Badate a voi! grida Bossuet (Vol. II, Profession religieuse), che l’uomo vecchio il quale è in noi e contro cui dobbiamo lottare tutta la vita, non dà tregua e continuamente lavora a soppiantare l’uomo nuovo: il suo appetito indocile e impaziente, per quanto frenato dalla disciplina, solletica, corre e si precipita, qual prigioniero smaniante di libertà, verso ogni uscita; tenta per tutti isensi di avventarsi su gli oggetti che gli piacciono. Modesto da principio, finge d’appagarsi di poco, non è che un desiderio imperfetto, una curiosità, un nonnulla; ma provatevi a soddisfare quel primo desiderio, e voi lo vedrete ben tosto attirarne parecchi altri, sino a tanto che l’anima tutta ne resta conquisa. Come un sasso gettato in uno stagno non tocca che in un punto le acque, eppure una volta ricevuto il moto questo si comunica dalle più vicine alle più lontane, cosicché in pochi istanti tutta la massa è smossa, così le passioni dell’anima nostra si svegliano, a poco a poco, le une le altre per via d’un movimento che si concatena (...) Se non si resiste alla consuetudine, questa diventa necessità, ha detto sant’Agostino (Dum non resistitur consuetudini, facta est necessitas) ed a proposito di Lazzaro che giaceva nel sepolcro chiuso da un macigno Et lapis superpositus erat ei (Ioann. XI,38), osserva che quell’enorme pietra figura la forza d’una perversa e dura abitudine, la quale schiaccia l’anima e non le permette né di risorgere, né di respirare (Moles illa imposita sepulcro ipsa est vis durae consuetudinis qua premitur anima; nec resurgere, nec respirare permittitur). Se si rimane in quest’abitudine, si accumulano colpe su colpe e si finisce coll’essere esclusi per sempre dalla clemenza di Dio: Appone iniquitatem super iniquitatem eorum, ut non intrent in iustitiam tuam (Psalm. LXVIII,28), Il nome di costoro è cancellato dal libro dei viventi, ed essi non sono nel numero dei giusti: Deleantur de libro viventium et cum iùstis non scribantur (Psalm. LXVIII,29). Chi si trova in questa lacrimevole condizione, non si stanca nella sua iniquità, dice l’Ecclesiastico, e non sarà sazio finché non abbia dimagrita e consunta l’anima sua: Insatiabilis in parte iniquitatis: non satiabitur donec consumat arefaciens animam suam (Eccll. XIV,9). Cadere nel peccato è fragilità umana, scrive san Bernardo, perseverarvi è malizia diabolica (Humanum est errare, diabolicum perseverare); e Seneca diceva: «La prima e più grave pena per i peccatori sta nell’aver peccato; né v’ha delitto che resti impunito, perché è già castigo il cadere di colpa in colpa». È proprio del peccato, come nota Bossuet (Vol. I, Péché d’habitude), imprimere nell’anima una macchia la quale va sfigurando in lei ogni bellezza, e ne cancella i tratti dell’immagine del Creatore ch’Egli stesso v’impresse. Ma un peccato ripetuto, oltre questa macchia, produce ancora nell’anima una tendenza, una forte inclinazione al male, perché insinuandosi in fondo all’anima, ne inceppa tutte le buone inclinazioni, e col proprio peso la trascina agli oggetti terreni. A denotare la disgrazia del peccatore abituato, la Scrittura si serve di tre efficaci paragoni: «Egli ha vestito la maledizione come un abito; ed essa s’è infiltrata come acqua nelle sue viscere, e come olio ha penetrato le sue midolle» (Psalm. CVIII,17). Sì, la maledizione copre come una veste il peccatore consuetudinario, perché l’avviluppa tutt’intorno, ne signoreggia le parole e le azioni tutte: entra come l’acqua nel suo interiore e vi corrompe i pensieri; penetra qual oliò nelle sue ossa che sono il cuore, l’anima, lo spirito. La veste simboleggia la tirannia dell’abito; l’acqua l’impetuosità; l’olio una macchia che si spande dappertutto e difficilissimamentè si toglie. Terribile malattia è questa dunque dell’abitudine di peccare! ...
Conseguenze funeste dell’abitudine cattiva. Da I tesori di Cornelio ALapide, Commentari dell’ab. Barbier. SS n° 2, p. 8