In una delle cerimonie del Battesimo, così ricche di significato e di poesia, dopo che nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo il bambino è stato purificato nell’acqua salutare, il Sacerdote prende una piccola veste tutta bianca e la depone sul novello cristiano, pronunciando le seguenti parole: «Prendi questa veste candida ed immacolata; e portala senza macchia dinanzi al tribunale di nostro Signor Gesù Cristo, perché tu abbia la vita eterna». Difficilmente si potrebbe immaginare un simbolo più gentile e sublime della grazia, che adorna l’animo nostro di candore, rendendolo divinamente bello e candidato al cielo. Che importa se l’occhio materiale e la nostra attenzione stessa, troppo assorbita nello sfavillio abbagliante delle immagini sensibili, non contemplano questa intima bellezza, gloria e divinizzazione della umana natura? Anche il diamante talvolta è celato sotto la rude incrostazione; ma lo sguardo ed il cuore del ricercatore non si ferma a questa, e stolto sarebbe chi, limitandosi a considerare la superficie, dimenticasse il tesoro nascosto. Purtroppo, noi sovente imitiamo i barbari e rinnoviamo la scena così spesso avvenuta dopo la scoperta dell’America o nelle esplorazioni delle tribù africane: all’abile mercante europeo, che offriva bambole, trombette e gingilli, il selvaggio dava in cambio oro e gemme: proprio come noi, che per «un bel nulla d’oro, rilegato in argento», rinunciamo alla grazia. Sembra che risuoni ancora, lacerante come un lamento, l’esclamazione di Gesù, seduto al pozzo di Giacobbe, quando alla peccatrice di Samaria diceva con dolcezza triste: «Oh, se tu conoscessi il dono di Dio». Cos’è la grazia? - Ecco il problema, che dobbiamo affrontare in questo capitolo. È il problema della nostra dignità, non solo umana, ma divina; è il problema della nostra grandezza soprannaturale. L’uomo ha sempre aspirato alla sua divinizzazione. Esser come dèi: fu la visione fascinatrice, che sedusse Eva. Divinizzare la natura: fu il programma del paganesimo, che adorò il sole ed il coccodrillo, le stelle e gli imperatori. Rendere immanente Dio nell’uomo: è la sintesi di tutta la filosofia moderna, specialmente da Emanuele Kant a Giorgio Hegel ed a Giovanni Gentile. Il volo di Icaro si ripete sempre, sotto diverse forme, nella storia, e ad un fremito di ali, - di ali di cera, - succede la caduta. Non gli astri, ma il fango: la Dea Ragione della Rivoluzione francese ricordi ed insegni. Quando l’uomo, con le sole sue forze, vuol diventare un Dio, cade nella ridicolaggine del fallimento e nella desolazione delle rovine. Solo Dio può elevare l’uomo, renderlo partecipe della sua natura, deificarlo: e Dio compie questo con la grazia. In che consiste, adunque, un tale e così eccelso tesoro, del quale ogni persona seria dovrebbe interessarsi come della cosa più preziosa e più necessaria di questo mondo, mentre di essa la maggioranza dei cristiani, soprattutto per l’enorme analfabetismo religioso, così poco si cura? Nel piccolo catechismo la grazia è definita e chiamata il dono gratuito del Signore, dato a noi per i meriti di Gesù Cristo, per renderci figli adottivi di Dio, partecipi della natura divina, capaci di compiere opere soprannaturalmente meritorie e di conseguire la vita eterna. Un commento di tale definizione servirà a risolvere la questione proposta. 