Ecco un altro accadimento contemporaneo, che viene riferito da un autore di provata fede. Riguarda due giovani, i nomi dei quali, per riguardo alla famiglia del disgraziato, non si possono palesare: l’autore li chiama Eugenio ed Alessandro.
Essi furono dapprima condiscepoli ed amici di collegio, quindi si rincontrarono dopo una lunghissima assenza. Eugenio, quando viveva in famiglia, s’occupava con molto zelo di opere di carità, secondo lo spirito della società di San Vincenzo dei Paoli. Alessandro, entrato nell’esercito, vi avea conseguito il grado di colonnello, ma disgraziatamente perdette ogni lume di fede cristiana.
Avendo ottenuto il congedo per alcuni giorni, tornato in famiglia, una domenica volle andare a visitare il suo compagno di collegio. Dopo essersi intrattenuti a lungo insieme, Eugenio disse al colonnello: «Amico, è tempo ormai ch’io ti lasci».
Rispose Alessandro: «Dove te ne vuoi andare? Io non vedo che cosa d’urgente tu possa avere». Quindi Eugenio: «Io vado anzitutto alla chiesa e poi debbo assistere ad una riunione di beneficenza».
Alessandro replicò: «Ho capito, povero Eugenio! Tu credi ancora al Paradiso e all’Inferno, mentre non sono che follie della superstizione e del fanatismo». «Caro Alessandro - soggiunse Eugenio - non parlare così: tu hai appreso, al pari di me, che i dogmi della fede poggiano su fatti innegabili».
«Sono follie - fece di nuovo Alessandro - follie, alle quali io non credo più: e, se c’è un Inferno, io sono disposto ad andarci quest’oggi stesso. (...) Vieni intanto con me al teatro».
«Io vado alla chiesa ed alla riunione di beneficenza - gli replicò a muso duro Eugenio - tu usa pure della tua libertà; ma deh! non irridere la giustizia di Dio». Eugenio intanto sospirò!
L’amico colonnello se ne andò al teatro. La sera di quel malaugurato giorno, Eugenio, mentre se ne stava al letto, venne svegliato da una persona che gridava disperatamente: «Presto, alzatevi e correte da Alessandro, il quale or ora viene portato fuori dal teatro in preda ad un terribile male». Il povero Eugenio sobbalzò dal letto, scappò fuor di casa e trovò Alessandro agitato da violentissime convulsioni, con la schiuma alla bocca e gli occhi stravolti da mettere paura.
Appena il bestemmiatore ed incredulo poté, comechessia, scorgere il suo compagno di collegio, disse con voce di cupa disperazione: «Oh! Tu dici che vi è un Inferno?... Tu dici il vero!... Sì, vi è, ed io ci vado; io ci sono già; già ne sento i supplizi e la rabbia!». Invano Eugenio tentò di calmarlo: l’infelice colonnello non rispondeva che con urli e bestemmie. Nel trasporto della sua rabbia infernale, diede di morso alle carni delle braccia, ne stracciò brandelli sanguinosi e li gettò in faccia al suo amico, alla madre ed alle sorelle. (....) In questi brutali deliri miseramente spirò!
L’infelice passò dal teatro all’Inferno, dalla festa agli eterni supplizi, a quegli eterni supplizi ch’egli credeva una favola dei preti! Se non «metteranno il cervello a partito», commenta il P. Giacinto, «una moltitudine di sciagurati avranno la sorte di quel disgraziato colonnello». (Tratto da Giacinto Belmonte cappuccino, Op. cit., 1887, con permesso dei Superiori, vol. II, pagine 158 - 160).
A cura di Carlo Di Pietro