Domenica, 26 maggio 1957. Introduzione, richiamo ai precedenti discorsi. Come rappresentanti della «Unione Giuristi Cattolici Italiani» e del «Fraterno Aiuto Cristiano» o «Amici dei Carcerati di Sulmona», voi avete desiderato, diletti figli, di adunarvi intorno a Noi, quasi per invitarCi a rivolgere un paterno pensiero a quel mondo rattristante della sofferenza imposta, che la severità della giustizia ha creato in ultima analisi non per deprimere, ma per redimere, ed ove, tra le ombre di mute celle, si svolgono dolorosi drammi interiori, che solo la luce cristiana della rassegnazione e della fiducia, unita al calore della carità, può tramutare in opera di serena redenzione. Di gran cuore quindi vi diamo il benvenuto e accogliamo con gratitudine la testimonianza della vostra devozione, ed in particolare, segni tangibili del vostro zelo, la relazione dei vostri lavori e la «pergamena-ricordo» firmata da circa duecento detenuti del Penitenziario della Badia Celestina di Sulmona. Voi Ci avete domandato altresì una parola d’insegnamento sull’ideale, che deve animare le vostre attività, e sui migliori mezzi di attuarlo. Da parte Nostra, non Ci proponiamo di trattare qui le questioni speciali, sulle quali avete già norme fissate nelle vostre pubblicazioni e determinate più esattamente nelle vostre deliberazioni e con la esperienza acquistata nei contatti personali coi detenuti. C’intratterremo piuttosto a parlarvi di alcuni punti di portata più generale e che meritano l’attenzione, sia di coloro che esercitano un ufficio attivo di direzione nell’assistenza dei carcerati, sia di quelli a cui tale assistenza è destinata, vale a dire dei carcerati stessi. Noi abbiamo avuto già l’occasione di trattare, in diverse Udienze, il problema della colpa e della pena; Ci basti al presente di ricordare la esposizione fatta il 5 dicembre 1954 ed il 5 febbraio 1955 al «VI Convegno Nazionale di Studio della Unione dei Giuristi Cattolici Italiani» (cf. Discorsi e Radiomessaggi, vol. XVI pag. 277 e ss. e 351 e ss.).
Vorremmo ora invece toccare alcune questioni che riguardano più immediatamente la vostra condizione personale ed il vostro campo di lavoro.
I – Presupposti per l’ufficio di aiuto ai carcerati. Da coloro che occupano nell’ordinamento dell’aiuto ai carcerati un posto di direzione e d’influsso, sembra che debba esigersi soprattutto un solido sapere, una volontà risoluta, una maniera di fare o di omettere ponderata, tanto più quanto i soggetti, cui dedicano le loro premure, non si trovano in condizioni normali di vita. Ci soffermeremo oggi all’esame dei presupposti di ordine intellettuale necessari al vostro ufficio. Per i subordinati e i semplici esecutori può bastare un sapere comune ed un buon senso ordinario; ma si ha diritto di richiedere ben più dai dirigenti. In particolare importa che questi abbiano idee rette sui tre seguenti punti: 1. la necessaria, dipendenza che unisce la pena alla colpa; 2. il significato della sofferenza nella pena; 3. il senso ed il fine della pena.
