Voto del Rev.mo Padre Wlodimiro Ledóchowski, Preposito Generale della Compagnia di Gesù.
Il presente «Voto» fu a suo tempo richiesto al Preposito Generale - in grado di utilizzare la vasta esperienza dell’intera Compagnia- dalla Sacra Congregazione dei Seminari e delle Università degli Studi, preoccupata delle sorti del Latino e dell’insegnamento superiore negli Istituti ecclesiastici. La magistrale risposta, del tutto conforme alla mente della Santa Sede, è parsa degna di pubblicazione, tanto, in essa, sono forti ed evidenti le ragioni che militano in favore dello studio e dell’uso del Latino.
A Sua Eminenza Reverendissima il Sig. Card. Giuseppe Pizzardo Prefetto della Sacra Congregazione dei Seminari e delle Università degli Studi.
Eminenza Reverendissima,
Dopo aver molto pregato e raccomandato la cosa al Signore, mi permetto rispondere alla venerata lettera di Vostra Eminenza Reverendissima del 20 agosto (N. 2018/40), con cui Ella si degna chiedermi qualche norma pratica circa l’uso della lingua latina, e se convenga concedere qualche temperamento, tenendo conto delle prescrizioni della Santa Sede e degli usi invalsi. Confido che Vostra Eminenza non avrà a male se nel- l’esprimere il mio umile parere parlo con franchezza, nell’intima convinzione che si tratta di cosa di somma importanza per il bene della Chiesa. Vostra Eminenza, però, sa che fin d’ora sono e mi dichiaro dispostissimo a sottomettere pienamente il mio modo di vedere alle decisioni della Santa Sede.
Anche dalle nostre modeste informazioni risulta che lo studio e l’uso della lingua latina va purtroppo sempre più decadendo. Conseguentemente cresce continuamente in molte regioni l’abuso di usare la lingua volgare anche nei corsi di Filosofia Scolastica e di Teologia. La cosa, come accennavo, mi sembra molto grave per la Chiesa sotto il duplice aspetto della disciplina ecclesiastica e della purità della fede.
1) Prima di tutto, per la disciplina ecclesiastica. Da secoli la Chiesa Romana andava sempre inculcando e promovendo lo studio e l’uso della lingua latina, che si poteva dire la sua lingua; e si deve in gran parte alla Chiesa il mantenimento e il ripetuto rifiorire di questa lingua che per molto tempo era la lingua comune di tutti gli scienziati, anche delle scienze esatte e dell’astronomia, con grandissimo vantaggio per tutta la cultura umana. Se nei secoli passati non abbondano i documenti pontifici in proposito, è appunto perché allora la cosa era e sembrava a tutti così evidente, che bastava alla Chiesa inculcarlo con l’uso continuo e con l’esempio pratico. Ma cominciando dal secolo XVIII, sotto l’influsso dei nemici della Chiesa e principalmente della frammassoneria, l’uso e quindi lo studio del latino andò affievolendosi, la Chiesa cominciò ad alzare apertamente la voce e a procurare che almeno tra le file del clero la cultura e la lingua latina restasse all’altezza delle gloriose tradizioni del passato. Perciò tutti i grandi Pontefici che il Signore ha dato alla sua Chiesa in questi tempi difficili, pur in mezzo alle gravissime preoccupazioni degli sconvolgimenti continui che travagliavano o minacciavano la società, hanno creduto loro dovere insistere, con lettere e documenti gravissimi, su questo punto. Così fecero Leone XIII, Pio X, Benedetto XV e Pio XI di venerata memoria; il quale ultimo, negli stessi primi mesi del suo pontificato, nell’importantissima Lettera Apostolica Officiorum omnium, del 1° agosto 1922, trattò magistralmente della necessità della lingua latina e ne dava tassative prescrizioni. Ancor più recentemente, nelle sapienti «Ordinationes» con cui la Sacra Congregazione dei Seminari e delle Università degli Studi, in data 12 giugno 1931, accompagnava la Costituzione Apostolica Deus scientiarum Dominus, l’articolo 21, pur contenendo già un temperamento di grande moderazione, prescrive con tutta chiarezza l’uso della lingua latina per l’insegnamento della Filosofia e Teologia. È dunque molto doloroso vedere che nei Seminari, dove si forma il clero e che dovrebbero quindi dare l’esempio di premurosa obbedienza alla Santa Sede, documenti pontifici sì splendidi e solenni, e prescrizioni sì chiare, in non pochi Paesi, o siano semplicemente ignorate, o (ciò che è ancor peggio) apertamente trasgredite. La qual cosa - che in sè è già una grave violazione della disciplina ecclesiastica in un punto particolare - psicologicamente non può non avere un influsso più vasto e pernicioso alla docilità dovuta alla Santa Sede in tutte le altre cose.
