L’ebr. hatunnāh (Cant. 3, 11) esprime la celebrazione del matrimonio, che non ha in ebr. sostantivo corrispondente[...] Il primo matrimonio risale alle origini stesse dell’umanità (Gen. 2, 18 ss.): Eva è data da Dio ad Adamo, compagna indivisibile e quasi completamento dell’uomo, consacrando il consorzio coniugale e fondando la società sulla famiglia (A. Vaccari). L’esser tratta la donna dal lato dell’uomo, oltre a confermare l’unità della specie umana, insegna il dovere dell’amore mutuo e la dipendenza della donna dall’uomo (cf. I Cor. 11, 8). «Per questo l’uomo abbandona il padre e la madre e si unisce alla sua donna e formano una carne sola» (Gen. 2, 24): sono parole del sacro autore, o meglio di Dio, che l’ispirava (cf. Mt. 19, 6); i coniugi fanno come una sola persona, un sol corpo (cf. I Cor. 6, 16). Di qui Gesù stesso trasse una prova della originaria unità (monogamia) e della indissolubilità del matrimonio (Mt. 19, 4-8; A. Vaccari). Esso è un patto divino «del quale Dio è testimone» (Prov. 2, 17; Mal. 2, 14); perciò Tobia (8,9) prega: «Non per voglia insana prendo in sposa questa mia sorella, ma per fedeltà alla legge». Per questo i profeti poterono designare la relazione tra Iahweh e Israele come un matrimonio (Os. 1, 2; Ez. 16 ecc.; Cant.). E il Decalogo comanda: «Non commettere adulterio» (Ex. 20, 14) ; l’adulterio è un peccato contro Dio (Gen. 20, 6; Prov. 2, 17); anche il solo desiderio cattivo (Ex. 20, 17; cf. Gen. 39, 9). Con l’accentuarsi del distacco dell’umanità da Dio, dopo il peccato, nella prava discendenza Cainita è Lamec che la Bibbia ci presenta poligamo (Gen. 4, 18), flessione dalla pura istituzione delle origini. Dio si adatta benevolmente ai costumi imperfetti degli uomini, e dai patriarchi in poi, troviamo attestata la poligamia e il divorzio; praticamente sono i costumi Semiti in genere e dei Babilonesi in particolare. Ne è testimone più celebre il codice di Hammurapi, vari articoli del quale hanno adeguata corrispondenza con la narrazione della Genesi su Abramo. Sara e Agar; Giacobbe, Rachele, Lia e le loro schiave; sui rapporti di Giuda e Tamar (estensione del levirato tra il suocero e la propria nuora, esplicitamente formulata nella legge hittita), ecc. Essendo dunque legittimo il matrimonio poligamico, l’adulterio si aveva soltanto quando lo sposo aveva relazione con la donna di un altro; mentre il rapporto con una nubile era solo atto immorale. Invece era adulterio, il rapporto di una donna sposata con qualsiasi altro uomo. Per l’adulterio era comminata la pena di morte, per l’uomo e per la donna; in ciò la fidanzata era assimilata alla sposa (Gen. 38, 24; Lev. 18, 20; Deut. 22, 22-27 ecc.). La fedeltà coniugale è esaltata (Prov. 5, 15-19); l’onestà della donna celebrata al disopra di ogni altra dote (Prov. 31, 30; Eccli. 26, 23; Tob. 3, 11 ss.); cf. Dan. 13, 23; Iob. 31, 9.11 s. I libri sapienzali tengono severamente in guardia contro ogni infedeltà (Prov. 2, 16 ss.; 5, 3 ss. ecc.), che non può celarsi agli occhi di Dio, anche quando rimane nascosta agli uomini (Eccli. 23, 18 s.). Un’adultera pecca tre volte: ferisce la santità di Dio, inganna il marito e procrea un figlio estraneo (Eccli. 