Anatema in senso proprio significava una cosa votata a Dio, ex-voto appeso nei templi, pongo sopra, appendo; (cf. Giudit. 16,19; 2 Mac. 9,16; Lc. 21,5). Però nella versione dei Settanta la parola «anatema» generalmente traduce il vocabolo che indicava cosa o persona destinata da Dio o per Iddio alla distruzione. Nel Nuovo Testamento conserva il significato ebraico con qualche leggera sfumatura: cosa o persona colpita da maledizione divina e destinata alla rovina (cf. 1 Cor. 12,3; 16, 22; Rom. 9,3; Gal. 1,8-9). Nel linguaggio ecclesiastico appare per la prima volta nel Concilio di Elvira (305) con significato non ben definito. Più tardi nei canoni di Laodicea e di Calcedonia l’anatema aggiunge alla scomunica l’idea di una speciale maledizione, che aggrava la pena della separazione dalla Chiesa. Nelle Decretali l’anatema corrisponde alla scomunica maggiore, fulminata in modo più solenne. Nella disciplina attuale non è altro che la scomunica inflitta con quelle solennità esteriori contenute nel Pontificale Romano (cf. can. 2257, § 2). Nella disciplina vigente si dice pure anatema la scomunica in cui incorrono ipso facto coloro che negano una verità solennemente definita, come si desume principalmente dai canoni dogmatici del Concilio Tridentino e Vaticano: «Si quis negaverit... anathema sit» cioè sia scomunicato.
L’Anatema. Dal Dizionario di Teologia dommatica, A. Piolanti - P. Parente - S. Garofalo, Studium, Roma, 1952. SS n° 9, p. 4