2) Ma ancora più grave, a mio avviso, è il pericolo che tale trascuranza del latino crea per la purezza della fede. È ben noto che le lingue volgari sono sempre in evoluzione; e negli ultimi tempi specialmente in molte lingue vive si sono introdotti molti cambiamenti non solo di stile ma anche di parole, creandone di nuove o alterando il significato delle antiche, fino a cambiarlo talvolta del tutto. Nella lingua latina invece (in parte anche nella lingua greca) i termini che sono stati creati, come frutto di discussioni profonde prolungatesi per secoli, per esprimere i più alti e difficili concetti filosofici e teologici, sono diventati termini tecnici, di significato ben definito e fisso, come in brevi ma lapidarie parole fu detto nella Lettera della Sacra Congregazione degli Studi «Vehementer sane» del 1° luglio 1908 (Enchir. Cleric. n. 820). E se fu sempre difficile renderli con sufficiente esattezza in lingua volgare, con la presente volubilità e instabilità delle lingue la cosa si fa molto più pericolosa, esponendosi al pericolo di fraintesi e alterazioni di significato.
Se ciò è di evidente gravità per la Teologia, non è trascurabile neppure il pericolo per la Filosofia. Anch’essa si è andata elaborando la sua terminologia tecnica in lingua latina; e quantunque nella Filosofia spesso si tratti di cose che per sé non sono articoli di fede, è tuttavia di somma importanza per la Chiesa e per la scienza in genere (come scienziati anche laici di vari Paesi ora riconoscono), che questo patrimonio scientifico, acquistato con la laboriosa investigazione di sommi ingegni per secoli, venga conservato intatto e trasmesso immutato ai posteri. Il che sembra per lo meno molto difficile, se tale patrimonio non si custodisca insieme con la lingua in cui si è andato accumulando. Del resto la cosa tocca anche qui la fede; perché, secondo il concetto della Chiesa, la Filosofia è «ancella» della Teologia, che prende di là molti de’ suoi termini tecnici e li eleva ad esprimere, sulla base di concetti filosofici, anche le verità rivelate; sicché l’esattezza e immutabilità dei termini filosofici sono spesso una garanzia anche dell’esattezza delle formule teologiche. È quindi necessario esigere l’uso del latino anche in Filosofia; tanto più che, se si cede quanto all’uso della lingua volgare, invece del latino, in Filosofia, certamente a poco a poco il latino sarà sostituito dal volgare anche in Teologia.
Tale cedevolezza poi sembra pure assai pericolosa per l’unità della Chiesa specialmente in questi tempi di tanto esagerato nazionalismo in tutte le parti del mondo. Già si sono notati qua e là movimenti più o meno aperti per creare le così dette Chiese nazionali. Ci pare umilmente che, in questa accesa atmosfera di agitazioni nazionalistiche, il permettere un più largo uso della lingua volgare nella Chiesa e nel clero sarebbe un cooperare indirettamente a queste pericolose tendenze separatistiche.
