La beatitudine è l’ultima perfezione dell’ente intellettuale. Boezio la definisce: «Stato perfetto per il cumulo di tutti i beni». La beatitudine va considerata oggettivamente e soggettivamente (formaliter): nel primo senso è il bene sommo capace di rendere beato l’ente intellettuale; nel secondo senso è la felicità del soggetto intellettuale che gode di quel bene. Scoto e in parte San Bonaventura ripongono di preferenza la beatitudine in un atto di volontà (amore); San Tommaso la ripone principalmente nell’intelletto (cognizione) a cui tien dietro la volontà. Per l’uomo nello stato attuale la beatitudine è la visione beatifica, cioè Dio visto intuitivamente nella sua essenza (fine supremo soprannaturale). Ma la beatitudine compete anzitutto a Dio in sommo grado: difatti oggettivamente è il sommo bene; soggettivamente si conosce e si ama infinitamente e perciò è infinitamente beato. Questa divina beatitudine non può essere né aumentata né diminuita dalle creature: quando la Rivelazione parla del dolore di Dio o dell’accresciuto gaudio di Dio, usa un linguaggio figurato per farsi intendere dagli uomini. Con l’incarnazione Dio si è messo in condizione di gustare le nostre gioie e i nostri dolori con cuore umano. La voce beatitudine è usata anche a significare le otto norme promulgate da Gesù nell’Evangelo (Mt. 5, 3-11); «Beati i poveri... Beati i miti...» ecc. Esse vanno sotto il nome di discorso della montagna e sono la sintesi del messaggio evangelico.
Dal «Dizionario di teologia dommatica», Pietro Parente, Antonio Piolanti, Salvatore Garofalo, Editrice Studium, Roma, imprimatur 6 giugno 1952.