1. - Il dono della divinizzazione. Dio è amore. L’han detto san Paolo e san Giovanni. E nessuno capirà qualche cosa della grazia, se non si pone dal punto di vista dell’amore infinito di Dio. La creazione stessa è già opera dell’amore, perché nessun essere aveva diritto all’esistenza; ed anche nell’ordine naturale, l’uomo avrebbe cantato la bontà del suo Creatore. Nell’ordine soprannaturale, poi, questo canto si intensifica: è l’Amore che vuol trasformarci, elevarci, divinizzarci. Ecco cosa significa quella parola: «la grazia è un dono», - parola, come ho ricordato, pronunciata da Cristo. Alcuni, nell’atmosfera naturalistica che ne circonda, hanno paragonato la grazia al braccio di una statuetta, meravigliosamente lavorata da Michelangelo, per svergognare i suoi detrattori. Gli invidiosi, che non potevano soffrire in silenzio la grandezza di quel genio, sentirono un giorno a Roma che gli operai addetti agli scavi avevano trovato un mirabile capolavoro antico: una statuetta, mancante d’un braccio, ma deliziosa a contemplarsi. E dinanzi al Pontefice si accese la disputa: Michelangelo criticava la piccola statua e vi scopriva mille difetti; i suoi detrattori non avevano parole bastanti per elogiarla e con fine ironia la confrontavano con le povere opere del loro aborrito rivale, il Buonarroti. Il quale, dopo d’aver goduto lo spettacolo, lo volle concludere, estraendo di tasca il braccio mancante ed esclamando: «La statuetta è mia; e la prova l’avete in questo braccio; mirate come combacia!». - «Anche la natura - osservano alcuni - è come la statua di Michelangelo: manca di un braccio; e la grazia non fa altro che completarla. Vi sono in noi esigenze imperiose, che appellano il soprannaturale; ai detrattori ed ai nemici di questo, che, per esaltare la natura, disprezzano la grazia, noi diciamo: - notate: la natura è imperfetta: essa esige il braccio che le manca: la soprannatura». Ebbene, no: le imperfezioni della nostra natura, così evidenti ed innegabili, richiedono per se un perfezionamento naturale, rispondente cioè al nostro grado di uomini, come la statua senza braccio richiede, per essere completa, la parte mancante. La grazia, invece, è un dono di fronte alla nostra natura umana, poiché noi non ne abbiamo diritto od esigenza alcuna: quale esigenza mai potremmo vantare di divenire come Dio? Se Dio ci divinizza, questo è un effetto della Sua bontà ineffabile, del suo amore; ma, per carità, non parliamo di diritti nostri! La statuetta di Michelangelo non ha esigenza o diritto alla vita, al moto, alla parola, al pensiero; e noi abbiamo ancora minore esigenza, minor diritto alla grazia, poiché fra il marmo del capolavoro e la vita o il pensiero, c’è un abisso molto più piccolo, che non fra la natura e la soprannatura, fra l’uomo e Dio. Noi - di fronte al dono della grazia, - non abbiamo altro che la capacità (chiamata dai teologi capacità obbedienziale) di riceverla, nell’ipotesi che Dio ce la conceda, - capacità che è propria di una natura spirituale, come la nostra e la angelica, e manca nei bruti, negli esseri irragionevoli e nelle cose puramente materiali. Se volete penetrare e scendere nel profondo dell’anima dei mistici nostri, o se anche desiderate inebriarvi a quelle sorgenti fresche e dolci che sono Le laudi, ad esempio, di Jacopone da Todi, bisogna meditarla, e approfondirla questa parola: «la grazia è un dono dell’amore divino»; allora anche voi canterete col grande poeta predantesco: *** O Amor, divino amore, - amor che non se’ amato .... Amor la tua amicizia - è piena di delizia non cade mai en tristezza - lo cor che t’ha assagiato .... Clama la lengua e ’l core: - Amore, amore, amore! .... Gridiamo: - Amore, amore! *** Allora anche, non sareste sordo allo squillo della campanella, suonata un dì in un monastero di Firenze da un’anima verginale, che ad ogni tiro di corda esclamava: - L’Amor non è amato! L’Amor non è amato! - E che altro vuol essere questo modesto ed umile volumetto, se non un gemito d’una campana, che vi squillerà nel cuore e vi farà echeggiare il grido, zampillante dall’anima di Maria Maddalena de’ Pazzi?
La Grazia. Il dono della divinizzazione. Da Il Sillabario del Cristianesimo, mons. F. Olgiati, Vita e Pensiero, Milano, 1942. SS n° 10, p. 3 - 4