3) Quello poi che - «per impedire che continue e ripetute deroghe, parziali e talvolta totali, finiscano per abolire» l’uso del latino - alcuni vorrebbero proporre, che cioè la Sacra Congregazione stessa andasse incontro ai lamentati abusi concedendo un temperamento alle vigenti prescrizioni, credo che otterrebbe proprio l’effetto contrario. Già la concessione fatta nelle «Norme» approvate da Benedetto XV e mandate a tutti gli Ordinari d’Italia, dove si dice che il Professore, in qualche caso, può aggiungere qualche ulteriore spiegazione in lingua italiana «per venire in aiuto di coloro che non avessero bene inteso» la spiegazione in latino (Enchir. Cleric. n. 1102), quantunque per sé possa bene intendersi, ha già dato occasione a gravi abusi, che forse esigerebbero un’interpretazione autentica di quel passo. Le «Ordinationes» del 1931, come ho accennato, contengono già un «minimum» possibile. Perciò credo che, se ora si volesse allargare di più e concedere deroghe e attenuare sì solenni prescrizioni della Chiesa, non si farebbe che approvare l’aperta inosservanza dei già troppo numerosi trasgressori della legge e confermarli nella persuasione che la Chiesa è pronta a cedere alle difficoltà e alle disobbedienze de’ suoi figli; né si fermerebbero alle concessioni ottenute o tollerate, ma andrebbero avanti, e il latino sarebbe praticamente soppresso dall’insegnamento, anzi a poco a poco sparirebbe. Poiché non si può seriamente sperare che, temperandone l’uso, se ne possa efficacemente promuovere lo studio. Giustamente nel Motu Proprio Latinarum litterarum, del 20 ottobre 1924, il Sommo Pontefice Pio XI diceva essere sua volontà «ut linguam latinam uterque clerus haberet scientia et usu perceptam» (Enchir. Cleric. n. 1201); perché l’una cosa è strettamente congiunta con l’altra; se diminuirà l’uso, diminuirà lo studio del latino; e anche nei Seminari Minori mancherà uno stimolo efficace di studiare bene il latino, perché non ne vedranno più la necessità che c’era prima, per studiare poi bene la Filosofia e la Teologia.
4) Credo dunque umilmente che la prescrizione dell’uso del latino nell’insegnamento, già ridotta al «minimum», si deve mantenere ed esigerne con fermezza l’esecuzione, non solo nelle Facoltà, ma in tutti i Seminari di tutte le regioni senza eccezione, stabilendo che nessun giovane possa essere ammesso al corso di Filosofia se non è capace di ben capire il libro di testo in latino e le prelezioni del Professore e, almeno dopo qualche tempo, saper esprimere il suo pensiero in latino nelle ripetizioni e dispute. I Professori poi che non volessero conformarsi a tali prescrizioni della Santa Sede, sappiano che si espongono ad essere deposti dal loro ufficio. Credo che sarebbe tempo e danaro speso utilmente, se si inviasse un Visitatore nei vari Seminari che non si occupasse d’altro che di questo punto.
Sul principio certamente ci saranno vere difficoltà in varie regioni, specialmente per i giovani che vengono nel Seminario filosofico e teologico direttamente dalle scuole pubbliche con insufficiente cognizione e pochissimo uso del latino; ma con la buona volontà da una parte e con la fermezza da parte dei Superiori, le difficoltà saranno presto superate, come noi stessi in vari luoghi abbiamo sperimentato. Se i Governi nei tempi passati e anche al presente riescono ad imporre a certe regioni una lingua perfettamente ignota, quanto più facilmente la Chiesa potrà mantenere l’uso della lingua latina, che da secoli è la sua lingua!
5) Un altro valido argomento è la felice espansione della Chiesa. Quanto più la Chiesa, per grazia di Dio, va estendendo le sue pacifiche e salutari conquiste in continenti che, come l’Asia e l’Africa, (…) erano quasi interamente pagani, tanto più cresce la necessità di conservare e promuovere sempre più la conoscenza e l’uso della lingua latina, che è la lingua ufficiale nella quale suole parlare il Vicario di Cristo quando si rivolge a tutta la Chiesa, è la lingua liturgica della maggior parte della Chiesa stessa, l’unica che possa e debba essere usata in eventuali grandi riunioni ecclesiastiche, specialmente nei Concili Ecumenici ecc. Ognuno vede quale potente vincolo di unione di tante genti diverse al centro della Chiesa e tra loro sia la comune lingua latina; dal cui studio quelle popolazioni avranno, oltre il resto, anche il gran vantaggio di essere messe a contatto con tutta la coltura latina, potente veicolo di civiltà cristiana. Anche le Chiese Orientali unite sentono questa necessità; la Chiesa Rutena per esempio, che è la sola tra le Orientali unite che conti i suoi fedeli a milioni, mentre le altre non ne hanno tutt’al più che poche centinaia di migliaia, aveva adottato nei Seminari e negli Ordini religiosi lo studio del latino, per stringersi più facilmente alla Chiesa Romana: e solo in questi ultimi tempi, forse sotto l’influsso dell’esagerato nazionalismo, si è tornati indietro e certo non con vantaggio dell’unione cattolica. I Padri Basiliani ucraini tengono fermo al latino. Invece nel Seminario di Sant’Anna a Gerusalemme e nel Seminario siro di Sciarfé si insegna principalmente in francese, quantunque i libri di testo siano latini.
