Consiste nella separazione dell’anima (che continua a vivere), dal corpo, che si dissolve nei suoi elementi. L’anima è immortale per natura sua, essendo puro spirito, quindi semplice e indecomponibile. Il corpo, come ogni essere materiale, è soggetto per legge naturale alla corruzione. Ma Dio aveva provveduto con uno speciale privilegio all’integrità e immortalità del corpo umano: «Deus creavit hominem inexterminabilem» (Sapienza, 2, 23). La morte corporale è conseguenza del peccato, secondo la minaccia divina: «In qualunque giorno mangerai di quel frutto, morrai». E San Paolo dice esplicitamente: «Per un solo uomo è entrato il peccato in questo mondo e per il peccato la morte» (Rom., 5, 12). La morte è legge universale, a cui volle assoggettarsi anche Gesù Cristo. La morte è il termine non solo della vita terrena, ma anche del tempo utile per meritare. Cristo, infatti, parlando della morte la chiama: «Notte in cui nessuno può più operare» (San Giovanni, 9, 4). E San Paolo (agli Ebrei, 9, 27): «È stabilito che gli uomini muoiano una volta, dopo di che c’è il giudizio». Ora il giudizio decide inesorabilmente della sorte dell’uomo. Questa verità è (rivelata ed) ampiamente sviluppata dalla Tradizione e, se non definita, insegnata (infallibilmente) dal Magistero ordinario della Chiesa (DB, 530 ss. e 693; cfr. anche 203 ss. dove si condanna l’opinione di Origene sulla possibilità d’una redenzione finale dopo la morte). Fisiologicamente il momento della morte reale non coincide ma segue quello della morte apparente. Una teoria moderna («Illuminazione degli agonizzanti») sostiene che l’anima tra quei due momenti possa subire una benefica crisi di conversione sotto uno speciale influsso divino. Teoria (falsa) che dilaterebbe di molto la via della salvezza, (e ovviamente) non ha trovato favore.
Dal Dizionario di teologia dommatica, Piolanti, Parente, Garofalo - pace all’anima loro! - Studium, Roma, 1952.