– DIPENDENZA DELLA PENA DALLA COLPA. 1. – Si tratta innanzi tutto di percepire chiaramente la relazione che fa dipendere la pena dalla colpa, poiché soltanto la convinzione che il carcerato è un colpevole può dare la base indispensabile e sicura per ogni susseguente considerazione. Il compimento della pena non è né intelligibile nella sua realtà oggettiva, né soggettivamente comprensibile, se non si tiene conto del suo immanente rapporto con la colpa da, cui procede. Può accadere che di due atti esteriori specificamente identici l’uno costituisca un fallo pienamente colpevole, e l’altro non implichi alcuna responsabilità in colui che lo pone. Quindi il giudizio ed il trattamento del fatto e del suo autore dovranno essere nei due casi essenzialmente diversi nell’aspetto psicologico, giuridico, etico e religioso. Vi sono al presente due differenti tendenze nella determinazione della colpevolezza: l’una - che non è però ora la predominante - proclive ad ammetterla troppo presto; l’altra che la nega senza sufficienti ragioni, e questa prende in alcuni luoghi una voga talvolta inquietante. Nell’applicazione della pena non è però il caso di riprendere, per discuterla, la questione della colpevolezza, perché essa appartiene al tribunale incaricato del processo; tuttavia le persone, che si dedicano all’assistenza del detenuto, non possono non tenerla presente, perché da essa dipende il loro contegno e l’efficacia del loro intervento. Riguardo alle due correnti d’idee testé menzionate, esse manterranno un atteggiamento imparziale e critico. Coloro che credono troppo presto alla colpevolezza, dimenticano che non basta più oggi tener conto delle circostanze attenuanti tradizionali, dettate dalla giurisprudenza e dalla morale naturale e cristiana. Occorre prendere altresì in considerazione gli elementi messi in valore recentemente dalla psicologia scientifica e che permettono in alcuni casi di riconoscere una diminuzione notevole della responsabilità. L’altra tendenza si fonda precisamente sugli elementi di questa stessa psicologia moderna, per affermare che le possibilità pratiche di determinazione libera, e quindi la vera responsabilità di un gran numero di uomini, si riducono a uno stretto minimo. Di fronte a questa infondata generalizzazione, si può asserire, così in diritto come nel campo della morale, nella vita pratica come nella esperienza scientifica, che la media degli uomini, ed anzi la loro grande maggioranza, ha non soltanto la capacità naturale, ma anche in concreto la possibilità di prendere una risoluzione autonoma e di regolare la propria condotta, salvo la prova contraria nei singoli casi, e quindi di contrarre obblighi e responsabilità. Perciò la morale e il diritto non si immobilitano in un’attitudine superata, quando affermano che bisogna dimostrare ove la libertà cessa e non ove comincia. La sana ragione e lo stesso buon senso si sollevano contro un tale determinismo di fatto, che ridurrebbe al minimo la libertà e la responsabilità; del che si trovano ampie conferme nella pratica del diritto, nella vita sociale e nella rivelazione dell’Antico e del Nuovo Testamento.
– SIGNIFICATO DELLA SOFFERENZA NELLA PENA. 2. – In secondo luogo, voi dovete ben comprendere il significato della sofferenza, alla quale il reo è sottoposto a causa della sua colpa. Anche se le sofferenze di un malato o di un innocente e quelle di un condannato presentano esteriormente caratteri simili, esse hanno tuttavia un senso essenzialmente diverso. Il malato non deve soffrire, e perciò si cerca di alleviare i suoi dolori in tutta la misura del possibile; il condannato invece - duole di dirlo - deve soffrire, e la pena gli è volontariamente imposta allo scopo di conseguire determinati effetti. È ben comprensibile che coloro, i quali avvicinano i detenuti per aiutarli e sostenerli, desiderino di togliere le sofferenze che importa il compimento della pena: ma questa intenzione non corrisponde a quella delle autorità incaricate dell’applicazione della pena o delle persone responsabili dell’assistenza ai prigionieri. In questo punto una cognizione approfondita della questione può apportare utili indicazioni. Non si tratta affatto di prendere un’attitudine fredda e insensibile, ma piuttosto di trovare il giusto mezzo e di evitare ogni deviazione nell’uno o nell’altro senso. Del resto, il solo mostrare al condannato che si considerano le sue pene, e che pertanto la società non è sua irreconciliabile nemica, costituisce un balsamo alle sue afflizioni.
