Per leggere la prima parte cliccare qui. La sepoltura in Vaticano è suffragata da una tradizione antichissima, sia letteraria che archeologica. Di primissimo ordine è la testimonianza del prete Caio del II secolo (Eusebio, Op. cit. II, 25, 7) che parla di un trofeo innalzato su la tomba dell’Apostolo, sicuramente identificato negli scavi del 1940-1950 sotto la Confessione della Basilica Vaticana.
La tradizione ci ha tramandato due lettere col nome del principe degli Apostoli.
I Pietro. Non è chiara la sua divisione logica dato il carattere eminentemente parenetico, per cui spesso i vari pensieri si susseguono in maniera slegata, e per la ripetizione di idee basilari. Oltre ad un esordio (1, 1-12) ed un epilogo (5, 12-14), si possono indicare tre sezioni, nelle quali rispettivamente predominano consigli ed esortazioni di ordine generale (1, 13 - 2, 10), avvisi pressanti con costante riferimento alle condizioni dei destinatari (2, 11-4, 6) oppure norme miranti in modo speciale alla vita sociale ed all’organizzazione ecclesiastica (4, 7-5, II). Lo scritto mira innanzi tutto ad esortare ed attestare (5, 12), ossia consolare i lettori, che versano in gravi difficoltà, richiamando occasionalmente ma abbondantemente i principii dottrinali di ordine soprannaturale, che giustificano ed esigono la linea di condotta proposta. Si notano riferimenti trinitari (1, 1-3; 4, 14) e cristologici (1, 2.18-21; 2, 3.13.22; ecc.). Si insiste particolarmente sulla dottrina della salvezza. Si notano inoltre elementi ecclesiologici (3, 20 s.) ed escatologici (1, 4.13.17; 2, 11; 4, 5.7; 5, 6.8). Fra le parti dottrinali è degna di rilievo la descrizione del profetismo (1, 11 s.), considerato come carisma dello Spirito Santo. I destinatari della lettera sono i fedeli del Ponto, della Galazia, della Cappadocia, dell’Asia e della Bitinia (ivi, 1, 1) in prevalenza provenienti dal paganesimo (cf. 1, 14; 3, 6; 4, 3), evangelizzati in parte da San Paolo e dai suoi collaboratori (Asia e Galazia) ed in parte da Giudei o proseliti convertiti nel giorno di Pentecoste (Act. 2, 9) oppure da missionari più qualificati, senza che ce ne sia stato tramandato il modo. Dal tono dello scritto sembra esclusa una evangelizzazione diretta da parte di San Pietro. I molteplici accenni a sofferenze e prove di ogni genere, subite dai destinatari: calunnie (2, 12-15), ingiurie, patimenti per la giustizia (3, 9-17), insulti (4, 4), li ha fatti pensare vittime della persecuzione neroniana; ma l’esame fa pensare alle angherie e soprusi locali, non meglio ora identificabili a causa della documentazione frammentaria in nostro possesso. Già gli antichi esegeti considerarono lo scritto come composto a Roma, desumendolo dall’espressione metaforica di 5, 13 (Babilonia). La data di composizione si può fissare negli anni 63-64 con una notevole verosimiglianza. Nello scritto, infatti, mancano allusioni sicure alla grande persecuzione scatenatasi dopo il luglio del 64. D’altra parte l’evangelizzazione di quelle regioni lontane presuppone almeno la missione efesina di Paolo (54-57). Il ricordo della presenza di Marco (5, 13) favorisce l’ipotesi che la lettera fu scritta subito dopo la liberazione di Paolo (cf. Col. 4, 10; Philem. 24). Una data anteriore pare esclusa dal fatto che è quanto mai improbabile la presenza di Pietro in Roma durante la prima prigionia di Paolo in Roma (61-63). La lettera fu scritta per mezzo di Silvano (5, 12), che appare quale compagno di Paolo col nome di Sila (cf. Act. 15, 22). La sua forma letteraria è dignitosa; ma resta sempre nell'ambito della lingua e dello stile del Nuovo Testamento. Sono stati notati molteplici e rilevanti riferimenti con i discorsi di Pietro riportati negli Atti. L’autenticità della lettera è garantita da una tradizione costante ed antichissima. Manca nel Frammento Muratoriano ; ma ciò si deve molto probabilmente ad una semplice corruzione testuale del catalogo. L’esame intrinseco non solo segnala l’attribuzione esplicita a Pietro apostolo (1, 1), ma anche diversi accenni alla vita di tale personaggio (cf. 2, 6-8; 3, 14; 4, 14; 5, 1.13). L’eleganza linguistica non può essere sfruttata come un argomento contro l’autenticità perché è relativa e non è definibile con sicurezza quanto sia da attribuirsi in questo senso a Pietro e quanto sia effetto della cultura più ellenistica di Silvano, compagno di apostolato di Paolo e cittadino romano (Act. 16, 37).
