Torniamo ad analizzare la soluzione dei «malanni economici» proposta dal giurista Carlo Francesco D’Agostino (Nuova Alleanza, Quaderno VIII, pag. 12 seg. - Centro Politico Italiano).
Egli afferma: «Premesso che cardine vero di un sistema tributario è che lo Stato e gli Enti pubblici eliminino le spese superflue (sperperi e ruberie, ndR), il criterio che si impone, e che abbiamo adottato (di tre sole imposte: quella immobiliare, la mobiliare e la doganale), appare ovvio, per poco che ci si rifletta obiettivamente, anche se è agli antipodi con quello vigente». Si compendia «nel dovere di evitare le duplicazioni non meno che la possibilità di evasioni e di ingiusta tassazione». Compito del Potere politico - egli asserisce - «è di assicurare quelle condizioni esteriori di vita comunitaria che meglio consentano agli individui di (onestamente) realizzare le loro finalità (…) propriamente umane».
Secondo d’Agostino questo sarebbe, in sintesi, il «perseguimento del bene comune». Papa Leone XIII precisa che «la legge non è che un comando della retta ragione, promulgata per il bene comune da colui che ha un legittimo potere». Tuttavia «non deve essere ritenuta retta una ragione che dissenta dalla verità e dalla ragione divina: né vi è un vero bene se è contrario al sommo ed immutabile bene o che allontani e svii dall’amore a Dio le volontà degli uomini» (cf. Sapientiae christianae).
Prosegue D’Agostino: «Ogni beneficiario deve dare la sua collaborazione, che può attuarsi su varii piani. Per le esigenze della difesa militare, per esempio, in caso di subita aggressione, gli idonei alle armi o ad altri servizi irrinunciabili, saranno tenuti a prestazione personale». Analogamente «lo Stato avrà diritto di precettare categorie specializzate, in caso di pubbliche calamità che richiedano interventi di emergenza. Chi è proprietario di beni dalla provvida natura messi a disposizione delle necessità comuni, dovrà saperne trarre il frutto cui sono predestinati (…). È perfino entrato nelle legislazioni il concetto di considerare reato il rifiuto di soccorso da parte di chi per caso si trovi presente in una circostanza che lo richieda».
Resta bene inteso che non sto affatto dicendo che condivido tutto quanto D’Agostino propone, soprattutto «se le leggi dello Stato dovessero essere apertamente in contraddizione con il diritto divino; se dovessero essere ingiuriose verso la Chiesa, o contraddire i doveri della religione o violare l’autorità di Gesù Cristo nella persona del Papa», allora «è doveroso resistere ed è colpa ubbidire; e questo si collega al disprezzo verso lo Stato, perché si pecca anche contro lo Stato quando si va contro la religione» (Ivi., Leone XIII). Ma procediamo.
Il giurista del Centro Politico si domanda: «Chi dovrà essere tenuto a provvedere al fabbisogno economico dei (giustificati) servizi statali? Ovviamente chi possiede ricchezza». Cosicché «il malanno è che l’applicazione di un tanto ovvio concetto è rimasta stravolta dalla farragine di stravaganze di cui, forse più che in ogni altro settore, potessero esser capaci disonestà ed ignoranza, sterminata leggerezza, di spregevoli legislatori».
Elenca alcuni errori. Subito: «Aver voluto tassare il reddito, anziché direttamente la ricchezza. Ne sono derivate le più incredibili idiozie (...). Chi possiede sterminati capitali investiti in obbligazioni del cosiddetto “Debito pubblico”, si è visto dispensato da imposte per il presunto merito di aver puntellato, con tali investimenti, una fallimentare finanza statale. Chi, per superiori capacità intellettuali ed impegno eccezionale di lavoro, realizzi meritati guadagni, in misura superiore a quelli dei neghittosi ed incapaci, è punito come un colpevole, mentre ha nobilmente concorso all’accrescimento della ricchezza nazionale». Ancora: «L’imposizione fiscale basata sul reddito crea, poi, quel mare di complicazioni che ben conosce chi ha pratica delle annuali denunce, con l’aggiunta del doppio inconveniente di rendere possibili ricatti, corruzioni, trucchi e consimili (oltre al pericolo di valutazioni eccessive), e di richiedere uno sterminato apparato burocratico».
Il Centro Politico Italiano intendeva «chiamare a contribuzione il capitale accumulato e non il suo presunto rendimento». L’imposizione doveva «incidere in misura equamente progressiva sui redditi di capitale nei confronti di quelli di lavoro», ed esentava «questi ultimi da ogni diretta imposizione (e tanto più dalle imposte indirette, del tutto abolite)».
Prosegue …
A cura di Carlo Di Pietro da Il Roma