– SENSO E FINE DELLA PENA. 3. – Finalmente voi dovete conoscere il senso ed il fine della pena. È un argomento che Noi abbiamo trattato ampiamente in precedenti allocuzioni. Senza ripetere ciò che allora abbiamo detto, vorremmo invitarvi a riflettere sul fatto che «Dio punisce», come appare chiaramente dalla rivelazione, dalla storia e dalla vita. Qual è il senso di questo castigo divino? L’Apostolo Paolo lo lascia intendere, quando esclama: «Ciò che uno avrà seminato, quello mieterà» (Gal. 6, 8). L’uomo, che semina la colpa, raccoglie il castigo. Il castigo di Dio è la risposta di Lui ai peccati degli uomini. Voi direte forse che ben conoscete ed accettate gl’insegnamenti della religione e della morale in questa materia, ma che siete costretti a vedere la pena in un’altra luce e dovete discuterla in un altro piano, vale a dire come un provvedimento preso dalla pubblica autorità a riguardo del colpevole, che ha infranto il diritto positivo, per mezzo del quale lo Stato intende di tutelare la ordinata vita sociale. Ed è giusto: l’aspetto giuridico e positivo conserva il suo carattere proprio e distinto da quello religioso e morale. Senza dubbio la pena può essere considerata come una funzione sia del diritto umano che del diritto divino, ma è egualmente, od anche più vero, che l’aspetto giuridico non è mai un concetto puramente astratto, pienamente tagliato da qualunque relazione con l’aspetto morale. Ogni diritto umano, infatti, meritevole di questo nome trova finalmente il suo vero fondamento nel diritto divino; il che non porta seco né diminuzione né limitazione, ma piuttosto un aumento della sua forza e della sua stabilità. Quali sono dunque il senso ed il fine della pena data da Dio? In primo luogo ed essenzialmente, essa è la riparazione della colpa e la restituzione dell’ordine violato. Commettendo il peccato, l’uomo si sottrae ai precetti divini e oppone la sua volontà a quella di Dio. In questo confronto personale l’uomo preferisce sé stesso e respinge Dio. Nel castigo persiste il confronto fra le stesse due persone, Iddio e l’uomo, fra le stesse volontà; ma ora, imponendo alla volontà del ribelle la sofferenza, Iddio lo costringe a sottomettersi al suo volere, alla legge e al diritto del Creatore, e a restaurare così l’ordine infranto. Il castigo divino però non esaurisce in tal guisa tutto il suo senso, almeno in questo mondo e per il tempo della vita terrena. Esso ha anche altri scopi, che sono anzi, in parte, preponderanti. Spesso infatti le pene volute da Dio sono piuttosto un rimedio che un mezzo di espiazione, piuttosto «poenae medicinales» che «poenae vindicativae». Esse ammoniscono il reo a riflettere sulla sua colpa e sul disordine delle sue azioni, e lo inducono a distaccarsene ed a convertirsi. In tal guisa, subendo la pena inflitta da Dio, l’uomo intimamente si purifica, rafforza le disposizioni della sua rinnovata volontà verso il bene ed il giusto. Nel campo sociale, l’accettazione della pena contribuisce alla rieducazione del colpevole, lo rende più atto ad inserirsi nuovamente come membro utile nella comunità degli uomini, contro la quale il suo delitto l’aveva messo in opposizione. Rimarrebbero ancora da considerare le eguali funzioni della pena nel diritto umano, per analogia a ciò che abbiamo esposto intorno al castigo divino. Ma tale passo voi potete compierlo facilmente, perché siete giuristi, e simili pensieri vi sono familiari. D’altra parte, abbiamo già bastantemente attirato la vostra attenzione sui rapporti che si stabiliscono necessariamente fra i due ordini.
II – Aiuto a coloro che soffrono una pena. La vostra Associazione porta il titolo, espressivo delle sue intenzioni, di «Fraterno Aiuto Cristiano» e di «Amici dei carcerati». Ma i condannati, che hanno bisogno di assistenza, non sono soltanto i carcerati. La giustizia penale del passato, quella del presente in una certa misura, e - se è vero che la storia insegna in molte cose a prevedere ciò che sarà l’avvenire - anche quella del domani, conoscono pene di tormenti fisici, mutilazioni, morte ed esecuzioni capitali in forme diverse. Quindi ciò che Noi Ci proponiamo ora di dire circa l’aiuto da prestare ai carcerati, vorremmo estenderlo, nelle sue idee fondamentali, a tutti coloro che si sono veduti infliggere una pena, considerandoli in un duplice aspetto, come persone singole e come membri della comunità.