23, 23). Le gioie del matrimonio preservano lo sposo dalle vie inique; egli renda il debito coniugale, perché la sposa non corra il pericolo di divenire infedele (Prov. 5, 13-19). Tra i grandi santi del Vecchio Testamento, (Mosè, Osea, Isaia, Ezechiele, Tobia, ebbero una sola sposa, e monogamo fu il matrimonio di Giuditta; e nel corso dei tempi la monogamia divenne il matrimonio comune). Il significato religioso del matrimonio, e l’alto livello morale di tutto il V. T., sono manifesti nelle prescrizioni che interdicono la unione tra consanguinei e congiunti (Lev. 18,6-18; 20, 10-21; Deut. 22, 13-30; 27, 20-23 [...]); una sola eccezione è costituita dalla legge antichissima del levirato. Tanto più, se si considerano i costumi degli Egiziani, che non consideravano immorale neppure l’unione del padre con la figlia e forse della madre con i propri figli (cf. DBs, II col. 850 s.) e quelli ancor più depravati dei Cananei (Lev. 18, 3; A. Clamer La Ste Bible [ed Pirot, 2], Parigi 1940, pp. 138-42; 154-57; 652-56). La legge sul divorzio (Deut. 24, 1-4), gli altri passi del Pentateuco che parlano di esso, lo suppongono già in atto, stabilito dal costume; la legge determina soltanto le formalità da seguire per renderlo legale, e impone condizioni e restrizioni, atte a restringere l’uso. La legislazione babilonese (codice di Hammurapi, § 137) non si preoccupa di stabilire il motivo del ripudio (nel § 141 sono enumerate parecchie colpe della sposa che lo permettono senza compenso alcuno). «Se sposata una donna, questa più non gli piaccia, perché ha notato in essa qualcosa di turpe (o di ripugnante), l’uomo le rimetterà scritto un atto di ripudio» ecc. (Deut. 24, 1). La frase ebr. «troverà su di essa una nudità, o onta di cosa», lascia capire che questa cosa vergognosa o ripugnante sia di ordine fisico: come una malattia ad esempio, o altra infermità. Al tempo di Nostro Signore (Gesù Cristo), i rabbini ne discutevano: Shammai intendeva nudità di una colpa grave, in particolare l’adulterio; Hillel invece autorizzava il divorzio per un motivo qualsiasi; i Farisei che interrogano N. Signore (Mt. 19, 3 «è lecito rimandare la moglie per qualunque motivo») appartenevano a questa scuola. Il diritto di divorziare era riservato al solo marito. Più tardi, e per la prima volta nella colonia giudaica d’Elefantina, risulta l’estensione di tal diritto alle donne (Clamer, Op. cit., p. 662 ss.). La legge cercò dunque di proteggere la donna dall’arbitrio dell’uomo. Il marito, rimandando la sposa, ci rimetteva la dote, dono nuziale da lui consegnato al padre della sposa (Ex. 22, 15). L’Eccli. 7, 26 mette in guardia contro il divorzio; considerato tuttavia dai Giudei come una valvola di sicurezza, senza della quale il matrimonio sarebbe troppo duro (cf. Mt. 19, 10). Il matrimonio è uno dei punti in cui più sensibile è il completamento e l’elevazione operati dal Cristo. Nel discorso del Monte: «Fu detto: - Chi licenzia la propria moglie, le dia l’atto di divorzio - (Deut. 24, 1-4). Io invece vi dico che chiunque licenzia la propria donna, eccetto il caso di concubinato, la espone all’adulterio, e chi sposa la ripudiata, commette adulterio» (Mt. 5, 31 s.). E più completamente in Mt. 19, 3-12. Ai Farisei che gli propongono la questione del divorzio, Gesù risponde riportando il matrimonio alla purezza delle sue origini: Gen. 1, 27; 2, 24; e stabilendone le due qualità essenziali, poste da Dio: l’unità («quel che Dio ha congiunto, l’uomo non separi») e l’indissolubilità assoluta. Mosè non istituì il divorzio, ma lo disciplinò; esso non è una legge, ma un’eccezione tollerata («per la durezza del vostro cuore vi permise Mosè di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non era così»); quindi proclama ancora (come in 5, 31 s.) la legge dell’indissolubilità ( = Mc. 10, 10 