II Pietro. Dopo un brevissimo esordio, contenente l’indirizzo e i saluti (1, 1 s.), si legge un’esortazione alquanto generica alla santità di vita (1, 3-21). Si insiste sulla perseveranza nella fede, ricordando la dignità del cristiano, chiamato ad una perfetta conoscenza di Dio ed alla partecipazione della natura divina (1, 3 s.). Come corollario il venerando vegliardo, che prevede la sua fine imminente (1, 12-15), raccomanda la pratica della virtù (1, 5-11) e ricorda le basi del suo insegnamento (1, 16-21). Segue il monito di guardarsi dai falsi dottori (2, 1-3, 13), dei quali si smascherano i vizi, preannunziando il loro castigo tremendo (2, 1-22). I fedeli conservino l’insegnamento genuino dei profeti e degli Apostoli riguardo alla parusia (3, 1-13), attendendo con pazienza che si realizzino i disegni divini e preparandosi convenientemente al giudizio di Dio senza farsi traviare da dottrine di pseudodottori. Lo scritto si chiude con una nuova esortazione alla santità, richiamandosi all’insegnamento delle lettere paoline, e con una breve dossologia (3, 14-17). Non si tratta di un’opera dommatica; tuttavia si hanno meravigliosi spunti dottrinali. Basta ricordare quello su la partecipazione della natura divina (1, 4) e quello su l’ispirazione delle Scritture (1, 19-21). Non sono indicati i destinatari; tuttavia dal nome dell’Apostolo e dal richiamo 3, 1 sembra logico dedurre che si tratti dei medesimi individui, che ricevettero già la prima lettera di Pietro. Il tema svolto presuppone uno sfondo alquanto diverso, ma non contradittorio: s’insiste sul pericolo che corrono di naufragare nella fede a causa dell’opera subdola di falsi dottori bollati con epiteti molto forti. Sotto questo punto lo scritto viene a completare il quadro, piuttosto pessimistico, ricostruibile dalle lettere pastorali di Paolo, dall’Apocalisse, e, in modo particolare, dalla breve lettera di Giuda. I numerosi rilievi sull’attività dei falsi dottori non giustificano per nulla l’identificazione con qualcuno dei diversi sistemi di gnosticismo, quali compaiono nel II secolo. Gravi difficoltà sono state sollevate circa l’autenticità di questa lettera, negata dalla maggioranza degli esegeti acattolici ed anche da qualche cattolico. La tradizione antica mostra un’innegabile incertezza, come per alcune altre lettere cattoliche (v. Canone). L’esame intrinseco però esige l’autenticità petrina (cf. 1, 1.13-18; 3, 1.9.15), a meno che non si provi trattarsi di una finzione o di un artificio letterario. Anche i riferimenti stilistici e linguistici con la I Pietro e con i discorsi della prima parte degli Atti sono molto rilevanti. È evidente la profonda relazione con la - probabilmente - preesistente lettera di Giuda (v.), con la quale spesso concorda anche nell’espressione verbale. Ammessa l’autenticità petrina, si pensa che lo scritto fu composto a Roma dopo la I Pietro. Chi pone la morte dell'Apostolo nel 64 pensa all’inizio di quest’anno; quanti, invece, ritengono l’anno 67 per il martirio di Pietro hanno la possibilità di una data più elastica e più verosimile in sé (verso il 67). Fine.
Dal Dizionario biblico, Francesco Spadafora, Ordinario di Esegesi nella Pontif. Univ. del Laterano, Studium, Roma, imprimatur 1955, pagg. 460 e 461.