6) Finalmente mi pare che un motivo non trascurabile per promuovere sempre più l’uso del latino anziché temperarlo, si trovi nel movimento attuale «pro latino» che si nota nel mondo scientifico. Si sente infatti da molto tempo la necessità di una lingua comune per lo scambio di idee, che nei secoli passati, grazie all’uso del latino, era più grande che nei nostri degli aeroplani e della radio, e per la collaborazione dei dotti delle varie nazioni in ogni campo della scienza. E dopo varie laboriose esperienze e tentativi, si va diffondendo sempre più nel mondo scientifico la persuasione che l’unica lingua che possa veramente essere comune, capita e usata da tutti, che sia all’infuori e al di sopra degli antagonismi e rivalità nazionali (a cui non sono inaccessibili neppure i freddi scienziati), è appunto il latino; e al latino si ritorna a poco a poco anche perché per secoli fu precisamente la lingua dei dotti e i libri antichi di scienza sono tutti in latino. Gli sforzi che da anni fa in questo senso l’Istituto di Studi Romani trova sempre più il consenso e la simpatia degli scienziati in ogni parte del mondo, anche nell’America del Nord; e si prevede che, nonostante gli sforzi della vecchia Massoneria e dei nuovi esagerati nazionalismi (la cui opposizione al latino del resto sarebbe già da sé un argomento in favore), il movimento andrà sviluppandosi e forse finirà per imporsi.
Sarebbe veramente assai doloroso che, mentre i laici e profani si adoperano attivamente al rifiorimento della conoscenza e dell’uso della lingua latina anche nelle materie strettamente scientifiche, che sembrano le meno atte ad essere maneggiate in latino, proprio da parte della Santa Sede si ceda e si mitighi l’uso di questa lingua eminentemente ecclesiastica, e ciò precisamente nell’insegnamento di quelle scienze speculative, in cui finora l’uso del latino sembrava necessario, come il più adatto veicolo di tali concetti. Le difficoltà che si adducono sono, sì, in parte vere e reali, ma in non piccola parte sono piuttosto fittizie o almeno esagerate, e provengono da falsi princìpi. Da mezzo secolo in qua la facilità di capire ed esprimersi in latino è andata sempre diminuendo, appunto perché se n’è perduto l’uso. Col cedere a queste difficoltà non si farebbe che accrescerle, e l’uso del latino diventerebbe una rara eccezione di letterati specialisti, né si potrebbe servirsene neppur quando ce ne fosse bisogno. Il che certo non è decoroso né utile alla Chiesa.
Conclusione. Mi permetto quindi di rispettosamente insistere sulla necessità di promuovere insieme con la conoscenza e lo studio anche l’uso del latino, persuaso che con ciò la Santa Sede promuoverà il vero bene della Chiesa e della civiltà. E perché le allegate difficoltà diminuiscano sensibilmente, bisognerebbe nei piccoli Seminari ritornare agli antichi eccellenti metodi d’insegnamento, che facevano gustare la bellezza della lingua latina e ne facilitavano l’uso a voce e in iscritto, mentre invece i moderni sistemi filologici non aiutano né la formazione generale della mente né la conoscenza delle lingue.
Se la Santa Sede, con la sua suprema autorità, farà intendere a tutti i Vescovi del mondo che il bene della Chiesa assolutamente esige l’accurata, fedele e piena esecuzione delle norme e prescrizioni date su questo punto e approvate dal Sommo Pontefice, e se la Sacra Congregazione concentrerà i suoi sforzi a questo fine - come su cosa di capitale importanza per la formazione, non solo scientifica, ma anche cattolica e romana, del Clero - sono persuaso che in breve tempo gli abusi saranno tolti e si vedranno frutti consolanti per il bene della Chiesa.
Chinato al bacio della sacra Porpora, con sentimenti della più profonda venerazione mi confermo
dell’Eminenza Vostra Rev.ma devotissimo servitore
Wlodimiro Ledóchowski
Roma, 28 agosto 1940