ss.; Lc. 16, 18; I Cor. 7, 10 s.; Rom. 7, 2 s.). L’inciso eccetto il caso di concubinato ([...] risponde al rabbinico zenut = matrimonio invalido, non vero, “concubinato”), indica il caso della unione nella quale il vincolo matrimoniale non c’è, e il licenziamento della donna è non soltanto legittimo ma doveroso. (J. Bonsirven, A. Vaccari, C. Spicq). Quindi esalta il celibato virtuoso, di chi volontariamente vuol dedicare tutto se stesso a Dio e alla diffusione del Suo regno. Lo stesso insegnamento è ripreso da san Paolo: il matrimonio, sua legittimità (è un dono [...]), e i suoi diritti (I Cor. 7, 1-7); indissolubilità (vv. 8-16); paragone tra il matrimonio e la verginità (vv. 25-38); stato vedovile (v. 39 s.). Il matrimonio è necessario per chi non ha il dono più elevato della verginità: i coniugi si rendano scambievolmente il debito coniugale: «la sposa non ha il potere sul proprio corpo, ma il marito; egualmente il marito non ha il potere sul proprio corpo, ma la donna. Non vi private l’un l’altro, se non di comune accordo, per breve tempo, per attendere alla preghiera (scopo soprannaturale); e ritornate subito all’usato, affinché Satana non vi tenti facendo leva sulla vostra incontinenza». L’indissolubilità è assoluta, ordine del Signore. «Quanto a quelli che abbracciano la fede, già maritati, se il coniuge infedele consente coabitare col convertito, rimangano uniti; ma se egli si vuol separare, l’altro coniuge è libero (I Cor. 7, 12-15; il cosiddetto privilegio paulino). La ragione (o la precisa ragione) per cui san Paolo diceva al credente di non rompere il precedente legame, era la speranza nel coniuge di poter condurre alla fede l’altro; ora essa cesserebbe in un’unione tormentata e turbata; in tal caso, la parte fedele non deve farsi scrupolo di riprendere la libertà. San Paolo condanna coloro che proibivano il matrimonio (I Tim. 3, 4); scomunica l’incestuoso di Corinto (I Cor. 5, 1-5). Il marito deve amare la sposa, come Cristo la Chiesa (Eph. 5, 25; Col. 3, 19; cf. I Pt. 3, 1 ss.); il matrimonio deve essere un mezzo di santificazione (I Tim. 2, 15). Il Divin Redentore, che ha onorato con la sua presenza il matrimonio, alle nozze di Cana (Io. 2, 1-11), lo ha elevato sacramento, connettendo al contratto naturale, tra i battezzati, il conferimento della grazia. L’insegnamento infallibile della Chiesa rende esplicito quanto è implicitamente contenuto nei Vangeli (Io. 2, 1, 11; Mt. 19, 3-12) e particolarmente in I Cor. 7 e in Eph. 5, 28-31). Dopo aver citato Gen. 2, 23 s. circa l’unità dei due sposi, e pertanto l’amore scambievole che da essa deriva, san Paolo aggiunge: «Grande è questo mistero, cioè in rapporto al Cristo e alla Chiesa». L’unione dell’uomo e della donna, enunziata nella Genesi e che Dio ha voluto, è un mistero importante e sublime, perché oltre al significato immediato del dono e accettazione mutui dei due sposi, figura l’unione del Cristo e della Chiesa. Ecco il profondo significato (mistero) che va riconosciuto alle parole della Genesi. Questo rapporto, esiste già nel matrimonio o, semplice contratto naturale, come istituito da Dio ; ma esso è pieno, adeguato, soltanto col matrimonio sacramento, per gli effetti della grazia che produce; come la morte redentrice dello Sposo celeste (Mc. 2, 19, s.; cf. Io. 3, 29) rende ferace [fertile, fecondo, ndR] d’ogni bene soprannaturale la sua unione con la Chiesa. [Voce tratta dal Dizionario Biblico di mons. Francesco Spadafora, Studium, Roma, 1955, pagina 389 e successive].