– COME SINGOLE PERSONE: 1. – Come singole persone, voi dovete conoscere i carcerati ed amarli. a) Conoscerli. Innanzi tutto conoscerli. Per aiutare i carcerati, è infatti indispensabile avere con essi un contatto come da anima ad anima, il quale suppone la comprensione dell’altro in quanto individuo qualificato dalla sua origine, dalla sua formazione, dallo svolgimento della sua vita, fino al momento in cui lo incontrate nella sua cella. A tal fine voi inviterete i carcerati a scrutare i loro ricordi per darvi tutte le informazioni utili, al pari del medico che, desideroso di conoscere meglio la persona del malato e il suo stato fisico, lo prega di richiamare alla memoria tutto quello che nel passato offre qualche elemento interessante. È ciò che si chiama anamnesi. Accade di frequente che i malati (i condannati ed i carcerati) ricordino cose per sé prive d’importanza, mentre tacciono o manifestano soltanto rapidamente e incidentalmente altre, che fornirebbero invece indicazioni essenziali per la etiologia (scienza che indaga le cause di una data classe di fenomeni, ndR), la diagnosi e la prognosi del male. In tal caso il medico non inizia col paziente una discussione teorica o tecnica, ma corregge apprezzamenti falsi o inesatti, in quanto sia proficuo per la cura del malato e per migliorare la sua condotta futura. Non basta dunque di comprendere il carcerato ed il suo stato, ma occorre anche condurlo a conoscere ed a comprendere lui stesso i principi che dovranno dirigere il suo rinnovamento. L’idea fondamentale, che ha da guidare il detenuto nel suo sforzo di rilevarsi, è la persuasione che egli può cancellare gli errori del passato e prendere le mosse per riformare e rifare la sua vita; che il presente castigo può aiutarlo ad effettuare questi due scopi e che lo sosterrà realmente, se si rivolgerà ad avere verso la sofferenza una giusta attitudine, vale a dire, a darle il senso della espiazione e della reintegrazione dell’ordine. Tuttavia, qualunque sia il valore dei servigi che la psicologia moderna può rendere in questo campo, il suo contributo rimane sempre insufficiente, poiché dovere, colpa, responsabilità, espiazione, sono realtà radicate nel campo della coscienza e vanno perciò trattate con religiose attitudini. Per liberare pertanto internamente l’uomo dal sentimento della colpevolezza ed aiutarlo a redimersi, accettando il castigo imposto, è essenziale di metterlo in contatto immediato con Dio. Perciò Noi Ci siamo particolarmente trattenuti nel mostrare come la colpa e la pena non acquistano tutto il loro significato che nelle relazioni personali tra l’uomo e Dio. b) Amarli. Occorre poi amarli. Per aiutare realmente il carcerato, bisogna andare verso di lui non solo con idee rette, ma altresì, e forse anche più, col cuore, particolarmente se si tratta d’infelici creature, che mai forse, nemmeno in seno alla famiglia, hanno gustato le dolcezze di una sincera amicizia. Voi seguirete così l’esempio del modello stesso dell’amore comprensivo e devoto senza limiti, quello della madre. Ciò che conferisce alla madre un tale influsso sui suoi figli, anche adulti, anche se traviati o rei, non sono già le idee, per quanto giuste, che ella loro propone, ma il calore del suo affetto ed il dono costante di sé stessa, che mai non si stanca, anche se incontra un rifiuto; sa invece pazientare ed attendere, rivolgendosi intanto a Colui al quale nulla è impossibile. È la parola dell’«amore», che in tutti gl’idiomi del mondo è compresa, e che non solleva né discussione né contraddizione; l’amore, di cui l’Apostolo Paolo ha cantato le lodi nel suo «inno alla carità» della prima Lettera ai Corinti (1 Cor. 13, 1-13). Ma, per quanto profondo e genuino, tale amore non indulge ad alcuna approvazione del male commesso nel passato, né incoraggia le volontarie cattive disposizioni che ancora perdurassero, e neppure ammette nell’essere amato alcun compromesso tra il bene e il male. Anche l’ideale amore materno non conosce altra regola che questa. Quanto è vasta per sentimenti e per atti la gamma dell’amore! Ve ne accenniamo le differenti forme, attingendole all’antica sapienza. Esso può essere amore di compiacenza, di benevolenza, di beneficenza, di unione e di amicizia. Tutte queste forme voi potete dedicare ai carcerati secondo le condizioni concrete e nella misura della generosità del vostro cuore. L’amore di compiacenza ammira e trova la sua gioia in tutto ciò che il suo oggetto possiede di buono e di bello. E quanti motivi possono giustificare una tale affezione per chi considera nel carcerato le qualità naturali ed i doni della grazia, sia nella loro forma comune e generica, sia nella impronta individuale! - L’amore di benevolenza vuole coscientemente ed augura alla persona amata quanto le è necessario e proficuo nell’ordine naturale e soprannaturale, e la sua sincera manifestazione fa tanto bene a colui che si vede privato di tante cose, si stima quasi mutilato