Dalla Ad Beatissimi Apostolorum, 1° Novembre 1914, Papa Benedetto XV: «Di fronte a questa mostruosità del pensare e dell’agire (la ribellione alla legittima autorità, ndR), deleteria di ogni esistenza sociale, Noi costituiti da Dio custodi della verità, non possiamo non alzare la voce; e ricordiamo ai popoli quella dottrina che nessun placito umano può mutare: “Non c’è autorità se non da Dio; e quelle che esistono sono stabilite da Dio” (Rom. XIII, 1). Pertanto, ogni potere che si esercita sulla terra, sia esso di sovrano, sia di autorità subalterne, ha Dio per origine. Dal che san Paolo deduce il dovere di ottemperare, non già in qualsivoglia maniera, ma per coscienza, ai comandi di chi è investito del potere, salvo il caso in cui si oppongano alle leggi divine: “Perciò è necessario stare sottomessi, non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza” (Ibid. 5). Conformemente a questi precetti di San Paolo, insegna pure lo stesso Principe degli Apostoli: “State sottomessi ad ogni istituzione umana per amore di Dio; sia al re come sovrano, sia ai governatori come ai suoi inviati” (I Petr. II, 13-14). Da tale premessa lo stesso Apostolo delle genti deduce che chi si ribella alle legittime autorità umane si ribella a Dio, e incorre nell’eterna dannazione: “Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio. E coloro che si oppongono si attireranno addosso la condanna” (Rom. XIII, 2). Rammentino questo i prìncipi ed i reggitori dei popoli, e vedano se sia sapiente e salutare decisione, per i pubblici poteri e per gli Stati, il far divorzio dalla Religione santa di Cristo, che è sostegno così potente dell’autorità. Riflettano bene se sia misura di saggia politica il volere bandita dal pubblico insegnamento la dottrina del Vangelo e della Chiesa. Una funesta esperienza dimostra che l’autorità umana è disprezzata dove esula la religione. Succede infatti alle società, quello stesso che accadde al nostro primo padre, dopo aver mancato. Come in lui, appena la volontà si fu ribellata a Dio, le passioni si sfrenarono e disconobbero l’impero della volontà, così, allorquando chi regge i popoli disprezza l’autorità divina, i popoli a loro volta scherniscono l’autorità umana. Rimane certo il solito espediente di ricorrere alla violenza per soffocare le ribellioni: ma a che pro? La violenza reprime i corpi, non trionfa della volontà. Tolto dunque o indebolito il doppio elemento di coesione di ogni corpo sociale, l’unione cioè dei membri fra loro per la carità vicendevole e l’unione dei membri stessi col capo per la soggezione all’autorità, qual meraviglia che la società odierna ci si presenti divisa come in due grandi armate che fra loro lottino ferocemente e senza posa? Di fronte a coloro ai quali o concesse fortuna o l’attività propria apportò qualche abbondanza di beni, stanno i proletari e i lavoratori, accesi d’odio e d’invidia, perché, mentre partecipano degli stessi costitutivi essenziali, pur non si trovano nella medesima condizione di quelli. Naturalmente, infatuati come sono dagli inganni dei sobillatori, ai cui cenni si mostrano d’ordinario docilissimi, chi potrebbe persuaderli come dall’essere gli uomini uguali per natura, non segua che tutti debbano occupare uno stesso grado nel consorzio sociale, ma che ognuno ha quella posizione che con le sue doti, non contrariate dalle circostanze, si sia procacciata? Per ciò, quando i poveri lottano coi facoltosi, quasi che questi si siano impadroniti d’una porzione di beni altrui, non soltanto offendono la giustizia e la carità, ma anche la ragione, specialmente perché anch’essi, se volessero, potrebbero con lo sforzo di onorato lavoro riuscire a migliorare la propria condizione. A quali conseguenze, non meno disastrose per gli individui che per la società, conduca quest’odio di classe, è superfluo dirlo. Tutti vediamo e lamentiamo la frequenza degli scioperi, per i quali all’improvviso si produce l’arresto della vita cittadina e nazionale nelle operazioni più necessarie; parimenti le minacciose sommosse ed i tumulti, in cui spesso avviene che si dà mano alle armi e si fa scorrere il sangue. (...) Gesù Cristo disceso dal Cielo (...) per questo fine di ripristinare fra gli uomini il regno della pace, rovesciato dall’odio di Satana, non altro fondamento volle porvi che quello dell’amore fraterno. Quindi quelle sue parole tanto spesso ripetute: “Vi dò un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri” (Ioan., XIII, 34); “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri” (Ioan., XV, 12); “Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri” (Ioan., XV, 17); quasi che tutta la sua missione ed il suo compito si restringessero a far sì che gli uomini si amassero scambievolmente. E quale forza di argomenti non adoperò per condurci a questo amore? Guardate in alto, ci disse: “Uno solo è infatti il Padre vostro che è nei cieli” (Matth., XXIII, 9). A tutti, senza che per lui possano per nulla contare la diversità di nazioni, la differenza di lingue, la contrarietà d’interessi, a tutti pone sul labbro la stessa preghiera: “Padre nostro, che sei nei cieli” (Matth., VI, 9); ci assicura anzi che questo Padre celeste, nell’effondere i suoi benefìci, non fa distinzione neppure di meriti: “Egli fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi, e fa piovere sui giusti e sugl’ingiusti” (Matth., V, 45). Dichiara inoltre che noi siamo tutti fratelli: “Voi tutti poi siete fratelli” (Matth., XXIII, 8); e fratelli a lui stesso: “Perché fra i molti fratelli, egli sia il primogenito” (Rom., VIII, 29). Poi, cosa che vale moltissimo a stimolarci all’amore fraterno anche verso coloro che la nostra nativa superbia disprezza, giunge perfino ad identificarsi con il più meschino degli uomini, nel quale vuole si ravvisi la dignità della sua stessa persona: “Quanto avete fatto ad uno solo di questi miei fratelli più piccoli, lo avete fatto a me” (Matth., XXV, 40). Che più? Sul punto di lasciare la vita, pregò intensamente il Padre, affinché tutti coloro che avessero creduto in lui fossero, per il vincolo della carità, una cosa sola fra loro: “Così come tu, Padre, sei in me, io sono in loro” (Ioan., XVII, 21). Infine, confitto sulla Croce, tutto il suo sangue riversò su di noi, onde, plasmati quasi e formati in un corpo solo, ci amassimo scambievolmente con la forza di quel medesimo amore che l’un membro porta all’altro in uno stesso corpo. Ma, purtroppo, oggigiorno diversamente si comportano gli uomini. Mai forse più di oggi si parlò di umana fratellanza: si pretende anzi, dimenticando le parole del Vangelo e l’opera di Cristo e della sua Chiesa, che questo zelo di fraternità sia uno dei parti più preziosi della moderna civiltà. La verità però è questa, che mai tanto si disconobbe l’umana fratellanza quanto ai giorni che corrono. Gli odi di razza sono portati al parossismo; più che da confini, i popoli sono divisi da rancori; in seno ad una stessa nazione e fra le mura d’una città medesima ardono di mutuo livore le classi dei cittadini, e fra gl’individui tutto si regola con l’egoismo, fatto legge suprema. Vedete quanto sia necessario fare ogni sforzo perché la carità di Cristo torni a dominare fra gli uomini».