Dio poteva lasciare l’uomo nell’ordine naturale, vale a dire nel suo stato di uomo. 1. In questo caso, l’uomo sarebbe stato una semplice creatura, non un figlio di Dio; ossia non avrebbe mai potuto dire a Dio: «Padre nostro». Lo so: l’affermazione susciterà un grande stupore; poiché è così marchiana l’ignoranza del catechismo, che tutti credono d’aver diritto, in nome della loro natura di uomini, di salutare Dio col dolce nome di Padre. Nulla di più falso. E basta fare una riflessione di intuitiva evidenza. È vero, o non è vero, che il figlio è della stessa natura del padre? Da una bestia nasce una bestia; e da un uomo nasce un uomo. Padre e figlio hanno la identica natura. È stato solo Caligola, che un bel giorno ha nominato senatore il suo cavallo e poco mancò che non lo nominasse suo figlio; ma probabilmente, il cavallo restò cavallo. Dunque, se eguale dev’essere la natura del figlio e del padre, noi in quanto uomini, nell’ordine naturale, non potremmo dare a Dio il nome di Padre: per far questo dovremmo avere la natura di Dio, ossia non la natura umana, ma la natura divina. E siccome non possediamo - come uomini - tale natura, noi siamo solo creature, sia pur ragionevoli, di Dio, ma non figli di Dio per natura. In un senso improprio e metaforico le creature, per una certa somiglianza col Creatore che le ha create secondo l’idea della sua mente, possono chiamare Dio col nome di Padre: nel senso cioè che anche la «gentil farfalletta», stretta dalle dita della «vispa Teresa», supplicava: «Deh! Lasciami! Anch’io, sono figlia di Dio!» Anche le farfalle si possono dire impropriamente figlie di Dio; ma, in realtà, esse non hanno se non la natura di farfalla, e non partecipano affatto la natura divina, come le opere del pittore e dello scultore, pur partecipando l’idea, non partecipano la natura e la vita dell’artista. 2. Nell’ipotesi fatta, perciò, l’uomo, creato da Dio, ed ornato delle sole doti naturali, avrebbe svolto sulla terra le sue energie umane. Ed avrebbe avuto: a) L’attività della sua ragione, ossia le varie conoscenze naturali, le diverse scienze, la filosofia o speculazione naturale. Non gli sarebbe mancata una cognizione anche dell’esistenza di Dio, che avrebbe dedotta dall’esistenza delle cose create, poiché come dall’orologio io deduco l’esistenza dell’orologiaio, quantunque non lo veda, così da questo grande orologio dell’universo la ragione può assurgere all’affermazione certa del Dio invisibile; e come sulla spiaggia del mare chi vede lontano lontano un bastimento avviato verso il porto, è certo che un capitano lo guida, così, chi contempla la nave immensa del mondo, pensa al grande nocchiero, Iddio. Avremmo pure la certezza della nostra spiritualità, della nostra libertà. E tutto ciò con la ragione, non con la rivelazione. b) A tale cognizione esclusivamente razionale avrebbe risposto un’attività puramente umana, individuale e sociale. L’individuo, la famiglia, la nazione, la vita internazionale sarebbero stati retti da quella legge morale, che è impressa nelle coscienze. Noi avremmo dovuto organizzare la vita prendendo a centro di essa Dio, autore dell’ordine naturale. E tutto ciò con le forze rispondenti alla nostra natura, e con quell’aiuto e quel concorso divino al nostro agire - d’ordine naturale - che Dio largisce a tutte le creature, - non con la grazia. c) Alla morte, l’anima immortale avrebbe finalmente ricevuto da Dio - suo ultimo fine - il premio o la pena; ed il premio - come è evidente - non sarebbe stato se non una felicità naturale, non il paradiso. Nell’ordine di natura, infatti, l’uomo, anche nell’altra vita, non avrebbe diritto se non ad una felicità umana, ad una conoscenza umana, ad un amore umano, perfezionati come si vuole, ma sempre nell’ambito delle esigenze nostre di uomini. Il paradiso, viceversa, come diremo, importa una cognizione divina, un amore divino, una felicità divina. Il paradiso consiste nella visione intuitiva di Dio, ossia nella cognizione diretta di Dio; mentre la ragione umana, sia pur perfezionata, non può assurgere a Dio, se non indirettamente, mediante un ragionamento, e non lo conosce quindi se non in modo analogico, ma non ha nessun diritto a vedere Dio come Dio vede se stesso. Ed in che consiste il limbo dove vanno i bambini che muoiono senza battesimo, se non in questa felicità naturale, riducentesi soprattutto ad una cognizione indiretta, ma sicura, e ad un umore perenne di Dio, principio e fine di ogni essere? Concludendo: l’uomo nell’ordine puramente naturale, lasciato cioè al suo stato d’uomo (l’inchiostro nel calamaio) avrebbe avuto: a)la ragione, senza la rivelazione; b) la sua attività naturale ed il concorso divino naturale, senza la grazia; c) ed organizzando la sua vita secondo la legge morale di Dio, creatore e giudice, avrebbe un giorno conseguito una felicità naturale, non il paradiso.
APPENDICE S.S.. Papa Innocenzo I, nella Lettera Inter ceteras Ecclesiae Romanae a Silvano ed agli altri padri del Sinodo di Milevi, il 27 gennaio 417, insegna: «La necessità del battesimo. (c. 5) Che agli infanti possa essere donato, anche senza la grazia del battesimo il premio della vita eterna, è una grande stoltezza […] Chi invece sostiene che l’abbiano senza la rigenerazione, a me sembra che voglia annullare lo stesso battesimo, sostenendo che gli infanti abbiano ciò che secondo la fede è conferito loro se non attraverso il battesimo. Se, dunque, secondo loro non nuoce non rinascere, è necessario che dicano apertamente che non giovano i sacri flutti della rigenerazione. Ma affinché l’iniquo insegnamento di persone [che asseriscono] cose superflue, possa essere smontato con veloce esposizione della verità, [ecco] il Signore dichiarare [proprio] ciò nel Vangelo, dicendo: Lasciate i fanciulli e non impedite [loro] di venire a me: di tali infatti è il regno dei cieli [cf. Mt. 19,14; Mc. 10,14; Lc. 18,16]».
L’ordine naturale e l’ordine soprannaturale. L’uomo nell’ordine naturale. Da Il Sillabario del Cristianesimo, mons. F. Olgiati, Vita e Pensiero, Milano, 1942. SS n° 7, p. 3 - 4