nell’essere, come uomo finito, cui non arride nessuna speranza. - L’amore di beneficenza dona volentieri non solo beni materiali, anche se non ne dispone che in misura limitata, ma soprattutto i beni dello spirito. Voi elargirete questi in abbondanza, se possederete una vita interiore ricca e profonda, impregnata dei più alti valori della coltura e della religione. - Finalmente amore di unione e di amicizia. Persone, che così si amano, vogliono essere insieme, comunicarsi mutuamente pensieri e sentimenti, mettersi in qualche modo l’una al posto dell’altra. Non esclamerà forse un giorno il Signore come Giudice supremo nell’ultimo giudizio : «Ero carcerato, e veniste da me... Quanto avete fatto a uno dei più piccoli tra questi miei fratelli, l’avete fatto a me»? (Matth. 25, 36.40). Come se avesse voluto dire: «Il carcerato sono io». Siate persuasi che, se riuscirete a mettere in pratica questo modo di pensare e sentire, eserciterete il più grande influsso spirituale sui carcerati che assistete; insegnerete loro efficacemente a trovare nella pena, che li colpisce, la purificazione, la liberazione e l’intimo consolidamento.
– COME MEMBRI DELLA COMUNITÀ: 2. – Come membri della comunità. Il carcerato non è solamente una persona singola, ma anche un membro della società. Egli appartiene ad una famiglia, alla comunità sociale, professionale, civile, a uno Stato, ad un popolo, ad una nazione, e finalmente alla Chiesa. Sorge quindi la questione: Possono e debbono i capi dell’assistenza ai carcerati tentare ed esercitare un influsso sui mutui rapporti fra i detenuti e quelle diverse comunità? In principio, la risposta deve essere affermativa, in quanto essa interessa la comunità ed il carcerato. Anche se questo, per il momento, non ha alcun contatto attivo con alcuni di quei gruppi, egli conserva tuttavia con essi almeno un vincolo giuridico o puramente sociale. Importa che tali attinenze si sviluppino in maniera costruttiva, e non intralcino un maggior bene. Il vostro intervento può dunque divenire necessario, spesso anche prima che la pena sia interamente scontata, ed agirà nei riguardi del detenuto con la famiglia, coi ceti professionali e sociali, in mezzo ai quali vivrà dopo la sua liberazione, e con le autorità a cui sarà sottomesso. Quanto alle attitudini concrete da prendere, la riflessione basata sui principi della ragione naturale, ed anche più sulle massime ed i sentimenti ispirati dalla fede e dalla carità cristiana, vi darà utili norme e vi permetterà di conseguire risultati positivi nell’interesse della comunità e del carcerato. Queste norme, dettate dalla ragione umana, ma molto più dalla fede cristiana, esigono: a) un sincero perdono; b) credere al bene che si trova in altri; c) amare come ha amato il Signore. a) Sincero perdono. Innanzi tutto è necessario un sincero perdono, che le singole persone si accorderanno mutuamente, ma che la stessa società non negherà all’individuo. Non beneficiano forse tutti del perdono di Dio, che a tutti ha insegnato a pregare: «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori»? (Matth. 6, 12). Avvertito dal divino insegnamento, l’Apostolo Paolo, come si era mostrato inflessibile nell’esigere una severa condanna contro il traviato di Corinto, così fu pronto a sollecitare per lui, pentito, il generoso perdono: «Ora basta - egli scrisse ai cristiani di quella Chiesa - a quel tale questa riprensione avuta dai più, sicché è meglio che voi ora invece gli usiate indulgenza e lo consoliate, affinché esso non abbia per disgrazia ad essere assorbito da eccessiva tristezza» (2 Cor. 2, 6-7). b) Credere al bene in altri. In secondo luogo occorre credere al bene che si trova in altri ed avere fiducia in lui. La diffidenza inaridisce ogni seme di bontà e, innalzando quasi un muro di cupa segregazione tra il vostro cuore e il suo, impedisce lo stabilirsi di rapporti amichevoli. La vostra opera di assistenza sia simile a quella di Dio, che conosce i doni di natura e di grazia da lui elargiti ad ogni uomo, e fonda su di essi la Sua azione. Quando il figliuol prodigo tornò a lui, il padre non volle riceverlo come un servo, ma come un figlio di casa, nonostante lo sdegno ed il lamento del fratello maggiore (cf. Luc. 15, 22 ss.). Il rinnegamento di Pietro non velò il vero amore di lui agli occhi del Signore, che gli affidò tutto il suo gregge (cf. Io. 21, 15-17). c) Amare come il Signore ha amato. In terzo luogo bisogna amare come il Signore ha amato. «Se il Signore ha dato la sua vita per noi», scrive l’Apostolo Giovanni, «anche noi dobbiamo darla per i nostri fratelli» (cf. 1 Io. 3, 16). L’amore del prossimo si manifesta non solo da uomo ad uomo, ma anche tra la comunità e ciascuno dei suoi membri. Questo amore proteggerà colui, che torna, dai pericoli che lo attendono; se rischia di cedere alla debolezza, lo fortificherà; gli procurerà anche i mezzi di cui ha bisogno per poter mettersi al lavoro nella comunità come suo membro attivo.
