santa Maria degli Angeli, si ricordò della pia Giacoma da Settesoli e le scrisse una lettera o, meglio la dettò, pregando quella donna di recarsi subito in Assisi a portare un panno grossolano per avvolgervi il suo corpo e le candele per il funerale. Giacoma, avuta la lettera, corse subito ed eseguì precisamente tutti gli ordini. Era intanto arrivato il giorno della dipartita del gran Santo. Egli comandò ai suoi figli di radunarsi attorno al suo letto per benedirli, e, a maniera del Divino Maestro, fece il segno della croce sopra un pane e glielo divise come segno d’unione e di fraterna concordia fra loro. Benedisse particolarmente Fra Bernardo da Quintavalle e Fra Egidio. Santa Chiara e tutte le altre consorelle avevano ricevuto una lunga lettera, nella quale venivano loro indirizzati sublimi ammonimenti ed anche la benedizione. Non gli rimaneva altro che morire. Chiese piangendo ai Frati di aspergere di cenere il pavimento della sua cella, e di porlo seminudo sopra quel pavimento. Eseguita puntualmente la sua richiesta, incrociò le mani al petto, tenne gli occhi fissi al cielo, e disse: «Addio, figliuoli miei, addio tutti, rimanetevi nel timore del Signore e in esso perseverate. Avvicinasi il tempo della tentazione e della tribolazione; felici quelli tra voi che persevereranno nel ben intrapreso cammino! Io me ne vado presto a Dio, alla cui grazia tutti vi raccomando». Si possono comprendere facilmente le lacrime che sparsero a queste parole d’addio i santi compagni del Patriarca. Fra Leone e Fra Angelo cantarono l’inno del sole, composto da quel sublime Poverello, perchè sapevano che a lui estremamente piaceva. Dopo quel cantico si fece leggere la Passione di nostro Signore Gesù Cristo nell’Evangelo di San Giovanni. Da se stesso poi cominciò a recitare con fioca voce il Salmo che comincia: «Alzai il suono della mia voce al Signore…», e, arrivato all’ultimo versetto, non poté articolare più parola: era passato! Ecco la preziosa morte del Giusto. Imitiamo San Francesco nella vita e saremo simili a lui nella morte. (Tratto da Giacinto Belmonte cappuccino, Racconti miracolosi, 1887, con permesso dei Superiori, vol. II, pagine 369-372).
A cura di Carlo Di Pietro