III – La cura dei carcerati agli occhi di Dio. Dopo di aver dato così uno sguardo al vostro campo di azione, possiamo concludere rappresentandoci la maniera in cui è lecito credere che Dio stesso lo consideri. In primo luogo, cioè, lo vede in tutto ciò che la sua realtà può avere di austero. Egli contempla la colpa del carcerato, per la quale una piena soddisfazione è richiesta. Sotto questo aspetto la pena corrisponde alla colpa, la sofferenza colpisce l’uomo come un castigo. Ma tra la inesorabile esigenza della soddisfazione e l’inevitabile castigo, Dio stesso ha interposto la Sua misericordia nell’opera redentrice del Suo Figlio divino. In tal guisa la giustizia riceve un’amplissima soddisfazione e la misericordia rende possibile un perdono sovrabbondante. Tale è il senso delle parole di San Giovanni: «Figliolini miei, vi scrivo queste cose, affinché non pecchiate. Ma se alcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre, Gesù Cristo giusto. Egli è propiziazione per i nostri peccati, né solo per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo» (1 Io. 2, 1-2). Ecco ciò che il Signore insegna, quando scende in mezzo agli uomini per prendere su di sé la loro colpa ed il loro castigo. Vedetelo assidersi alla tavola dei peccatori: «Il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e salvare ciò che era perduto» (Luc. 19, 10). Ascoltate le sue parole al paralitico: «I tuoi peccati ti sono rimessi» (Luc. 5, 20), o quelle che rivolge a Simone, parlando della peccatrice che baciava e ungeva i suoi piedi: «Le sono rimessi i molti suoi peccati, perché ha amato molto» (Luc. 7, 47). Quando il Signore morente s’indirizza al ladrone che, pentito, espia la sua colpa, non lo fa discendere dalla croce e non impedisce che gli vengano spezzate le membra, ma gli dice una parola di luce, di conforto e di fortezza: «Oggi sarai con me in paradiso» (Luc. 23, 43). Ecco come il Signore intende che voi aiutiate i carcerati; voi, facendo rivivere nei loro cuori la certezza di queste alte verità, direte loro le stesse parole, che illuminano, consolano e fortificano: «La tua sofferenza ti dà la purificazione, il coraggio e la più grande speranza di arrivare felicemente allo scopo, alle porte del cielo, a cui non conduce la via spaziosa del peccato. Tu sarai con Dio in paradiso; basta che ti affidi a Lui e al tuo Salvatore».
Conclusione. Possa la Nostra esortazione farvi comprendere meglio la bellezza del vostro lavoro ed indurvi ad amarlo più profondamente, affinché possiate adempirlo con incessante e non mai stanco fervore. Come pegno delle grazie divine che invochiamo su di voi e sui vostri protetti, v’impartiamo di cuore la Nostra paterna Apostolica Benedizione.
[Da Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, XIX, Diciannovesimo anno di Pontificato, 2 marzo 1957-1° marzo 1958, pp. 225-236, Tipografia Poliglotta Vaticana].